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Tag: astarte

Tre Domande a: Samuele Proto

Come e quando è nato questo progetto?

Il mio progetto artistico è nato molto presto. Quasi fin da subito, quando avevo 16/17 anni ho avuto la fortuna di lavorare in studi di registrazione affermati al fianco di musicisti e produttori professionisti. Da queste mie esperienze mi sono portato dietro una certa mentalità legata alla qualità strutturale e di realizzazione delle canzoni.
Il progetto nasce proprio da una base del genere, è un insieme di canzoni pensato fin dal principio. Volevo dare un concetto generale a tutto il disco e l’uscita del primo singolo Fragili Rose rappresenta bene il sound del disco. Strumenti suonati, musicisti, arrangiamento ricercato. Tutte componenti che sono state considerate e organizzate fin da subito, appena finita la fase di scrittura delle canzoni. In più il desiderio di realizzare un progetto che potesse avere ancora più valore se portato live.
In termini invece temporali, la scrittura del disco è iniziata ad inizio della prima pandemia. Da questo punto di vista il tempo dilatato dovuto purtroppo alla situazione che abbiamo vissuto mi ha portato ad avere un po’ di tempo per pensare, riflettere ed elaborare nuove idee. Da quel punto in poi abbiamo impiegato quasi due anni per arrivare in fondo al lavoro. Avevo in testa un sound preciso che richiedeva una scelta precisa dei musicisti e addetti. Una grande famiglia che piano piano si è unita per creare un progetto che spero con tutto il cuore possa piacere. 

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ascolta?

Mi piacerebbe tanto che Fragili Rose rappresentasse per le persone che l’ascoltano una piacevole scoperta. Non solo verso la mia musica ma soprattutto verso un concetto di musica che accomuna tanti artisti come me. Spesso ci si lamenta della mancanza di contenuto nelle canzoni o nell’arte in generale dei nostri tempi. Mai però ci si domanda se questa mancanza di contenuto sia dovuta agli artisti o alla possibilità degli artisti di fornire contenuti.
Io sono convinto che le persone che ascoltano musica vogliano e ricerchino contenuti, che siano lirici, musicali, artistici in generale.
La mia speranza è quella di riuscire a trasmettere una tipologia di lavoro forse anacronistico ma che venga assimilato e accettato nei tempi che viviamo.
Come artista penso che per trasmettere qualcosa ci sia bisogno di tempo e banalmente la durata radiofonica dei pezzi molto spesso non ti permette di dire niente.
La chiave sono convinto che sia nella capacità di realizzare una canzone che abbia tutto il tempo di dire quello che deve dire, ma realizzata e costruita in modo tale da non percepirla come opera complessa ma come canzone leggera, capace di essere cantata da chiunque.
Se riuscirò a trasmettere questa cosa agli ascoltatori sarò soddisfatto dal mio lavoro.

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

La mia musica ha da sempre contenuto grandissime influenze Blues. Da musicista, prima che da cantautore il sogno nel cassetto rimarrà sempre quello di prendere parte ad una rassegna dedicata proprio al Blues.
Non nego che il desiderio più grande sia quello di partecipare al Crossroads Blues festival organizzato da Eric Clapton. A memoria, credo che solo Pino Daniele, come artista italiano abbia preso parte a quel concerto. Questo mi fa pensare che minime opportunità possano esserci anche per artisti nostrani.
Detto questo, vivendo a Firenze, apprezzo molto l’importanza e la storia del Pistoia Blues Festival, il modo in cui da sempre siano riusciti a dare valore a questo genere in una città così caratteristica mi affascina.
Per concludere la risposta direi appunto che se proprio avessi l’opportunità di partecipare ad un importante festival sicuramente sceglierei un concerto con respiro internazionale dove al centro dell’attenzione possano esserci musica e vibrazioni, al di là della barriera linguistica.

Tre Domande a: Esposito

Come e quando è nato questo progetto?

Ciao, io sono Esposito e il mio progetto nasce tantissimi anni fa, quando da ragazzino ho iniziato a scrivere per gioco le prime canzoni e dopo un po’ di anni ho colto l’occasione di suonare in molti locali della penisola italiana (non per forza i migliori). All’inizio suonavo principalmente cover e ogni tanto mi esibivo in qualche mia canzone senza dirlo e sempre più spesso il pubblico ha iniziato a chiedere informazioni riguardo quei pezzi. È questa la ragione che mi ha spinto a pensare di voler fare un mio disco e, nel 2017, è uscito È più comodo se dormi da me: è stato questo il mio debutto discografico. 

 

Progetti futuri?

Al momento mi sto concentrando sul mio ultimo singolo, I giorni, uscito il primo aprile e il mio prossimo EP, in uscita dopo l’estate.
Nel frattempo però non mi sono fermato e sto scrivendo cose nuove: non so ancora cosa diventeranno nè se usciranno. Oltre alla fase di scrittura di un nuovo brano mi piace quella di produzione, quindi mi sto concentrando anche su quello. Spero di non smettere mai di pubblicare nuova musica, quando pubblico qualcosa di nuovo, è un po’ come se fosse il mio compleanno, forse anche meglio!

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Mi piacerebbe suonare al Primavera Sound Festival di Barcellona, un po’ perché è una città che adoro e un po’ perché mi piacerebbe portare la mia musica oltre confine. L’ultima volta che ci sono stato avevo 17 anni e già iniziavo a scrivere le mie prime canzoni, mi aveva colpito la solarità delle persone e la bellezza della città. Ho pensato spesso nel corso degli anni di trasferirmi in Spagna ma alla fine sono rimasto sempre a Milano dove vivo da ormai 15 anni.
Restando in Italia ti direi il MI AMI (festival a Milano), mi piacerebbe accadesse prima o poi. Lascio questo pensiero fluttuare nel cosmo.

Melancholia “Sleep Mode” (Radar Label & mgmt, 2022)

I Melancholia sono una band italiana che suona in inglese, ma con una energia che supera confini fisici ed emotivi. Dal 2016 la band inizia una collaborazione creativa con Diego Radicati presso Urban Records, che si occupa degli arrangiamenti. Vincitori mondiali dell’Emergenza Festival 2017/18, si fanno conoscere da un pubblico più ampio grazie alla partecipazione X Factor 2020, la prima edizione a porte chiuse a causa dell’emergenza pandemica. Eppure, la situazione non li ostacola, anzi emergono con particolare forza. Il loro nuovo EP Sleep Mode, pubblicato da RADAR label & Mgmt, eredita la carica dark ed emozionale del loro primo EP What Are You Afraid Of del 2020.

