Skip to main content

Tag: andrea riscossa

Pearl Jam @ Autodromo Imola

The waiting drove me mad
you’re finally here and I’m a mess

 

Tier I

Tutto sta nei primi dieci secondi di concerto.

“L’attesa mi ha fatto impazzire,
Finalmente sei qui e io sono un casino”

Due anni di attesa per tantissimi presenti, ben quattro dall’ultima apparizione in Italia dei Pearl Jam. Alla fine ci siamo ritrovati, un po’ rotti, un po’ incerottati, un po’ stanchi.
Una setlist corta, farcita di pezzi scontati, eseguita in una location che fonti interne e vicine ai nostri hanno definito “worst location ever”. Ever, sia messo agli atti.
Loro sono ormai anziani, Vedder non si appende più neanche agli stipiti delle porte, e ormai riconosciamo il pezzo che sta per essere eseguito dalle chitarre che vengono distribuite.
Il pit, che ricopriva la stessa superficie della Val d’Aosta, non aveva pavimentazione. Abbiamo visto il concerto su tacchi da sei. Docce chiuse alle diciotto, birra a otto euro, oppure due token, ultimo ritrovato per evitare di usare una carta come, che so, due giorni prima a Zurigo.
Vedder ha interrotto lo show almeno quattro volte, salvando più vite di David Hasselhoff in Baywatch, e giuro, non ho mai visto tanta gente andare per terra a un concerto. Un ritmo assurdo, con un lavoro incredibile della security. 

Il deflusso è stato completamente autogestito, abbiamo calcolato la rotta seguendo l’Orsa Maggiore vagando come zombie in una puntata automobilistica di The Walking Dead. E siamo arrivati ai comodi parcheggi, in provincia di Modena.

Sì, siamo messi malino. Anzi, male. Ho sentito mugugni preventivi, lamentele pretestuose, critiche inamovibili senza neanche i White Reaper sul palco.
Eppure siamo lì.
E quando Eddie ci urla che l’attesa ci ha reso pazzi, mi si dipinge un sorriso sul volto. Centro, Mr. Edward Louis Severson III, centro perfetto.
Fa tutto schifo, siamo un po’ impresentabili anche noi, tu, poi.
Però siamo tutti qui, in sessantamila, a cantarci in faccia il nostro amore.

Take my hand, not my picture.
Ecco. Dio quanto siete mancati. 

 

Tier II


If man is 5, then the devil is 6, and if the devil is 6, then God is 7
(
Pixies, Monkeys Gone to Heaven)

 

La vera notizia è che sul palco, a partire dalle 18.00 è anche successo qualcosa.
I White Reaper hanno dato il via allo show, e mentre a Zurigo avevano patito un mixaggio fatto al buio, temo invece che ieri la colpa fosse proprio loro. Sia chiaro, de gustibus, ma stanno ai Pearl Jam come American Pie sta a Goodfellas.
Per fortuna i Pixies sono i gran ciambellani dell’indie, IL gruppo che anche Bartezzaghi usa per la definizione di “seminale”. Tanto seminali e tanto degni di rispetto che a destra del palco, primo tra i primi del pit, c’era un certo Eddie Vedder a ciondolar la testa.
Guardare, ascoltare, imparare. Come tanti anni fa.
E i nostri?
La setlist è figlia della location, e del numero folle di presenti. Ed è giusto così.
Sedici pezzi direttamente dagli anni novanta, quasi tutti gli inni presenti. Una scaletta ad alto tasso di partecipazione, come è giusto che sia per una festa di massa.
E così, oltra alla già citata Corduroy, si susseguono senza sosta Even Flow, Why Go ed Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, pezzo in cui Vedder, all’attacco iniziale, spara un basso così basso e una nota così precisa che mi ha curato il male alle caviglie, di colpo.
E poi arriva la doppietta da Gigaton, Dance of the Clairvoyant e Quick Escape. Funzionano, che dire di più. E movimentano la setlist, che altrimenti rischia di diventare un omaggio alla nostalgia. I Pearl Jam, da sempre in cinque, sei con Boom Gaspar, ora sono sette con Klinghoffer, che, nascosto e nelle retrovie, gioca a fare l’artigiano tra chitarre, percussioni e cori. C’è e si sente, in alcuni pezzi.
Eddie racconta delle sue gite in auto, anni fa, mi illude che suoni Untitled e poi invece attacca MFC.
Jeremy fa tremare l’autodromo, mentre Eddie commuove tutti raccogliendo la richiesta di un ragazzo italiano che, attraverso pearljamonline, aveva chiesto di suonare Come Back in onore del fratello recentemente mancato.
Direi che sì, era lì con noi.
Eddie sfonda la quota-fanculo della serata con Save You, mentre il duo Wishlist – Do The Evolution fa perdere la voce al mio vicino, che, per la cronaca, non aveva centrato una nota neanche per errore. Grazie ragazzi, missione compiuta.
Seven O’Clock perde un po’ di potenza dal vivo, tende al liquido nel finale.
Daughter è sacra, Given to Fly anche. Mi rallegro, gioisco e ringalluzzisco con Superblood Wolfmoon, dove realizzo il sogno proibito di piazzare ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel ritornello. Sogghigno. Sardonico.
Lukin e Porch a seguire sono la scarica finale prima della pausa.
L’encore è all’insegna del “suoniamole proprio tutte”, così i nostri inanellano State of Love and Trust, Black, Better Man, Alive, Yellow Ledbetter. Da svenimento.
Luci, saluti, palco vuoto.
Alla prossima.

 

Tier III

Freedom is a Verb

Il concerto però non è fatto solo di canzoni. Eddie parla, e lo fa spesso.
Insomma, conta anche cosa accade quando le chitarre sono ferme.
Aborto. Ricordi. Sogni e realtà. Morte e fratellanza. I Pearl Jam sono militanza, sono azione aldilà dei dischi e dei concerti. Chi canta sotto palco è giusto che si ricordi, ogni volta che compra un biglietto, che sta anche premiando una linea, delle idee e una visione. Non sono solo canzonette. 

Eddie Vedder non sa leggere, ma sa comunicare.
E i Pearl Jam sono una macchina perfetta, che si muove con esperienza e sicurezza.
E poi c’è Mike McCready.
Mike McCready al secondo pezzo suonava la chitarra con la bocca.
Al-secondo-pezzo.
Mike McCready ha maltrattato così tanto la chitarra durante l’assolo di Black che Eddie Vedder pare fosse pronto a interrompere il concerto per salvare anche lei.
Mike McCready in assolo è metafisica applicata.  

È sempre più una liturgia, sempre più catarsi collettiva, sempre più condivisione. Ieri sera, mentre Eddie parlava, mi è balenato un desidero segretissimo: vorrei un Vedder on Broadway. Come Springsteen. Magari tra vent’anni, quando DAVVERO non potrà più reggere certi ritmi, certe note, ma avrà dalla sua la saggezza e un pezzo di ricetta per la redenzione da realizzare con una chitarra in mano.
Mike no, lui ascenderà al cielo durante un assolo, perché qualunque dio alberghi l’alto dei cieli si merita un po’ delle sue chitarre. 

 

Tier IV

We Belong Togheter

Eddie Vedder confonde sogno con realtà.
“È reale?” Ci chiede.
“Sono qui? Voi ci siete?”
Eravamo in sessantamila a rispondere di sì.
Dopo due anni di attesa, in sessantamila a sopportare il caldo e la sete.
Eravamo così tanti che anche loro, lassù, si sono lasciati andare. E per quanto sappiano seguire dei binari sicuri, ho visto, come a Zurigo, un’urgenza e una voglia contagiose. Proporzionale al numero di persone davanti a loro. Ieri c’era emozione sul palco, Eddie lo ha ammesso, o almeno i peli delle sue braccia hanno parlato per lui.
E allora forse, aldilà delle polemiche, delle setlist, delle durate, forse basterebbe saper godere di questo. Dell’ appartenenza. Il che, per altro, risponde alla semplice domanda: alla fine, perchè sei qui?
Io sono tornato a rinnovare un legame.
Anche se sti bolliti non mi hanno suonato Rearviewmirror.

