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Tag: andrea riscossa

Nevermind compie trent’anni e io no

Si è preso il pomeriggio libero. E una bottiglia di buon vino.
Telefono spento, non capitava da secoli. Doccia, vestiti puliti, quasi fosse un appuntamento. Arrivando al mobile del giradischi ha un’esitazione. Prende in mano il disco, osserva la copertina a lungo. 

Due soli pensieri lo sfiorano: il primo riguarda la sua personale opinione del soggetto immortalato, dopo la richiesta di risarcimento. E pace, esiste il karma, ne è convinto. Il secondo è che quel pezzo di cartone, quel bambino che nuota è il suo personale ritratto di Dorian Gray. Anzi, che lui stesso è, per quel disco, il quadro che invecchia. Quel fottuto bambino rimarrà per sempre piccolo, nudo e con pistolino notevole. Quel disco rimarrà per sempre giovane. Per sempre meraviglioso. Per sempre adorato. Lui invece no, invecchierà, diventerà noioso, conservatore e malinconico. Il disco si nutrirà di lui, perché il patto è stato sancito nel 1991 e mai verrà spezzato. Non c’è un solo disco che lui abbia amato che di colpo sia invecchiato male. O che proprio sia invecchiato. 

È il dono che la musica porta con sé, è il modo che la musica ha per fregare il tempo. Perché ci sono tempi scanditi dalle estati, dai viaggi, dalle relazioni, tempi scanditi da olimpiadi, nascite, morti e successi. Ma sono tutti punti sulla linea temporale. 

La musica invece ci segue, a volte ci insegue. La nostra relazione con i dischi che amiamo ha un inizio, raramente una fine, perché si impasta con la nostra vita, si intreccia nella storia, diventa colonna sonora, diventa compagna. A volte è un accento, a volte medicina. 

Lui aveva da poco fatto le analisi per colesterolo e tristezza, le principali candidate del suo malessere. Dieta e musica. Nessuno aveva contemplato il vino, ergo, fanculo. 

Andrea nevermind 30Nevermind compie trent’anni. E lui no. Lui ne ha compiuti di più. Però Nevermind e lui hanno compiuto trent’anni, quindi è il caso di festeggiare come si deve. 

Si siede per terra, si accende una sigaretta, il fruscio della sigaretta si confonde con quello della puntina. E allora cuffie su, il mondo resti fuori, questa è una cosa tra lui e i Nirvana.

Quattro accordi, che sono un portale per l’inizio di tutto. L’alfa degli anni novanta, il big bang, forse involontario o forse no, che cambiò le regole del gioco. Una overture che puzzava di icona generazionale dopo soli cinque secondi. Poi Novoselic riportava la calma, poco prima che Kurt chiamasse tutti alle armi. Letteralmente. 

“Venite siore e siori, venite grandi e piccini. Vi mostreremo come intrattenere tutti quanti per quasi quarantacinque minuti! Uno spettacolo di freaks da psicoanalisi, un trio di emarginati che mettono in versi, su un palco, il loro personal disagio! Rimarrete incantati da golosissimi riff e ritornelli orecchiabili, e nel mentre faremo passare testi pesantissimi, senza che nessuno sanguini dalle orecchie! Intanto caricate i fucili, si sa mai!”.

Benvenuti nella palestra più famosa della storia della musica. Potere di MTV, potere di una generazione pronta a smontare le permanenti di molte band. L’onda lunga degli anni ottanta sbatteva contro tre ragazzi armati di rabbia, intelligenza, sensibilità e una discreta dipendenza dagli oppioidi. 

La depressione, la disillusione, una geniale ironia a tratti macabra. Smell Like Teen Spirits era programmatico, era il manifesto di un disco, di un pensiero, di un inizio. 

(Scivola la puntina, scivola giù altro vino.)

Kurt gioca con Burroughs, e poi fa cantare tutti i fans dell’ultima ora, perfetti analfabeti funzionali, un ritornello che descrive la follia collettiva che li sta per investire. In Bloom. Sì, però. 

Però è la seconda canzone in cui si parla di armi, Kurt. 

Però questa non è solo ironia. Qua si parla di incomunicabilità. “I like beautiful melodies telling me terrible things”, diceva Tom Waits. Sembra la terza legge incisa a scalpello sulle tavole del grunge. 

Come as You Are continua sulla stessa ambiguità, sulle sfocature, in una canzone dove le parole scivolano una dentro l’altra, dove il nemico diventa memoria, dove aprirsi all’altro è una continua scommessa, dove essere disarmati è l’unica condizione per la conoscenza. 

(Vino. Serve vino.)

Paura, depressione, fuga di Breed. Si cade poi nel paradiso artificiale di Lithium, dove è bipolare la struttura della canzone, che diventa lei stessa messaggio, facendo per un attimo comparire McLuhan sopra la puntina. No, sarà il vino. Però la canzone-è-il-messaggio, poche storie. 

Polly rovescia i punti di vista, è come se a metà di una partita a scacchi vi scambiaste le parti. È un esercizio di stile, ma di nuovo è anche una domanda profonda sulla comprensione e sulla visione della realtà. Si passa a Heller, al Comma 22 , nelle terre tiratissime di Territorial Pissing, tre accordi in 2:22 per un crescendo di alienazione, di differenze, di urla disperate, mentre Grohl maltratta definitivamente la batteria e il “The Terminator”, il rullante comprato apposta per Nevermind dal suono quantomeno incisivo. 

Si passa ai sentimenti, all’amor scortese, quello per Tobi Veil, anche se Drain You fa un po’ di confusione tra infanzia, sesso e droga. Tra fluidi corporei e sostanze stupefacenti, tra dipendenze e interscambi. O forse è tutto voluto, sepolto solo da un velo di buoni accordi per celare il significato ai più?

Stay Away è un collage di frasi fatte, è inno alla superficialità. Il puzzle di Nevermind è quasi completo. Serve il non-sense di On a Plain, perché Kurt lo dirà, anni dopo: era pigro, spesso scriveva i testi all’ultimo e non sempre questi avevano un senso vero e proprio. “Impressionismo cazzaro”, fu definito da critico anonimo. A volte uscivano grandi cose, a volte materiale buono per la psicoanalisi, a volte solo parole.

(Sono veramente ubriaco)

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Something in The Way ha dentro l’essenza di Nevermind. In studio proprio non veniva. Butch Vig, che durante le registrazioni rubava i takes a Kurt con ogni mezzo possibile, si accorge che il cantante stava finalmente suonando da dio, ma era in sala di regia, con la chitarra scordata e senza qualcuno che gli desse il ritmo. Ma era buona, vera e unica. Prese Novoselic e scordò il basso. E seguì il violoncello.
Nevermind era questo. 

Kurt urla ancora per qualche minuto nella ghost track. 

Poi la puntina esce dal solco. 

Silenzio, un bicchiere vuoto, un sospiro. 

Nevermind è stato il primo che “ho lasciato entrare”. Il primo album che ho amato, studiato, giustificato, idolatrato, tradito.
Nevermind fu il primo bacio. Indimenticabile, umido, direbbe il signor Gump, inaspettato. Sperato.
È il mio Dorian Gray, sarà sempre lì, identico e monolitico nella sua grandezza. 

Nevermind compie trent’anni. E io no. Loro sono diventati una pagina nera sul diario del liceo. Otto aprile, data dell’annuncio. Lasciarono un groviglio indistricabile di domande, un peso infinito nella testa di un adolescente. Fu un dolore fisico, che ricordo bene. La loro fine e la loro storia successiva sembrarono le risposte alle domande di Nevermind. Tre vie, tre possibili bivi da prendere, tre modi di affrontare la vita. Servono gli anni in più che ho per accettare il fatto che il lieto fine non è tanto rock. 

Ma questo album servì a iniziare qualcosa. Servì per aprirsi a una nuova musica, a nuovi anni, a trovare nei Pearl Jam il mio “bright side” del grunge e innamorarmi di nuovo, servì per i dischi, i concerti, la musica. 

Servì per parlare con nuove persone, con amici che resistono, servì a condividere, a ballarci su e a viaggiare cantando. Servì riascoltarlo dieci anni dopo, vent’anni dopo e vedere dove cazzo stavo andando. Serve riascoltarlo anche a distanza di trent’anni e sentire che gusto ha. 

Nevermind compie trent’anni. Io molti di più, ma stiamo ancora bene insieme. 

Senza arrossire, sono fortunato. 

Oh well, wathever, 

Nevermind. 

 

Andrea Riscossa

 

appunti andrea nevermind 30

Maledetti Cantautori @ Teatro della Concordia

Teatro della Concordia (Venaria Reale) // 28 Maggio 2021

 

…E quindi uscimmo a riveder le stelle
Dante, Inferno, XXXIV, 139

 

Ieri sono tornato a un evento live. Chiamiamolo concerto, anche se, a ben vedere, Maledetti Cantautori è molto di più.
Avevo un accredito stampa. E a quel punto anche un vago senso di colpa, così, avvisata la biglietteria della mia presenza, ho comunque pagato l’ingresso. È una questione di karma, è una questione di militanza e di sostegno. Io senza voi non scriverei, in fin dei conti. Ora, devo anche chiedere scusa a VEZ, perché io ai concerti tendo ad ascoltare e a pensare e così, alla fine, ho una timida foto per altro neanche scattata dal sottoscritto. E sorrido a pensarci, perché nonostante non fossimo in molti, la mia etica da concertista over quaranta mi impone di avere cautela nell’uso del telefono a un concerto. Un buon segno, penso, non ho perso le buone maniere.

