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Tag: andrea riscossa

Pearl Jam “Gigaton” (Monkeywrench Records, 2020)

So save your predictions
And burn your assumptions

 

Tier I

 

Alla fine ho dovuto passare alle maniere forti.

Mi sono regalato la mia naturale miopia, levandomi gli occhiali. Anzi, ho proprio chiuso gli occhi.

Le cuffie a un volume illegale, perché di volumi illegali (e parlo di sonorità dispiegate e di peso dei testi) questo Gigaton ne è pieno. Sarà l’una di notte, ma poco importa, mi sono autodiagnosticato un cabin fever da quarantena e autoinflitto un jet lag da recensione. Non ho mai scritto cinque pagine fitte di appunti per nessuna recensione prima. Il problema è che sono di parte, molto di parte, in questa vicenda e ho un timore profondo ogni volta che un mio dito si abbassa verso la tastiera. Forse per la prima volta avverto un vago senso di responsabilità, innanzitutto verso me stesso, perché sono chiamato a esprimere un giudizio (anche se non vorrei, ma è inevitabile) su un qualcosa che, dopo sette anni di attesa, ha quasi l’aria di essere un oracolo, più che un disco.

E in seconda battuta mi sento responsabile perché, tra isolamento e tempesta emotiva calcolabile in gigatoni, sto tecnicamente sperimentando la menopausa. Sbalzi emotivi di questa portata li ho visti solo in alcune signore quand’ero fanciullo. Da oggi avete tutta la mia più sincera solidarietà. Questo, inevitabilmente, offusca la mia percezione. Anche se, a dirla tutta, credo l’abbia semplicemente accelerata. Perché è dai tempi di Vitalogy che per esprimere un giudizio su un lavoro dei Pearl Jam, di solito, impiego mesi.

La compressione ha aiutato, qualcosa si è smosso con largo anticipo.

La verità è che a smuovere qualcosa ci aveva già pensato Dance of the Clairvoyants, primo singolo uscito il 21 gennaio, che ha portato alla luce un sound inedito e innovativo, un potenziale cambio di rotta da parte dei cinque, o semplicemente un avviso ai naviganti: destatevi, ma soprattutto “mettete in salvo le vostre previsioni e bruciate le vostre supposizioni”.

 

 

Un cambio, fisico, è avvenuto: a produrre l’album c’è Josh Evans, colui che negli ultimi anni ha seguito il gruppo come tecnico del suono. Ha creato una sorta di studio casalingo dietro casa, per permettere a Vedder e soci di lavorare in tranquillità e soprattutto rispettando tempi dilatati e assenze frequenti, tra tour solisti e progetti paralleli è stato raro vedere i Pearl Jam riuniti in sala di registrazione a improvvisare. È stato più un lavoro di stratificazione, di innesti, di montaggio artigianale. Nel 2017 si è iniziato a registrare, ma la scomparsa di Chris Cornell ha bloccato la genesi dell’album. Probabilmente, ha anche permesso che avvenisse un piccolo miracolo.

È come una fotografia a lunga esposizione. Un diaframma era stato aperto e poi è stato lasciato aperto. Sulla pellicola, alla fine dell’esposizione, sono rimasti tutti i dettagli di quasi tre anni. C’è una montagna di tempo in questo disco, come se fosse invecchiato (e bene), in attesa di uscire dalla botte.
Che metafore così, al Vedder visto a Barolo, sicuro piacciono.

Il disco apre con Who Ever Said, ed inizia come un concerto live: musica in dissolvenza, pausa, poi entrano loro. Intro, chitarre, batteria, riffone goloso, Eddie.
Qui troviamo la presentazione, il programma dell’opera: un socratico sapere di non sapere, una stoica sospensione del giudizio. Lo dico qui, in partenza: questo è l’album più “filosofico” dei Pearl Jam, in cui la benevolenza di fondo verso i temi trattati è programmatica, è voluta. È lo spirito della scoperta, dell’analisi, che per la prima volta soffoca la rabbia.

Sarà la terza traccia che vi ritroverete a canticchiare al semaforo (o forse più facilmente in cucina, di questi tempi), la prima del nuovo album. Legata alla successiva Superblood Wolfmoon abbiamo un binomio che in un qualunque concerto avrebbe già fatto ballare mezzo stadio. Qui passiamo a un garage rock senza impegno, con tanto di ombrellino e olivina, mentre le parole, come sempre, producono frizione e attrito: qui c’è l’umana condizione, addirittura un platonico mito della caverna, fino alla citazione letterale del “I don’t know anything”. Insomma, tutto pronto per Dance of the Clairvoyants, terza traccia e testo scritto direttamente dalla Sibilla Cumana, solita scrivere i vaticini su foglie di palma lasciate al vento, con conseguente caos eolico-semantico, ma di sicuro effetto scenico. È canzone simbolo di quest’album, perché è sia chiave di lettura sia chiave di volta. Ma è anche canzone doppia, che ha una cicatrice tra prima e seconda parte, platonica, di nuovo, soprattutto nella coda, laddove solo nell’unione tra volontà femminile e maschile si compie la perfezione.

 

 

Dopo un volo così iniziatico e criptico ci pensa Mike McCready a riportarci su lidi conosciuti, con un assolo che vale l’intera Quick Escape, prima canzone veramente politica di Gigaton, in cui Trump viene evocato come icona del male incarnato, tangibile. Forse è l’unica traccia un cui il gruppo si permette della rabbia autentica.
Alright è la calma seguente. È onirica ed elettronica, ma anche famigliare, ha echi lontani di sonorità già usate dalla band.
Seven O’Clock è un sogno di un mondo migliore. Una chiamata alle nostre coscienze perché si dèstino, c’è “much to be done”, ci dicono. È per ritmo, tonalità e tema un pezzo springsteeniano, tanto vicino a quella poetica che non mi risulterebbe strano sentire questa canzone eseguita in un fienile, con gli archi e con un tempo ancora più dilatato. Del resto in questi ultimi tre anni Eddie è andato a Broadway ad ammirare zio Bruce e ai nostri non sarà sfuggito il concerto a casa Springsteen.
Never Destination e Take the Long Way sono due umanissime distrazioni, dopo il peso dei primi brani, una meravigliosa doppietta, che fa da eco al primo binomio posto a inizio album.

Buckle Up è la quota Gossard di Gigaton. C’è sempre il suo momento, solo suo, in cui il gruppo lascia la lavagna vuota e il gesso in mano al nostro. Se sei un genitore, questo pezzo ti lascerà sul viso un sorriso da ebete e in testa la consapevolezza che l’amore è un circolo. Almeno in famiglia. È una carezza, indulgente, materna, è un lenzuolo rimboccato e profumo di casa. E’ una canzone sul ricordo, sul valore del ricordo e sulla memoria dell’amore.

Se la pausa del vecchio Stone non vi avesse ancora stupito a sufficienza, ci pensa Vedder nella traccia successiva, Comes Then Goes, in cui la potenza sonora cede il passo a voce e chitarra acustica. Premessa: ringrazio sentitamente i Pearl Jam per non aver ceduto alla tentazione di abusare di steel guitar. Questo brano la chiama a gran voce e so che a casa sua un benharper di periferia ha già rotto una Budweiser per provarci.

Pezzo dedicato a Cornell. Solita frizione tra melodia e testo che risulta essere, strofa dopo strofa, una esplorazione quasi empirica del sentimento del dolore. È una sequenza di immagini che hanno il lutto come tema centrale, ma termina privo di giudizio, è una declinazione, o semplicemente lo esorcizza cantandolo. Che per una band di Seattle, nata negli anni novanta, è un signor passo avanti, fidatevi.

Ma i ragazzi si stanno perdendo. C’era un filo all’inizio, un’intenzione, un messaggio. Lo ritroviamo in Retrograde. Fatte le nostre considerazioni, esplorato il mondo e osservata la situazione è il momento di agire. È un climax, che termina con un’immagine quasi biblica: la folla, destata, ha il rumore del tuono. Gli strumenti in coda diventano un’onda, il pezzo di gonfia, diventa monumentale, quasi orchestrale.

E poi arriva lei.

