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Mediolanum Forum (Milano) // 16 Maggio 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Johnny Carrano
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+ Muncie Girls
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Unipol Arena (Bologna) // 12 Maggio 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Si presenta sul palco dell’Unipol Arena di Bologna con gli immancabili pantaloni a zampa, kimono di seta, occhiali a specchio e capelli assurdi.
Eccentrico, stiloso e stravagante, l’ormai 55enne Lenny Kravitz guadagna il sold-out con il suo Raise Vibration Tour, attirando persone da ogni parte d’Italia.
Il live inizia alle 21.20 con We Can Get It All together seguita da Fly Away, in assoluto la mia preferita, che fa esplodere una festa di cori e canti scatenati a cui ho contributo attivamente traumatizzando con le mie urla il ragazzo seduto accanto a me!
Dopo Dig In e Bring It On le note di American Woman sfumano nel ritmo reggae di Get Up, Stand Up tributo al cantautore jamaicano Bob Marley deceduto proprio l’11 maggio di 38 anni fa.
Quando si avvicina alle transenne per salutare i fans è subito strage di cuori, il pubblico femminile intorno a me è in delirio, lo definisce “illegale”, grida “nudo” e “ti amo” sperando che prima o poi si tolga quel kimono…
Impossibile dar loro torto, il suo sex-appeal regna su tutto e tutti, si muove e gesticola in maniera estremamente affascinante, è completamente padrone del palco, una vera rockstar!
Dopo una serie di pezzi più recenti arrivano i cavalli di battaglia: con I Belong To You e Mr. Cab Driver è impossibile non cantare e ballare insieme a lui che ci incita a battere le mani e decide di fare un giro nel parterre in mezzo alla folla scortato dalla security, muovendo onde di persone in estasi che si fiondano nella sua direzione sperando di riuscire a raggiungerlo per poterlo almeno sfiorare.
Sugli spalti tutti si alzano in piedi, Lenny si ferma qualche minuto sulla pedana rialzata al centro del palazzetto per poi tornare sul palco e concludere la sua performance con Again, salutando infine il suo pubblico con autografi su CD e magliette dei più fortunati.
Ho avuto occasione di essere sua spettatrice già 3 volte, di cui la prima ben 10 anni fa, e ho constatato che vederlo dal vivo è sempre un’esperienza strepitosa, è impeccabile e sa fare tutto, amalgama rock, soul e blues sfoderando un mix di tecnica ed esperienza, supportato da una band di tutto rispetto che completa, insieme alla sua voce inconfondibile, un coinvolgimento emotivo a mio avviso davvero speciale.
Credo che nessuno sia rimasto deluso, in questa domenica piovosa come alternativa a divano e TV direi che non è affatto male!
Mi ha lasciato la voglia di riascoltarlo in auto durante tragitto di rientro a casa e sono certa che da domani avrò la sua playlist in loop su tutti i miei dispositivi, in attesa di un suo nuovo tour a cui di sicuro non mancherò!
E’ il 18 aprile, ormai è primavera ed io parto alla volta di Bologna dove ad aspettarmi al Cortile Cafè ci sono i Legno, un duo nato da poco che non è passato inosservato durante il mio inverno e la riproduzione della mia playlist preferita di Spotify: Scuola Indie.
Dopo i due fortunatissimi singoli Le canzoni di Venditti e Febbraio che hanno portato questi due ragazzi ad avere un pubblico sempre più ampio in pochi mesi, il 29 marzo è uscito il loro primo album per Matilde Dischi e subito dopo, hanno dato anche il via al loro primo tour che sta andando benissimo.
Segni particolari: indossano delle scatole che vanno a coprire i loro volti e a ricoprire il “ruolo” di legno triste e legno felice, il che rende impossibile l’identificazione, infatti giunta a destinazione la domanda è stata: come li riconoscerò?
Nessun problema, perché non hanno esitato a farsi riconoscere, presentarsi e farmi sentire immediatamente una di loro. Il bello di alcuni incontri è proprio questo, quando di fronte hai sì degli artisti, ma soprattutto dei ragazzi genuini, con tanta voglia di condividere e raccontare tutto ciò che ruota intorno al loro progetto musicale.
Non importa chi sono, ma il messaggio che vogliono mandare e trasmettere a chi li ascolta e non ho deciso di intervistarli mossa dalla curiosità verso il loro involucro, ma verso il contenuto di quel contenitore.
E così, ci sediamo ad un tavolino con delle birre e vi assicuro che è stato un aperitiv-intervista sorprendente. Impossibile non apprezzare i modi, l’educazione, lo spirito positivo e l’entusiasmo che questi due ragazzi toscani riescono a trasmettere.
Partiamo dall’inizio, prima curiosità: quando e come nascono i Legno?