Il Teatro della Concordia di Venaria Reale è il luogo che accoglierà questo nuovo inizio. Quindi sarò comodamente seduto, con un ottima acustica, in ampi spazi rispettosi di norme anti-covid. Quasi commosso anche dalla birra pre-concerto, un rituale che sembra appartenere a un’era lontana, di baccanali e festival pieni di droplet e sudore.
L’evento principale è stato preceduto dall’esibizione di due nuove proposte del panorama torinese: Carsico ed Eugenio Rodondi, esponenti di un nuovo cantautorato pieno di buoni propositi.
Lo spettacolo principale inizia quindi poco dopo le 21.00. Sul palco sale Nicholas Ciuferri, autore del libro cui si ispira lo spettacolo, Nathalie, cantautrice e vincitrice di X-Factor nel 2010, The Niro, nome d’arte del cantautore romano Davide Combusti, Riccardo Tesio, fondatore dei Marlene Kuntz, produttore e chitarrista, Andrea Angeloni ai fiati e il 23enne giovane talento Pit Coccato.

È uno spettacolo fatto di storytelling e musica, in cui alcuni autori, sia del passato sia contemporanei, vengono presentati con brevi racconti e successivamente da un brano eseguito dagli ottimi musicisti che accompagnano Ciuferri.
Per il sottoscritto è un ripartire dalle basi. Da un racconto che si fa musica, o meglio, da un racconto che arriva alla musica. L’inquadratura scelta per fotografare l’artista descritto non è mai banale e ci porta verso lati poco noti o conosciuti, raccontando aspetti delle grandi star accessibili solo a chi si è dedicato a fondo alle loro biografie. Si parte con Tim Buckley, con un genio eclettico e problematico, dal suo rapporto con il figlio, l’amore, le famiglie, la dipendenza. Il racconto non è mai morale, pietista, anzi, incalza, aumenta di ritmo, lascia indizi sparsi, quasi come fosse un gioco tra chi racconta e il pubblico. E poi, all’apice della narrazione c’è una morte, un punto fermo, un presente. E poi musica, a turno tra Nathalie e The Niro. Il racconto prosegue con la Joplin, il Chelsea Hotel e l’incontro con Cohen, un Thom Yorke alle prese con ospedali, plastiche e una mamma, un Cash che diventa statua e gigante, come nella realtà, sospeso tra Steinbeck e linee bianche da seguire, il Lead Belly di In The Pines, resa famosa dai Nirvana nell’Unplugged, e poi Chris Cornell, Jeff Buckley, Lou Reed.
È una piccola Spoon River in prosa, in cui il soggetto non è rivelato se non dalla sua musica. Un gioco fatto di parole chiave, canzoni nascoste nelle vite narrate, piccoli segreti di grandi personaggi. È come stappare una bottiglia di buon vino e trovare tutti i profumi possibili, e, alla fine, assaggiare.
Risultati della serata: ho comprato il libro oggi. Se Ciuferri scrive come racconta, allora ho delle belle ore davanti. Poi ho scoperto che la musica dal vivo è ancora in grado di emozionarmi. Anzi no, diamo merito anche al sottoscritto: i peli delle mie braccia hanno ancora memoria e sanno alzarsi con fierezza in caso di musica ben suonata. Posso vantarmi di questa cosa, ieri sera ne sono stato orgoglioso e quasi mi sono commosso. Ultimo: cantare, anche sussurrando, dentro la mascherina è come fare l’amore sotto le lenzuola.
Lo fai proprio solo se devi. 

La musica è tornata dal vivo, il mondo è tornato un posto più vivibile, grazie anche a questi artisti che nonostante il poco pubblico si sono impegnati e hanno dato vita a uno spettacolo interessante e appassionante.
Regolarmente conclusosi nel rispetto del coprifuoco vigente. 

Chiudo con un consiglio da amante dei bei racconti raccontati: il podcast. Ragazzi, questo spettacolo deve uscire dai teatri e dalle piazze. Osate. 

 

Andrea Riscossa

Foto di Copertina: Davide Garibaldi

The Black Keys “Delta Kream” (Easy Eye Sound • Nonesuch, 2021)

Finito il tour di Let’s Rock, The Black Keys sono tornati a Nashville, tra le mura amiche dello studio Dan Auerbach, l’Easy Eye Sound. Sarà stata l’aria di casa, saranno i cieli e le notti del profondo sud, sarà il fato e la fortuna ma accade che in un paio di pomeriggi il nostro dinamico duo registra una piccola perla antologica di musica blues. I Black Keys non hanno mai fatto mistero di aver da sempre guardato al Mississippi e alle sue declinazioni di blues come fonte ispiratrice. E in dieci album ci hanno dimostrato di essere piuttosto coerenti.

Ma il Mississippi è uno e trino: il fiume è una rappresentazione geografica e plastica di un movimento musicale che è allo stesso tempo etnografico, storiografico, sociologico, artistico. Una striscia d’acqua lunga quasi 4000 km, che attraversa dieci stati, nasce vicino a Minneapolis, passa per St. Louis, Baton Rouge, Memphis, luoghi dove nacquero ed esordirono personaggi come B.B. King, Johnny Cash, Elvis Presley, Aretha Franklin, John Lee Hooker, Otis Redding, e poi giù, fino a New Orleans, città natale del jazz e di Louis Armstrong. Lo stato del Mississippi è invece il luogo dove il blues ha trovato una sua particolare declinazione o sfumatura: l’Hill Country Blues è il soggetto del lavoro dei Black Keys. Una piccola antologia o, forse, un tributo alla musica che sta dietro i loro grandi successi. E così Auerbach e Carney recuperano alcuni classici di John Lee Hooker, Junior Kimbrough, R.L. Burnside e Big Joe Williams.

Ma il Mississippi è anche una storia, fatta di schiavitù, di canti, di malinconia, di amori, di lavoro.

Il blues nasce a un crocevia. Nasce in una notte storta di Mr. Robert Johnson. Nasce con un patto col diavolo. Nasce da schiavi che diventano americani. Nasce da sudore, sangue, fango e diventa la madre di tutti i generi musicali.
E quindi le storie raccolte in Delta Kream (in cui il delta è, ça va sans dire, quello del Mississippi) raccontano di tormenti notturni e di vendette, di polvere, fughe e sbronze memorabili.

I Black Keys per l’occasione hanno reclutato il chitarrista di R.L. Burnside, Kenny Brown, e il bassista di Junior Kimbrough, Eric Deaton. Di rinforzo anche Sam Bacco alle percussioni e all’organo Ray Jacildo. Ci sono anche autocitazioni tra le citazioni, perché i pezzi Busted e Do the Romp erano già stati inseriti nel primo album dei due, The Big Come Up.

Il risultato è un album elegante, in cui i Black Keys elettrificano un blues ipnotico e notturno, che passa da ritmi lenti come il Mississippi a cadenze da biella-manovella da treno-che-taglia-campi-di-cotone. È una malinconia che scivola su note liquide e su chitarre slide. Il risultato è un album capace di smuovere bacino e nostalgie, a volte contemporaneamente. E no, non sarà un lavoro originale e no, non aggiunge nulla di inedito alla discografia dei Black Keys, ma provate a infilarvi di notte in autostrada con Delta Kream nell’autoradio e comprenderete perché va bene, benissimo, che ogni tanto si guardi indietro con un “back to the roots” da applausi.

 

The Black Keys

Delta Kream

Easy Eye Sound • Nonesuch

 

Andrea Riscossa

The Smashing Pumpkins “Cyr” (Sumerian Records, 2020)

È quasi una settimana che la sera, dopo lunghe giornate al freddo, mi siedo davanti a un foglio bianco, penna preferita in mano, cuffie che annullano il mondo e Cyr degli Smashing Pumpkins nelle orecchie. 
Ma nulla.
Scarabocchi. Poi qualche spunto, catene di idee, associazioni, assonanze, accordi. Di fatto, nulla. Ho disegnato la mappa della terra di mezzo. Winnie The Pooh. La penna mi cade, mi addormento al sesto “Ramona” dell’omonima (anonima?) traccia.
E qui, caro lettore, avviene il sovrannaturale. 

 

A Corgan Carol

Suonano alla porta. Apro, per strada non c’è nulla se non un piccolo furgone dei gelati turchese. Un anonimo ragazzo vestito di bianco mi fa cenno di salire.
Guida, senza proferire parola. Io mi fido e mi riaddormento, comodo, sul sedile del passeggero.
Mi risveglio quando una chitarra irrompe dallo stereo del van. È un giro che conosco, è un ingresso che è un marchio di fabbrica, Today, da Siamese Dream, 1993.

Cazzo Billy. A ventisei anni. Lo guardo bene, è proprio lui.

Lo Spirito del Corgan Passato. E mentre andiamo a zonzo per il deserto, come in Zabriskie Point, dallo stereo escono note e ricordi, un memorandum del perché li ho adorati e li adoro. Eclettici, ma con una metrica proprietaria, con un linguaggio unico, mentre negli USA e nel mondo divampava il sacro fuoco del tempio di Seattle, loro predicavano fuori delle mura. Erano chitarre, chitarroni, carezze e pugni in faccia. Prima Gish, 1991, con quella Rhinoceros capace di ipnosi profonde, poi Siamese Dream, il primo vero capolavoro, e ancora, nel cuore degli anni novanta esce il magnum opus della band, quel Mellon Collie and The Infinite Sadness che è materia obbligatoria se sei nato prima del 1985. Poi il mondo-vampiro di Bullet with Butterfly Wings si incarna nello stesso Corgan: da Adore in avanti cambia l’iconografia, cambia il peso, cambia il secolo.
È un giro cinematografico, che inizia dal Melies di Tonight Tonight, passa per il Nosferatu di Murnau di Ava Adore e termina nella nuova immagine di Shiny and Oh So Bright, Vol. 1, vicino, vicinissimo alla Maria-robot di Lang in Metropolis.