Anticipato dall’uscita del videoclip del singolo Hypnos, uscito il 18 marzo, il nuovo progetto, con le sue cinque tracce, passa da una domanda introspettiva dell’EP precedente a una condizione di sospensione nel sonno. Una modalità di risparmio energetico rispetto ai rumori del mondo per sprofondare nei nostri sogni, o incubi, che rivelano di noi più di quanto scopra la luce del sogno. La voce di Benedetta è il perno su cui si muovono abilmente la chitarra di Filippo Petruccioli e il synth di Fabio Azzarelli. In Hypnos la musica si compone di strutture e ricami in cui si fondono sonorità rap ed elettroniche, in un ritmo incessante e circolare come uno specchio di una seduzione paranoica che culmina nella ripetizione compulsiva di “What can I do? What you want me to do?”. Siamo nel buio dei pensieri che non ci lasciano, quella mente che vorremmo assopire e invece ci tormenta, con sensazioni, ricordi, con lo sguardo nella realtà. Ciò che sappiamo è che non abbiamo certezze, e non le vogliamo, perché quello che è necessario è il cambiamento.

La voce assume le forme più varie, è un perno mobile, che unisce ma si muove dal cantato al rap, infondendo nell’esecuzione vita, energia e, per la band, voglia di farsi sentire grazie alla propria musica. Questa energia sa sposarsi, però, con la dolcezza in A Raven Cries, dove la linea melodica crea un’atmosfera rarefatta di sottofondo a un canto che, a tratti, si evolve in un duo per rendere il brano più evocativo. Un passaggio dall’ignoranza alla consapevolezza di sé attraverso un momento catartico di unione spirituale con un corvo attraverso il canto dolce-amaro fatto di echi e profondità a cui si accompagna il verso stridulo come un grido dell’animale.

Eraser si apre con altrettanta delicatezza per poi svilupparsi in un crescendo di suoni e ritmo con l’aggiunta della chitarra e un uso del synth sempre più presente per un effetto più futuristico che torna, successivamente, a una dimensione rock alternato al rap, nuovamente presente e forte. Benedetta si muove tra le parole e la musica con l’abilità di un’acrobata, amplificando l’effetto di tridimensionalità trasmesso nelle tracce precedenti. Il brano si sviluppa con crescente forza e velocità per interrompersi bruscamente nel punto dove l’ascoltatore ha la sensazione che potrebbe continuare all’infinito. Si crea una frattura sonora che prende e funziona, come un risveglio dal proprio sonno, da uno sleep mode in cui siamo arrivati dentro al nostro io più nascosto, ma che non può durare per sempre e che è diviso dalla realtà da una semplice apertura degli occhi. Cosa ci sia in quella realtà, dopo aver viaggiato in noi stessi, solo noi possiamo saperlo e dobbiamo scoprirlo. 

Vorrei dirvi che i Melancholia con il loro nuovo progetto sono stati una sorpresa, ma non posso: la band ha semplicemente confermato il loro percorso fatto di voglia di esplorare ogni piega sonora, di esplodere in energia e trascinarci in un getto di suoni e parole che non può lasciare indifferenti. Sono la dimostrazione di come ci si possa muovere in un crossover di generi in modo sapiente tenendo vive la grinta e la curiosità di chi ancora è nel pieno del suo viaggio con tante tappe da condividere con il suo pubblico. 

 

Melancholia

Sleep Mode

RADAR Label & mgmt

 

Alma Marlia

Tre Domande a: Anima

Come e quando è nato questo progetto?

Mi sono avvicinato alla musica a 18 anni ma il vero progetto Anima nasce propriamente nel 2019 con il mio primo singolo Borderline individuando un suono ed un immaginario ben delineato.
Nella crescita e nello sviluppo del progetto sono state fondamentali le figure dei producers Dr.Wesh e Pi Greco.
Ad oggi mi ritengo un artista con una propria identità che ben si inserisce nel panorama musicale.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Partendo dal mio nome d’arte Anima ciò che voglio è comunicare con l’anima, con il cuore in modo sincero, senza filtri o scudi per le mie emozioni.
Quello che racconto nei brani, spesso attraverso l’utilizzo di metafore ed immagini, corrisponde a situazioni, pensieri ed emozioni della vita di qualsiasi giovane.
Quindi racconto la mia esperienza filtrata dai miei occhi e pensieri e in molti ci si ritrovano.

 

Progetti per il futuro?

Da Ottobre ad oggi sono usciti cinque brani. Il 4 Marzo uscirà il mio album Photogallery che è un progetto a cui sono fortemente legato perché i brani che lo compongono sono letteralmente pezzi della mia vita. Considero questo album come il primo mattone di una casa della mia discografia. In passato ho avuto delle battute d’arresto nel mio percorso al livello di uscite Nel 2022 ci sarà davvero tanta musica.

Things Are Great è il disco che i Band of Horses hanno fatto come volevano

Read this article in English here

Dopo quasi sei anni da Why Are You OK, i Band of Horses tornano con un nuovo album, Things Are Great, che – già dal titolo – promette alquanto bene. Tante le novità: la formazione in parte rinnovata, un produttore di talento ed un songwriting più trasparente e sincero che mai. Come lato complementare della medaglia, invece, ciò che non cambia è il suono iconico del gruppo di Ben Bridwell che ritorna alle origini, caratterizzate da un sound ancora più indie ed alternative rock. Abbiamo approfondito questi aspetti –  e molti altri! – nell’intevista con il batterista Creighton Barrett. Inevitabili anche i riferimenti alla sospensione, musicale e planetaria, connessa alla pandemia ed una menzione finale a The Funeral, che, poco tempo fa, abbiamo ritrovato come soundtrack d’eccezione in una serie TV italiana di grande successo. Ricordate quale?

 

Ciao Creighton e grazie di essere qui con noi! Partiamo parlando del nuovo album Things Are Great, fuori dal 4 Marzo dopo quasi sei anni dal vostro ultimo disco. Nonostante sia passato un po’ di tempo, è possibile che certe atmosfere latenti e qualche ispirazione fossero già presenti in Why Are You OK? Come se quel disco, oltre ad avere una connessione nel titolo, contenesse già una fine per un nuovo inizio?

“Si, beh, abbiamo avuto diversi membri che sono andati e venuti dall’ultimo disco: non è una novità, la nostra lineup cambia piuttosto regolarmente, nel bene e nel male. Ma si, penso che questa sia una continuazione nel senso che Why Are You OK è stato un disco che abbiamo fatto distintamente per fare il disco nel modo che volevamo fare il disco, in contrapposizione, forse, non tanto ad avere influenze dall’esterno ma forse tornare alle origini di noi (come band, NdT), solo per il gusto di fare i dischi che vogliamo fare e i dischi che vogliamo ascoltare. Pertanto, penso che questo nuovo disco Things Are Great sia ancora più tutto questo, questo essere quei ragazzini punk rock che eravamo abituati ad essere e non preoccuparci troppo di quello che la gente possa pensare: facciamo solo questo disco al meglio per noi e facciamo meglio che possiamo.
Penso che questi due ultimi dischi segnino definitivamente una sorta di separazione dal disco precedente a Why Are You OK, che è stato una specie di esercizio, con qualcun altro che ci diceva in che direzione andare e come farlo, e questo non ha proprio funzionato bene con noi. Quindi abbiamo preso le redini in mano.”