Mi aveva lasciato stordito a Firenze nel 2019. La aspettavo in Gigaton per tenerla con me e poterla consumare. Ma qui, come capita nei grandi dischi, la grande canzone diventa qualcosa di ancora più grande se arriva dopo undici brani. L’ultima canzone, dopo undici album. E poi saranno ascolti infiniti. E poi sarà attesa per i live.
Questo ultimo pezzo, fatto di organo a pompa, voce, un contrappunto, un Cameron ispirato e assenza di chitarre, sembra ancora di più una preghiera laica. Un’invocazione che chiude le tematiche del disco: il futuro, individuale e collettivo, i cambiamenti climatici, il risveglio delle coscienze, l’essere umano nella sua consapevole imperfezione.

Chiude l’album più lungo della storia della band.

Ascoltarlo durante una pandemia globale, è detonante.

Ha catturato lo spirito del tempo, come se il disco fosse un manuale di istruzioni per momenti bui, che, dicono i chiaroveggenti, sono inevitabili.

E allora “save your predictions and burn your assumptions”. Tabula rasa, spazio all’umanesimo dei Pearl Jam. 

 

Pearl Jam

Gigaton

Monkeywrench Records

 

Andrea Riscossa

Deap Lips “Deap Lips” (Cooking Vinyl, 2020)

Una mia vicina di casa aveva un’adorabile dogue de bordeaux.
Era bella, intelligente, stranamente sana (la quadrupede, suvvia). Un bassotto di un amico, sfidando leggi di fisica e natura, riuscì a donarle il proprio patrimonio genetico. I due proprietari decisero di occuparsi dei cuccioli, speranzosi che l’incrocio dei due portasse a un nuovo standard di razza.
Bene.
Dall’alto dei miei studi umanistici posso affermare con assoluta certezza che la genetica segue solo una legge certa, quella di Murphy. Che, vi ricordo, come principio primo recita: “Se qualcosa può andar male, lo farà”.
Fatta questa doverosa premessa e fugato ogni dubbio che la metafora canina sia casuale e non alluda alla qualità delle band di cui parleremo a breve, dovrei e vorrei raccontarvi la storia di un progetto, nato nel 2016 e che oggi vede la luce.
Partiamo dal principio. All’angolo rosso abbiamo le Deap Vally, al secolo Lindsey Troy e Julie Edwards, powerduo femminile piuttosto ruvido che vive in uno stato di tour infinito (hanno fatto da spalla a Muse, Queens of the Stone Age, Red Hot Chili Peppers, passando da Glastonbury al Bonnaroo), mentre all’angolo blu troviamo i pluricampioni The Flaming Lips, vincitori di tre Grammy, con alle spalle qualche milione di dischi venduti in giro per il mondo, portatori sani di psichedelia d’antan, con un brutto problema alla capacità di sintesi quando si tratta di titoli e autori di live pirotecnici. Nel loro palmares spaziano da collaborazioni con Beck, Nick Cave e Miley Cyrus fino all’OST di SpongeBob, il film. 
I gruppi si conoscono nel 2016 ed inizia un lungo corteggiamento fatto di sessioni live in Oklahoma, casa dei Flaming, e di parti registrate a distanza, dato che le due ragazze sono di Los Angeles. Le tracce da tre diventano sei, nasce la voglia di realizzare un disco e così, nel marzo 2020 vede la luce Deap Lips, album di esordio omonimo nato dall’unione dei due gruppi di cui sopra.
Ora, tralasciando per un attimo il fatto del nome (immagino il brain storm che l’ha generata, ma neanche i Monthy Python), questa nuova fusione, questo scambio musical-genetico ha portato a un salto di qualità nella tecnica di ibridazione tra gruppi?
Murphy direbbe no. Io dico che se vi piacciono i dogue de bordeaux alti venti centimetri e/o amate molto i cani state sereni, il prodotto finale vi piacerà. Se invece avete aspettative molto alte, purtroppo ci sono cattive nuove.
Fin dalla prima traccia, Home Thru Hell, si palesa il paradigma dell’album: entrambi i gruppi si snaturano in funzione dell’altro, ed è un peccato, perché le californiane sanno suonare davvero bene quando si tratta di farlo entro certi confini di genere, e gli altri, beh, gli altri sono dei giganti. I Flaming Lips, ad esclusione di Hope Hell High e Motherfuckers Got to Go, prendono in mano la scena, entrando e uscendo dalle trame sonore, ma restando, di fatto, il telaio che regge il tutto, se mi passate la metafora a tappeto. Anzi, il disco intero, col passare delle tracce, sembra scivolare sempre più verso una contaminazione psichedelica che prende il sopravvento sulla parte più garage e blues del duo losangelino.
Ripeto, è un peccato, perché le premesse parevano ottime. All’atto pratico l’ascolto risulta ripetitivo, a tratti forzato, soprattutto nel continuo inserimento di parti e suoni tipicamente “flamingosi”, che inquinano o spezzano onesti riff di chitarra e tentativi di costruire tracce più classiche e meno barocche.
Rimandati, quindi.
Gli ibridi, del resto, non sempre riescono bene al primo tentativo.

 

Deap Lips

Deap Lips

Cooking Vinyl

 

Andrea Riscossa

 

[Video] Pearl Jam “Dance of the Clairvoyants”

Sì, sì. Anzi.

Sisì. 

Oggi sarà la giornata del sisì.
Petrarca l’avrebbe scritta meglio, non so, una cosa del tipo s’acquetino le tempeste dell’animo; taccia il mondo, e la fortuna non più m’assordi.
Già risvegliarsi con Petrarca in testa e con l’ansia di ritagliarsi un quarto d’ora fuori dal mondo è segno di grave astoricità, ma dopo i quaranta ho deciso che mi posso concedere questi lussi sfrenati.

Ore sette e cinquanta, otto messaggi già incassati e altrettante sentenze, sicuro. Ma io oggi ho un sisì in più. Un’arma di separazione di massa, io e il mondo, io e il vaso di Pandora da cui, già so, stanno uscendo giudizi pesanti come pietre. Non importa l’esito, importa il peso. Che dai guelfi e ghibellini ci siamo evoluti poco, è nella natura delle pose.

Quindi, sisì. A noi due.

Mi metto su le cuffie, quelle belle, quelle che uso sei volte all’anno (mannaggia), e sprofondo nell’ascolto lasciando acceso un senso solo.

Primo ascolto, sospendo il giudizio, come dopo un primo boccone di un piatto mai assaggiato. Come dopo aver lasciato il mignolo del piede sullo stokke della bambina, quell’attimo prima dell’arrivo del dolore, ultima coccola ai neuroni. Poi capirò, poi lascerò che il mio cranio elabori un qualcosa. O forse no, perché ci sono pezzi di Vitalogy che ancora non riesco a decifrare ma che canto a squarciagola in auto, devastando il volante e spostando tappetini.

Ore dodici. Non succede, il giudizio non percola fino alla pancia, rimane su, nel suo mondo di idee e non prende forma. Mi fermo sul testo, e davvero m-i  f-e-r-m-o. Sarà perché ci vedo echi di canzoni che amo, sarà perché descrivere stati dell’essere così è come mettere Proust davanti a un granello di polvere e lanciare cinque euro sul pavimento per scommessa. Li hai già persi. Bastano due immagini e il mondo è costruito, bastano due sentenze e il gusto lo ritrovo. 

Pearl Jam, pianeta terra, 2020. È una storia di evoluzione (baby), dal velluto a coste al riscaldamento globale il passo non è breve ed è giusto che non lo sia. E ancora più giusto sarà perdere amici, fans, amanti, integralisti, nostalgici. Che avranno sempre un pezzo di scia da ammirare, che, come giusto che sia, potranno sempre dire la loro. Io però la suddetta scia l’ho vista trent’anni fa e non l’ho mai persa di vista, e mi piace continuare a seguirla, magari strizzando un po’ di più gli occhi, che, con l’età, mi sto ciecando. Perché, per me, questo è. Sono le nostre vite, sotto il loro palco dagli anni novanta. Lo prendo per uno specchio, che riflette sempre la realtà, in modo molto più onesto di quanto facciano i nostri occhi davanti all’immagine riflessa. Per me loro questo sono. Sono album che diventano ere geologiche, sono canzoni che sfumano in ricordi, sono colonna sonora di un film davvero personale. Quindi, buon giudizio a tutti, basta che ne abbiate uno che a voi sembri sensato. Ci si rivede a fine marzo.