E questa storia finisce mentre dondolo marciando sulla pista dell’autodromo, mentre usciamo con lentezza.
Sorrido, perché nella tasca destra mi sono avanzati dei token, come da previsione. Ma nella sinistra sento un paio dei biglietti sgualciti, che sono già diventati storie da raccontare e ricordi da conservare. 

 

Andrea Riscossa

 

SETLIST

Corduroy
Even Flow
Why Go
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
Dance of the Clairvoyants
Quick Escape
MFC
Jeremy
Come Back
Save You
Wishlist
Do the Evolution
Seven O’Clock
Daughter
Given to Fly
Superblood Wolfmoon
Lukin
Porch

State of Love and Trust
Black
Better Man
Alive

Yellow Ledbetter

Pearl Jam @ Hallenstadion

Scrivo appunti sul telefono.
Che tanto poi non riesco mai a tradurre,
vocaboli a caso, riferimenti che sfumano nel giro di tre ore.
Mancano due anni e cinque minuti.

Ascolto discorsi insensati alle mie spalle.
Controllo i compagni di avventura.
Osservo chi mi sta vicino, almeno adesso.
So che la geografia del pit è instabile.
Mancano due anni e un minuto. 

Il palco adesso è vuoto.
Io non mi commuoverò.
No.
Quella è la testa di un batterista.
Mancano due anni e un Matt Cameron intero.

Dissolvenza.
bella lunga, però.

Sono a pochi metri dal palco. Mentre sento una nota, giusta o sbagliata che sia poco importa, uscire dal mio petto e unirsi al coro dell’intro di Release, al mio fianco un padre solleva la figlia dodicenne sopra di sé. 

Oh, dear Dad, can you see me now?

Lei appoggia i piedi sopra le spalle e sale con la testa a tre metri.

I am myself, like you somehow

Le mani lungo i fianchi. Immobile. Una statua greca.

I’ll ride the wave where it takes me

È davanti a Eddie, alla stessa altezza del palco. 

I’ll hold the pain, release me

Da sotto la scena ha qualcosa di surreale. E di bellissimo. La gente sotto di lei tende le mani, a proteggere un’eventuale caduta. Sembra una processione spontanea. Santa bambina del pit di Zurigo.
Termina il primo pezzo, lei scende, alle nostre spalle arriva la security che con gentilezza chiede di non farlo mai più. Ma proprio mai, in generale, per sempre.
Grazie
A lei, si figuri
Buon concerto.
Buon lavoro, e scusi. 

E così è iniziato il concerto ieri sera, all’Hallenstadion di Zurigo.

E poi.

Corduroy.
Immortality.
Present Tense
In Hiding
Crazy Mary 
Smile

Cosa accade quando una setlist sembra diventare un dialogo personale tra te e la band? Cosa succede quando senti, anche dopo tanti anni, che quelle parole hanno un nuovo peso, un nuovo colore, una nuova prospettiva?
E allora eccola. Parte dalle gambe, questa volta. E sale. Prende la spina dorsale, alza i peli delle braccia, centra la nuca. Scodinzolerei, potendo. E invece mi ritrovo a commuovermi. Senza pensieri a figlia, podi olimpici o Buffa che legge me. Semplicemente sbraco, passatemi il termine. Perché me lo sono concesso, ho stretto pugni e chiappe per due anni, per essere qua, ora, e adesso mi prendo questi venti secondi di debolezza e me li godo pure. Poi li condivido, perché a Imola, e ovunque sarete, se dovesse capitare anche a voi, sappiate che è parte dello show. Sta nel biglietto. Godetevelo.
Nella setlist c’è tutto. Un mosaico di vita e di note, di anni, di viaggi in auto di notte a urlare come fossi a due metri dal palco. Ogni concerto dei Pearl Jam è un nuovo segnalibro, serve a mettere un punto a un capitolo, mentre cerchi il titolo per quello successivo. 

Dissolvenza.

Colui che nel 1992 mi mise in mano una copia di Core degli Stone Temple Pilots, ieri sera mi ha passato, a fine concerto, la scaletta della serata. L’evento conferma la regola che chi regala musica ha capito quasi tutto di come si sta al mondo con decoro e saggezza.
La setlist in questione, se fosse mai stata eseguita così come scritta, sarebbe stata epocale. E invece ha avuto buchi, cali di tensione e di densità. E meno male, perché ho buone ragioni per tornare là sotto, tutte le volte che potrò. E intanto si è aperto il dibattito interno se una Black valga una State of Love and Trust + una Rivercross.
Caricatevi di speranza, oh voi che entrate domani a Imola. Intanto io ieri ho visto cose che voi umani…

Ho visto Mike di nuovo appeso alle sue note, immobile, occhi chiusi sul palco.
Ho visto Boom e Mike giocare in una sfida infinita sulla coda di Crazy Mary .
Sono quasi certo che Stone mi abbia sorriso. Proprio a me. Mi ha detto che regge Eddie da troppi anni, di stare tranquillo, sa come tenere insieme la baracca.
Rideva, Jeff.
Rideva anche Matt. Boom cazzo ve lo dico a fare, è la versione felice di Babbo Natale.
C’era un Josh anche, ieri sera. Che si sentiva, seminascosto. Spero si veda anche, in futuro, ma comprendo le dinamiche di spogliatoio.
Avevano fame i ragazzi. Avevano fame di palco, di cori, di suonare. Avevano voglia di essere nuovamente lassù, li ho visti divertiti, felici, sereni. 

Dissolvenza. 

È stato un gesto, questa mattina, a farmi tornare subito alla sera prima. Infilo l’orologio sopra il bracciale del Ten Club. Alla faccia della metafora, si torna alla vita. O meglio, sorrido e penso che l’orologio, gli impegni, il lavoro, la QDC (quotidiana dose di cacca) potranno anche tener nascosto il bracciale verde, ma quello lì resta, attaccato al polso, sulla pelle, prima di ogni cosa.
Bentornato, bentornati.
Siamo cellule dormienti che si riattivano a ogni tour, che mettono l’orologio nel cassetto e che tornano sotto un palco. Sempre.
La strana tribù ieri sera si è nuovamente ritrovata, come in Olanda e a Berlino pochi giorni prima. È un rito, è un bisogno. Dall’ultima volta è accaduto di tutto, adesso è arrivato finalmente il momento di farsi trappare quei biglietti vecchi di due anni, lasciare il mondo fuori dalle transenne e riprendersi la dimensione dei concerti.

Due anni, una notte e un viaggio.

Makes much more sense to live in the present tense

 

Andrea Riscossa

Fontaines D.C. “Skinty Fia” (Partisan Records, 2022)

Basso. Una linea di basso. Un coro gaelico.
“Gone is the day, gone is the night, gone is the day”, per quattro. Poi arriva il cantato. Segue mantra di chitarra, ripetitiva, industriale, al galoppo. Di nuovo coro e poi una batteria che spiazza. Break-beat, nessun climax, nessun crescendo. Il canto è ripetitivo, viscerale, quasi sguaiato. Sale, si gonfia, si eleva, sa di etereo e di terra e di muschio e di mare che divide. È un’invocazione, un preludio che apre le porte del terzo lavoro in studio dei Fontaines D.C., Skinty Fia. 