 

In termini di sound, possiamo ritrovare il suono iconico dei Band of Horses. Tuttavia, nella produzione dell’album il contributo di Ben Bridwell, che ha anche lavorato tanto con il tecnico del suono Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, ha avuto molto più peso del solito. Cos’è successo in quella fase del processo e come sono andate le sessioni di registrazione?

“Avevamo iniziato il disco con il nostro precedente produttore da Why Are You OK, Jason Lytle, che viene da un gruppo favoloso chiamato Granddaddy. Avevamo fatto Why Are You OK con lui ed era stato grandioso, ma abbiamo iniziato le sessioni per Things Are Great di nuovo con lui e qualcosa non girava nel modo giusto, semplicemente non lo sentivamo bene.
Abbiamo registrato qualche traccia con Jason e ci siamo presi un po’ di tempo e abbiamo suonato qualche concerto e ci siamo seduti con quello che avevamo fatto fino a quel momento. Non eravamo dove pensavamo di dover essere e abbiamo deciso che, fondamentalmente, dato che eravamo all’inizio del processo non sarebbe poi stata questa gran perdita se ci fossimo detti “Sai cosa? RIcominciamo da capo!”.
Abbiamo questo buon amico che vive nella nostra città – che è Charleston, South Carolina – che si chiama “Wolfie” Wolfgang Zimmerman. È questo ragazzo più giovane di noi che fa della gran bella musica con queste band locali nella nostra città, e faceva delle gran belle cose in un ripostiglio, neanche in un vero studio. Quindi, se questo ragazzino è così talentuoso da far suonare queste band in modo così incredibile senza neanche essere in un vero studio, cosa succede se lo piazziamo in uno vero? La cosa ha funzionato in modo fantastico e penso che sia per Ben che per me – posso parlare a nome di entrambi – Wolfie sia stato una ventata d’aria fresca. È arrivato dicendo “Voglio che voi ragazzi suoniate come voi stessi”, che è una cosa che sai, la gente ti dice sempre quando ti metti a fare un nuovo album, ma le cose vengono tirate di qua e di là, in certe direzioni che poi finiscono per esserci tolte di mano. A volte, e questa volta è stato così, tutto quello che voleva fare è stato aver fiducia nel tornare indietro al modo in cui abbiamo fatto i nostri primi dischi. Ben e io non abbiamo nessuna educazione musicale, siamo autodidatti nel suonare i nostri strumenti e penso che Wolfie abbia voluto affinare questa cosa, più che fare un qualcosa che suonasse grandioso, ha solo voluto che suonassimo come quando siamo con i nostri strumenti e far musica. Che alla fine è come suona il disco, credo. Risposta lunga, sorry!” (ride)

 

Nella vostra discografia, i testi rappresentano una parte fondamentale di ogni disco: che storie raccontano le canzoni di Things Are Great? C’è una traccia a cui sei particolarmente affezionato?

“La mia traccia preferita dell’album s’intitola Ice Night We’re Having ed è questa sorta di galoppata veramente strana, una canzone che suona veramente indie rock, che è un po’ il mio cuore. Questa è la mia canzone preferita.
Per quanto riguarda i testi, Ben stava attraversando un sacco di situazioni pesanti durante la creazione di questo disco. Pertanto non posso veramente rispondere riguardo al contenuto dei testi, ma Ben davvero viene fuori (in quello che scrive, NdT) e pensa davvero a cosa sta dicendo. Ma penso che questo disco sarebbe comunque venuto fuori: abbiamo dovuto posticipare a causa della pandemia e di tutto ‘sto casino in cui siamo tutti; penso che questo lo abbia aiutato a scrivere le parole in un modo forse di più facile accesso, dato che tutti stiamo in qualche modo vivendo tempi difficili. Penso sia più facile abbattere quei muri che probabilmente aveva precedentemente messo su; adesso che siamo tutti in una situazione un po’ merdosa, le sue parole su questo disco si prestano ad essere più dirette che nei dischi precedenti, dov’era più come “Guarda, un po’ capisco cosa sta passando questo ragazzo anche se io sto passando qualcosa di totalmente diverso”, mentre adesso la cosa si presenta in modo molto più ovvia per tutti noi.”

 

Cover band of horses

 

Il titolo dell’album suggerisce un’accezione positiva, potremmo quasi dire una specie di proposito. Tuttavia, all’interno della tracklist troviamo canzoni come Tragedy of the Commons, In The Hard Times o In Need of Repair che si riferiscono a situazioni complicate. Lo scombussolamento planetario causato dalla pandemia ha influenzato la scrittura dell’album in qualche modo? Come avete vissuto o state ancora vivendo questi anni di sospensione e lontano dai palchi?

“In Luglio, la scorsa estate, abbiamo finalmente avuto il via libera per suonare i nostri primi concerti ed erano due concerti in preparazione al Lollapalooza. Abbiamo suonato qualche concerto, siamo tornati alla nostra vita, ma durante quell’anno o poco più di distacco, metti in discussione un sacco di cose: per dirne una, stavamo seduti su questo disco, che era finito, e il tempo senza far niente può diventare davvero orribile. Hai troppo tempo a disposizione per pensare “È un buon disco? Fa schifo?”
È stato così tanto tempo nella fase di creazione, come una specie di quadro che non finirai mai. Ad un certo punto devi mollare. Quel periodo è stato particolarmente duro per tutti noi, non solo finanziariamente: sai, Ben e io abbiamo entrambi famiglia, abbiamo dei bambini e gestire il tutto è stato difficile.
Ma ci ha anche fatto mettere in discussione un sacco di cose su cui forse prima non ci siamo mai fatti domande. È stato come se tutto si fosse fermato, non c’erano manuali d’istruzione, nessuno sapeva cosa fare, nessuno sapeva cosa farsene. È sembrato che per la prima volta – anche quando ci sono stati tracolli finanziari e simili, la gente continuasse ad andare a spettacoli e la gente continuava ad andare al cinema, come durante la Grande Depressione, la gente aveva uno sfogo artistico – per la prima volta non fosse una possibilità contemplata (quella di fare arte, musica, NdT). E quindi quando arrivi al punto di “Cosa ne facciamo dei musicisti che suonano live?” nessuno sapeva cosa fare. Tutto durante la pandemia era così focalizzato al non far succedere che era davvero opprimente. Era difficile pure arrivare al concetto di “Merda!”.
Abbiamo fatto questo per vent’anni ed è una specie di seconda natura per noi. Per i primi mesi non sapevamo neanche cosa ci stava colpendo. Era tutto un “Wow, iniziamo qualcosa di nuovo? Lo facciamo? Non faremo più nulla di tutto questo?” Nessuno aveva nessuna risposta, era tutto pazzesco e per fortuna il cielo si è rischiarato un po’ e abbiamo ricevuto le email per questi concerti pre-Lollapalooza e finalmente è stato “Cazzo, si!”.
Insomma, tempi folli…”

 

Non so se sei al corrente che la vostra canzone The Funeral è stata recentemente usata in una produzione Netflix Italia intitolata Strappare Lungo i Bordi. È un colpo di grazia emotivo, non appena le note inconfondibili della sua intro attaccano, il protagonista raggiunge l’apice del suo viaggio interiore verso la presa di coscienza e accettazione della realtà che sta vivendo. Com’è il tuo rapporto con questa canzone in particolare, che ha fatto così tante apparizioni sia sul piccolo che grande schermo, solitamente per sottolineare momenti intensi (e spesso pieni di lacrime)?