Oggi ho nuove note dei miei amati, sempre presenti, Pearl Jam.

E tutto il resto oggi è, semplicemente, sisì.

 

 

 

Andrea Riscossa

Yann Tiersen “Portrait” (Mute Records, 2019)

O no! It is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wand‘ring bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.

                                                                                W. Shakespeare

Sarà anche vero che siamo attratti dagli opposti, ma è ancora più vero che per creare, per vivere, per sentirci ispirati cerchiamo la metafora autoriferita, cerchiamo un luogo, un simbolo, un totem che ci garantisca che quello che vediamo, per come lo vediamo, sia per sempre in sintonia col nostro sentire. Una sorta di golem a protezione della nostra Musa, una trottola in Inception, un luogo sacro, pagano — sia chiaro —, che sia recinto per la vita.

Un faro, un’isola a ovest della Bretagna, l’estremo confine occidentale, per di più circondato dal mare, che diventa doppiamente finis terrae, uno di quei luoghi dove potevano vivere selkie e banshee, un luogo dove il grande faro sfida l’ Oceano Atlantico e si prende cura degli uomini in mare.

Sull’isola di Ouessant (o Ushant) un uomo ha deciso di vivere e di scrivere musica. A giudicare dalla sua storia, fatta di studi classici e di amore per il punk, e ancor più a giudicare dalla sua opera, viene da pensare che abbia, in realtà, deciso di mettere in note la terra che ha scelto. E i suoi cieli, le sue nebbie, i suoi verdi. Del resto ci sono incontri fortuiti che cambiano storie e destini. E chissà quale sarebbe potuta essere la storia di Yann Tiersen, se i suoi occhi non si fossero posati sul grande faro di Ushant. Un uomo che a tredici anni poteva già definirsi polistrumentista, che abbraccia la musica degli Stooges e dei Joy Division, che poi si perde e decide di fare da solo, in una stanza, con un registratore a otto tracce, sinth e drum machine.

E quello che ne nasce è ispirato al grande classico Freaks di Tod Browning del 1932 e ai fantasmi giapponesi di Aya no Tsuzumi. Suona cinquanta strumenti, il nostro protagonista, ma ha in testa un mare burrascoso, e trova la pace solo nel 1998, quando riesce a mettere su pentagramma il suo demone e lo ingabbia, lo esorcizza, lo chiama per nome. Un terzo album chiamato Le Phare, e una canzone, Monochrome che arriva alla cinquantesima posizione della classifica francese. Iniziano i tour, una collaborazione con i Noir Désire, il successo mondiale grazie a Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain nel 2001. Il resto è storia, nuove colonne sonore, nuovi tour con orchestra e mille collaborazioni.

Questo album, che andrebbe ascoltato solo nell’edizione in vinile (e vi spiegherò il perché), è la summa di questa strana storia e di questo fortunato incontro, tra un uomo e il suo faro.

Yann Tiersen sulla sua isola ha costruito uno studio di registrazione, battezzato The Eskal, in cui accoglie i numerosi artisti che hanno partecipato a questo suo ultimo progetto. Di fatto questo Portrait è un’antologia dei pezzi più noti e amati del compositore bretone. Ma Tiersen ha voluto rivisitare ogni traccia, e le ha reinterpretate tutte, ibridandole con idee nuove, lasciando che non ingiallissero col tempo. Ha così chiamato alcuni amici a lavorare con lui: Gruff Rhys dei Super Furry Animals, John Grant, Stephen O’Malley dei Sunn O))), Blonde Redhead.

È un’opera volta a riappropriarsi della musica nata dalla propria storia e immaginazione, che ha vissuto altre storie, che a volte è stata fraintesa. È una setlist rivisitata e che crea un nuovo contesto e una nuova chiave di lettura. Ma è ancora di più: l’intero album è registrato in presa diretta su nastro e inciso su vinile senza passaggi in digitale. Un vero album analogico, suonato con spirito da artigiani, da musicisti di strada, un po’ troubadour un po’ esploratori, sospesi tra minimalismo e malinconia. Del resto Tiersen in passato è stato accostato a Erik Satie e al Teatro dell’Assurdo.

Quest’opera, così definita a livello temporale, trova una sua dimensione anche spaziale, geografica: sembra la colonna sonora di un isola con faro, più che di una storia d’amore. È un lungo piano sequenza pieno di spiriti inquieti, di note che escono da pianoforti giocattolo, da strumenti improvvisati. E un suono antico e solo apparentemente semplice, in realtà è quasi sempre portatore di un lato nascosto e, spesso, oscuro.

E’ come il suo faro, Yann Tiersen. Calmo, osservatore, impassibile, testimone di eventi, di storie, di maree. E, come il faro di Shakespeare, sovrasta le tempeste e non vacilla mai.

 

Yann Tiersen

Portrait

Mute Records, 2019

 

Andrea Riscossa

 

William Patrick Corgan “Cotillions” (Reprise Records, 2019)

There’s something rotten in the (United) States of America

 

Nel 1978 William Trogdon, un professore universitario di origini native americane, perde il lavoro, la moglie e la voglia di vivere. Quale migliore inizio per una storia americana? Cambia nome, diventa William Least Heat-Moon, prende il furgone e inizia un viaggio alla ricerca di se stesso, lungo le blue highways, le strade provinciali americane. E’ un’immersione in una humanitas dimenticata, che salva l’uomo attraverso l’empatia e i chilometri, come se una dinamo fosse collegata a una batteria affamata di storie. Ne nascerà un libro, Blue Highways: A Journey into America, ormai diventato un classico. 

È un’attitudine tutta statunitense quella di partire alla ricerca delle radici, umane e culturali, in momenti di crisi. Un popolo ancorato ad un inspiegabile ottimismo, come se nello spostare continuamente la linea dell’orizzonte si potesse generare futuro.
Cosa può spingere un’icona del rock come William Patrick Corgan a prendere la prima palandrana nera, la sua altrettanto iconica chitarra e partire verso sud?
C’è una mitologia, lontana dalle nostre europee, che ancora vive nelle strade blu. C’è una sottile e quasi invisibile luce che segna le vie dei Canti inseguite da tanti artisti d’oltreoceano.

E questo di Corgan è il quarto album del 2019 che recensisco e che va a sciacquare i panni in Nashville, Tennessee.

Stati Uniti in crisi, sicuramente più morale e identitaria che economica, significa per molti avvertire la necessità di cercare “altro” che non siano i tweet di Trump e il gorgoglio di fondo della pancia del paese che offusca tutto il resto. L’esempio più lampante è il viaggio di Springsteen in Western Stars,  ma ci sono altri artisti che hanno iniziato una ricerca personale sulla musica delle radici, quasi che nella tradizione ci possa essere una chiave di lettura. O più semplicemente il country, il bluegrass, il genere Americana, sono statutari, tanto quanto la costituzione, sono colonne, sono la loro mitologia, utile in tempi di cambiamento poco gradito.

E così abbiamo per le mani un album davvero particolare, perché tutto avrei potuto pensare (soprattutto a metà anni novanta), tranne la possibilità che il frontman degli Smashing Pumpkins si dedicasse ad un’opera in cui violini e steel guitar la fan da padrone. “Un atto d’amore” lo ha definito lui stesso sui social. Di fatto è il prodotto di un viaggio verso Ovest, la frontiera per eccellenza, l’unico punto cardinale che è diventato genere. Thirty Days è il titolo del viaggio/documentario che ha visto la nascita di Cotillions, ultima fatica solista del nostro Billy.

Non è il Nebraska di Springsteen, né una radicalizzazione di una tendenza come può essere stato per altri in precedenza. Mi è parso un genuino gesto di assorbimento della cultura locale durante il viaggio, un utilizzo strumentale di un atteggiamento mentale che dovrebbe essere la quintessenza del viaggiatore. Un Chatwin con la chitarra, vestito di umiltà intellettuale, perché occorre sempre ricordarsi chi è Mr. Corgan. E così, tra esplorazione e filologia musicale, galleggiando tra Steinbeck e Woody Guthrie, il pianoforte che dominò i precedenti lavori solisti cede il passo a chitarra e archi, segnando un clamoroso cambio di genere. I testi rimangono densi, incredibilmente evocativi per immagini, bastano poche pennellate per definire bene i confini e i riferimenti.