In ár gCroíthe go deo è il pezzo di apertura. Sono sei minuti dedicati a una lapide negata dal governo inglese: una signora irlandese, morta a Coventry, voleva come epitaffio la suddetta frase in gaelico.
“Per sempre nei nostri cuori” è la traduzione, cosa che non piacque per niente alle autorità locali. Epitaffio negato, troppo politico. L’episodio non è avvenuto mentre le bombe dell’IRA esplodevano in UK, è successo due anni fa. 

L’intero album può essere letto come il viaggio di un irlandese in quel di Londra.
Alla terza canzone ti accorgi che le tensioni sono il secondo tema del disco. I dualismi, meglio ancora. Un disco su quello che accade in mezzo a due poli, su quello che succede dentro, mentre forze opposte si dedicano alla tua personale lacerazione. How Cold Love Is gioca coi topoi del tema affrontato, per finire col trattare di dipendenza, del prezzo dell’essere complementari e del compromesso. 

No, non è un disco solare. Non è un disco con soluzioni. È un’analisi, un’autoanalisi, di un esule. Metafora sempreverde dell’uomo, anche se qui la “patria perduta” ha un nome, una bandiera e una identità piuttosto definita. E curiosa risulta anche l’ombra perennemente presente di un Joyce citato e raccontato, e del suo Ulisse, altra metafora-ombra che ci segue da qualche secolo, come un paradigma beffardo e ineluttabile. 

I Fontaines sono in viaggio, i Fontaines sono (di) Dublino, i Fontaines creano una loro identità lontano dalla meta-casa, per differenza e per sottrazione. Succede così che nel disco, dopo aver attraversato punte altissime come Jackie Down the Line e Roman Holiday, ci si imbatta in The Couple Across the Way. Fisarmonica e cantato. Forse qualche tasto di pianoforte, ma di un Satie intimidito. La canzone nasce dalla vista, aldilà della strada, di una coppia anziana che passa le giornate litigando. Grian Chatten li osserva dalla finestra sul cortile e convive con la fidanzata e una lunga serie di metafore e similitudini. Specchi, speranze, tempo che scorre, che passa, che rende sempre più rari i bivi e le possibilità. L’identità è opposizione. L’identità è lontananza. L’identità vive e ti guarda aldilà della strada. 

Il peso di questo album si conta nei chilometri che separano la band dal suo baricentro culturale e identitario. È nello sforzo per recuperare un equilibrio che i Fontaines producono la loro musica. La Londra in cui vivono è ostile, la distanza e il tempo sono fattori che acuiscono il dolore dell’assenza e allora si raddoppia lo sforzo nel ricordo e nel fantasmatico. È un viaggio doppio, tangibile ed interiore, è visibile e solo intuibile, come la metafora della coppia di vecchietti aldilà della strada.

Skinty Fia arriva subito dopo l’elegia per fisarmonica (regalata dalla mamma di Chatten a Natale) e ci riporta nuovamente al tema del dualismo. Il significato è dubbio, ma sicuramente veniva usata dalla prozia del batterista come intercalare non proprio elegante, e riguarda una certa “maledizione del cervo”. Per i Fontaines diventa il frutto della diaspora irlandese.
È uno spirito in esilio, una saudade ungulata. 

Ma mentre l’identità è custodita nei testi del disco, la parte musicale subisce una trasformazione inaspettata. Alla solita lista infinita di fonti e ispirazioni (Cure, Smiths, Joy Division e via dicendo), nel nuovo album si aggiungono un discreto campionario di stilemi e richiami del drum and bass, del trip hop, dell’indie rock anni novanta. Le acque del Tamigi hanno inquinato la matrice irlandese, l’aria di Londra è penetrata nell’inconscio musicale del gruppo. Cantano la loro terra, ma come a Bristol nel ’96. Tutto l’album risulta più lento dei lavori precedenti, più cantato, più baritonale. Se Dogrel era un atto d’amore per la Dublino in cui la band aveva vissuto e A Hero’s Death era il diario di un viaggio, allora Skinty Fia è la prima vera analisi che il gruppo fa di sé, della strada percorsa e di quella futura. L’Irlanda è una terra di ricordi e luogo del sentimento, ma I Love You è una trappola: è la traccia più politica e critica che abbiano mai scritto. Insomma, c’è coscienza e consapevolezza anche nell’amore incondizionato. Come dice Chatten in una recente intervista: “There’s no hope without tragedy”.

Il terzo disco dei Fontaines convince su più livelli. Ha un’anima e uno scopo, ha una traiettoria e una mappa interna. Ha dei testi splendidi fatti di pennellate e picconate. È un pastiche di generi, di echi e di epoche. E tuttavia la firma è chiara, i Fontaines sono un genere a sé, sono un Ulisse che risplende nel suo viaggio e nella sua tensione perenne tra il conosciuto e la scoperta. 

Buon viaggio, di nuovo.

 

Fontaines D.C.

Skinty Fia

Partisan Records

 

Andrea Riscossa

Wet Leg “Wet Leg” (Domino, 2022)

Se non ve ne foste accorti qualcosa ribolle nella scena musicale oltremanica.
C’è un numero considerevole di ottime band, la qualità non manca, quello che forse è ancora assente è un nome, un’etichetta, un titolo. Forse manca anche quel salto finale, un singolo o un intero disco, che apra la porta al mainstream.
Fuor di bolla è tutto tranquillo, a un qualunque festival inglese è bolgia vera. 

Le Wet Leg, ironia della sorte, nascono durante un giro su una ruota panoramica, durante l’esibizione degli IDLES, all’End Of The Road nel 2019. Ma facciamo un passo indietro. 

Rhian Teasdale e Hester Chambers sono originarie dell’Isola di Wight, si sono conosciute al college e hanno sempre coltivato la loro passione per la musica. La vita le costringe a lavori diversi e band solo nel tempo libero. Accadde però che, dopo un’estate passata tra festival e backstage, decidono di provarci davvero.
Avevano scritto alcuni pezzi e uno in particolare avrebbe cambiato il loro destino: il 15 giugno 2021 usciva il loro primo singolo, Chaise Longue, che diventa virale in poco tempo.
In realtà il disco era pronto ad aprile dello stesso anno. La Domino aveva messo a loro disposizione Dan Carey alla produzione (colui che ha mixato e prodotto i Fontaines D.C. e gli Squid), e tra Londra e la loro isola il disco prendeva forma in modo piuttosto artigianale, grazie a GarageBand, software disponibile per qualunque prodotto Apple, un multitraccia entry level che le due usavano per costruire la struttura dei pezzi che poi prendevano forma in studio, nella capitale. Sono partite in tour, con quattro singoli all’attivo, tutti osannati dal pubblico che ha lentamente riempito le sale prima e i prati d’estate. Sono comparse nelle TV britanniche e statunitensi, hanno fatto crescere l’hype fino a generare un piccolo e nuovo fenomeno musicale. 

Dove troverete le Wet Leg nel vostro negozio di dischi preferito? Se frequentate un posto con poca fantasia puntate sull’indie, sull’alternative, al massimo pop-rock. Le influenze sono ampie e si passa dal post punk alla dance, dal dream pop a Bowie.
Sono labili i confini di genere. C’è piuttosto un approccio fluido alla musica ascoltata e prodotta, in cui più che il genere a fare da fil rouge è la scrittura e l’intenzione.

Questo è un disco di un movimento. È una declinazione di un gusto che sta prendendo forma nel Regno Unito e che con questo album potrebbe diventare argomento di discussione di massa.
Della nuova musica di lassù sono forse quelle più pop. Con ritornelli catchy e, nonostante un vocabolario non esattamente da educanda, il gruppo più proiettato verso un mercato più trasversale.
Qualcosa dentro mi urla che se l’MTV dei ’90 fosse ancora viva questo album sarebbe finito in heavy rotation e che le due Wet Leg, forti di un’immagine e di un’identità più che definite, avrebbero bucato le TV catodiche degli allora adolescenti.