“Ad essere onesti, il peso di quella canzone non mi aveva veramente colpito finchè non abbiamo iniziato a suonarla dal vivo e allora è diventata tutta un’altra cosa. È stato come… nel bene o nel male, ci sono persone che conoscono solo quella canzone, e sono lì, agli spettacoli, che aspettano solo quella specifica canzone, e noi che dobbiamo piegarci a fare il nostro spettacolino con la consapevolezza che “Tu non arrivi alla fine del concerto”. Questo è un aspetto della cosa. Ma ad essere perfettamente onesti, non è mai un’occasione persa per me suonare quella canzone, perchè la sala cambia, significa così tanto per così tante persone in così tanti modi diversi. Non solo per qualcuno che ha veramente subito una perdita… è un suono identificativo per le vite di così tante persone ed essere parte del gruppo che lo ha fatto, ne sono follemente grato. Amo l’uso che ne viene fatto nei film perchè è la canzone perfetta per quella roba. È evocativa di suo e non posso neanche immaginare quanto sia evocativa per la gente che l’ha sentita e un po’ se l’aspettano. Ma per quello che mi riguarda, non perderà mai la sua meraviglia. La gente continua a metterla nei film… questo è un gran bell’uso di quella canzone! Ancora e ancora! Funziona! È somatica e cinematica in modo ovvio. Penso sia fantastica. Lo show (Strappare Lungo i Bordi, NdT) è bello?”

 

Si, è veramente una bella produzione. È un fumetto animato di Zerocalcare, un comic artist davvero talentuoso e molto conosciuto in Italia. Pensavamo fosse sarcastico e invece, alla fine, quando The Funeral attacca, siamo scoppiati tutti in lacrime. È davvero un’esperienza di formazione.

“Wow! Zerocalcare? Ci darò un’occhiata, grazie!”

 

Laura Faccenda
Editing e Traduzione: Francesca Garattoni
Foto: Stevie and Sarah Gee

Things Are Great is the record Band of Horses made the way they wanted to

Leggi questo articolo in Italiano qui

After almost six years since Why Are You OK, Band of Horses are back with their new album Things Are Great. Many are the news on this record: the band lineup partially renovated, a talented producer and the most sincere and transparent songwriting ever. To balance this out, what does not change is the iconic sound of Ben Bridwell’s band, that circles back to its roots and their indie and alternative rock attitude. We dug into these topics – and many more! – with drummer Creighton Barrett, touching also the global suspension of our lives due to the pandemic and, last but not least, a question about The Funeral, that we have recently found in the soundtrack of a successful Italian Netflix production.

 

Hello Creighton and thanks for being here with us. Let’s start talking about your new album, Things Are Great, out on March 4th after almost six years since your last release. Although some time has passed, is it possible that some underlying atmospheres and inspiration were already seeded in Why Are You OK? As if that record, besides having a connection within the title, already contained an end and a new beginning?

“Yes, well, we’ve had some different members that have come and gone since the last record: that’s nothing new, our lineup changes pretty regularly for better or for worse. But yes, I think this is a continuation in the way that Why Are You OK was a record that we made distinctively to make the record the way that we want to make the record, as opposed to, maybe, not so much outside influence but maybe getting back to the roots of us, just making the records that we wanna make and the records that we want to listen to. So, I think this newest record Things Are Great is even more of that, of been the little punk rock kids we used to be and not worrying so much about what other people are gonna think: let’s just make this record the best for us and make the best that we can.
I think those two records definitely show a bit of a departure from the record before Why Are You OK, which was kind of exercise, with someone else kind of telling us which way to go and how to make it, and that didn’t sit very well with us. So we kind took the reins.”

 

In terms of sound, we can find the iconic sound of Band of Horses. However, in the production of the album the contribution of Ben Bridwell, who also worked a lot with the sound technician Wolfgang “Wolfie” Zimmerman, had much more weight. What happened at that stage of the process and how did the recording sessions go?

“We had started the record with our previous producer from Why Are You OK, Jason Lytle, who is from a fantastic band called Granddaddy. We made Why Are You OK with him and it was great, but we started the session for Things Are Great with him again and it just wasn’t vibing properly, just it didn’t feel right.
We recorded a few tracks with Jason and kind of had some time and we played some shows and kind of sat with what we’ve done thus far. It just wasn’t where we thought we should be and we decided that it was so early in the process that it wasn’t too big of a loss just to be like “You know what? Let’s start again!” basically.
We have a great friend that lives in our town which is Charleston, South Carolina, named “Wolfie”, Wolfgang Zimmerman. He’s this younger kid who’s making really great music with these local bands in our town, and he was doing really great things out of the storage shed, it wasn’t even a real studio. So, if this kid is that talented where he can make these bands sound incredible with not being even in a real studio, what happens if we put him into a real one? We worked out fantastically and I think to Ben and I, I can speak for both of us, Wolfie was just a breath of fresh air. He came into it, saying: “I want you guys to sound like you guys”, which, you know, people always say they do when they go to make a new record but things get pushed, things get pulled in certain directions outside your hands. Sometimes, and this time, all he wanted to do was to trust to go back to the way we made our earlier records. Ben and I don’t have any musical training, we taught ourselves how to play our instruments and I think he wanted to hone in on that, more than try to make grandiose sounding thing, he wanted us to just to sound like we were with our instruments and making music. Which is what it sounds like, I think. Long answer, sorry” (laughs)

 

Within your discography, lyrics represent a fundamental part of every record: what stories do the songs on Things Are Great tell? Is there a track you are particularly fond of?

“My favorite track on the record is called Ice Night We’re Having which is just this really weird kind of gallop, really indie rock sounding song, which is kind of my heart. That’s my favorite song. As far as the lyrics go, Ben was going through a lot of heavy stuff during the making of this record. So I can’t really answer so much for the lyrical content, but Ben, he really comes over and really thinks about what he’s saying. I do think on this record, he said in previous interviews, I don’t know, it’s as if he’s a bit more unmasked in this record. But I think this record would have come out: we’ve got pushed back because of the pandemic and of this shit that everyone’s been in, I think it helped him to write the words to where maybe it’s easier to access them in a way everyone’s going through kind of a bad time right now. I think it’s easier to break down those walls that maybe he had in place previously to where everyone is kinda like in a shitty situation and his words on this record lend themselves in a little bit easier than past records, where it’s like: “Look, I kind of feel what this guy is going through and even though what I’m going through is completely different”, it paints a pretty easy picture for all of us.”