E’ un album lungo, diciassette tracce e quasi un’ora di musica, che nelle prime otto canzoni presenta tutto quello che è l’essenza del disco. C’è la morte di To Scatter One’s Own, la crisi in Hard Times, la strada nel deserto della titletrack Cotillions. I generi si alternano, ma raramente sentiremo echi degli Smashing, se non in Fragile, The Spark, classica voce e chitarra, che pare rimasta incastrata tra i due cd di Mellon Collie.

La seconda parte dell’album è meno a fuoco. E credo sia dovuto al fatto che questo “atto d’amore” non abbia subito grandi revisioni e sia di fondo rimasto un atto genuino e viscerale. E forse è giusto così, perché in un lungo viaggio, iniziato per ritrovare un’essenza musicale e umana, dopo un po’ idee e chilometri si confondono. I pensieri si impolverano, scorrono via veloci, si mescolano al paesaggio che scorre a lato strada, si sovrappone al parallasse dell’orizzonte. E allora mi piace, davvero, che quest’album scivoli via nell’ultima parte, e se ne vada, lasciando il silenzio e i pensieri e una frontiera da esplorare, domani.

 

William Patrick Corgan

Cotillions

Reprise Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Sunset Sons “Blood Rush Déjà Vu” (Bad Influence, 2019)

Esiste un luogo in Europa, una lunga striscia di terra bagnata dall’Atlantico, che è il paradiso dei surfisti del Vecchio Continente. Verso la fine degli anni novanta la mia grossa tavolona bianca e viola si muoveva lungo l’asse che da Hossegor, Francia, portava fino a Zarautz, Spagna, passando per Biarritz e San Sebastian. Erano anni spensierati, in cui il surf regalava alla storia della musica personaggi come Eddie Vedder e Anthony Kiedis, film come Point Break, e io trovavo la pace cosmica in un’adolescenza, ovviamente, travagliata.

Leggere che i Sunset Sons, ragazzoni di madrelingua inglese (un po’ aussie e un po’ brit), hanno preso casa proprio a Hossegor, mi ha subito incuriosito. Anzi, a dirla tutta hanno una storia degna di una pinta davanti a un caminetto. Comodi, per favore.
Una sera di una calda estate il batterista Jed Laidlaw incontra un amico maestro di tavola in un bar, Le Surfing (ma guarda un po’), dove sta tenendo un personalissimo show nientemeno che il lavapiatti. Il giovine però è dotato e viene notato. E strappato a un destino crudele e privo di gloria. Al secolo Rory Williams, entra in un mondo fatto di adrenalina e di musica. I due, insieme a Robin Windram (chitarra) and Pete Harper (basso), collezionano date nei posti più incredibili, macinano chilometri e concerti, tutto per finanziarsi una endless summer all’europea: in inverno si stabiliscono in Val d’Isere, per la stagione di snowboard, in estate tornano a ovest, a Hossegor, per il surf. Scendono dalle tavole per salire sui palchi e viceversa e questo ha, come effetto secondario, che diventano piuttosto bravi e nel 2016 esce un primo disco, Very Rarely Say Die, che riscuote un buon successo. Iniziano a viaggiare più per la musica che per lo sport e lentamente si trasformano in una band con alle spalle qualcosa come 250 live. Aprono i concerti degli Imagine Dragons e dei Nothing But Thieves, e poi capita anche che il materiale prodotto tra una data e una uscita in mare porti a produrre un secondo album, Blood Rush Déjà Vu.

Musicalmente sono molto affini alle band con cui hanno collaborato, anche se i Kings of Leon rimangono il riferimento più chiaro e evidente.
È un disco malinconico, che guarda al passato, soprattutto alle relazioni che finiscono , e che ci regala qualche momento di affettuosa redenzione e gioiosa nostalgia. Il batterista Laidlaw lo inquadra quasi in modo Felliniano: “In the summertime the population quadruples and it’s just the happiest place. But like a lot of coastal towns, in winter time it’s dark, rainy and there’s a real sense of isolation.”
Questi i confini dell’immaginario dei nostri ragazzoni. 

Il disco nasce inizialmente in uno studio creato nella casa del cantante Williams, dove, nell’arco di sei mesi, vengono composte un numero incredibile di canzoni, pare, con altrettanti stili diversi. I quattro hanno radici diverse e culture musicali che vanno “accordate”. Entrano in scena quindi Catherine Marks ( producer di Wolf Alice, The Amazons) e un nuovo chitarrista, Henry Eastham, e l’album prende forma, identità e infine vede la luce.

È un lavoro più maturo e più ricco, rispetto all’album di esordio. Il singolo che precede l’uscita dell’LP, Heroes, è in questo senso paradigmatico. E’ il frutto di una collaborazione tra i vari membri della band, ma anche delle ore spese sul palco nelle session live. C’è più gusto e mestiere e qualche astuzia di postproduzione.
Personal giudizio: band come questa vanno valutate in quello che sanno fare meglio, ossia stare su un palco, perché sono nate in un bar di surfisti e non in conservatorio, perché è gente abituata alle onde, alla neve, alla buona birra. Quindi, dopo aver apprezzato il disco, godeteveli dal vivo, quella è la vera dimensione dei Sunset Sons. 

 

Sunset Sons

Blood Rush Déjà Vu

Bad Influence, 2019

 

Andrea Riscossa

Sleepwait “Sagittarius A*” (Self Released, 2019)

L’Album de Loin

 

XII secolo, Francia.
Il poeta e trovatore Jaufré Rudel regala al mondo uno dei primi componimenti su un topos che arriverà intatto, per forza evocativa e diffusione di esperienza, fino ai nostri giorni. Lui lo chiama L’Amour de Loin, ovvero L’Amore di Lontano, quello che un quattordicenne qualunque esperimenta a settembre, quando deve separarsi dalla conquista estiva, sfortunatamente domiciliata in altra regione.

La lontananza, in amore, è un’arma ben affilata. E’ una sana palestra per l’esplorazione del sentimento nella sua essenza, ripulito e alleggerito dal peso di quotidianità, dispiaceri, fatiche. L’assenza è meditazione, la negazione diventa sublimazione.

Partiamo da qui, per parlare di un altro tipo di esperienza, nato e vissuto in e con lontananza. Un progetto che prende vita nel 2015, quando un biologo evoluzionista, Filippo Bravi, e un ingegnere meccanico, Mauro Chiulli, si trovano, rispondendo a un annuncio sul web. Inizia una collaborazione a distanza, di Udine il primo, a Bologna il secondo, che vede i Nostri lavorare al loro primo disco per quattro lunghi anni. La lontananza tra i due però è solo geografica. Hanno un terreno comune, che non ha fisicità e che si nutre di passioni e culture condivise e che è possibile rendere materico, con devozione, con lavoro, con volontà. La stessa forza che Rudel profuse nel raccontare quell’amore lontano, che lui raggiungerà partecipando alla II crociata (e, ovviamente, morendo tra le braccia dell’amata, ça va sans dire).

Qui non ci sono crociate, ma un lavoro ben confezionato, con strumenti e liriche coerenti rispetto ai riferimenti citati dagli Sleepwait nella presentazione dell’album, Tool, Mastodon, Alice in Chains. Ecco, questo disco ha il pregio di essere figlio di quel gusto, di quelle linee matematiche e quell’iconografia musicale. Ha però il difetto di essere in qualche modo chiuso in confini fin troppo definiti. Le prime due tracce ci introducono molto bene in questa strana dicotomia interna, perché se per un lato, per come è stato costruito, questo disco è un piccolo miracolo, dall’altro è a fuoco da subito. Sia chiaro, può essere un pregio, ma il gioco dei riferimenti è fin troppo palese, io amo l’ellissi.

La terza traccia è già la title track, e ci regala una fotografia piuttosto precisa di quello che poi è l’humus cui attinge l’intero lavoro: richiami alle ritmiche dei Tool, anche a livello di cambi e passaggi all’interno dello stesso pezzo. Un sapiente gioco di altalena tra l’aggro e il progressive, giocando sulle sfumature, arpeggi che sono promesse non mantenute e liquidissimi giri di basso. Il cantato passa dalla litania al gridato, giocando a nascondino tra livelli ed emotività. Maynard James Keenan docet. 