“Billy, eravate una colonna, un totem della mia adolescenza, di grazia, spiegami cosa è successo. Dimmi perché il tuo nuovo disco mi porta fuori dalle rotte conosciute, dimmi soprattutto che cosa ci faccio sul furgone di Today in una sorta di racconto onirico autocelebrativo”.
Tace. Il maledetto ragazzo vestito da gelataio, compagno di tanti viaggi, serate, chiacchierate, condivisioni vis-à-vis che ai tempi di social c’erano solo i Distortion, mi guarda e non favella. 

Billy inchioda. Nel preciso istante in cui la mia schiena si stacca dal sedile mi sovviene un Buckle Up  di zio Gossard, ma è tardi.

Cruscotto. Nero. Dolore.

Scopro che i miei sogni sono a colori, rosso sangue sicuro, e che del dolore ho esperienza approfondita quanto basta per replicarlo alla perfezione. Riaperti gli occhi ho davanti un Corgan di bronzo, alto una decina di metri, un ibrido inquietante tra un buddha ipertrofico e una campana. Bocca spalancata, sembra l’oracolo di Chicago. Ai suoi piedi, legati come fu Carrie Fisher a Jabba The Hutt, stanno James Iha e Jimmy Chamberlin. Più o meno è la rappresentazione iconografica del rapporto di forze in Cyr. O del rapporto di forze tra Corgan e il mondo. Lui che questo disco lo ha suonato (quasi tutto) da solo, lui che, quando i due amici hanno osato far uscire qualche nota, si è appeso al synth come un Fantasma dell’Opera in crisi di astinenza. Anche i cori, ovunque cori, cori dappertutto.

Sono tentatissimo di chiedergli se basta che io batta i tacchi tre volte per tornare a casa, ma quando mai mi ricapita di provare a fare due domande direttamente all’ego di William Patrick Corgan? O potrei serenamente e plasticamente chiamarlo Spirito del Corgan Presente?

“Oh grande Oz, come ti è venuto in mente di abbandonare le chitarre in favore di loop degni della saga di MegaMan?”. No, forse questo lo irriterebbe. “Billy, ossequi. Non credi di aver esagerato con gli uptempo?”. No, no, ancora no.
“Billy, dopo Sheila e Martha, cosa è successo a Ramona? Non noti anche tu che sei andato fuori tema?”.
Fanculo. “Corgan, mi manchi”.

Ecco. Il punto è questo. Sai che sta arrivando un disco degli Smashing Pumpkins. Ascolti i mille singoli, e mentre arricci il naso speri sia solo una parte delle venti tracce a presentare distanza così siderali dalla loro produzione precedente. Insomma, nel mucchio ritroverò i miei amati. Invece no. Come una carbonara perfettamente impiattata, ma inquinata di prosciutto e panna, così Cyr sostituisce un immaginario, un gusto, un bouquet (mi si passi), con qualcosa di completamente diverso.
O anche no. Perché questo grasso album è molto più affine ai lavori in solitaria di Corgan. Qualcosa di Cotillions è percolato in Cyr, elettrificato, sintetizzato, magari mitigato dalla presenza di Iha e Chamberlin, ma ho ritrovato sonorità già sentite nelle solitudini del nostro Billy.
Pesante, come questa statua. Rimbomba, come questa statua. E ho letto di riferimenti ai difficili tempi moderni, di paternità e di responsabilità. La verità è che mi manchi, punto. Anzi, mi mancate. E in questo album mi è mancato il coraggio di urlare, maleducatamente, che la rabbia non è passata, semplicemente da topi in gabbia siamo passati a un livello superiore, fosse anche solo di conoscenza di sé.

Cyr invece sembra autocelebrarsi. Autocitarsi. Autoqualcosa così tanto che alla fine si avvita su sé stesso e scompare. Io ho perso il confine tra una canzone e quella successiva, in un continuum di elettropop così lontano dalla mia immagine degli Smashing Pumpkins che la labirintite è un possibile effetto secondario.
Ecco, caro Corgan, adesso hai la mia di rabbia.

Dissolvenza in nero.

So cosa accadrà ora, il mio livello onirico è munito di sceneggiatore privo di particolari fantasie. Temo solo la visione finale che lascerà lo Spirito del Corgan Futuro.

Esterno, notte, piove, davanti a casa. Parcheggiato sulle strisce sta un camioncino turchese dei gelati, pieno di schizzi di colore su una fiancata. Enorme, invece, la figura nera, incappucciata, che mi impedisce la vista della porta di casa. Insomma, Billy, cos’è, un revival di Adore?
Esce una mano scheletrica da sotto la palandrana.
In mano, o meglio, retto dalle ossa della mano destra sta un doppio LP. A stento leggo un minacciosissimo Mellon Collie vol. 2.
“Ti prego, VI prego, abbiate cura del nostro futuro insieme e di una certa eredità che andrebbe, almeno io penso così, rispettata”.
La figura grugnisce. Si gira. Sulla palandrana nera sta una scritta in bianco: ZERO.
Ripartiamo da lì, da zero. 

Mi sveglio. Cuffie accese, synth a pioggia. Ho bisogno di una cura, ho bisogno di tornare su quel furgoncino, ho bisogno di una carbonara come dio comanda.
Cyr lo lascerò a questo 2020, in questo buco nero senza ancora un indice, lo lascerò così com’è, ben impacchettato, ottime plastiche, tutto digitale.
Capita a tutti di inciampare, spero solo non lo si prenda per un bellissimo e spericolatissimo salto.

 

The Smashing Pumpkins

Cyr

Sumerian Records

 

Andrea Riscossa

Viadellironia “Le Radici sul Soffitto” (Hukapan, 2020)

Saturno Notturno

 

Bernhardt, il pezzo che apre questo disco, in poco meno di tre minuti, presenta una delle chiavi di lettura della prima opera delle Viadellironia, e lo fa con una densità di riferimenti impressionante, sia letterari sia musicali, e con un peso specifico del testo che cresce per accumulo durante lo scorrere delle immagini evocate. Il sottile disagio che si prova nel constatare la propria inadeguatezza a un mondo molto più basso delle proprie aspettative, reali e culturali, è uno dei temi: vorremmo essere Sarah Bernhardt alla prima della Tosca, ma siamo mosche, che contemplano la merda.

Un bellissimo biglietto da visita.

Benvenuti sulla giostra delle Radici Sul Soffitto opera prima di Maria Mirani, Giada Lembo, Marialaura Savoldi, Greta Frera, pubblicate da Hukapan, ovvero la casa discografica di Elio e le Storie Tese – autore dell’operazione infatti è Cesareo, storico chitarrista della band milanese.
Le quattro avevano pubblicato un EP nel 2018 dal titolo Blu Moderno che presentava temi e stile di quanto poi ripreso ed esploso nel loro primo LP.

Le dieci canzoni trattano temi come la ricerca del proprio posto nel mondo, mediata da una sana e disillusa ironia, o il peso del linguaggio, che qui non è solo un mezzo per spiegare il mondo (o per spiegarsi ad esso), ma è uno strumento attivo, creatore, che plasma la realtà del narratore, ci porta una visione, un punto di vista incredibilmente a fuoco. La parola è una “diva del sonoro trapiantata nel silenzio di Cabiria”, e ancora il linguaggio “si è sporcato con quello dello scemo del villaggio”. Siamo al pop semantico, pronipote di uno schiaffo a bordo piscina dato da un giovane Moretti. Che aveva ragione allora e adesso ancor di più.

Stupisce l’età delle ragazze, e stupisce la mole di riferimenti evocati nei pezzi, che contribuisce a definire i confini degli scenari messi in note. Ci sono idee, opinioni, una forma di stanca saggezza che filtra la realtà che sta lì, aldilà del letto.
E il letto è uno dei tanti luoghi che ritornano spesso, quasi a dare una geografia al lato onirico dei pezzi, a giustificare lo spleen cosciente, dotto e lucido della voce narrante.

Un piccolo Gregor Samsa pieno di accidia che attende di comprendere se la metamorfosi debba avvenire fuori o dentro sé. Chissà.

Musicalmente siamo tornati indietro di trent’anni, che detta così pare una sconfitta e invece è qui il risultato di una fine ricerca di una forma che sposi forma e testo. Il cantautorato primi anni novanta, indie, tra Afterhours e i più tardivi Baustelle, ma nel lento e scandito cantare si sente qualcosa di più antico, senza scomodare nomi sacri citiamo solo Genova come riferimento. Le due scritture hanno però un piede aldilà dell’oceano, perché spesso ci sono echi ai progenitori del genere, da PixiesSonic Youth ed anche la scrittura talvolta sembra seguire modelli anglosassoni, pur rimanendo, a livello di contenuti, attaccatissima alla nostra cultura.

È un disco notturno, un disco pieno di morte, di identità spigolose, un disco che parla alla testa e che suona alla pancia. E la sintesi, anzi la sincresi tra i due moti avviene a metà disco, con la Canzone Introduttiva, una marcia blues solenne e da pelle d’oca, in cui riescono a citare anche Primo Levi, ed è l’unico momento in cui la voce della Mirani graffia e sporca la sentenza cantata.

C’è il tema del tempo e della memoria, in La Mia Stanza così come in L’Architetto, dove tempo e relazioni producono paradossi alla Escher, anche se a fermare la possibile spirale ci pensa Mangoni (che architetto lo è davvero) la cui sola presenza fa vacillare ogni pretesa di serietà. La collaborazione più interessante si trova in Ho la Febbre in cui troviamo Edda, in un riuscito duetto/dualismo che è uno dei momenti di scrittura più alti dell’intero disco.

I riferimenti letterari si manifestano nel trittico finale: Simile a un Morente, Stampe Giapponesi, Figli della Storia. Qui siamo nel decadentismo, nella Parigi di Huysmans, siamo ai saturnali, si arriva a citare Baudelaire in modo – quasi – letterale (i paradisi artificiali e tutti i mali degli amanti).