L’album è un inno alla vita. All’empatia, alle sensazioni, anche fisiche, materiali. Spiazzano, perché le dolci pulzelle figlie dell’isola e del mare sono in realtà due soggetti dalle liriche taglienti e dalla mente aperta. Dal sexting indesiderato a gioiosi sfanculamenti, la maleducazione qui è un punto di vista, un umorismo quasi brutale è la loro firma. Però, al di là della forma, c’è un messaggio e c’è un’intelligenza che solletica, che evoca e che ammicca. 
Le canzoni sono un bestiario di personaggi improbabili e di situazioni assurde.
C’è qualcuno in mutande seduto su una Chaise Long (e che dovrebbe essere sdraiato, perdiana), altri dediti alla masturbazione in Wet Dream, con annessa leccata di parabrezza di un’auto, che neanche Freud, probabilmente, avrebbe saputo giustificare. Piece of Shit rende plasticamente l’idea del perché non sempre le relazioni finiscano bene, mentre il nostro duo si fa quasi serio quando, citando Bowie, si interroga sulla vita e parla quasi di bilanci in I Don’t Wanna Go Out. Quasi tristi e un po’ spleen in Convincing, ma sempre costruite con immagini che sono piccoli fotogrammi di mini-racconti su un argomento. È una scrittura veloce, che evoca e accosta, non spiega, non racconta.
E comunque dissacrare tutto è un’arte. Gli ex sono pezzi di merda cui rimane solo l’opzione se galleggiare o affondare, e ci dispiace per le loro mamme (Ur Mum), mentre con le loro nuove fidanzate possiamo solo sperare stiano soffocando (Loving You). Hanno riscritto la visione di topoi della musica odierna, aprendo i cancelli a un realismo e un cinismo che sa di libertà e nuovo umanesimo. 

È un disco che non porta le mutande.
Qualunque cosa contenessero in origine.
È un disco maleducato.
Così maleducato da risultare amabile, perché portatore di verità sussurrate e condite di insulti irripetibili.
È il nonno di Little Miss Sunshine, è l’incubo di un qualunque Pillon-alpha, è una medicina contro l’anacronismo e il perbenismo.
È un disco che contiene sentenze.
Sentenze sui denti.
Ciò non impedisce di sorridere coi buchi.

 

Wet Leg

Wet Leg

Domino

 

Andrea Riscossa

Fontaines D.C. @ Alcatraz

L’Alcatraz di Milano ha accolto il ritorno dei Fontaines D.C. a pochi mesi dal concerto a Parma per il Barezzi Festival.
Green pass, ffp2, sedie. Se non ci fosse un palco sarei anche pronto per una quarta dose, per fortuna la birra non era analcolica e, in fondo, essere di nuovo a un concerto è un gran privilegio.

Aprono la serata i Just Mustard, stesso paese di origine ed etichetta dei Fontaines, ma decisamente più orientati verso uno shoegaze in salsa irlandese.

I Nostri salgono sul palco mentre sfuma un Tom Waits d’antan. Il locale è finalmente pieno. Dietro di me urlano ragazze straniere, qualcuno tenta di alzarsi, cercando sguardi di intesa. Sembra quasi di essere a un concerto vero. Le sedie vengono abbandonate dopo pochi accordi di Televised Mind, pezzo che apre la setlist. Seguono A Hero’s Death e Sha Sha Sha. L’Alcatraz non è solo in piedi. Balla. Sono a un concerto vero. A Lucid Dream precede la nuovissima Jackie Down the Line, che si inserisce senza disarmonie nella scaletta costruita sui primi due dischi. Il primo vero uno-due arriva con I Don’t Belong seguita da Chequeless Reckless, che nella sua incarnazione live è ormai una garanzia. Segue chicca e rarità, i ragazzi regalano a Milano una Roy’s Tune intima e coinvolgente.

E poi piano piano, come mi capita nei concerti che amo ricordare, scivolo nella pancia del concerto. Un luogo protetto, in cui musica, immagini, pensieri e sensazioni si impastano tra di loro, lasciando una scia di fotogrammi, un gusto di fondo. So che durante la sacra triade BigHurricane LaughterToo Real, mi sono autocertificato tre pelli d’oca. Due per la questura, perché l’ultima era disturbata dal tentativo del sottoscritto di studiare se, effettivamente, ero davanti ai primi nuovi arrangiamenti dei pezzi eseguiti live. I Fontaines, sentiti a inizio novembre, ieri sera sembravano provenire dal futuro. In quattro mesi sono evoluti, alcuni pezzi hanno preso vita propria, e sul palco risultavano ben diversi dall’esecuzione quasi didattica sentita a Parma. Sono soprattutto i pezzi di Dogrel a trascendere maggiormente, forse perché hanno più concerti alle spalle.

Skinty Fia e Boys in the Better Land chiudono una setlist che è passata dritta come un treno, con pochissime parole e un mare di note e un uomo, là sul palco, che da solo vale il prezzo del biglietto.

Grian Chatten è rapito dalla sua musa al primo accordo. Ha un pessimo rapporto con le aste dei microfoni, ma questo già lo sapevamo. Ha una presenza sul palco che incarna con violenza la necessità di urlare i suoi testi al mondo. Mentre al suo fianco chitarre e basso sembrano colonne, lui decanta le virtù dell’iperattività. Il movimento stereotipato, ritmato, ripetitivo delle mani mentre si defila sul palco, allontanandosi dal microfono, disegnando spirali, per gioco e sfida, piccole sezioni auree di attesa. Crea vuoti e pause, poi torna con urgenza al microfono e diventa pesante e invisibile, un fantasma e un monolite. Ha un dono, quel ragazzo: sa portarti dentro le canzoni, all’interno dei testi, e sa farlo creando un’intimità e un’empatia imprevista. Pochi filtri sul palco, davvero. Poco star. È un mezzo per le canzoni, per la musica, è strumento.

I Fontaines tornano sul palco per due pezzi, I Was Not Born e The Lotts. Sono sazio. Breve ma intenso, direi meglio denso. Diciassette pezzi, più lungo rispetto alle due date spagnole precedenti.

Spazzati via i fantasmi che aleggiavano al teatro Verdi di Parma, quando Clash, Smiths, Joy Division e Cure sembravano essersi fusi in un nuovo, plastico, prodotto di un post-qualcosa, perché ormai il prefisso è imperativo. Invece ieri sera ho visto nascere qualcosa di autonomo e di potente. Qualcosa che supera i riferimenti, gli echi, le eredità. La musica dei Fontaines è diventata adulta.

A tutto questo aggiungiamo che il prossimo mese vedrà la luce il terzo album della band, Skinty Fia, e che sono già previste due date a giugno, a Milano e Bologna.
Ieri sera, come ultimo gesto del giorno, ho acquistato due biglietti. Fidatevi, stanno diventando una grande band. 

 

setlist fontaines milano

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Mairo Cinquetti

Band of Horses “Things Are Great” (BMG, 2022)

I Band of Horses tornano dopo quasi sei anni con un album in studio, il sesto, dal titolo puntuale e adeso alla meravigliosa realtà in cui siamo immersi: Things Are Great. A difesa della combriccola capitanata da Ben Bridwell bisogna sottolineare il fatto che l’album fosse in realtà pronto prima della pandemia. Ha, durante la sua lunghissima genesi, portato a cambiamenti importanti all’interno del gruppo, con addii illustri e innesti (o promozioni) di due nuovi membri nella line-up.
I nostri hanno anche cambiato sede, muovendosi da Seattle alla Carolina del Sud, ed etichetta, passando a BMG.
La versione primigenia dell’album era, a detta del frontman, troppo distante dalla sua personale idea di cosa debbano essere i Band of Horses, e qui sta la causa della partenza di Tyler Ramsey e Bill Reynolds. Il nuovo lavoro ha dunque virato verso lidi più noti, verso un ritorno alle origini, meno “truccato” a livello di produzione e più semplice nell’approccio, sia musicale sia nel messaggio che porta.