Poi accade che gli Sleepwait, dichiarati gli intenti e messe le carte in tavola, inizino a sciogliersi, come fosse un live. Curioso per un lavoro in remoto, però la mia pancia dice che le tre tracce successive, da Virgilio a Istanbul, sono le più interessanti, perché hanno più variazioni, perché sembrano aprire il ventaglio di citazioni. Giuro, ci ho sentito Tyler Bates della colonna sonora di 300.

Il lavoro prosegue poi tornando sui binari cari a Tool, A Perfect Circle, Kyuss. Il disco si appesantisce nella costruzione dei brani, forse si avvita sull’esposizione. Questo però spiega anche perché lavori come Fear Inoculum difficilmente verranno scelti per accompagnarvi in ascensore. Salvo non siate in un condominio di Ballardiana memoria.

Scrivere a distanza un album è impresa ardua, soprattutto per un’opera prima. Ai due autori il merito di aver impiegato il giusto tempo e la necessaria pazienza per confezionare un album con riferimenti chiari e di indiscutibile coerenza. La qualità c’è, si sente, si ascolta, si vede anche, nel gioco di immagini che evocano i testi. 

 

Sleepwait

Sagittarius A*

Self Released, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Pixies “Beneath the Eyrie” (BMG/Infectious Music, 2019)

Il nano sulle spalle di un Gigantic (no, dai, si può?)

 

Immaginate di partecipare a un’entusiasmante raduno del liceo. Trent’anni di distanza dalla maturità, da quelle pance piatte, da quegli sguardi disincantati sulla realtà, sul futuro. Dopo aver rapidamente constatato che le carriere dei vostri ex compagni sono decollate, esattamente come i loro capelli, vi rendete conto che siete detentori di una merce rara, preziosa, roba che non si compra perché viene da lontano e deve maturare, per valere. Portate con orgoglio coerenza e uno sguardo sul mondo rimasto intatto, un vocabolario aggiornato ma fedele a un’idea, un messaggio che ha attraversato anni, mode, stili e correnti e che adesso, più che mai, vanta una matura e dignitosissima indipendenza. Poco importa se avete appena parcheggiato un maggiolone semidiroccato, rigando il Mercedes del vostro ex compagno di banco, e se avete – inavvertitamente – agganciato col vostro orologio le extensions dell’ex miss liceo. Dio, siete i Pixies, cosa diavolo vi può scalfire?
L’integrità, però, costa. E i Pixies il conto lo hanno pagato molto presto, forse perché hanno preso un’onda prima di tanti altri gruppi, che hanno poi seguito la scia. Kurt Cobain rivelò di essere un fan e di ispirarsi a loro, Eddie Vedder li ha sempre indicati come esempio di libertà di espressione e, recentemente ha inserito Surfer Rosa nell’elenco dei dischi preferiti.
Per scrivere del nuovo disco dei Pixies ho fatto un festoso bagno in quel brodo primordiale che fu la scena indipendente americana di fine anni ottanta. Band seminali che meriterebbero un capitolo nella storia della musica: dai Dinosaur Jr. ai Fugazi fino ai Sonic Youth. Perché Beneath the Eyrie è un ritorno al passato, anzi, è un disco che riporta a un ambiente familiare. E’ come rientrare nella stanza della propria adolescenza, ma con qualche anno sulle spalle.
E allora largo a un backbeat fatto come si deve, largo alla libertà e alla fantasia, largo al gotico, come immaginario e al barocco, come stile. Registrato al Dreamland Studio, una ex chiesa, è stato definito dallo stesso Franck Black come il loro Blair Witch, un disco infestato di streghe, mostri, morte. Ma i temi stridono con le melodie, che ciondolano tra punkabillie, surf rock e proto-grunge. E’ come ritrovarsi a tagliare il prato di casa una domenica mattina di giugno. Ma in un film di Tim Burton. Come se a ballare con John Travolta in Pulp Fiction ci fosse la sposa cadavere. Ok, siamo a fuoco.
Del resto è dalla frizione che nasce parte della grandezza dei Pixies, da quel cantato a volte isterico che tira per i capelli le chitarre, da quei bassi subacquei che introducono chi ascolta in mondi inquietanti e pericolosi. Sono ritornelli e cori grandiosi, ma che raccontano weird things. Capita così che il primo singolo estratto, Graveyard Hill, attraverso streghe, morte e maledizioni ci riporti a casa Pixies, interno 22, soprattutto se la consideriamo un elemento di una combo, un dinamico duo, con la successiva Catfish Kate, un delirante racconto di una lotta mortale tra una tal Kate e un pescegatto, accompagnato da riff golosi, un basso narrante e rime baciate.
Il disco si dipana così tra storie cupi, gotiche, costruite su testi a volte ermetici, a volte surreali. Citazione per merito alla bassista Lenchantin, autrice della doppietta Long Rider e Los Surfer Muertos, pezzi dedicati a un’amica surfista morta in mare a Dana Point. Il surf e le sue chitarre sono prepotenti in questo lavoro, e se non sono protagoniste sono eco, come nella splendida St. Nazaire.
Impossibile sostenere che siano tornati i vecchi Pixies, sicuramente però Beneath the Eyrie è un ottimo album, che riporta indietro l’orologio a quel glorioso periodo che dal college rock ci portò all’esplosione del grunge. Non è Surfer Rosa e non è Doolittle, ma è una scusa perfetta per riappropriarsi di una fetta di storia della musica (e personale) lasciata in naftalina senza ragione. 

Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane”, scriveva Giovanni di Salisbury.
Leggasi: la grandezza del passato ci sorregge e ci fa vedere più lontano, oltre ad elevarci. Questo disco poggia sulla storia dei Pixies per porsi (forse), più in alto di quanto potrebbe, ma sta lassù perché è coerente col passato, perché è un’ottima promessa per il futuro, perché è dannatamente ben suonato.

 

Pixies

Beneath the Eyrie

BMG/Infectious Music, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Tool “Fear Inoculum” (RCA Records, 2019)

Anni novanta, Torino

Una Opel Corsa rossa percorre strade lastricate di pavé, umido di nebbia. Si è appena concluso un dialogo quasi ritualizzato tra due postadolescenti, universitari per vocazione, amici, e molto, anche se di gusti musicali assai lontani. Uno, il sottoscritto, ha abbracciato il grunge, ha già pianto i suoi primi martiri e ha definito i confini delle sue esplorazioni artistiche. L’altro, chiamiamolo Elmer per rispetto della privacy, è il Babbo Natale del mio subconscio musicale. Lui esplora, insaziabile golosone culturale, e poi pontifica. Ah, quanto pontificava. C’era terreno comune, anche perché i generi, allora, si incrociavano, si imbastardivano, si mescolavano in modo programmatico. Erano gli anni in cui in quella Opel si passava dai Primus a Ummagumma, dai Fishbone a Vitalogy. E poi Elmer si bloccava quando arrivavano loro. E si blocca ancora adesso, come i cani di Up davanti a uno scoiattolo, quando qualcuno cita i Tool. Il suo sguardosi perde all’orizzonte, la bocca pende di lato, a trattenere un ricordo appeso all’acquolina. Il suo neurone preposto all’estasi musicale è entrato in forte sintonia con quello dedicato alla goduria culturale. Si, perché Elmer è affascinato dalla cultura, quella alta, quella che segna un solco tra chi la comprende e chi no. Quella che anche Maynard James Keenan, cantante dei Tool, usa come uno scudo e come uno strumento, e che, inevitabilmente, sottintende un discreto livello di misantropia. Elmer vede nei Tool non un poeta-vate, vede l’incarnazione, o meglio l’unione, un po’ pornografica e un po’ magniloquente, tra una musica potente, violenta, stridente e testi e citazioni alte, a volte altissime.
Da Jung a Fibonacci, i substrati culturali nei loro testi sono tanti quanti i cambi di ritmo. La ricchezza di riferimenti, unita alla sovrabbondanza musicale e alla continua ibridazione di generi e stili, sono i tratti che definiscono la loro essenza.

Per questo l’acquolina. Per questo Elmer si bloccava.
I fan dei Tool sono un esercito, per numero e compattezza. Sono devoti ai mille echi e alle reminiscenze generate dalle cattedrali sonore dai quattro californiani.
E hanno atteso tredici anni.