 

Cover band of horses

 

The album title hints to a positive meaning, we could say of “purpose”. However, within the tracklist we find songs like Tragedy of the Commons, In The Hard Times or In Need of Repair that refer to complicated situations. Did the planetary upset caused by the pandemic influence the writing of the album in any way? How did you live or are you still living these years of suspension and away from the stage?

“In July, last summer, we finally got the go ahead to play our first few shows and it was two shows leading up to Lollapalooza. We’ve played some shows, got back at it but, that year or so off, you question a lot of things: for one, we were sitting on this record and it was done and you know, idle time can be so horrible. You just have more time to think about “Is it a good record? Does this suck?”.
It’s been so long in the making, It just kind of like a painting you’ll never finish. You just let it go. That time was pretty hard for all of us, not just financially, you know, Ben and I both have families, we have children, so trying to navigate that was of course rough.
But it also made you question a bunch of stuff that maybe we didn’t get the question before. It was just like everything just came to a stop, there’s nothing on the books, no one knew what to do, no one knew how to do anything with it. It seemed that for the first time – even when there’s been financial breakdowns and stuff before, people still went to shows and people still went to the movies, like in the Great Depression and stuff like that, like they had this artistic outlet – for the first time that wasn’t even possibility. And so when you break it down to “What about musicians who played live?” ,no one knew what to do. Everything during the pandemic was focused on not letting that happen, it was so overwhelming. It was hard even break it down to like “Shit!”.
We’ve been doing this for twenty years and it’s such a second nature to us. For the first few months, we didn’t even know what hit us. It was just like: “Wow, Do we start something new? Do we? Do we not do this anymore?” No one had any answers, it was pretty crazy and luckily the clouds lifted and we got the emails about going to play those two warm up shows for Lollapalooza and it was just like… “Holy shit, it’s back”.
So, it was crazy time…”

 

I don’t know if you’re aware that your song The Funeral has been recently featured in an Italian Netflix production titled Tear Along The Dotted Line. It’s an emotional coup de grâce, as soon as the notes its signature intro start sound, the protagonist reaches the climax of his inner journey towards self-awareness and consciousness of the reality he’s living. How is your\the band relationship with this particular song, that made so many appearances both on the big and the small screen, usually to underline intense emotional moments?

“To be honest, the weight of that song didn’t really hit me till we started playing it live and then it just becomes this other thing. It’s like, for better or for worse, ‘cause there are some people that only know that song, in, there, at the show, they’re just waiting for that song, so we have to do our showbiz act which is like “You don’t get to the end”, that little act. That’s one side of it. But to be perfectly honest, it’s never lost on me playing that song live for people because the room changes, it means so much to so many people in so many different ways. Not just about like someone actually losing somebody… it’s an earmark for so many people’s lives and to be a part of a band that did that, I’m insanely grateful for it. I love the use of it in movies because it is a perfect song for that stuff. It resonates and I can’t ever tell that resonates ‘cause people have heard it and they’re going to expect it, you know? But it’s still to me at least my side, it doesn’t ever lose its awesomeness. People keep putting it in movies…that’s a great use of that song, yet again! It works there! It’s obviously somatic and cinematic. I think it’s great. Is that show good?”

 

Yes, it was a really good production. It’s actually an animated comic by Zerocalcare, who is a very talented comic artist and is very successful in Italy. We thought it was sarcastic but instead, at the end, when The Funeral started, we all burst into tears. It was a very coming of an age experience.

Wow, Zerocalcare? I’ll look him up, thanks!

 

Laura Faccenda
Editing and translations: Francesca Garattoni
Photos: Stevie and Sarah Gee

Band of Horses “Things Are Great” (BMG, 2022)

I Band of Horses tornano dopo quasi sei anni con un album in studio, il sesto, dal titolo puntuale e adeso alla meravigliosa realtà in cui siamo immersi: Things Are Great. A difesa della combriccola capitanata da Ben Bridwell bisogna sottolineare il fatto che l’album fosse in realtà pronto prima della pandemia. Ha, durante la sua lunghissima genesi, portato a cambiamenti importanti all’interno del gruppo, con addii illustri e innesti (o promozioni) di due nuovi membri nella line-up.
I nostri hanno anche cambiato sede, muovendosi da Seattle alla Carolina del Sud, ed etichetta, passando a BMG.
La versione primigenia dell’album era, a detta del frontman, troppo distante dalla sua personale idea di cosa debbano essere i Band of Horses, e qui sta la causa della partenza di Tyler Ramsey e Bill Reynolds. Il nuovo lavoro ha dunque virato verso lidi più noti, verso un ritorno alle origini, meno “truccato” a livello di produzione e più semplice nell’approccio, sia musicale sia nel messaggio che porta.

Apriamo una breve parentesi, direi necessaria. Non deve essere semplice essere Ben Bridwell. Al primo singolo del primo EP ti capita una The Funeral e la tua vita cambia per sempre. La tua canzone viene inserita in mille serie tv, da How I Met Your Mother fino alla recentissima Strappare Lungo i Bordi. Pazienza che ai primi tre accordi sai che sta per andarsene qualcuno di fondamentale e che stai per piangere, il fatto è che ti è proprio venuta la classica ciambella col buco, ciliegina e bacio accademico. Da quel momento inizia una lunga serie di variazioni sul tema, di declinazioni a volte pendenti più verso il folk, a volte più pop. Basta che sia riverberato. L’equazione finale risulterebbe, secondo studi recenti, come un neo-folk pop-post-shoegaze.

Parentesi a parte, il modesto pensiero è il seguente: ci sono band capaci di creare un’atmosfera, altre che di un’atmosfera hanno bisogno, altrimenti risultano fuori tempo, cacofoniche con il contesto. I Band of Horses con questo disco tornano a fuoco, nella dimensione a loro più consona, capaci di offrire una perfetta colonna sonora a quei momenti in cui ci starebbe proprio bene una canzone dei Band of Horses.
Spero di aver reso l’idea. 

E Things Are Great suona bene, pulito e snello, nella sua alternanza di brani più pop/soft-rock ad altri più intimi e intimisti. Si spingono fino a tematiche politiche e sociali, come nel pezzo che apre il disco, Warning Signs.
Si omaggiano i The Cure in Crutch, forse il pezzo migliore dell’album, dove la descrizione di una relazione tossica si gioca sull’ambiguo ritornello “I’ve got a crutch on you”. Sullo stesso tema scivola lento e sornione il blues di Hard Times, mentre si cambia registro nei pezzi successivi: in Aftermath si parla di sindrome post-traumatica e la struttura stessa della canzone ricalca l’inquietudine del testo, mentre in Lights, un rock leggero e degno di un’American Pie qualunque, è la cornice di un racconto fatto di adolescenti e forze dell’ordine.
Il finale torna più sentimentale e leggero con You Are Nice to Me e Coalinga, quasi elegiaco, un po’ Mumford un po’ Lumineers. 