Il tutto si chiude con una domanda: “Com’è possibile far parte della storia / se non assomigli a niente / e se sosti quasi sempre / sulla soglia?”.

È stato un viaggio profondo, interessante, arricchente. Un continuo evocare fantasmi ed echi, a sostenere una visione molto personale della realtà.

Da risentire ma soprattutto da vedere, il giorno in cui di nuovo ci sarà concesso l’antico lusso dei concerti.

 

Viadellironia

Le Radici sul Soffitto

Hakupan

 

Andrea Riscossa

Bruce Springsteen “Letter to You” (Columbia Records, 2020)

Il ventesimo disco in studio di Bruce Springsteen è un lavoro di rara bellezza. Non ci sono molti giri di parole da poter utilizzare.
Anzi, a essere onesti lascia spiazzati un disco come questo, per onestà, per intento e perché arriva dopo una lunga parentesi intimista.
Bisogna però che io compia un paio di passi all’indietro, per giustificare sentenza e conclusione, e perché questo disco ha un peso specifico notevole.

Come nasce un disco come Letter to You? Dato per ovvio e assodato che sia utile essere Bruce Springsteen, credo che servano almeno tre elementi: avere una band da una cinquantina d’anni, una capacità di autoanalisi fuori scala e un immaginario che diventa un mondo, ormai autonomo, da raccontare. Aggiungete un paio di storie divertenti, una misteriosa chitarra italiana e tre pezzi rimasti senza una casa e forse, dico forse, abbiamo la ricetta.

Bruce è reduce da quel capolavoro di Western Stars, dopo un paio di anni di lavoro solista a Broadway. Si è rivelato ai fan nella sua versione più umana, raccontando una storia di successo e depressione, di musica e dolore, un lessico famigliare finito in musica, in una catena di album che hanno sempre lasciato trasparire il gesto genuino della mano che li ha creati: Springsteen non si è mai tirato indietro, ha narrato una vita usando il rock and roll, usando tutti i colori possibili, dai più cupi ai più chiari.
In Western Stars qualcuno ha visto il lascito amaro di un cantante ormai anziano. Ma non era altro che l’ennesima tappa di una carriera: c’è chi prende i settant’anni come un punto di arrivo e c’è chi, come lui, ne soffia settantuno e decide che non si tratta di vecchiaia, ma di responsabilità. Perché arrivare a questa tappa del cammino non dà diritto al ritiro, ma esattamente a qualcosa di opposto.

Diceva il saggio: da grandi dischi derivano grandi responsabilità.

E così imbraccia una chitarra regalatagli da un fan italiano fuori dal teatro dove andava in scena Springsteen on Broadway, lasciata in salotto per qualche mese, quasi dimenticata. La magia a volte esiste: in pochi giorni compone gran parte dei pezzi del disco, raduna la band e in cinque giorni di sala incide il disco.

Io riesco perfettamente a immaginarli: lui e la E Street Band funzionano un po’ come il primo giorno di vacanza, quando torni al mare e rivedi gli amici dopo un anno di lontananza. C’è un po’ di imbarazzo, un po’ di ruggine, ma dura poco. Del resto, cosa può andar male? Siamo nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia globale, al potere sono saliti i nazisti dell’Illinois, il loro capo è un suprematista bianco negazionista, torneremo in tour nel duemilamai, e quindi and one two three four…

Vorrei sapere se fuori degli studi di casa Springsteen, dove è nato questo disco, è incisa a fuoco la frase di Pete Townshend “il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”. Il mood è quello. 

In una recente intervista Springsteen ha dichiarato che il disco fondamentalmente racconta ciò che ha imparato tra i diciassette e i settant’anni. Alla faccia del dono della sintesi.
E Letter To You in effetti è denso e maturo. Quasi saggio, mi si passi.
È una mappa che Springsteen ci lascia, disseminata di indizi e topoi della sua storia. Il vocabolario è un faro, con parole che sono orme della sua carriera: ci sono treni, sangue, cicatrici, prigioni, chitarre, eroi e antieroi. Veniamo riportati ai confini della città, dove scorre un fiume. È un gioco di citazioni continue, è un immaginario che viene rievocato in una lunga lettera scritta da un uomo a milioni di fans. 

Ma è anche una lunga riflessione sul passato e su ciò che abbiamo lasciato per strada, soprattutto sulle persone che non ci sono più, a partire da George Theiss, fondatore dei The Castiles, qui evocato più volte e vero ispiratore del pezzo Ghosts, dove la parola “alive” diventa la chiave per chiudere un cerchio: in Radio Nowhere si chiedeva se ci fosse qualcuno di vivo là fuori (“Is there anybody alive out there?”), in We Are Alive, pezzo di Wrecking Ball, si ballava solo per il fatto di essere vivi e lo si faceva tra spiriti e lapidi, tra fantasmi e desiderio di rinascere. Qui l’essere vivi è testimonianza, è la felicità di poter fare musica insieme, è la sola possibilità di dimenticarsi i problemi e di andare laddove la musica non finisce mai, come recita House Of A Thousand Guitars, canzone-manifesto del disco.

Come dicevo, è questione di responsabilità. Gli è rimasto in mano il testimone, è l’ultimo dei sopravvissuti del suo primo gruppo, sente il bisogno di portare avanti il sacro messaggio del rock and roll. In fondo, ci ricorda, è The Last Man Standing.

Il ricordo diventa citazione per Clarence Clemons nella prima traccia, One Minute You’re Here, dove si evoca il bridge di Tenth Avenue Freeze Out. E poi Dylan, tanto Bob Dylan, che come un’ombra aleggia in tutto il disco: in If I Was The Priest, canzone che convinse un certo John Hammond a scritturare Springsteen, dopo aver lanciato Dylan. E il menestrello di Duluth è sempre stato il suo doppio e la sua croce, fin dagli esordi, in cui Springsteen dovette liberarsi della sua ombra e dimostrare di non essere il nuovo Dylan. Qui però lo si stuzzica, ad esempio in Janey Needs A Shooter, dove l’intro di organo ricorda Like A Rolling Stones o nella traccia che chiude il disco, I’ll See You In My Dreams, dove si cita testualmente Dylan nel ritornello: “Death is not the end”. 

Letter To You è un album sincero. Registrato al ritmo di tre canzoni al giorno, praticamente live in sala di incisione, senza demo, con pochissime sovraincisioni. È la E Street Band al cubo, sempre più perfetta nei suoi meccanismi e nelle sue dinamiche. 

Insomma, lettera recapitata, Bruce.
Per ora possiamo solo rileggerla e impararla a memoria. Possiamo solo vederci nei sogni, così come da chiusa del disco, in attesa di poter cantare tutto questo, cantare DI tutto questo, spalla a spalla, ancora una volta. 

Stay hard, stay hungry, stay alive. 

 

Bruce Springsteen

Letter to You

Columbia Records

 

Andrea Riscossa

Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

24.01.1991

Esce Nevermind, secondo album dei Nirvana.

Però, questa volta, andiamo sul personale.
Il 1991 è stato l’anno di Gish, di Ten, di Spiderland, di Nevermind.
È stato l’anno in cui sono entrato in un liceo, e per la prima volta in vita mia mi sono sentito sperso. Di colpo condividevo spazi con ragazzi che mi sembravano adulti, avevo accesso all’improvviso a un mondo a me ancora sconosciuto, fatto di tribù, di riti iniziatici, di codici, di divise.
Fedele alla (mia) linea “fatti i cazzi tuoi”, in un basso profilo esplorativo figlio della mia devozione per Jacques Cousteau, mi lanciai nell’esplorazione della fauna locale, alla ricerca di un’appartenenza che mi concedesse l’accesso a riti magici e conoscenze superiori.
MTV e un walkman Sony con cuffie a spugnetta erano le mie chiavi, un primo argomento con cui cercare i miei simili in quel mare di giacche e scarpe tutte uguali.
La cassetta di Nevermind fu l’inizio. Mi venne regalata copia artigianale con titoli scritti a caso, ma fu il contenuto a folgorarmi, un nuovo e aggiornato San Paolo, folgorato su corso Damasco. Mi ritrovai davanti all’inizio, al primo capitolo di una storia fatta di gruppi, di musicisti, di ragazzi che cantavano il lato debole della loro vita, una consapevole esposizione del loro lato oscuro, del loro essere fuori tempo e luogo. Era un’adolescenza protratta nel tempo, forse un pelo elaborata, ma finalmente raccontata per quello che spesso sembrava: una merda.
Fu la magia degli anni novanta: una generazione di artisti che non ebbe alcuna paura a raccontare in musica le ansie e le paure dei propri coetanei, che delle hair bands di fine anni ottanta presero davvero poco (anzi, a volte se le diedero proprio), che ostentarono con fierezza il loro essere deboli, sfigati, sensibili, feriti, umani. Ci siamo riappropriati il diritto di non essere cotonati e felici, rompendo lo specchio dei narcisissimi anni ottanta in cui ci siamo specchiati privandoci della visione periferica.
Per un quattordicenne fu totale e indefessa identificazione. Era un S-I-P-U-O’-F-A-R-E urlato al cielo da una generazione che, non era più la caricatura di se stessa.

Nevermind puzzava di palestra ogni volta che MTV passava il video di Smell Like Teen Spirit.
Nevermind era subacqueo come certe serate in cui affogavi in parole e risate e vino. 

Nevermind era lo stato d’animo giusto al momento giusto perché dentro di sé aveva lo spettro completo delle tue emozioni, era un prontuario per l’adolescenza, era testo sacro da sapere a memoria.
Nevermind era argomento utile a dividere il mondo tra chi ascoltava – ancora – i Guns e chi li avrebbe sepolti l’anno successivo, allo stadio, con l’aiuto di Cornell e Patton.
E il 1991 diventò l’anno degli Smashing  Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Temple of The Dog, dei Nirvana, dei Red Hot Chili Peppers, dei R.E.M, e chissà cos’altro che ora non ricordo.