Fear Inoculum è il quinto lavoro in studio, il quinto in quasi trent’anni di carriera e arriva dopo un’era geologica, se pensiamo in termini musicali e di mercato. L’hype generato da quello che, probabilmente, sarà un successo mondiale rischia di inquinare un giudizio sereno e oggettivo su questo lavoro.
Non si critica la parusia, la si ammira in estasi silenziosa.
Magari con le cuffie.

Premessa: le tracce sono sette. Tutte superano abbondantemente i dieci minuti, tranne Chocolate Chip Trip, delirio strumentale. Siamo quindi davanti a un’opera complessa, da comprendere col tempo, da gustare con la dovuta e rispettosa attenzione.

L’album inizia con la title track, ed è subito distillato di Tool, nel coro:

Exhale, expel
Recast my tale
Weave my allegorical elegy

L’elegia greca prevedeva che gli spettatori fossero esortati dall’io narrante a immedesimarsi. E’ una overture in cui si cita la mitosi. È il manifesto di un ritorno, sono le chiavi per decifrare quanto accadrà successivamente. Ma è anche un rassicurante primo capitolo di una saga che rimane coerente con il proprio passato.
Pneuma è la seconda traccia e nuovamente siamo davanti a richiami arcaici e alti. Il soffio vitale, profetico nella tradizione ebraica, è qui usato per destarci, per svegliarci dal sonno della mente. Magari durato tredici anni. Il pezzo è lento, trascinato, quasi recitato, sembra accompagnare il lento incedere del Maynard-vate nella caverna di platonica memoria, per liberarci dal mondo delle ombre e rivelarci il Vero.
La triade dei tre pezzi successivi (sia chiaro, mia personale interpretazione), è il fallimento dell’invocazione precedente, una lenta presa di coscienza dell’impossibilità di vittoria per il guerriero/uomo. Siamo dalle parti dello stoicismo, in Invincible, terzo brano. Prosegue il tema (anche musicale, i due pezzi sono quasi gemelli) in Descendingma la consapevolezza della nostra debolezza è ormai dato di fatto, si prega:

Mitigate our ruin
Call us all to arms and order

Ma arriva la follia di Culling Voices, in cui noi stessi siamo gli artefici dell’inganno in cui viviamo. Follia che ci porterà alla consapevolezza del trucco, abile e mirabile, autoindotto e autocastrante. È 7empest, ultimo pezzo, che ci lascia con la promessa che la tempesta arriverà, sia essa ekpýrosis stoica, fatta di fuoco e rigenerazione, sia essa apocalisse e fine del tempo.
Non c’è messaggio salvifico, c’è una traccia iniziale che è labile e serpeggia tra richiami e labirinti caleidoscopici.
È la meraviglia di trovarsi di fronte a un testo, meglio un ipertesto, profondo e dalle molteplici letture. E non solo. I Tool suonano immagini, cantano universi paralleli, montano musica. Sono dissonanti armonie, sono ordine dalla frizione. È un’opera enciclopedica, analitica, che parte da una costruzione estremamente razionale e iniziatica per arrivare a sentimenti ombelicali. Come un caro e vecchio film di Kubrick.
Lasciate che i Tool vi portino via e vi elevino, ne vale la pena. Altrimenti potreste aspettare altri tredici anni.

 

Tool

Fear Inoculum

RCA Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Duff McKagan “Tenderness” (Universal Music Enterprises, 2019)

Nel 1956 esce nelle sale Sentieri Selvaggi di John Ford. Il film western classico muore nella scena finale, quando il buon John Wayne indugia davanti alla porta di casa e rimane sul portico, poi si gira e se ne va. Il futuro, per lui, sta nel passato, il mondo che sta in quella casa non gli appartiene. Il porch, il portico, è terra di nessuno, tra esterno e interno, tra passato e futuro, tra noto e ignoto.
Il portico è quello di Springsteen di Thunder Road, un luogo che anticipa la fuga di due ragazzi, alla ricerca della libertà e del futuro.
Di Porch cantano i Pearl Jam e nel loro portico suonano e accolgono gli amici The Black Keys in quel di Nashville.

La prima immagine che mi ha raggiunto ascoltando questo album è stata quella di un McKagan in canottiera, su un dondolo con una steel guitar sulle gambe, due birre fresche su un tavolino sotto un portico a Nashville, Tennessee.

E’ un disco strano, questo Tenderness, sembra un luogo da cui osservare la realtà, sembra un tempo in cui condividere un’idea o una visione sia un dovere, oltre che un’occasione. Perché è un atto sincero, di ricerca, di scoperta, di condivisione.

Quella di Duff McKagan è una delle più belle storie di redenzione che la storia del rock ci abbia regalato. E’ una storia fatta di città, di inferni personali, di resilienze, di cicatrici. 

Qualcosa di particolare, di magico, di unico la capitale dello stato di Washington deve pur averlo. McKagan nasce a Seattle da una famiglia irlandese, lui, ultimo di otto figli, iniziato alla musica dal fratello Bruce. Il punk, in ogni sua declinazione, è il primo genere con cui Duff si confronta, suonando di tutto, dalla batteria alla chitarra. Ma è l’humus della città, il fermento musicale che ribolle nei quartieri della musica che forma il giovane McKagan. Nel 1983 parte per Los Angeles, quattro anni dopo uscirà Appetite for Destruction, il resto è storia della musica. Fin qui, una parabola mirabolante, ma nel 1994 viene ricoverato d’urgenza a Seattle, con una pancreatite gravissima. I medici non gli danno molti mesi di vita, nel caso avesse continuato a bere. E qui, proprio in questo punto, abbiamo il nostro colpo di scena. Duff comprende, la sua vita svolta di colpo. Si ripulisce, e inizia un percorso di vita e di carriera completamente nuovo e, dati i presupposti, insperato. Crea diversi gruppi, suona con musicisti provenienti da mezzo continente, collabora con Stone Gossard, Scott Weiland, con gli Alice in Chains e i Janes’s Addiction. Nel mentre scrive libri, si dedica allo sport e alle arti marziali. Duff McKagan è nato due volte, e dopo la seconda ha una fame di vita insaziabile. 

Questa storia, unita a questo album, mi ha fatto arrivare a questo portico dove incontro virtualmente Duff McKagan. Mi sono accorto cosa legava l’immagine della vita di uomo a quella di un portico grazie a una reminiscenza, uno di quei collegamenti tra ricordi o neuroni che ti bloccano qualunque cosa tu stia facendo, riallineando l’universo e dando un senso, almeno a te che scrivi, a un articolo.

Baricco, in City, parla così del portico:

In definitiva – proseguì il prof. Bandini – quell’uomo e quel porch, insieme, costituiscono un’icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell’umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all’indistinto essere del semplicemente esistente.
[…]
Tutta la condizione umana è riassunta in quell’immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.

Quell’ultima frase è Tenderness. Quell’ultima frase è il senso del disco. Ma è anche la sua intenzione, la sua finalità, la sua fisicità.

Essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso è anche il “never look back” di Don’t look behind you, canzone che chiude l’album. La luce è davanti a te, stai su questo portico a suonare la chitarra, petto al mondo, spalle al passato. Il percorso compiuto da McKagan porta al rovesciamento di testi e visioni dei Guns. Dell’ira di gioventù, dell’intolleranza, del santificare le feste qui c’è poco. C’è piuttosto un osservare il mondo dai templa serena di Lucrezio, inteso come regno della conoscenza. Le esperienze hanno reso quest’uomo più forte e saggio, adesso è il momento di cantare del mondo con serena e consapevole spensieratezza.

Ecco allora Last September in cui si affronta il tema della violenza sulle donne, Parkland i cui viene trattato il dramma delle sparatorie nelle scuole e Feel, dedicata all’amico Chris Cornell, ma che, sono quasi sicuro, in fondo è per tutti gli amici persi durante il cammino, compreso quello Scott Weiland con cui ha condiviso il palco. In Feel si parla di ricordo, di amore, di rise up, e non è un caso che molto del vocabolario del disco peschi nell’immaginario springsteeniano. Del resto chi meglio e più di Springsteen ha cantato di redenzione e di resilienza? Le catene, che si spezzano, la strada come metafora tangibile del percorso verso il cambiamento. McKagan cita quasi letteralmente lo Springsteen di Darkness on the edge of town in un verso: l’originale I lost my money, I lost my wife, per Duff diventa lost my job, lost my wife, lost my way. Sempre climax verso l’inferno rimane, ma in entrambi i casi toccare il fondo è l’unico modo per battere i piedi e risalire.