Things Are Great è un buon album, che fa tornare i Band of Horses indietro di una decina di anni, cosa ottima e auspicabile, dato il livello del penultimo lavoro, Why Are You OK. Ritroverete tutti gli ingredienti di una ricetta nota e che funziona, dalle chitarre con super-riverbero ai crescendo a volontà, dalla voce iconica di Bridwell a quell’eco di fondo che ogni tanto riemerge, come un tema, come un déjà-vu, come una filigrana che certifica quello che sta uscendo dalle casse.

 

Band of Horses

Things Are Great

BMG

 

Andrea Riscossa

Tre Domande a: NEW OCEAN

Come e quando è nato questo progetto? 

Questo progetto è il risultato finale di altri progetti ai quali ho preso parte negli anni, come ad esempio alcune band. Il progetto nasce per dare libero sfogo a tutti gli elementi che mi hanno formato oggi come persona e artista. Amo spaziare tra un genere e l’altro mantenendo comunque un filone unico, amo farmi investire da vibrazioni nuove e da stimoli sempre diversi. Il progetto prende sempre più forma quando insieme a me hanno iniziato a crederci altre persone. Da quando conobbi Gamuel Sori, il mio producer, la mia direzione e forma musicale diventano sempre più precise. Oltre a lui c’è chi si occupa della parte manageriale, chi della parte visiva (foto o video) e altre persone ancora che credono in me. Sono molto grato, mi sento fortunato a condividere questo sogno con altri già in questa fase del progetto.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta? 

Quello che voglio trasmettere è esattamente quello che altri artisti prima di me mi hanno ispirato. Voglio dare la possibilità di sognare, di immergersi e viaggiare tramite la mia musica. Mi piacerebbe donare la speranza di vivere i propri sogni tramite il progetto NEW OCEAN.
Per me, come rappresenta il mio nome d’arte, la musica è istinto puro e nasce senza limiti, proprio come le onde dell’oceano. Proprio questo istinto è il fulcro della mia attitudine e della mia scrittura e, tramite le mie canzoni, miro a parlare alle persone, con la speranza si possano riconoscere in essa. 

 

Quanto punti sui social? 

Ho sempre creduto che la musica possa avere un impatto crescente se affiancata a qualcosa di visivo, per questo, assieme al mio team, ci concentriamo molto sulla parte estetica, per far conoscere il nostro immaginario artistico, soprattutto grazie all’ausilio dei social. Non ho ancora grandi numeri, ma passo dopo passo nuovi fan e persone del settore conoscono me e la mia musica, e ne sono davvero felice. Ho e abbiamo voglia di farlo. Lavorare tramite i social ci diverte e ci svaga. È bello vedere messaggi di apprezzamento da parte delle persone che ti seguono. 

Basia Bulat “The Garden” (Secret City Records, 2022)

È cresciuta ascoltando una stazione radio da cui risuonavano vecchi classici. Nella stanza di Etobicoke, un sobborgo di Toronto, Basia Bulat imparava a memoria le canzoni di Sam Cooke, Stevie Nicks, Sandy Denny, Abner Jay, carpendo anche segreti e suggerimenti dalle lezioni di pianoforte e chitarra che la madre dava ai propri studenti. Nel 2005, il suo EP d’esordio – ancora acerbo ma dalla strabiliante personalità – arrivava alle orecchie degli addetti ai lavori della Rough Trade, pronti a spalancare alla giovane promessa le porte dello studio di registrazione Hotel2Tango a Montreal, culla delle opere più famose di Arcade Fire e Silver Mt.Zion.

Dopo innumerevoli paragoni superati con fierezza – il più ingombrante, forse, quello con Joni Mitchell – cinque album accolti con favore dalla critica e palchi internazionali condivisi con artisti del calibro di The National, Nick Cave, St.Vincent, Sufjan Stevens, Beirut, Basia Bulat ha conquistato, a ragione, una posizione autoriale tra le voci più interessanti della sua generazione.

Con l’ultimo album, The Garden, pubblicato per Secret City Records, la cantante raccoglie i brani più amati del suo repertorio, impreziosendoli di una nuova anima orchestrale, già sperimentata grazie alla collaborazione – soprattutto live – con esclusive ensemble da camera e con orchestre complete, tra cui l’Ottawa National Artist Center Orchestra e la Symphony Nova Scotia, per un’esperienza di ascolto che coniuga la sensibilità classica al folk-pop contemporaneo.

Gli arrangiamenti per quartetto d’archi di Owen PallettPaul Frith e Zou Zou Robidoux, uniti al songwriting fluido e sincero di Basia, rimandano, da una parte, a colonne sonore di stampo cinematografico e, dall’altra, a passaggi musicali idillici, quasi bucolici. Dimensione, questa, collegata direttamente al titolo del disco e alla title track, manifesto artistico dell’intero lavoro sia come struttura – nessuna delle tracce, tra apici ritmici e distensioni melodiche, si discosta da uno stile univoco – sia come “collettore” tematico. Con The Garden in qualità di primo singolo estratto, Basia Bulat esprime un’urgenza di evoluzione, seguendo un andamento spontaneo, proprio come quello della natura. 

È lei a scandire la propria necessità di rallentare, in termini personali e professionali, riflettendo sulle tappe fondamentali del suo percorso, sui ricordi, sulle radici. Risulta calzante, infatti, la metafora del giardino: uno spazio privilegiato e protetto dove niente rimane invariato. Piante e fiori nascono, crescono, appassiscono in un ciclo vitale di rigenerazione. Un ciclo che ritorna nel brano omonimo, come dichiarato dall’artista: “Quando ho scritto The Garden [nel 2016], ero in uno stato mentale distorto. È come se mi avesse preso per mano, suggerendomi di mantenere la calma. We won’t look back / And if we don’t we won’t be lost. Mi ha detto di respirare nel presente e guardare verso il futuro”.

La resa, curata da Pallet, vivifica tali processi e si allunga in virtuosismi chiaroscurali di matrice orchestrale, lasciando immaginare delle correnti che trasportano petali, spine, germogli e foglie ormai secche, in un vento magico, di cambiamento verso un’altra stagione di fioritura. E benché il nome di Pallet, di recente, sia stato accostato anche al nome di Taylor Swift, la scelta di registrazione in studio “rinnovata” di Basia non è accostabile a quella della pop star. “Adesso canto queste canzoni in maniera diversa: è un dono del tempo. Nel disco ho avuto anche la possibilità di incanalare alcune influenze derivate dai musicisti che amo”. 