Quel disco è perfetto. Ha scorci incredibili. Quando le cuffiette del walkman salivano, regalando al mondo 49 minuti di mia assenza, i Nirvana sembravano essere in sei. C’era la batteria che suonava, non accompagnava, suonava proprio, la chitarra faceva anche i cori, dissonava, dissentiva. E sotto Novoselic ciondolava rimbalzando.
Nevermind appartiene alla categoria “unskippable”, saltare un brano sarebbe uno sgarbo agli dei, una ὕβϱις, degna di prometeiche punizioni, come essere incatenati per l’eternità a una roccia, accompagnati fino alla fine del tempo da una playlist di B-side dei Nickelback.

Ah, dimenticavo.
Un segreto: per me Nevermind si rivela, scopre le sue carte, insomma ti lancia quello sguardo che non puoi non capire in un punto preciso: sta tra la fine di Territorial Pissings e l’inizio di Drain You. La prima finisce in tragedia: Cobain perde la voce, Grohl è stato denunciato dalla batteria per maltrattamenti, insomma, dopo due minuti e ventidue di disperata e paranoide ricerca siamo alle urla, allo sguardo annebbiato, si sentono solo più un paio di calli sulle corde della chitarra. Un secondo di silenzio per sentire meglio lo schiaffone appena preso e inizia Drain You. Lì, in quella pausa, in quell’attimo alberga lo spirito del disco. Ci trovo il suo gusto, ci ritrovo i miei anni novanta.

 

Andrea Riscossa

Sarah Walk “Another Me” (One Little Independent Records, 2020)

Nothing’s hurt me more than men that grew up with no consequences.
La padrona di casa ci accoglie con queste parole, dopo poche note, nella prima traccia di questo album.
Il primo ascolto avviene in preda a un lieve senso di colpa per genere, orientamento, storia personale e situazione endocrina.
Poi un’immagine, di mia figlia nella vasca, cinque anni, capelli raccolti, luce da tramonto, mi riappacifica col mondo e con questo album. Perché, alla fine, noi maschietti viviamo un enorme conflitto interno, fatto di sensibilità soffocate vs. celodurismo istituzionale, di poetica interna vs. gara di rutti. A volte neanche noi ci sopportiamo, solo non siamo capaci di cantarlo così bene.

Sarah Walk aveva piacevolmente stupito la critica con il suo primo album, Little Black Book, nel 2017. Un disco fatto di pianoforte, testi profondi e una voce notevole.
Questo Another Me è frutto di una nuova produzione, affidata a Leo Abrahams, musicista, autore e produttore britannico, che vanta collaborazioni con Regina Spektor ed Editors, Paolo Nutini e Brian Eno.
Ma delle piano ballads del primo lavoro qui rimane poco. I brani sono sorretti da sezioni ritmiche più sytnh pop, arricchendo il ritmo interno dell’album, e i movimenti all’interno delle singole canzoni giocano con le saturazioni, di strumenti, di voce.
E proprio voce di Sarah merita una menzione a parte. Così come la sua estensione vocale, che soprattutto nei bassi lascia piacevolmente sorpresi gli ascoltatori. Ecco, avete presente quelle presunte cantanti, con trucco da Casa nella Prateria e ukulele in mano, sguardo verso l’alto a destra e sequenza di sussurri e ultrasuoni con distruzione programmatica di un qualsivoglia pezzo intimista? Bene, la nostra Walk è la loro nemesi, per uso del diaframma, per aria tra le corde vocali, per vocabolario, intenzione e obbiettivo finale. È un album che viene cantato, non sussurrato, e a gran voce si trattano temi come la misoginia, vulnerabilità, l’autodeterminazione, la definizione di se stessi.
È un album crepuscolare, per ritmi ma soprattutto per la sospensione in cui galleggia: è una continua riflessione sulle azioni, quindi sull’essere, in attesa di una risposta o di una conseguenza. È un album sulla terza legge della dinamica femminile, che analizza il personalissimo segmento che unisce azione e reazione, causa ed effetto. 
La cantante stessa spiega:

Con questo album, vorrei sottolineare che ci sono molte cose che le donne sentono e sperimentano al di fuori delle relazioni romantiche. Ci sentiamo in colpa quando diciamo no, ci assumiamo responsabilità anche quando non dovremmo, ci scusiamo anche se non abbiamo fatto nulla di male. Queste sono tutte situazioni che sto cercando di disimparare. Questo è un album sull’emarginazione, sull’essere donna, sull’imparare a stabilire i confini senza scuse, e senza sentirsi in colpa per questo. Imparare ad amare del tutto senza aspettative.

Another Me è un bellissimo flusso di coscienza, un monologo interiore a voce alta, personale ma universale, lirico a volte, mai barocco.
Ci sono dubbi e interrogativi in questo album, che riescono ad arrivare anche a noi maschiacci, senza sforzi eccessivi, anche se spesso abbiamo evitato le conseguenze.
E alla fine dell’album avrete quella stessa sensazione di quando, a fine serata, dopo qualche pinta, vi accorgerete di aver ascoltato una persona di valore, che non è mai cosa scontata.

 

Sarah Walk

Another Me

One Little Independent Records/Audioglobe

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam @ Autodromo Imola

Autodromo Enzo e Dino Ferrari (Imola) // 5 Luglio 2020

 

• Il concerto che non c’è •

 

Scena 1
Torino, esterno, giorno.
Inside Job

Il giorno prima di ogni concerto, soprattutto se dei Pearl Jam, corro.
Cuffie nelle orecchie e corro. Lascio che la loro musica entri in circolo con la respirazione, seguo il ritmo, mandando all’aria ogni buon consiglio sulla corsa. Visto da fuori sembrerò pazzo, più che un allenamento è riallineamento, una overdose di musica propedeutica una razione doppia di endorfine.
Ma è liberatorio, col sudore se ne vanno pensieri inutili e preoccupazioni, cerco di tornare alla neutralità, pronto all’urto del concerto.
Correre, quasi un lusso. Appartengo a quella schiera di runner cui è stato impedito di sudare in pubblico. Non è stato un sacrificio, non credo di aver fatto la mia parte rinunciando a così poco. Però mi mancava.
Guardo le gambe, sento la destra che perde colpi, usurata da pallavolo e calcio.
Guardo davanti e sorrido, perché ogni volta, più o meno verso lo stesso albero (sarà l’ossigenazione del cervello che salta sempre allo stesso chilometro), mi suggerisco la solita, facile metafora della corsa come allegoria della vita. Inizio, sudore, fine. Superamento costante dei propri limiti. Un passo dopo l’altro. E giù di cliché a pioggia, un ibrido tra Moccia e i perugina. E se Moccia fosse un ghost writer dei messaggi dei baci? E se avesse iniziato così?
Inizia a piovere.
Corro e scarto pensieri. Corro e costruisco storie che vorrei fermare, vorrei scrivere, ma sono liquide, come liquido sto diventando io. Come stai Andrea? Come arrivi a questo concerto?
Eddie mi ricorda proprio adesso che “how I choose to feel is how I am”. Le parole delle canzoni, mentre il tuo cuore pompa sangue e I tuoi muscoli iniziano a lamentarsi entrano come coltelli nel burro e non fanno a tempo a depositarsi che subito provocano catene di associazioni, è come stare su un tapis roulant al Louvre. Rimangono impressioni, torneranno su più tardi, coll’acido lattico.
Corro col solo obbiettivo di costringere il corpo a cercare il letto prima della mente. Stanco, devo essere stanco. Stasera non penserò a domani, o subentrerà l’ansia da prestazione, per me e per loro.
Cazzo quanto piove.
Oddio, arriva. 

Let me run into the rain
To be a human light again

Dissolvenza in nero.
Inside Job.

 

 

Scena 2
Interno auto, autostrada, giorno.
Light Years

I viaggi in auto verso i concerti sono come le prime pagine dei libri. Hai curiosità e diffidenza verso qualche faccia nuova, o magari sei felice come un bambino, perché ritrovi personaggi lasciati lì, chiusi dopo l’ultima pagina dell’ultimo concerto.
Si parla di qualunque argomento, l’importante è che dalle casse esca musica che vada bene a tutti.
La dimensione del viaggio ci era stata negata, e mai come ora capisco quanto sia importante mettere chilometri tra il proprio divano e un qualcosa che accade altrove.
Chilometri, parole, musica, un’autostrada che si riempie sempre più di automobili piene di nostri simili, diretti verso lo stesso luogo, stessi sorrisi, stesse colonne sonore, magari stesse storie.
Dalle casse riconosco Light Years, e la domanda è sempre la stessa: le canzoni capitano casualmente nei momenti giusti o sono i pensieri che seguono segretamente le note e ti ritrovi a pensare se le canzoni capitino casualmente.
Al Pinkpop Festival del 2000 Eddie Vedder dedicò questa canzone all’amica Diane Muus, scomparsa tre anni prima, a trentatré anni. Eddie così parlò: “sometimes you have got friends that don’t fuck up at all and are great people. And then you just lose them for some reason. They are off the planet and you never had a chance to say goodbye. I only mention this because there was a person we used to know here and that was Diane and ah, we never got a chance to say goodbye. This is goodbye. And if you’ve got good friends, love them while they’re here.
Ecco, la risposta è no, non capitano casualmente. È stato un periodo di addii negati, di persone perse senza uno sguardo reciproco. Un ultimo, consapevole, gesto d’amore. Abbiamo delegato tutto questo senza poterci opporre. È un peso che cala lento.
E allora prendiamoci questo concerto per curarci un po’, per raccontare le nuove cicatrici.
Siamo stati immobili, come pietre, ma la musica ci ha continuato ad illuminare.
Mi giro, I tre sono persi a discutere se con la partenza di Abruzzese sia davvero andato tutto a fanculo.
Sorrido, godiamoci questo viaggio, che mai come in questo 2020 si sta come al Pinkpop sul palco Eddie Vedder.