Ma più che nel New Jersey, il nostro McKagan sciacqua i panni in quel di Nashville, grazie all’amico Shooter Jennings, che regala un impronta outlaw country all’intero album, che scivola via piacevolmente tra steel guitar, archi ariosi e inaspettati e sezioni di fiato degni di una big band. Il caleidoscopio dei riferimenti continua con i Rolling Stones (e quasi un primo Bowie) in Chip Away.

E’ un viaggio tra i ricordi e tra temi attuali, da cui trarre insegnamenti e massime (his mama didn’t rise a man), è un tracciato compiuto seguendo una mappa di cicatrici. Ma proprio le ferite passate sono i migliori insegnamenti, se adesso, ancora adesso, possiamo cantarne sorridendo sul portico. In fondo, quello che ci vuole, è solo un po’ più di Tenderness.

 

Duff McKagan

Tenderness

Universal Music Enterprises, 2019

 

Andrea Riscossa

Per te, Chris Cornell.

Ci sono idee che passano veloci e fai volentieri finta di non averle viste.

Ti ritrovi con gli occhi piantati sulla libreria e che poi, lentamente, vanno alla deriva verso il soffitto.

Lascia stare….

Sto smaltendo le tossine dopo il ventennale della morte di Kurt Cobain, quando un calendario interno, un senso di déjà-vu ma soprattutto Google mi ricordano che il 18 maggio è la data in cui Chris Cornell ci ha lasciato, due anni fa. Forse una riflessione gliela devo.

Forse ci ha già pensato il mio subconscio la sera prima, in un sonno agitato, accompagnato da un sogno tarantiniano o tarantinesco, figlio di un’idea che, evidentemente, era già scesa in terra. Unendo sogno e ricordi, lasciando andare  finalmente gli occhi altrove, mi godo il mio viaggio, onirico e un po’ lisergico, autoindotto e senza pilota.

 

Requiem in a dream Tutto, dicevo, nasce da un sogno che diventa location. Una scena, in cui ho miscelato senza ritegno alcuno le mie memorie cinematografiche con una abbondante dose di narcisismo e protagonismo. Spesso localizzo una riflessione in un luogo, il mio vagare ha bisogno di uno spazio fisico.

Ecco, quella notte, questa notte, sono nella chiesetta di legno di Kill Bill. Purtroppo orfana di Uma, fortunatamente priva di Bill. Legno, banchi, io di nero vestito, a tre passi dal pulpito, in testa non un cappello, ma una nebbia di idee per un elogio funebre. Uno di quei discorsi che dovrebbero, in bello stile e poco tempo, rendere onore alla vita di un uomo.

Raccontando balle, santificando una vita.

Ecco, partiamo da qui. Mi aggancio alla scena e mi aggrappo al fantasmatico, lasciando la realtà a far da sfondo per una decina di minuti.

Tre passi dal pulpito.

Cazzo non so cosa dirò.

Servono tre pensieri, di quelli veloci, di quelli che quando hai finito e hai chiuso il cerchio ti sembra passato un minuto e in realtà hai appena buttato fuori il respiro precedente. Pensa, pensa….

 

Le cadre est un cache Il critico cinematografico André Bazin scrisse queste parole il secolo scorso, quando il cinema usava pellicole, analogie e non esistevano le trilogie. Cinque parole per definire lo spazio e il tempo del cinema, ma anche l’essenza dell’immagine. Ecco, vestito da Mister Pink, in un trionfo kitsch, con LaChapelle a far foto, a me viene in mente Bazin. Però è un buon punto di partenza per chiedere scusa a Chris.

Il concetto è semplice: tutto ciò che vedo in un’inquadratura è la scelta del regista, ma anche, dati i movimenti di camera e quelli degli attori e degli elementi mobili, semplicemente ciò che posso vedere.

La cornice è una benda che stabilisce il visibile e l’invisibile. Chris Cornell per me, per anni, è stata questa cornice, il margine dell’inquadratura. E’ stato il confine tra il visibile, o meglio tra il visto e ciò che stava attorno. Negli anni novanta definiva l’inquadratura della mia musica, entrava in scena ma ne usciva spesso.

Fu amore a prima vista con i Temple of the Dog nel ’91, fu epifania divina nel ’92 con i Soundgarden. Fu, insieme ai primi accordi di Release dei Pearl Jam, semplicemente il motivo per cui ancora adesso ascolto e scrivo di quegli anni. Uscì dalla mia inquadratura, poi tornò con gli Audioslave.

Poi nuovamente fuoricampo, per tornare a mettere a fuoco l’ immagine con dei live acustici che ancora oggi sono pura emozione. Cornell ha il merito di aver allargato le dimensioni della mia inquadratura musicale, segnando il confine e fornendo il metro, il riferimento: la sua estensione vocale era unica.

Ecco, dovrebbe diventare una unità di misura, il cornell, per calcolare l’estensione che inizia nei bassi di Cash e tende all’infinito. A volte all’eternità. Chris è stato ai margini, è stato il margine. Ha definito cosa era dentro e cosa fuori. Ma così come la cornice definisce l’osmosi tra visto e non visto, Cornell definiva ciò che ascoltavo.

La nostra lunga storia termina al teatro Arcimboldi di Milano, per un tour acustico legato a un disco che amo. Furono 22 pezzi. Chitarra, violoncello e una voce ultraterrena, da 24 cornell. Quel concerto è come un tatuaggio e ho solo il rammarico di aver messo a fuoco la mia inquadratura su di lui troppo tardi. Scusa, Chris.

Secondo passo. Due metri al palco, al microfono.

 

Fatti non foste per vivere come bruti

Se il regista occulto di questa mia fantasmagoria fosse davvero il Tarantino bene ci starebbe una citazione biblica, giusto un’Ezechiele per ammiccare. Invece, con moto d’orgoglio e inspiegabile reminiscenza evoco Dante. E dai.

Chris Cornell non è morto a ventisette anni. Per quanto tragico e pieno di rimpianti sia l’epilogo della sua vita io desidero ricordare la sua Storia. Perché è il suo viaggio a lasciarci a bocca aperta, non la sua morte.

Ci sono alcuni Ulisse che mi sono cari. Sono scrittori, sono musicisti, sono atleti, semplicemente esseri umani che in comune hanno la ferrea volontà, spesso lucida e programmatica, di superare i confini del conosciuto.

Si allargano i bordi dell’inquadratura grazie a persone che, consce delle conseguenze o in preda a sacra follia, decidono di esplorare ciò che gli è sconosciuto. E’ un gesto romantico ed eroico, egoista e blasfemo, sicuramente umano. Amo gli UIisse per l’inconsapevole innocenza o (e scusate) per l’innocente inconsapevolezza che è il loro motore primo.

Non c’è il gesto eroico di Prometeo che sfida confini, dei e regole per far progredire la Storia collettiva. L’Ulisse è un irrequieto, dai sensi iperstimolati, è un Morrison in cerca di porte, ha un obbiettivo che diventa ossessione, che sia Itaca, il Bello o la morte.

E il viaggio è ciò che diventa epica, la materia del nostro osservare, ciò che ci può dare ispirazione. Chris Cornell ci ha regalato un viaggio meraviglioso, fatto di ricerca, di cambiamenti e di ritorni. Non ho mai individuato un’evoluzione musicale in lui, ma semplice esplorazione, il suo essere un Ulisse è dato da un moto continuo e affamato.

Da me si è congedato cantando i Beatles come solo lui, Chris Ulisse Cornell, poteva fare.

Uomini così sono meteoriti, schegge che entrate in contatto con l’atmosfera non possono far altro che precipitare verso la loro fine, voluta perché scelta o giunta perché la Fortuna si è voltata. Qualunque sia l’intento, il suo precipitare è uno spettacolo, per gli uomini coi piedi –letteralmente- per terra.