Apriamo una breve parentesi, direi necessaria. Non deve essere semplice essere Ben Bridwell. Al primo singolo del primo EP ti capita una The Funeral e la tua vita cambia per sempre. La tua canzone viene inserita in mille serie tv, da How I Met Your Mother fino alla recentissima Strappare Lungo i Bordi. Pazienza che ai primi tre accordi sai che sta per andarsene qualcuno di fondamentale e che stai per piangere, il fatto è che ti è proprio venuta la classica ciambella col buco, ciliegina e bacio accademico. Da quel momento inizia una lunga serie di variazioni sul tema, di declinazioni a volte pendenti più verso il folk, a volte più pop. Basta che sia riverberato. L’equazione finale risulterebbe, secondo studi recenti, come un neo-folk pop-post-shoegaze.

Parentesi a parte, il modesto pensiero è il seguente: ci sono band capaci di creare un’atmosfera, altre che di un’atmosfera hanno bisogno, altrimenti risultano fuori tempo, cacofoniche con il contesto. I Band of Horses con questo disco tornano a fuoco, nella dimensione a loro più consona, capaci di offrire una perfetta colonna sonora a quei momenti in cui ci starebbe proprio bene una canzone dei Band of Horses.
Spero di aver reso l’idea. 

E Things Are Great suona bene, pulito e snello, nella sua alternanza di brani più pop/soft-rock ad altri più intimi e intimisti. Si spingono fino a tematiche politiche e sociali, come nel pezzo che apre il disco, Warning Signs.
Si omaggiano i The Cure in Crutch, forse il pezzo migliore dell’album, dove la descrizione di una relazione tossica si gioca sull’ambiguo ritornello “I’ve got a crutch on you”. Sullo stesso tema scivola lento e sornione il blues di Hard Times, mentre si cambia registro nei pezzi successivi: in Aftermath si parla di sindrome post-traumatica e la struttura stessa della canzone ricalca l’inquietudine del testo, mentre in Lights, un rock leggero e degno di un’American Pie qualunque, è la cornice di un racconto fatto di adolescenti e forze dell’ordine.
Il finale torna più sentimentale e leggero con You Are Nice to Me e Coalinga, quasi elegiaco, un po’ Mumford un po’ Lumineers. 

Things Are Great è un buon album, che fa tornare i Band of Horses indietro di una decina di anni, cosa ottima e auspicabile, dato il livello del penultimo lavoro, Why Are You OK. Ritroverete tutti gli ingredienti di una ricetta nota e che funziona, dalle chitarre con super-riverbero ai crescendo a volontà, dalla voce iconica di Bridwell a quell’eco di fondo che ogni tanto riemerge, come un tema, come un déjà-vu, come una filigrana che certifica quello che sta uscendo dalle casse.

 

Band of Horses

Things Are Great

BMG

 

Andrea Riscossa

Eddie Vedder “Earthling” (Seattle Surf/Republic Records, 2022)

Mi prenderò un paio di libertà.
Divido le righe a me concesse su questo album in due parti. Nella prima, da bravo lettore di cartelle stampa e storie precotte, si presenta il tutto. Le sane, basilari 5W che ogni articolo dovrebbe raccontare. Così abbiamo i fatti. Anche se, dopo vari ascolti, una domanda su tutte ha preso il sopravvento.

Sono stati giorni difficili, i giorni del Perché. Quindi la seconda parte, quella bisognosa di libertà, la chiameremo la parte del Perché.

Partiamo però dalle basi: Eddie Vedder esce con il suo terzo album solista, Earthling. Un album che di solista ha ben poco, in realtà, considerando che con lui ci sono l’amico di sempre Glen Hansard, il batterista dei Red Hot Chili Peppers, Chad Smith, Josh Klinghoffer, di recente reclutato anche dai Pearl Jam, l’ex Jane’s Addiction Chris Chaney, ed Andrew Watt, che il disco lo ha anche prodotto.
Siamo quindi molto lontani dal capolavoro del 2007, Into The Wild, o dallo sperimentale Ukulele Songs, datato 2011. Qui abbiamo una nuova band, un nuovo produttore (Watt ha nel suo curriculum nomi come Miley Cyrus, Justin Bieber e Post Malone) e tre collaborazioni con icone della musica contemporanea: Elton John, Stevie Wonder, Ringo Starr.
L’uscita del disco è stata anticipata da tre singoli: Long Way, The Haves e Brother the Cloud, mentre la band è già in tour negli USA per alcune date.
L’album è composto da tredici canzoni, ordinate come fossero eseguite live, con un Intro (Invincible) e una sorta di scaletta interna, che segue un climax che porta alle tracce conclusive con le collaborazioni citate poc’anzi e un ultimo brano in cui compare la voce del padre di Eddie Vedder e che porta al termine del disco-concerto.
Questi, più o meno, i fatti. Ora passerei volentieri a cosa è accaduto durante l’ascolto ossessivo e ripetuto del disco. Una serie di strane domande, di strani spettri e una affannosa ricerca di risposte.

Dentro di me da giorni convivono, discutono e si scontrano tre diversi e bizzarri personaggi. Sono fondamentalmente punti di vista, ma come in un Pirandello-bonsai hanno preso vita e quasi ci tengo a presentarveli.
Sono il sogno di una notte di mezzo inverno, figli della relazione che mi lega a Vedder. Anche se un po’ come negli amori dell’asilo, Lui, ancora, non lo sa. E forse andremo alle elementari e mai lo saprà, ma questa è un’altra storia.
Anzi, questa forse è proprio l’incipit della seconda parte di questo scritto.
La relazione che lega Lui a me, Vedder a chi lo ascolta, è sbilanciata e sbagliata. L’ho compreso nella mia ricerca di fonti che rispondessero ai tanti “perché” di questi giorni, e ho trovato spunti molto interessanti nell’intervista Vedder di David Marchese per il New York Times Magazine. Cito, in disordine sparso:

“Really all I can do is hope that other people appreciate the music that I like”.

“At least we’re not chasing anything”.

“A singer in a rock ’n’ roll band is not going to be able to reshape all the things that he’d like to”.

E chiudo con un tombale:
“Our job is not to make records that people like. Our job is to make the music that makes us feel proud”.

Ecco, il primo personaggio che mi saltella in testa è il Vedder cinquantenne. Una sua versione meno iconica, meno idealizzata, più onesta e forse con la pancetta. E ancora, mi permetto, in realtà quest’anno si va per i 58, ma pensare che il cantore della tua giovinezza va per i sessanta…. non sono pronto, davvero, chiedo scusa.
È nato leggendo e informandosi, cercando un nuovo sguardo per meglio comprendere un disco deludente ai primi ascolti, disperatamente cercando un fondo di oggettività.

Del secondo posso solo dirvi che l’oggettività non è il suo forte. Ha accolto Ukulele Songs come un’arditissima esplorazione etnomusicale, esulta qualunque cosa Vedder canti, fosse anche una cover dei Nickelback eseguita con una balalaica, l’ultimo concerto visto è sempre il migliore. Esiste, il personaggio intendo, solo per svolgere una funzione basilare: non riuscire ad ammettere una delusione. Perché Vedder, e così come lui qualunque cantante abbiamo mitizzato, sono diventati una funzione, un meccanismo pavloviano di piacere che se smontato, porta a una reazione da tossici.
“Se hai creato Into The Wild non puoi essere che un dio”. Errato, grazie per aver partecipato.