Your light’s reflected now, reflected from afar
We were but stones, your light made us stars

Dissolvenza in nero
Light Years.

 

 

 

Scena 3
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, tramonto.
Release

Trovato posto, il nostro posto nel pit, conosciuto i vicini di spalla.
Birre, cesso chimico, birre.
È incredibile come l’alimentazione prima di un evento impegnativo come un concerto sia, generalmente, liquida. Siamo astronauti.
L’aria cambia, sale un po’ di vento ad asciugarci, la sera sta arrivando, porta musica. Pixies andati, visti a Torino e recensiti, sapevo avrebbero fatto muovere le chiappette anche a questi giovini, linee di basso come schiaffi, irresistibili.
Adesso però ho bisogno di un’assoluzione.
Adesso ho bisogno di un’onda sonora che riallinei me al mondo, me alla musica, me a questo momento che aspetto ogni anno, come una medicina unica e rara.
In Let’s Play Two c’è un momento che mi rovina la vista, annacquandola, ogni volta. È all’inizio di Release, quando Eddie introduce la canzone. Cerca un certo John, “wherÈs John?”:

TherÈs a guy named John in the front. WherÈs John?
I just want to point out one guy at the front,
because he was the first guy in line two days ago; four days ago.
And he wanted to be in front for this song, because it meant a lot to him.
HÈs going through some stuff, and wÈre gonna help him.
Sing with me

Musica.
Lo stadio intona insieme a Eddie un lungo e profondo Oooohhhhhhhhh….

How are you doing now, John?

Oh, yeah.

Come va adesso Andrea?
Ho resistito, ho tenuto botta, ho teso i muscoli per mesi, per arrivare qua. Altro che quattro giorni, io è una vita che sto in fila. E sono e sarò John per sempre e per sempre avrò bisogno di essere lì, quando ci sarà bisogno di una “o” bella lunga e bassa, per ritrovarsi, riallinearsi e dirsi, senza troppi problemi che siamo passati attraverso qualche casino e che abbiamo un bisogno fisico di catarsi, di una benedetta catarsi di massa possibile solo attraverso la somministrazione consapevole e volontaria di basso chitarra batteria voce. Ukulele q.b. .
Cari John, lo so che siete là fuori anche voi. È tornato il momento di cantare tutti insieme, anche a cazzo di cane, ma farlo, oggi, qui, è la cosa più bella che ci sia.

I’ll ride the wave where it takes me
I’ll hold the pain, release me

Dissolvenza in nero.
Release

 

 

 

Scena 4
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, notte.
Rearviewmirror

Dissolvenza in nero

Fin qui tutto bene.
Belle le canzoni di Gigaton. Sognavo di cantare a squarciagola ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel nanananaanaanananana di Superblood  Wolfmoon da mesi. Fatto.
Mai stato un musone da setlist scadente o presunte tali. Sapevo che anche questa volta non avrebbero deluso. C’è però una canzone che non possono non suonare. Una sola chiedo, perché è importante che mi arrivi addosso cantata da migliaia di persone e da loro, lassù, sul palco.
Fin qui tutto bene.
Poi arriva, chitarra, chitarre, batteria e basso. E via, l’autodromo esplode. Si tira fino al What I could not forgive, Mike ha già le mani al cielo. Adesso ognuno se ne va per la sua strada, poi tornano, poi via di nuovo, io vacillo.

Dissolvenza in nero

Migliaia di mani battono insieme, richiamano e reclamano. Un basso esaudisce i desideri.
Saw Things, per quattro.
Al quarto Eddie è posseduto, occhi chiusi, io galleggio. Le ombre si sono alzate, Mr. McCready è già piantato come un palo, mento in su, in estasi mistica, a sparare note sulla folla, la canzone sta per entrare nella sua terza vita, perché Rearviewmirror è una e trina, è composta, come la parola che la definisce.
Rear-view-mirror.
Batteria che corre i cento metri, io ho addosso un paio di baccanti, il pubblico dietro di me sembra un’onda impazzita.

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Quando torno sulla terra, finite le note, è come se mi svegliassero da un sogno. Come se mi venisse tolto qualcosa cui tengo tantissimo. È infantile, me ne vergogno un po’, ne vorrei una al giorno di Rearviewmirror, così, tutti centomila insieme.
Insieme.


I hardly believe
Finally the shades are raised… hey

Dissolvenza in nero
Rearviewmirror

 

 

 

Scena 5
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, esterno, notte.
Present Tense

Una Baba O’Riley che ha spostato le stelle per volume e che ha fatto ballare i sismografi chiude il concerto.
I sorrisi che si vedono dopo l’ultima nota, a luci accese, sono unici. Non li puoi trovare da nessun’altra parte. Ci sono sorrisi da sport, sorrisi da paternità, sorrisi di complicità, sorrisi irreverenti. Poi quelli da pit, che, con pochi altri, pongono una condizione precisa di tempo e luogo. Me li guardo per bene, me li tengo stretti.
Ho le orecchie che fischiano, le gambe molli, una sostanza simile al vinavil in gola.
Urge una birra, take a bottle, drink it down, pass it around.
I passi che faccio per uscire sono sempre I più pesanti, perché so che sono quelli più lontani dalla “prossima volta”. Oddio, avrei Zurigo, a breve. Però, mi concedo un sorriso ad angoli verso il basso. E un sospiro.

Dissolvenza in nero

Mi allontano. Mi metto in disparte, voglio osservare tutto questo. Perché con tutto quello che è successo ho cambiato il modo di percepire certi eventi. È come se testimoniare la realtà sia diventata un’urgenza. Ed è come se guardare questo nuovo spettacolo, con nelle orecchie ancora le loro chitarre, mi aiuti a digerire  marzo e aprile duemilaventi. Non vedere i miei genitori, gli amici, dover lavorare in continuazione per rimanere a galla, l’uscire con mascherina, autocertificazione, le code, la gente impaurita e arrabbiata, gli amici medici, gli amici ammalati, gli amici intubati. File di camion che escono da una città, i telegiornali visti di nascosto, spiegare a mia figlia perché sta succedendo tutto questo, perché i negozi nel quartiere sono chiusi e perché alcune serrande non si alzeranno più.
Chiuso, dentro.
Per fortuna c’era la musica, c’era una famiglia, c’era una bambina con cui ascoltare skipping prima di addormentarsi. Sono fortunato, lo riconosco qui e ora, del resto makes much more sense to live in the present tense.
È un mettere un piede davanti a un altro, come la corsa, metafora da due soldi.
Grazie piccolo esercito di John, siamo stati bene anche questa volta. Alla prossima.
 
You’re the only one who can forgive yourself oh yeah…
Makes much more sense to live in the present tense…

Dissolvenza in nero
Present Tense

 

 

Epilogo.
Sotto un albero, privo di ossigenazione, esterno, giorno.
Come Back

Questa volta mi sono fermato.
Ho un ultimo pensiero per me, per chi è ancora qua. Io a questo concerto ci sono andato davvero.
È durato tre mesi, forse quattro, è nato in quarantena ed è continuato ogni volta che una canzone dei Pearl Jam mi richiamava a un attimo di riflessione, a un pensiero, a un ricordo.
È il privilegio della reminiscenza, anzi, della ἀνάμνησις (anamnesi). È un qualcosa di bellissimo, un regalo della mente. È conoscenza, è il risveglio della memoria destata dalla sensibilità.
O forse non dovevo correre con 32° e assenza di ombra.
Ok, se queste saranno i miei ultimi pensieri, i miei ultimi respiri, lascio volentieri il ricordo di uno cui si alzavano ancora i peli delle braccia alla 456esima Rearviewmirror. Oppure cerco di tenere duro, fino al prossimo concerto, magari vero, questa volta.
Ecco. Come back. Il prima possibile, ne abbiamo tutti, per davvero veramente, un grandissimo bisogno.
E piove di nuovo.

If I don’t fall apart
Will my memory stay clear?

Dissolvenza in nero
Titoli di coda
Come back

 

 

 

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Francesca Garattoni

 

 

Altra Fedeltà

Nick Hornby, negli anni novanta, riuscì a raccontare le sue passioni usando strumenti non convenzionali: il suo essere incredibilmente british, con tutti i pro e contro che questo comporta, l’ammettere candidamente le proprie debolezze, manie, fobie, idiosincrasie e anzi, farne materia per libri. Ci univano già un paio di elementi: l’amore per l’Arsenal — in quegli anni il calcio inglese era ammantato da un’aura di follia e romanticismo, e i miei Gunners erano fisici, scarsi e picchiatori, perfettamente rappresentati da capitan Tony Adams, un uomo che ha vestito di biancorosso per tutta la vita, lanciando più palloni in tribuna che in campo, anche in riscaldamento… ma questa è un’altra storia! — e ci univa l’amore per la musica e il tentativo di navigare in quel mare magnum dandosi un’idea, anche falsa, di ordine, di possesso. Fu lui che introdusse nella mia vita l’orrida idea di stilare classifiche.

Era il 1995, avevo divorato, qualche anno prima, Febbre a 90′, e adesso avevo per le mani Alta Fedeltà. 