Ultimo passo. Ultimo respiro prima di prendere quel microfono in questa strana chiesa e decidere quali parole utilizzare. Bene, fedele e Linneo, Nick Hornby e alla mia mai dichiarata sindrome ossessivo compulsiva, ho scritto liste, redatto classifiche e creato playlist di Chris. Mi sono immerso in lui raddoppiando il peso della sua musica che già ascolto normalmente. Poi mi sono fermato, una mattina, a guardare mia figlia giocare.

 

Il puzzle.

Mia figlia ama i puzzle. L’ho osservata mentre cercava di comprendere il significato di ogni singola tessera. Io, dedito a Bazin, controllo i margini e i confini. Parto dagli angoli, osservo gli incastri. Lei prosegue cercando pezzi, piccoli particolari che si richiamino. Aggiunge tessere all’immagine che si è già composta. E mi sorprende. E imparo.

Penso a Cornell, allora. All’immagine così complessa che ho di lui, fatta di tante tessere di cui, spesso, ho solo guardato la forma e non ciò che rappresentava, perdendo il contenuto. Ecco, forse la vita di un uomo, anche la sua, va giudicata solo con tutte le tessere sul tavolo, magari senza partire dagli angoli. Grazie Chris.

 

Ci sono. So cosa dirò. Per te, Chris Cornell.

Dissolvenza, nero.

Titoli di coda.

 

Andrea Riscossa

 

Glen Hansard “This Wild Willing” (ANTI-, 2019)

Impressioni impressionistiche, tirar pennellate sull’argomento, risultato di una settimana di ascolto,
alla ricerca delle intenzioni, 
della trama e dei retrogusti, più che la disamina della grammatica del disco.
Correndo spesso ai taccuini per fermare un’idea, scrivendo dove capitava su quello che capitava. 

 

Notte. C’è un uomo che cammina per le strade di Parigi.
Quinto arrondissement, torna verso un letto, non verso casa sua.
Mani in tasca, collo incassato, la barba struscia sul bavero, alzato. 

Gli occhi sono puntati sulla strada bagnata, ma tradiscono l’altrove in cui si trovano i suoi pensieri. Sta portando a spasso per il quartiere idee e ispirazioni, con la chiara intenzione di contaminarli o, volgarmente, di concimarli.  Respira forte l’aria di una città che non è la sua, per trovare una inquadratura che non sia scontata, usurata o, semplicemente, la solita. 

La geografia di un pensiero è un atto inconscio, ma è figlio, almeno in questo caso, di un piano ben congegnato.
Prima che l’ordine del mondo venisse appaltato al monopolio delle religioni monoteiste esisteva una consapevolezza sana che delegava ai luoghi, al mondo, il ruolo di attore comprimario. Mentre le ninfe presiedevano alla sacralità della bellezza della natura, Il genius loci era l’antica divinità protettrice di un luogo, in genere di una casa, di una famiglia. Lentamente, nel corso dei secoli, il suo ruolo è mutato, estendendo, per sineddoche, il proprio ruolo di protezione e rappresentazione  a comunità più estese. La storia ha conservato l’idea del genius e l’estetica prima e l’architettura in un secondo momento l’hanno adottata, trasformandola in un approccio metodologico alla propria materia di studio. Rimane tuttavia una parola antica, carica di significati sovrapposti, stratificati, e nasce come un’entità viva, senziente e panica.
Il genius loci lo sta cercando un uomo che cammina per strada, a Parigi.
È irlandese, di Dublino, quarantotto anni.
Lui lo sa bene, certi uomini sono più propensi a farsi influenzare dai luoghi e dai loro demoni. Parigi traccia i confini del suo pensiero e del suo lavoro. Entra nei testi, nelle amicizie, nelle collaborazioni. L’humus della città fa fiorire le idee. E ci sono città che riescono in questo compito meglio di altre. Alcune, come Seattle, funzionano da catalizzatore. Altre vanno semplicemente cantate, come fece Bowie a Berlino.
Il nostro uomo camminava per altre strade, appena un anno prima, esattamente quelle di Chicago. Quello che nacque dall’altra parte dell’Atlantico è un’opera piena di genius locale. Quasi il portarsi fisicamente altrove funzioni come un atto volontario per sperimentare e contaminare, nonostante migrare, anche solo artisticamente, sia attuale, ma non di moda.
Parigi ha una biomassa estetica piuttosto elevata. Stratificazioni di secoli di vite, di arte, di artigiani, di storie. È impossibile camminare per quelle strade e non avere una vertigine. E no, non è labirintite, è una carezza di Stendhal.   

C’è un irlandese che cammina per le strade di Parigi. Le mani in tasca sono rosse  e doloranti.
La testa corre, pulsa, a dirla tutta fa anche un po’ male. Quello che nessuno racconta, nella costruzione della mitologia di un cantante è la fatica, fisica, del comporre. Lo si trova nei racconti degli amici e colleghi di Springsteen, ad esempio, quando ricordano l’incessante lavoro di cesello in sala di registrazione, il broncio perenne e l’insoddisfazione come condizione necessaria alla produzione artistica.
Il nostro irlandese, come Bruce, ha scelto un approccio artigianale alla propria arte. Se si vuole contestualizzare, per meglio rendere e far ballare (anche) le parole, possiamo definire tutto questo come approccio analogico alla creazione musicale. Ci dice il nostro:

“Sometimes when you take a small musical fragment and you care for it, follow it and build it up slowly, it can become a thing of wonder”.

È l’artigiano che sa individuare un frammento utile, anche solo dal punto di vista estetico e valorizzarlo. È un punto di partenza, ma già solo per individuarlo serve essere artigiani. E da lì inizia un lavoro analogico, fatto cioè di analogie, di similitudini, di vicinanze, fisiche e culturali.
Non c’è posto per il digitale nel pensiero del nostro uomo. Il digitale è uno o zero, è vero o falso. È campionatura, non citazione. L’essere o non essere digitale si dissolve nel pensiero analogico fatto di infinite sfumature, fossero anche solo di grigi.
L’analogico è un pensiero a cascata, anche per quello che si lega alla musica, ossia i testi delle canzoni. I temi sono quelli da lui già trattati, già cantati, ma se la materia è ben nota quello che cambia è il modo in cui viene trattata. Il fantomatico genius che va cercando gli servirà proprio a questo. Parigi gli regala testi vicini quasi alla tradizione del troubar clus medievale, citazioni bibliche, ma anche, e forse soprattutto, una multiculturalità che prende vita nelle collaborazioni del suo ultimo lavoro. Irlanda e Iran si intrecciano, inaspettatamente, in un disco di un busker di Dublino. È il pensiero analogico che permette a mondi così distanti di parlarsi, dando vita ad atmosfere veramente particolari e a colpi di scena musicali. E’, nelle intenzioni e nelle parole, una ricerca continua, di amore, di strade e di identità, un flusso di coscienza mormorato sui marciapiedi di Parigi.
Il nostro irlandese che cammina è figlio dell’Ulisse di Joyce, quantomeno della sua forma, così instabile e fragorosa e densa. E’ figlio dei cieli della sua isola e delle sue birre, della sua storia e della sua forza. Un centro stabile e coerente, portato volontariamente in terra straniera alla ricerca di nuove sfumature. Un piccolo demone parigino che gli sussurra nelle orecchie e un gruppo di amici dediti al particolare musicale.
Gli ingredienti ci sono tutti. 

C’è Glen Hansard che cammina verso l’Irish Cultural Centre, dove alloggia da un mese. Ha concluso il suo ultimo lavoro, This Wild Willing, da poche ore, grazie al suo amico David Odlum, con cui collabora da anni. Ha suonato e cantato con connazionali e con musicisti provenienti da mezzo mondo, ha lavorato duramente su piccoli frammenti musicali che tra le sue mani sono diventati grandi pezzi. Ha cantato piano, sottovoce, perché ha inciso un album che va ascoltato dedicandoci del tempo, senza strepiti, senza fretta, richiede merce rara, l’attenzione. Sette canzoni su dodici superano i cinque minuti.
Cammina l’Hansard musicista, consapevole di aver fatto un buon lavoro da artigiano e un ottimo lavoro come artista.
Cammina, Glen, verso un’altra città, verso un nuovo genius loci, verso nuovi amici con cui condividere una pinta di Guinness e qualche accordo, sia mai che ci scappa un altro gioiello come questo This Wild Willing.

 

Glen Hansard

This Wild Willing

ANTI-, 2019

 

Andrea Riscossa