La nemesi di “numero due”, detto Eddie Pavlov, è il numero tre, che vanta un soprannome di tutto rispetto: l’ho chiamato Cristo si è fermato a Vitalogy (ma forse anche prima). Lui è quello che ha visto finire i Pearl Jam al terzo album. Tutto quello che è venuto dopo è figlio del Vedder-pensiero, è manierismo, è il fantasma della prima epifania divina del ’91. Stringo.

Numero tre pensa che Earthling sia un disco evitabile. Un lavoro inutile, un disco impacchettato da un produttore che non dovrebbe (potrebbe?) condividere un progetto con Vedder. Non riesce a credere di doversi ascoltare l’ assolo proto-punk dell’armonica di Stevie Wonder. Gli è sembrato addirittura di sentire un intro dei Prozac+ alla terza traccia. Si è divertito ad ascoltare The Dark mettendo in sincro il balletto di Springsteen di Dancing in The Dark. Andava a tempo anche Courteney Cox nonché il testo, un bignami della poetica springsteeniana.
In una moderna riedizione della Querelle des Anciens et des Modernes sarebbe partigiano della superiorità degli antichi, ma senza saper spiegare il perché.

Tra i tre è nata una dialettica. Un po’ come le fantomatiche liste dei pro e dei contro, con i radicali a duellare, mentre il Vedder-reale, quello che ha già risposto, attende sornione che la realtà prenda a sberle i fan del passato e gli yes-men.

Dipende da dove avete collocato la vostra asticella.
Da quanta fame avete e da quanto le vostre papille gustative si sono anestetizzate negli ultimi due anni.
Dipende dalla risposta onesta a una domanda onesta: tornerete ad ascoltarlo volentieri?

Ultimo pensiero. Questo è un disco di un Vedder che ha fatto pace col sé stesso di quarant’anni fa, che non ha più bisogno di distruggere il mondo, perché ha appreso il dialogo, e che ha trasformato Even Flow nella Vitalogy Foundation.
Calmato il proprio fanciullo interiore, ancora appeso a un traliccio del passato e registrati i confini della propria umanità, Eddie Vedder si è permesso il lusso di provare a realizzare un disco che piaccia innanzitutto a sé stesso.

Poi, sia chiaro, può rimanere solo un lusso.

E non piacere a nessuno.

 

Eddie Vedder

Earthling

Seattle Surf/Republic Records

 

Andrea Riscossa

Black Country, New Road “Ants From Up There” (Ninja Tune, 2022)

Quand’ero piccolo mi perdevo ad osservare i raggi di luce filtrati dalle imposte. La polvere in sospensione che fluttuava davanti al mio naso erano mondi microscopici e fantastici, alcuni pieni di creature incredibili, altri erano universi paralleli, dove il tempo e lo spazio non avevano più regole.
È la prima immagine, il primo ricordo che il secondo album dei Black Country, New Road, Ants From Up There, mi ha evocato.
Perché loro sono sopra ad uno di quei granelli, prodotti da una incontrollata esplosione di fantasia fanciullesca. 

Sono in sette. Isaac Wood, voce e chitarra, Tyler Hide al basso (figlia del cantante degli Underworld), al sax Lewis Evans, Georgia Ellery al violino, chitarra per Luke Mark, May Hershaw al pianoforte e alla batteria Charlie Wayne. Vanno citati tutti perché sono sette personaggi, sette voci, sette punti di vista. Si definiscono collettivo e per una volta la parola rappresenta perfettamente il prodotto finale. 

Cresciuti e coccolati nel salotto culturale del Windmill Pub di Brixton, dopo il successo del loro primo disco, For The First Time, uscito esattamente un anno fa, hanno deciso di rinchiudersi in studio sull’Isola di Wright, con due angeli custodi: Sergio Maschetzko e David Granshaw a curare il suono e la produzione. Una storia di isolani che si isolano su un’isola più piccola per fare gruppo, concentrarsi sul lavoro e lasciare il mondo fuori.
Il collettivo trova la ricetta giusta e il giusto metodo di lavoro. Il prodotto finale è un qualcosa di nuovo, soprattutto qualcosa di diverso rispetto ai prodotti post-punk che provengono dalla scena britannica.

Sopra quel granello di polvere color oro, sospeso nella luce, si sente un gran bel caos.
È un klezmer jazzato minimalista post-qualcosa.
Un dialogo senza regole tra strumenti, che diventano attori di un racconto e che entrano in scena con urgenza, per mostrare un punto di vista, a costo di farlo fuori tempo.
Un Satie con la sindrome di Tourette.
Perché loro sono minimali e orchestrali. Sono emozioni a dimensione variabile. Sanno essere oscuri ed entusiasti, attraverso flussi disordinati esplodono in ubriacature di suoni, sanno essere solitari e sanno suonare “in grande”. È una stratificazione di livelli sonori e narrativi, che porta l’ascoltatore a cercare gli strumenti nella coralità, a individuare le frasi, i punti di vista, le dissonanze, le ripetizioni. È come un patchwork sonoro, con parti più assonanti, altre prodotte da antitesi.

Sono impressionisti e futuristi, sono in grado di evocare il minimalismo di Steve Reich e gli Arcade Fire in pochi minuti. C’è qualcosa degli Slint, ma anche di Michael Nyman. C’è un delizioso fil rouge che scorre sotterraneo lungo le canzoni dell’album: il tema introdotto nell’Intro viene ripreso in diversi momenti, a volte da singoli strumenti in diverse tracce, come un richiamo, una mappa.

Anche perché la strada la perdiamo già al secondo pezzo, Chaos Space Marine, una sorta di gioco musicale, di scherzo, realizzato però con cura e presentato come una sorta di overture di tempi passati. Si scivola poi nell’intimismo e nel crescendo di Concorde, per passare al flusso di coscienza di Bread Song, canzone di oltre sei minuti che a metà esatta si trasforma, trova una forma e la pace. L’album ci porta attraverso climax, sorprese, ballate, struggenti assoli di sax fino ai due pezzi finali, due perle in coda a Ants From Up There: Snow Globes, canzone da nove minuti in cui la batteria di Wayne dopo poco dissente, si imbizzarrisce e scalpita. Un lavoro a togliere, come il marmo, come il tempo. Chiudono con dodici minuti abbondanti di Basketball Shoes, una sorta di epica avventura finale.

Ho altre immagini evocate da questo lavoro straordinario dei BCNR, e sono tutte le legate a un film, The Secret Life of Walter Mitty, che è una celebrazione dell’incredibile meraviglia nascosta nell’ordinario, nella quotidianità. C’è un eroe in tutti, c’è l’avventura in ogni pensiero, c’è lo straordinario a due isolati di distanza, anche solo nei pensieri e nell’immaginazione. Questo album, come il film di Ben Stiller, è una iperbolica avventura che parte dal quotidiano e non ci pone un confine definito. 

Poi titoli di coda e il sipario. 

E rimane un occhio un po’ lucido, un sorriso ebete sul viso e un granello di polvere sul naso. 

 

Black Country, New Road

Ants From Up There

Ninja Tune

 

Andrea Riscossa

VEZ5_2021: Andrea Riscossa

Quando l’anno scorso avevamo pensato alle VEZ5, l’avevamo fatto perché ci sembrava un buon modo per tirare le nostre personali somme musicali dopo un anno particolare in cui la musica era stata contemporaneamente conforto e nostalgia. Per quanto non abbia raggiunto gli stessi livelli — anche se ci ha provato — il 2021 si è mantenuto un po’ sulla stessa scia del suo predecessore, quindi eccoci di nuovo qua, anche quest’anno, a tirare le nostre fila nella speranza di riuscire a tornare il prima possibile e in modo più normale possibile sotto un palco.