Da Marek Grechuta, con cui Basia Bulat condivide radici polacche, a Björk con la versione per quartetto d’archi di Hyperballad sino a Cat Power per il coraggio nella reinterpretazione delle cover, The Garden è uno scenario di suggestioni sempreverdi, illuminate da una scintilla creativa inequivocabile. Complice anche una sorprendente notizia: l’artista ha scoperto di aspettare una bambina durante le sessioni in studio: “È stata una gioia immensa. Ed una responsabilità nel percepire la sua crescita come qualcosa che sfugge al controllo, lo stesso che avviene con la natura. Lo dobbiamo accettare e, in fondo, si prova una sensazione liberatoria”. 

 

Basia Bulat

The Garden 

Secret City Records

 

Laura Faccenda 

rovere: le esperienze che fai modificano la persona che sei

I rovere, Nelson “Nels” Venceslai, Lorenzo “Stiva” Stivani, Luca Lambertini, Davide “Frank” Franceschelli e Marco “Paga” Paganelli, hanno pubblicato il loro secondo album, intitolato dalla terra a marte. Per l’occasione, abbiamo chiacchierato con uno Stiva molto emozionato per il nuovo disco nel suo giorno di uscita.

 

Ciao, Stiva! Piacere. Come va?

“Ciao, piacere mio! Tutto bene, tutto bene. Giornata lunga, con l’emozione per l’uscita del disco…dai, siamo molto contenti.”

 

Voi avete fatto questo viaggio dalla Terra a Marte: raccontaci qualcosa.

”Questo disco abbiamo iniziato a lavorarlo più di due anni fa. Ci eravamo rinchiusi in una casa di montagna nei pressi di Vipiteno e avevamo iniziato a scrivere la prime canzoni, tra cui freddo cane. Una sera, mangiando insieme con la televisione accesa sul telegiornale, abbiamo sentito questa notizia che ci diceva di tornare a casa perché si stava chiudendo.”

 

Ah, subito prima del lockdown!

“Sì, è stato assurdo perché è stata l’ultima volta che ci siamo visti per almeno due o tre mesi e ci siamo trovati a lavorare in un modo totalmente nuovo: a distanza, ognuno nella sua cameretta. E dopo un iniziale momento ovvio di fatica per la nuova situazione, sono nate un sacco di canzoni che poi in questi due anni abbiamo rielaborato, modificato e fatto nostre. Da lì è nato il disco. Il tema del viaggio dalla Terra a Marte è nato perché non potevamo viaggiare in quel periodo, se non con la mente e la musica e per me è stata quell’ancora di salvezza che ci ha tenuti attaccati alla realtà e attaccati al desiderio di vivere in un momento in cui di vita non c’era nulla. C’era solo un esistere, uno stare nelle nostre case aspettando e la musica ci ha dato modo di fare tesoro di quel tempo che ci era stato dato.” 

 

rovere dalla terra a marte

 

Qualche settimana fa è uscita crescere. Volevo chiederti: com’è stata la crescita dei rovere? 

“In realtà noi venivamo da un periodo abbastanza strano. Il 2019 per noi è stato un anno importantissimo: è uscito il nostro primo disco disponibile anche in mogano, ma abbiamo fatto anche più di cinquanta concerti. Abbiamo passato più di due mesi in giro per l’Italia dormendo in alberghi diversi ogni notte. È stato un periodo molto intenso, molto euforico, ma non ci dava il tempo materiale di riflettere su quello che stavamo vivendo e anche su quello che stavamo diventando, perché le esperienze che fai modificano inevitabilmente la persona che sei. Quindi, non avevamo mai avuto l’occasione di confrontarci con noi stessi sulla nostra vita ed è stata un’occasione di crescita poter ripensare a tutto questo. In realtà è come quando si parte per un viaggio e si cercano delle risposte…[si sente Stiva che parla con delle ragazze e cade la linea, poi mi richiama e mi dice che l’hanno fermato chiedendogli se fosse un cantante.]
Allora, parlavamo di crescere. Dicevo che questo periodo qua ci è servito sicuramente anche per fare un po’ di conti con noi stessi, come quando si parte per un viaggio, che può essere sia reale, verso un posto “vero”, sia con la mente, come con accade con la musica e con l’arte. Si cerca di ritrovare se stessi e molto spesso sono di più i dubbi che emergono rispetto alle certezze e così è stato per noi. Siamo partiti che volevamo capire chi fossimo e abbiamo commesso tanti errori, abbiamo trovato tante difficoltà. Ciò che ci portiamo a casa da questo disco è la bellezza di condividere, di fare la musica insieme tra di noi, ritrovarci. Condividere la musica è ciò che ci rende felici, perché quando lavori per due anni chiuso nella tua stanza per la maggior parte del tempo, o in uno studio con le solite cinque o sei persone, ti sembra che la musica finisca lì. Quando non ci sono i concerti, la condivisione e la risposta del pubblico non esistono. Quindi, abbiamo proprio bisogno di feedback.”

 

Poi ci sarà anche il tour. Immagino siate carichi!

“Noi non vediamo l’ora perché, purtroppo, dovevamo iniziare tra un mese. Era tutto organizzato, ma la situazione non permette di dare certezze. Ti faccio un esempio: quando suoniamo a Bologna, ci sono persone che, magari, vengono da Napoli o dalla Sicilia e che prendono un aereo e spendono ulteriori soldi. Noi ci tenevamo che l’organizzazione fosse perfetta, soprattutto per queste persone che si organizzano per non perdere tanti soldi. La situazione di emergenza non può dare certezze per i concerti, noi ci esibiamo con il pubblico in piedi e senza mascherine e abbiamo deciso che la cosa migliore fosse rinviare a luglio e godersela pienamente.”

 

Speriamo ci sia più sicurezza.

“Esatto. Come recita la nostra canzone la libertà, che è all’interno del disco, noi vogliamo che il pubblico viva in libertà il concerto. Dal punto di vista di socializzazione, di arte e condivisione e sarebbe brutto viverlo con la paura di contagiarsi, entrare in contatto ed essere troppo vicini. Cioè…no! Non vogliamo che lo vivano così, partiamo il 2 luglio con Padova, poi toccheremo la nostra città di Bologna, toccheremo Torino. Insomma, gireremo l’Italia e non vediamo l’ora.”

 

Mi viene in mente però che, anche se siete stati distanti dal pubblico, i rovere si incrociano con YouTube. Io stessa ho guardato i vlog di Nelson [youtuber famoso per i canali Space Valley e Nels, N.d.A.] in cui registravate l’album e secondo me questo vi ha avvicinato al pubblico, è un valore aggiunto.

“È indubbiamente un valore aggiunto. Io ti parlo proprio di contatto umano. È vero: i feedback li hai perché vedi le persone che condividono la loro frase preferita di una canzone, ma è comunque a distanza e non è come le persone che ti cantano davanti a un concerto. Forse ci eravamo abituati troppo bene nel 2019, però a me piace pensare che quella fosse la normalità. E ben vengano, ovviamente, tutte le occasioni di incontrarsi a distanza, perché in questi anni sono state oro. Però, a noi manca quel contatto umano, come quelle ragazze di prima che ti fermano per strada e ti chiedono se sei un cantante e non sanno neanche bene chi sei, magari ti hanno visto su una copertina, ma sono curiose e ti fermano. A noi mancano queste cose qua.”