High Fidelity è da poco anche una serie TV, dicono più vicina al testo originale rispetto al film con John Cusack del 2000 e spero arrivi fino a noi, quanto prima.
Nel libro, il protagonista Rob Fleming stila classifiche di cinque posizioni su tutto lo scibile di cui ha avuto esperienza, nel tentativo di rimettere ordine nella sua vita.
Ecco. L’altra sera, mentre scrivevo della colonna sonora di Singles, mi sono trovato in difficoltà nella scelta della canzone da aggiungere in coda alle poche righe di accompagnamento. Quel disco ha almeno cinque tracce che sfiorano la sacralità.
Il pensiero è allora andato a quegli anni e a quelle colonne sonore e ho scoperto di avere anche io una classifica delle migliori colonne sonore dei film degli anni novanta, a insindacabile (seppur sempre opinabile) giudizio del sottoscritto.

Non mi scuso per omissioni o per esclusioni, questo è.

 

10. Natural Born Killers (Oliver Stone, 1994)

Nine Inch Nails su tutti, ma con incursioni anche degli attori: Tommy Lee Jones, Robert Downey Jr., Juliette Lewis, che ai tempi cantava davvero, con tanto di gruppo ed EP.
Colonna sonora schizofrenica, per un film che è un pugno nello stomaco, che è la quintessenza della spettacolarizzazione della violenza, fuori e dentro la pellicola. Il pezzo in cui Bombtrack dei RATM sale a far vibrare i nostri divani è l’inizio della fuga di Mickey dal carcere. Il pezzo parte subito dopo la Danza della fata confetto di Čajkovskij. Contrasti a pioggia, anche a gamba tesa, come il basso di Timothy Commerford che polverizza la fatina mentre Woody Harrelson inizia il massacro finale. 

 

 

 

9. Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)

È la storia e la caduta di un’icona del glam rock e il film stesso è la celebrazione del mito di quegli anni, a partire dalla swinging London fino al crollo del personaggio/cantante. Ispiratissimo a quel Bowie di Ziggy Stardust, il titolo stesso è riferimento diretto a una canzone del Duca Bianco. Il film in sé non è pezzo da cineteca, ma suona dannatamente bene, sembra una festa di compleanno per celebrare un’epoca: venne creato un supergruppo per realizzare parte della colonna sonora, con membri degli Stooges, dei Sonic Youth, dei Gumball, dei Minutemen, dei Mudhoney. I Placebo reinterpretano 20th Century Boy dei T-Rex, mentre Thom Yorke da voce al gruppo Venus in Furs per celebrare i Roxy Music.
Insomma, Todd Haynes ci regala un finto biopic pochi anni prima del suo capolavoro Io non sono qui, dedicato a(i) Bob Dylan. 

 

 

 

8. Judgment Night (Stephen Hopkins, 1993)

La quota tamarra me la gioco all’ottavo posto. Il film pare un pretesto per avere una colonna sonora che è un monumento al cafone che vive in noi.
Accadde che a vari gruppi hip-hop vennero affiancate band metal/grunge/rock.
Erano anni di crossover volontario e sperimentale, ma qui tocchiamo vette altissime. Altro che ananas sulla pizza. Un paio di esempi: Sonic Youth conditi con Cypress Hill, Helmet e House of Pain, Faith No More avec Boo-Yaa T.R.I.B.E. Nacque quella notte il Nu Metal? Ai posteri l’ardua sentenza. 
Potente. Geniale. 

 

 

 

7. Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996)

Qui c’è stata battaglia. Avevo un clamoroso Empire Records, uno scontato Reality Bites, alla fine vince l’underdog. Qui è la bellezza tra immagine e colonna sonora a portare a casa il settimo posto. Liv Tyler era da arrossire, la colonna sonora, molto femminile, portava nelle cuffie del mio walkman Hooverphonic, Hole, Portishead, Liz Phair.
Riti di passaggio. 

 

 

 

6. Romeo + Juliet (Baz Luhrmann, 1996)

Premi a pioggia per un’opera geniale di un regista che adoro. Colui che pochi anni dopo avrebbe dato vita a quel capolavoro che è Moulin Rouge! recupera qui il testo (quasi) originale di Mr. Shakespeare e lo aggiorna, o meglio, ci mostra come il bardo fosse un genio senza limiti di tempo o di luogo. Verona diventa Verona Beach e da lì in poi è puro spettacolo.
Radiohead, The Cardigans, Garbage, ma soprattutto un Mercuzio da applausi.

 

 

 

5. Trainspotting (Danny Boyle, 1996)

Altro giro, altro regista di livello altissimo, altra colonna sonora da record (mamma mia il 1996!).
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, nello stesso anno di Fargo dei Cohen e di Crash di Cronenberg, fu un immediato successo. Diamo per scontata la visione, è programma istituzionale.
Iggy Pop, New Order, Primal Scream, Blur, Lou Reed, e soprattutto quella Born Slippy degli Underworld che diventò una cosa sola con le immagini finali del film. Generazionale? Di sicuro è diventato un cult.
But, that’s gonna change – I’m going to change. This is the last of that sort of thing. Now I’m cleaning up and I’m moving on, going straight and choosing life”.

 

 

 

4. Singles (Cameron Crowe, 1992)

Un film che è una colonna sonora.  Un tributo a Seattle a e al suo sound, alla nascente scena grunge, a una generazione di musicisti che negli anni novanta hanno segnato un solco nella storia della musica.
I Pearl Jam e Chris Cornell recitano attivamente nel film, sono le spalle di Matt Dillon, aspirante cantante e moderno bohémien.
Nell’elenco degli artisti coinvolti troviamo anche Alice in Chains, Mother Love Bone, Mudhoney, Screaming Trees, The Smashing Pumpkins tra i più noti.
È un manifesto, impossibile escluderlo, anche se, per salire sul podio, serve un quid in più.

 

 

 

3. The Commitments (Alan Parker, 1991)

Lo so. È una debolezza. O forse no.
Ma è una storia di redenzione, di resistenza, di amore per la musica, che ci ricorda di come tutte le periferie del mondo siano uguali e che si può fare Soul and R&B nella periferia di Dublino, allora possiamo spiegarci tutto, da Springsteen ai Fontaines D.C. .
Cito un personaggio, che riassume il concetto di sopra: “Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!””. È la vittoria di ogni processo di integrazione. È l’abbattimento di ogni differenza, sono i Blues Brothers, ma irlandesi e della working class.
Passo indietro: Alan Parker è un signore che ha donato all’umanità Pink Floyd The Wall,  Birdy – Le ali della libertà e Mississippi Burning.
Passo avanti: Glen Hansard è il chitarrista del gruppo. Quindi The Commitments merita il terzo posto solo per i riccioli di zio Glen. 

 

 

 

2. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)

Ecco, questo Cannes lo vinse.  E non solo: diventò genere, diventò testo sacro, citato, recitato, evocato in tutto il mondo. Personaggi perfetti, maschere geniali, dialoghi scritti in stato di grazia, in cui non esiste neanche una pausa fuori posto. Capolavoro.
E a condire questa meraviglia troviamo una colonna sonora che si intreccia nel film, che diventa strumento narrante e che sostiene e accompagna lo spirito di fondo della storia raccontata. È eclettica, come lo sono i personaggi, è di nicchia, come la cinematografia evocata dal regista, e che, come il genere e il film stesso, invece diventerà mainstream. La surf music che sorregge il tutto sarà il genere più utilizzato dai pubblicitari americani, per vendere…qualunque cosa.
Ah, dimenticavo: il podio consideratelo valido per qualunque film di Tarantino.

 

 

 

1. The Crow (Alex Proyas, 1994)

James O’Barr, autore della graphic novel che è alla base della storia del film, perse la fidanzata in un incidente. Per riuscire a superare il dolore accese lo stereo e prese matite, penne, pennelli e creò The Crow.
Il primo numero è dedicato a Ian Curtis, cantante dei Joy Division, scomparso a 23 anni.
Questo primo posto è alla colonna sonora, non al film. Anche se la pellicola è un’altra icona degli anni novanta, anche se la scomparsa di Brandon Lee durante le riprese ha reso lui e il personaggio ancor più un’icona, anche se.
La musica del film fu un colpo al cuore, perché era perfetta, perché era scritta nella storia stessa di James O’Barr.
The Cure, Stone Temple Pilots, Nine Inch Nails, Rage Against the Machine, Helmet, Pantera, The Jesus and Mary Chain solo per citare I principali.
Album sacro, via il cappello, podio e inno, grazie.

 

 

 

Andrea Riscossa

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” (Heavenly Recordings, 2020)

Catabasi Elettrificata

 

Mark Lanegan si aggiunge alla folta schiera di personaggi che possono vantare una gita agli inferi. Con un paio di differenze: non è il protagonista di un racconto, è l’autore. E là sotto, invece di amori perduti e antenati, è andato a cercare gli anni della sua gioventù, e si sarà fatto un paio di whiskeys, prima di risalire. 

Il nostro eroe viene dallo stato di Washington, che, evidentemente, qualcosa nelle falde acquifere deve averlo, dato che produce ottima legna e artisti leggendari.
Un’infanzia infelice, un’adolescenza turbolenta, un gruppo seminale e profetico, gli Screaming Trees, una Seattle come palcoscenico, prima che diventasse caput mundi del grunge. Anche se nel movimento lascia una zampata, facendo vibrare i vostri subwoofer a colpi baritonali, perfetto contraltare per Layne Staley nel disco dei Mad Season.

Droga, alcool, e un discreto numero di “affari loschi”, come li definisce lui stesso, ridendo, mentre parla del suo libro autobiografico Sing Backwards and Weep. Proprio questa sua ultima fatica letteraria è al centro della genesi dell’album Straight Songs of Sorrow.
Lo stesso Lanegan racconta che il libro non ha portato la catarsi sperata. Anzi, lo descrive come un vaso di Pandora colmo di dolore e miseria. Ha però portato un album in dono, quindici tracce figlie di un lavoro di introspezione che ha trovato uno sfogo inizialmente nelle parole, forse non sufficienti, forse compagne non così abituali. L’album nato tra le righe dei capitoli è composto di canzoni dedicate ai personaggi del libro, molti dei quali non ci sono più. È una personalissima Spoon River per Lanegan, inspiegabilmente ancora in piedi, microfono in mano. Non c’è resilienza, né resistenza, qui si canta di una insperata sopravvivenza, di anni difficili, di una tendenza autodistruttiva che ha sbagliato mira.