 

Arlo Parks Collapsed in Sunbeams

Un album di esordio di una ventunenne, che comprime generi e stili con una semplicità e una naturalezza spiazzanti. Da una base lo-fi si arriva al soul, tra rock e R&B, con pezzi recitati, tutti utili e tutti ben utilizzati per creare un’atmosfera che sospende, come davanti a un acquario, in cui galleggiano idee, sentenze, punti di vista. Da esplorare.

Traccia da non perdere: Eugene

 

Dry Cleaning New Long Leg

Dunque, lei è ipnotica. Tutti insieme funzionano proprio bene. Il disco è un’eco di musica che fu, che è, che sempre sarà, in un gioco di rimandi e ricordi (tra Joy Division, Smiths, Cult, Strokes) e quel gusto nuovo che sa di alchimia e di ingrediente segreto. Prodotti dall’arzillo John Parish, padre artistico di PJ Harvey.

Traccia da non perdere: Scratchcard Lanyard

 

Damon Albarn The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows

L’Islanda cotta a fuoco lento da Mr. Albarn, innamoratosi anni fa dell’isola ai confini del mondo. Come un personaggio di Verne, si perde tra vulcani e ghiacciai, ma lo fa ascoltando, captando e cantando. Elegia per Eyjafjallajökull, ai posteri l’ardua pronunzia.

Traccia da non perdere: Royal Morning Blue

 

The Killers Pressure Machine

Ok, quota guilty pleasure 2021 va al gruppo di Las Vegas. Sia chiaro, non è un album memorabile, ma ha gli stessi ingredienti che rende imprescindibile ed eterna la torta della nonna. È un lavoro quasi distopico, che devia dalla strada percorsa dalla band finora, che strizza l’occhio a Springsteen e si prende del tempo per raccontare storie e pezzi di vita. Quelli di Mr. Brightside mi hanno fregato.

Traccia da non perdere: Quiet Town

 

Nick Cave & Warren Ellis Carnage

Agita il bicchiere, prendi un bel sorso, assapora, chiudi gli occhi, elenca: profondo, etereo, subacqueo, malinconico, arioso. È un album fatto di respiri, a volte mozzati, a volte profondissimi. È forse l’unico veramente legato alla pandemia. O forse no. Però, che meraviglia.

Traccia da non perdere: Carnage

 

 

Andrea Riscossa

Damon Albarn “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” (Transgressive Records, 2021)

Era il 1818 quando Caspar David Friedrich dipinse il suo Der Wanderer über dem Nebelmeer, noto a noi come il Viandante sul mare di nebbia. Il quadro diventò presto un’icona del movimento Romantico tedesco, perché rappresentava una sintesi di tutti quelli che erano i concetti e i dogmi del nascente pensiero romantico.

Un uomo, controluce, contempla la natura che si manifesta davanti a lui. È un gioco di contrasti, di antitesi, tra razionale e mistico, tra definito e indefinito, tra chiaro e scuro, tra immanente e trascendente. Ma è anche un gioco di metafore e di ruoli, come quello dell’uomo e del suo rapporto con la natura. E il mare fatto di nebbia, spettacolo “meraviglioso, come a volte ciò che sembra non è”, ci porta dentro un labirinto di metafore e allegorie quasi senza fine.

Ascoltando l’ultimo album di Damon Albarn, il suo secondo lavoro solista, ho avuto la sensazione di essere davanti a un Viandante che la nebbia non l’ha solo descritta, ma è andato anche a cercarsela.

Aggiungiamo il tema del sogno, quello fatto da un Damon bambino, che sogna un volo sopra una spiaggia nera. Luogo che noterà in un documentario del National Geographic nel ’97, durante un tour con i Blur. Da allora sa che in Islanda esiste il luogo dei sogni.

Altro ingrediente è l’isolamento. Che finalmente possiamo trattare come una scelta personale, come un esperimento, e non più solo come una costrizione dettata da momenti storici poco felici. Ricorda Yann Tiersen e la sua isola col faro, ricorda mille altre storie di persone che nell’isolamento contemplativo hanno trovato la strada per cantare il loro personale mare di nebbia. Perché il signor Albarn ha comprato casa in quell’Islanda dalle spiagge nere, e si è rinchiuso in uno studio circondato dalla natura, nel tentativo di rendere i lockdown momenti positivi e produttivi.

Per realizzare The nearer the fountain, more pure the stream flows si è ispirato al lavoro del poeta ottocentesco John Claire, autore di Love and Memory. E i testi dell’album sono effettivamente centrati sui temi del ricordo, dell’amore, della malinconia, del lutto. E c’è la natura, ci sono colori, c’è il contrasto della sua isola, così fredda e piena di lava. E c’è acqua, tantissima acqua, dalle onde del mare fino al rumore delle gocce che cadono. È un disco acquatico, a volte subacqueo, capace di geyser e di ghiaccio.

I brani sono un patchwork delle ispirazioni di Albarn, dal quasi Blur(esque) di Royal Morning Blue, al folle e malinconico pezzo dedicato a un palazzo anni venti di Montevideo, The Tower of Montevideo appunto, dove l’altrove è un posto lontano, dove la malinconia diventa un genere. E poi synth sparsi, alternati al pianoforte, testi meravigliosi come quello di The Cormorant, colori (silver and blue) in Daft Wader, fino a Esja, una suite vichinga per pelli di narvalo e ansia.

Sono appunti sparsi dai confini del mondo, sulla fine del mondo. Una riflessione, una contemplazione sul mare di nebbia islandese, in cui la musica è lo strumento di analisi, ma è anche il prodotto, è sintesi e sintassi.

E infine è un viaggio o una tappa di un percorso. Perché Damon Albarn incarna perfettamente il ruolo di esploratore, di sperimentatore. Consapevole della meraviglia che un percorso simile comporta, affronta con uno spirito romantico il ruolo di artista. Un Ulisse, consapevole del carico di responsabilità, conscio dei rischi, ma entusiasta per la continua scoperta.

Se l’Islanda sarà la sua Itaca o l’ennesima tappa, lo sapremo solo quando si fermerà a contemplare un nuovo mare di nebbia.

 

Damon Albarn

The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows

Transgressive Records

 

Andrea Riscossa

Fontaines D.C. @ Barezzi Festival

È sabato sera, sono all’interno del Teatro Regio di Parma. 
Ho superato colonne ioniche, ho adocchiato Muse, un Apollo, Baccanti e sulla mia testa incombono Aristofane, Euripide, Plauto e Seneca. Attorno velluto e un pubblico abbondantemente over trenta, non ci sono abiti da sera e binocoli da teatro.
Il contrasto è già potente, da un palco laterale pende una bandiera irlandese.
Sul palco un telone con la grafica dell’ultimo album dei Fontaines D.C., A Hero’s Death. Caso vuole sia rappresentata una statua raffigurante un eroe del ciclo dell’Ulster.
Il gruppo nasce nel grembo del British and Irish Modern Music Institute di Dublino, appena quattro anni fa. Pubblicano due raccolte di poesie, la prima, Vroom, è dedicata ai poeti beat Jack Kerouac e Allen Ginsberg, mentre la seconda, Winding, si ispira alla tradizione irlandese: James Joyce e William Butler Yeats su tutti.
La setlist della serata è ampiamente annunciata. I ragazzi hanno solo due album alle spalle e durante il tour nel Regno Unito hanno eseguito le canzoni seguendo un indice ben preciso, con pochissime eccezioni. E sarà breve, perché non amano chiacchierare, quando sono sul palco.
Questo il contesto. Questo il menù.
Le variabili siamo noi, molti dei quali a digiuno da concerto da diversi mesi (anni?) e la reazione dei cinque davanti a un pubblico seduto, mascherato e comodamente alloggiato tra velluti e stucchi dorati.
Abbiamo il materiale esplosivo, l’innesco e il detonatore. Abbiamo alte aspettative e un bisogno disperato di ritrovare la musica condivisa dal vivo.