 

Diciamo che abbiamo dovuto trovare qualche alternativa in questi due anni. Mi lego al discorso sulla crescita che facevamo prima: in questo album ho ritrovato i rovere di disponibile anche in mogano, per esempio. Però ci sono delle differenze dai lavori precedenti e, quindi, qual è il tratto distintivo di questo album oltre a quanto abbiamo detto sulla pandemia?

“Al di là delle tematiche del disco, ci sono differenze abbastanza importanti. Dal punto di vista musicale, abbiamo avuto una collaborazione che per noi è stata totalmente nuova ed è stata con Matteo Cantaluppi, il produttore del disco, noi lo stimavamo tantissimo. Desideravamo da tempo che lavorasse con noi, perché volevamo quel suono di band che lui sapeva dare. È bravissimo in questo e ha lavorato con gruppi come Fast Animals and Slow Kids, Thegiornalisti e nei suoi lavori è riuscito sempre a dare quel suono che a noi piaceva tantissimo, che sapeva proprio di suonato, con chitarra elettrica, batteria acustica. Sa fare un lavoro di mixaggio che a noi piaceva molto e quando siamo riusciti a fare il primo singolo con lui, freddo cane, l’abbiamo portato dentro tutte le altre cose e gli abbiamo proposto di fare il disco. Lui si è trovato da subito molto bene con noi ed è venuto naturale. Quindi, prima di tutto ti dico che la differenza sta in questo: nello spazio musicale si sente un bel level up, c’è una cura a livello di suoni e arrangiamenti che è diversa e anche più matura rispetto a disponibile anche in mogano. Rispetto invece ai testi, in questo disco ci siamo confrontati anche con altri autori e abbiamo scritto più canzoni e abbiamo avuto più possibilità di scelta. Rispetto a disponibile anche in mogano, è un album più lungo perché abbiamo trovato più canzoni e ci siamo detti: “Ma perché dobbiamo fare un album di dieci canzoni come l’altro?” E alla fine, c’erano quattordici canzoni che ci piacevano e le abbiamo inserite tutte ed è venuto fuori un album che, secondo me, è più sincero, parla più di noi e ci rappresenta di più. Per me, con questo disco siamo riusciti a essere più noi stessi e più riflessivi su quello che volevamo condividere. Magari, col primo disco abbiamo avuto uno strumento di comunicazione col nostro pubblico che non pensavamo di avere, non credevamo che avremmo avuto quel riscontro. Con questo disco un po’ di consapevolezza ce l’avevamo e volevamo sfruttare l’occasione per raccontare chi fossimo, perché ne sentivamo il desiderio.”

 

Dopo questi due anni, direi che fa bene qualcosa in più. Io ho finito e ti ringrazio!

“Ma il disco ti è piaciuto? Posso chiedertelo?”

 

Sì, mi è piaciuto! Però io sono molto fan di disponibile anche in mogano, ce l’ho nella testa da tanto tempo, ma anche i singoli lupo e crescere mi sono entrati subito in testa.

“Dai, sono contento, mi fa piacere. Speriamo di vedere anche te a un concerto!”

 

Certo, io ci sarò! Grazie mille, ciao!

“Grazie a te, ciao!”

 

Marta Massardo

Tre Domande a: YTAM

Come e quando è nato questo progetto?

Dopo una serie di esperienze con alcune band, ho iniziato a pensare che forse avevo bisogno di poter esprimere le mie emozioni in modo indipendente e senza dover chiedere conferma ad altri membri come funziona nei gruppi appunto. Cercavo un nome semplice, immediato e che suonasse anche un po’ internazionale, siccome prendo molto ispirazione da artisti al di fuori dell’Italia. Quattro anni fa è nato il mio progetto YTAM anche se è negli ultimi due anni che le cose si sono fatte serie!

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Il mio obiettivo è quello di trasmettere un’emozione a chi ascolta le mie canzoni, metto quasi sempre al primo posto il sound di un pezzo più che il testo. Attraverso le canzoni racconto delle esperienze, o degli stati d’animo che mi hanno colpito e che non riuscirei ad esprimere normalmente.

 

Progetti futuri?

Al momento non ho ancora spoilerato cosa ci sarà dopo GBYE (il mio primo singolo), però posso anticipare che in primavera succederà qualcosa di super! Abbiamo lavorato al mio progetto per tanto tempo e adesso non vedo l’ora di condividere con tutti il materiale che abbiamo preparato. Tenete d’occhio la mia pagina Instagram!

Tre Domande a: Alice Robber

Come e quando è nato questo progetto?

È nato nel 2019, ma in realtà mi viene da dire che questo progetto c’è sempre stato, dentro la mia testa, da quando ho iniziato a scrivere le mie canzoni. Ora sta crescendo e sta trovando la sua forma giorno dopo giorno. Quando ho iniziato a scrivere ero solo io e il mio pianoforte, oggi invece ci sono anche i miei produttori, Studio Corrente, che lavorano con me e con cui stiamo creando un immaginario ben preciso. A Marzo uscirà il mio primo EP e sono molto emozionata di poter presentare finalmente l’intero progetto. 

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Vorrei che chi ascoltasse le mie canzoni si sentisse parte di qualcosa. Vorrei che si sentissero meno soli, nel bene o nel male.
Alla fine proviamo tutti, chi più o chi meno, emozioni simili. La paura, la gioia, la sofferenza, il dolore per un amore perso. Io alla fine parlo di questo nelle mie canzoni, parlo delle mie esperienze, e sapere che qualcuno ci si possa ritrovare e sentire compreso mi rende felice.
In questi nuovi brani c’è la me più fragile, ho scritto queste canzoni nel modo più sincero possibile e spero che questo arrivi, in un modo o nell’altro. 

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Ad oggi, sarebbe senz’altro Keep On Dancing. Ho iniziato a scrivere questa canzone quando avevo 19 anni e non l’ho mai finita, fin quando non me ne sono dimenticata. L’ho ritrovata 2 anni fa dentro vecchi progetti. Mi sono resa conto di quanto mi sentissi triste e sola, mi sono tornate in mente tutte le sofferenze, i brutti pensieri, la paura di vivere e di crescere, i miei attacchi di panico in posti troppo affollati. Ho deciso di finire la canzone, le strofe sono rimaste le stesse, ho aggiunto il ritornello e lo special.
Non avrei mai immaginato quando ho iniziato a scrivere questa canzone che sarei stata capace di ballare di fronte a tutto quel dolore, ma soprattutto non avrei mai immaginato che ora chiunque può ascoltarla.
In questa canzone c’è tutto quello che sono stata e che sono, le mie paure e le mie sofferenze, ma anche la voglia di non smettere mai di combattere e di crescere nella versione migliore di me. E come dico nel ritornello, “Keep on dancing till the sun comes out”, sempre.