Questo viaggio nei ricordi e nelle cicatrici è accompagnato da alcune collaborazioni, Greg Dulli su tutti, e da stili inizialmente antitetici, elettronico e folk, presenti però nella carriera di Lanegan, che lentamente, nel percorso del disco, si fondono sempre più, a volte dividendosi la scena (sonora), a volte prevalendo sull’altra.

L’overture di I Wouldn’t Want to Say spiazza per la dissonanza tra cantato e base synth, ma lentamente, entrando nel disco, si prenderanno le misure dei suoni di questo strano luogo della memoria. È un inizio fatto di antitesi, di stili e di ritmi, che ci conducono fino alla coppia di canzoni che sono la quintessenza dell’album, Stockholm City Blues e Skeleton Key, un destro-sinistro che lascia al tappeto. Nella prima si elabora il rimorso per tutto ciò che è stato, nella seconda, sette minuti di ballata, si cerca la redenzione, partendo da un caposaldo: “I’m ugly inside and out”, e da una domanda senza risposta: “I spent my life trying every way to die. Is it my fate to be the last one standing?”. 

È come passare il dito lungo i lembi di una cicatrice e sperare di dare sollievo. Al limite si tracciano i confini di un dolore passato, ma di pace non c’è traccia, c’è solo una rinnovata consapevolezza. 

Cito perché notevoli Ketamine, dedicata a un amico che chiese, dal letto d’ospedale in cui giaceva, della ketamina, al cappellano giunto a dare conforto e At Zero Below con Greg Dulli, una ballata folk che lascia sottopelle un battito poco analogico.

Il disco è buio, è blu di fumo di sigaretta, ruvido come le guance di Lanegan, che più passano gli anni più mi appare come un ibrido tra Jack Palance e HellBoy.
È un’opera che racconta senza indorare, che però del raccontare fa il suo perno. La parte musicale si esalta quando le due anime, acustica ed elettronica, trovano il modo di fondersi e trovo affascinante, se voluto, l’evoluzione interna di questo processo nel percorso delle quindici tracce. 

È una discesa negli inferi personali di Lanegan, ma con una guida esperta che ha addomesticato i propri demoni, prendendoli per stanchezza. 

 

Mark Lanegan

Straight Songs of Sorrow

Heavenly Recordings

 

Andrea Riscossa

Pearl Jam “Gigaton”: Di Come Un Disco Non Sia Solo Musica

Tier II

 

Il 20 giugno del 2014, il signor Edward Louis Severson III, davanti a 60.000 persone in estasi, pronuncia un breve discorso, dopo due ore e mezzo di musica. Guarda in alto, gli spalti di San Siro, sorride alla transenna. Sente un senso profondo di comunione, tira fuori il suo block notes e in inglese, tra qualche fuckin’ e un gran gesticolare ci fa capire che nonostante tutto, nonostante tutti, si deve perseguire la strada della pace, dell’amore, della collaborazione. 

“We can win, we will win.”
Accordi di chitarra. Alive.
Lo conosco a memoria, quel live è stato la colonna sonora delle mie corse per l’intero anno successivo. I Pearl Jam sono colonna sonora dal 1991. Sono, in realtà, intrecciati con le nostre storie personali e questo offusca sicuramente il giudizio su un nuovo lavoro, come può essere Gigaton.

Tuttavia qualcosa è successo, quasi subito, dopo pochi ascolti. Una qualcosa di simile mi accadde con Vitalogy, c’era un senso di fondo che chiamava a nuovi esami, nuovi ascolti. 

Li ho nelle orecchie da così tanto tempo che risentire quel formicolio è stato davvero esaltante. Il mio quinto senso e mezzo chiamava a gran voce e così mi sono tuffato in uno studio matto e disperatissimo del loro ultimo lavoro. Ero alla ricerca del perché mi fosse piaciuto subito. Evento raro, quasi da sentirsi in colpa. 

Sia chiaro, l’opinione altrui, in questi casi, soprattutto se social, per me è inesistente. Il rapporto con un album è mediato solo dalle cuffie, tutto il resto è distrazione non necessaria. Ascolto e posso trovare interessanti punti di vista diversi, ma innanzitutto ho bisogno di strutturare un’opinione. In questo caso poi, devo razionalizzare una sensazione ombelicale, sfida affascinante ma ardua. 

Kandinsky sosteneva che l’azione nel quadro non deve aver luogo sulla superficie della tela materiale, ma in “qualche punto” dello spazio illusorio. È una dinamica virtuale, la stessa che cerco di mettere a fuoco.
Frank Zappa (attribuzione incerta, avviso) ha sostenuto che parlare di musica sia come “ballare sull’architettura”. 

Ecco, per cerchi concentrici mi avvicino. Eddie Vedder vive di ossimori e sinestesie. Canta di cose tremende, di vissuti pesanti, con melodie meravigliose e lo fa mandando in corto circuito musica e testi. È frizione continua, soprattutto nei primi dischi, con Vitalogy in testa. 

Per la prima volta, invece, in Gigaton sento venire meno questo gioco di costruzioni, mi sembra di vederci quasi un ragionamento che si muove dalla prima traccia per terminare con River Cross. Non mi spingo a parlare di concept album, ma qualcosa di simile serpeggia tra i solchi del disco. È un rinnovato umanesimo nei testi, che si concentrano sull’essere propositivi, perdendo quel furor giovanile.
Sembra un’Alive, trent’anni dopo: “Oh, and do I deserve to be?”
Beh, certo che lo meriti, e sei ancora vivo perché hai trovato una strada, l’hai, a dirla tutta, cantata attraverso undici dischi, dieci dei quali piuttosto adirato. 

Cito, sparse:

“All the answers will be found
In the mistakes that we have made”
Who Ever Said

“Right now I feel a lack of innocence
Searching for reveal, hypnotonic resonance
[…]
don’t know anything, I question everything”
Superblood Wolfmoon

“Freedom is as freedom does and freedom is a verb
They giveth and they taketh and you fight to keep that what you’ve earned
We saw the destination
Got so close before it turned
Swim sideways from this undertow and do not be deterred”
Seven O’Clock

Seven O’Clock ci ricorda la sesta legge del surf: mai nuotare controcorrente. La corrente va attraversata per raggiungere l’obbiettivo.
Vedder nel ‘91, seppur surfista, non riusciva a far uscire le leggi dell’Oceano fuori dall’acqua.
Quick Escape è una fuga nello spazio, verso Marte (crediti a Bowie, ovvio), perché più alto è il nuovo punto di vista, migliore e più precisa sarà la percezione. È una ritirata programmatica, robe da Sun Tzu, per raccogliere le forze e iniziare a rimboccarsi le maniche, come spiega magistralmente in Seven O’Clock con quel “Freedom is a verb”, che ci ricorda che spesso le parole hanno richiesto sangue e tanta vita, prima di godere di un significato.
Qui si parla della potenza del linguaggio, della parola. La poesia, anche nelle canzoni, scopre il mondo come se fosse nuovo, è uno sguardo magico che riesce a intravedere nuove corrispondenze (crediti a Baudelaire, ri-ovvio).

È un viaggio a rotta di collo nel Vedder-pensiero, che forse, a vederla bene, unisce la band molto più delle derive musicali dei cinque, sempre più distanti per gusti, ma capaci, nella dinamica interna del disco, di usare questa diversità come un punto di forza, per cambiare registro, punto di vista, ritmo, per regalarci, a conti fatti, un’esperienza molto più ricca e ampia. 

Nelle prime tracce c’è l’analisi, c’è l’indulgenza per i limiti del nostro essere, c’è la presa di coscienza.
Poi l’album, il Pensiero di Gigaton, fattosi forte e diventato adulto, affronta il lutto, superandolo in Comes Then Goes, si prende la scena intera in Retrograde quando i nostri ci avvisano che il messaggio è arrivato a destinazione, le coscienze sono deste e hanno rumore di tuono.
In River Cross si ripete “Can’t hold me down” che in breve diventa un “Can’t hold us down”. Il compito è portato a termine, il testimone è stato passato. 
Share the light”.
Che apre un menù a tendina di collegamenti possibili a partire da Prometeo che, prometto, vi evito.
Ode ai Pearl Jam, che hanno mandato in soffitta la resilienza, riesumando la resistenza, usando le parole, la poesia. Gigaton ha dei testi decisamente alti, a mio parere. Del resto un loro concittadino, vissuto qualche anno prima e dipartito a ventisette, sosteneva che “Bisogna cercare dentro ai dischi se volete trovare la poesia contemporanea”. Ben detto, Jimi. 

A volte capita che un album venga accolto a braccia aperte anche solo per il contesto in cui capita.
Altre volte accade che un album ha un messaggio così universale che è impossibile non cogliere il significato profondo e ideale.
Infine ci sono casi come Gigaton, che non è un album perfetto, per carità, ma ha una tale densità che risulta avere, per me, l’unica caratteristica che conta: il desiderio di riascoltarlo. Esplorarlo. Conoscerlo e inserirlo nella storia della mia relazione con i Pearl Jam, una storia fatta di specchi, di cambiamenti, di tradimenti, anche di separazione, ma che continua, incredibilmente, a lasciarmi folgorato, su un prato, quando parte una Corduroy o una Porch, a lasciarmi un sorriso quando, nelle cuffie, passa una frase di vent’anni prima perfetta, calzante, per quel momento lì.

 

Andrea Riscossa