 

vezmegazine 350 fontaines dc andrea ripamonti teatro regio Parma 06112021

 

E infatti quello che attendevo, accade poco dopo.
A pochi metri da me, con una prepotenza stupefacente, la musica si riprende la sua parte fisica, carnale. Mi ero dimenticato di quanto fosse importante, di quale fosse l’impatto di un live. Il contesto aiuta, il cantante, Grian Chatten, fa il resto. Durante la prima canzone distrugge l’asta del microfono, ci rimette un dito, ma sembra posseduto dalle Muse del foyer, sembra lui stesso una baccante. Cammina, corre, le dita delle mani a seguire emozioni, parole, quasi che la musica la si possa toccare, mentre dal palco scivola verso il pubblico. Canta, enuncia, elenca, si sbraccia, si sdoppia, si perde. È uno spettacolo di furia e gioventù, è una guida tra le parole che escono a valanga, soprattutto nei pezzi del secondo album.
E mentre lui gioca a fare il pazzo, sbagliando raramente una nota, gli altri sono colonne che reggono una parte monolitica e precisa dello show, perché i Fontaines riescono a passare da pezzi puliti e precisi a veri e propri muri sonori, con testi e sottostesti, ricchi e opulenti, come durante la grassissima doppietta Living in America e Hurricane Laughter, cotta per l’occasione nello strutto e unta di Sangiovese.
Il vaccino mi consente di urlare Sha-Sha-Sha scevro di sensi colpa, e poi mi perdo senza vergogna nelle stanze più oscure dei loro pezzi più intimi , evocatori di fantasmi (Ian Curtis ieri sera era a teatro, sia chiaro) e di immagini quasi cinematografiche.

 

vezmegazine 482 fontaines dc andrea ripamonti teatro regio Parma 06112021
La musica ieri sera si è ripresa i corpi di chi la esegue, si è ripresa lo spazio di un palco. Anche l’asta del microfono, massacrata, maltrattata, spostata e abbandonata da Chatten diventa parte della band. Crea vuoto, crea attesa.
È un flusso di coscienza, sopra e sotto il palco. Ed è meraviglioso.
Così il pubblico scopre la sesta legge di Otis Day, quella che recita “qualunque natica, prima o poi, si stacca dalla sedia e inizia a ballare”, e quindi, vinto l’imbarazzo di farlo in un tempio, la platea rompe gli indugi e abbandona i velluti dei sedili. Alcuni raggiungono la più preziosa e artistica transenna della loro vita e l’unione tra gruppo e pubblico si completa. Aggiungiamo un paio di giri di pelle d’oca e direi che abbiamo saziato pancia e cuore. Il diaframma già era in festa nel risentire quel sano riverbero musicale.
È stato un ritorno alla grotta di Platone. Un ritorno allo spettacolo, alla proiezione della realtà, che di realtà ne abbiamo già presa sui denti un po’ troppa, da un paio di anni a questa parte. Solo tornando sotto un palco ho potuto sentire il reale peso di quella assenza. Attendere così tanto per tornare a rivivere un concerto lo ha però anche riempito di nuovi significati, lo ha reso ancora più speciale.
Cari Fontaines D.C., sarete la mia “seconda volta”, perché il primo vero concerto dopo una pandemia, credo, non lo si scorderà mai. Quindi, consiglio per gli acquisti: a marzo i ragazzi torneranno in quel di Milano. È quasi d’obbligo esserci. 

 

Andrea Riscossa

 

Setlist
A Hero’s Death
A Lucid Dream
Sha Sha Sha
Chequeless Reckless
You Said
I Don’t Belong
The Lotts
Living in America
Hurricane Laughter
Too Real
Big
Televised Mind
Boys in the Better Land

Roy’s Tune
Liberty Belle

 

 

Grazie per le foto ad Andrea Ripamonti e Rockon.

Frank Carter & The Rattlesnakes “Sticky” (International Death Cult, 2021)

Avevo pensato di creare la prima recensione “librogame” della mia vita. Per esempio, se sai cosa sia un libro game, salta a pagina ventisei, altrimenti continua a leggere l’entusiastica recensione di questo album!
A pagina ventisei avreste invece trovato una sana stroncatura per un album superficiale e dal vago sapore di plastica.
Poi sono passato agli Exercices de Style di Raymond Queneau, novantanove recensioni per lo stesso disco. Poi ho ridimensionato l’ego e le pretese. 

Perché la verità è che questo disco ha avuto un primo assaggio assai travagliato, che è successivamente scivolato in una crisi legata all’età (la mia) e al gusto (il loro), e che infine ha portato a una sintesi quasi insperata, un momento catartico, come quando, in gita scolastica, i professori si ubriacano con gli studenti.
E così, mentre lanciavo invettive contro Frank Carter e i suoi The Rattlesnakes, come un novello anziano, braccia dietro la schiena, davanti a un cantiere pieno di giovini, il disco, diabolico e subdolo, lentamente si mostrava a fuoco.

Sia chiaro, non riesco a non pensare che sia non esattamente originale e che abbia preso a piene mani da generi e discografie affini, anche se oggi si usano verbi come “tributare” e “omaggiare”, mentre in tempi non troppo lontani si sarebbe potuto sintetizzare il tutto in modo più veloce (e brutale).

Mr. Carter però sa che prendere da chi stava dietro, da chi è ai lati, ma anche da chi ti sta davanti (e ivi rimarrà per sempre) può essere una strategia vincente.
E sì, avete appena letto una metafora.

Per rimanere in tema di figure retoriche, l’intero disco è un ossimoro di dimensioni pantagrueliche. È ignorante nei modi, ma profondo in alcuni scorci. È ammiccante nei riff, ma ha una sua personalità. È uno di quegli album che funziona sicuramente meglio uscito dalla sala di registrazione e portato su un palco.

Perché fin da subito, dall’inizio della title track, il tutto appare un po’ sopra le righe. Si ha l’effetto “pentola a pressione”, come se l’urgenza di mostrare le carte, tutte e subito, in qualche modo rovinasse la conoscenza. Ignorante, come dicevo prima, nel senso più genuino e onesto del termine. E sorprendente, perché a leggere i testi si rimane piacevolmente spiazzati. Sembrano domande esistenziali salite come rutti alle tre del mattino dopo il sesto cocktail: tolto il contesto, rimane uno spunto interessante.

E quindi, horribile dictu, in questo disco punk rock, quasi classico in certi pezzi, la differenza la fanno le sfumature. Perché se l’impatto sonoro è potente, ma a tratti scontato, sta nell’intenzione la parte buona dell’album. Risultato? Tutto funziona bene, a tratti benissimo. Sembra addirittura curato nella produzione, a tratti fin patinata.

Accade per esempio che in Rat Race si arrivi al sassofono, mentre Carter si lancia in invettive contro politicanti opportunisti. E i temi non sono banali, passando dal machismo all’alcolismo di Take It To The Brink, alla critica sociale e quasi pirandelliana di My Town, eseguita con la piacevole collaborazione di Joe Talbot degli IDLES.

Il disco si chiude con Original Sin, che sembra gettare lo sguardo ancora più nel passato, grazie a ritmiche meno sincopate e alla sempre carismatica presenza di Bobby Gillespie (The Jesus and Mary Chain, Primal Scream).

Insomma, sufficienza piena. Un po’ perché un paio di pezzi rimangono stampati in testa come il peggior reggaeton, senza però rovinarti la giornata, un po’ perché è un disco divertente, agitato, a volte ben pensato.

 

Frank Carter & The Rattlesnakes

Sticky

International Death Cult

 

Andrea Riscossa

 

Pagina ventisei.
Se negli anni novanta ascoltavi NOFX, Weezer, Bad Religion e sai chi siano Clash e Stoogies, beh, hai per le mani un buon disco di musica che già conosci.