Noi ci conosciamo da sempre, siamo amici da una vita ed è nato tutto in un pomeriggio a casa quando per gioco, con una sola canzone abbiamo pensato di creare questa sorta di super-eroe della musica, nascondendo però la nostra identità dietro queste due scatole. Nelle scatole di solito mettiamo i nostri ricordi, i nostri pensieri ed è così che siamo nati. Ci siamo costruiti una corazza, una maschera e l’idea era quella di raccontare qualcosa senza dover necessariamente associare un evento ad uno di noi. C’è solo una differenza ed è tra legno triste e legno felice e la cosa bella è come se queste due figure adesso consolassero e aiutassero le persone. Siamo diventati amici e confidenti virtuali del nostro pubblico e loro hanno la possibilità di relazionarsi con noi attraverso i nostri canali social e lo fanno pensando di scrivere a legno triste e a legno felice. Eravamo entrambi disillusi dal sistema “musica” e avevamo bisogno di uscire dai nostri limiti e ci siamo riusciti, ma è nato tutto senza pensarci, tutto dal nulla. Avevamo solo una canzone: Sei la mia droga ed otto mesi fa tutto questo non esisteva, poi ci siamo ritrovati ad oggi a e vedere le persone ai concerti che cantano le nostre canzoni e per noi è già una vittoria.
Avete un bellissimo rapporto con il vostro pubblico e siete sempre molto presenti, soprattutto su Instagram dove spesso cercate di farvi conoscere meglio anche attraverso l’opzione di poter fare domande, non avete paura che crescendo questa cosa possa cambiare?
Noi abbiamo basato tutto sulla presenza e rispondiamo sempre a tutti i messaggi che riceviamo, che sia un consiglio o un complimento per noi è importante essere presenti per tutti quelli che seguono la nostra musica. Perché se una persona spende parte del suo tempo per noi, è giusto ricambiare, è giusto ringraziare. All’inizio era semplice perché eravamo in pochi, adesso invece inizia ad essere complicato soprattutto quando esce qualcosa di nuovo… Ad esempio dopo l’uscita dell’album abbiamo fatto le 5:00 di mattina, assicurandoci a turno di aver risposto a tutti, anche solo con un cuore. Spesso ci chiedono anche dei consigli, soprattutto d’amore ed è bello riuscire ad aiutare le persone che in quel momento magari non sanno cosa fare e cercano aiuto. Ci sentiamo anche utili.
“Titolo Album“è realmente il titolo del vostro album, com’è nata questa idea?
Dobbiamo ringraziare Distrattamente, una pagina Instagram che ha fatto un disegno con le parole di una nostra canzone e da lì è nata questa collaborazione. Non sappiamo chi sia o il suo nome, ma dopo la prima illustrazione gli/le abbiamo chiesto di creare la copertina di Febbraio. Successivamente le abbiamo chiesto di creare anche la copertina del nostro album e quando ci ha mandato la prima bozza, ovviamente c’era scritto “TITOLO ALBUM” perché noi avremmo dovuto mettere il titolo effettivo (che ancora non avevamo) e così è rimasto quello lì della bozza. Ci siamo detti: “Ma perché non lasciamo titolo album?”
Chi scrive tra i due?
Scriviamo entrambi, i nostri telefoni sono pieni di note vocali, vivendo in due luoghi diversi della Toscana spesso ci incontriamo anche su Skype e magari ognuno di noi ha scritto qualcosa e così poi confrontiamo le varie idee e assembliamo il tutto. Questo progetto non è pensato e ragionato, è nato passo dopo passo. La nostra idea iniziale era quella di fare uscire tre singoli, siamo partiti un po’ per gioco, invece ad ogni singolo aumentavano le visualizzazioni fino ad entrare in Scuola Indie e fino a quando l’etichetta ci ha proposto di far uscire il disco, quindi in tre mesi abbiamo messo insieme tutti i pezzi che avevamo ed è nato il nostro primo album.
Questo tour è partito alla grande, state avendo un bellissimo riscontro. Cosa provate?
Surreale, la parola giusta è surreale perché per noi è tutto inaspettato. E’ un’emozione continua. Siamo una piccola realtà, ma torniamo a casa felici. Quando suoniamo ci trasformiamo e per noi è assurdo ma allo stesso tempo bellissimo vedere le persone che cantano con noi i nostri pezzi. Questa cosa ci ha travolto e noi ci siamo lasciati travolgere. Stiamo vivendo situazioni pazzesche, siamo sati in città come Milano o Avellino e non ci aspettavamo una tale presenza.
Tornando alle domande che vi fanno su Instagram, qualche giorno fa una persona vi ha chiesto a chi dedicate le vostre canzoni e la vostra risposta è stata: “A tutte le persone che hanno avuto delle relazioni complicate” La mia domanda allora è: secondo voi cosa complica le relazioni di oggi?
La vita in generale. Quando ti trovi ad avere tutto non sei mai felice di avere tutto e ti manca sempre qualcosa, oppure in alcune eccezioni ti guardi allo specchio e sei felice perché sai di avere tutto. L’amore è bello e all’inizio è tutto perfetto, ma dopo un po’ bisogna iniziare anche a sopportare e supportare la persona con la quale decidiamo di condividere la nostra vita. La forza di una coppia è l’unione e in questo preciso momento storico in cui i social hanno un ruolo così importante nelle nostre vite, l’unione a tratti è sempre compromessa perché sicuramente da un lato è anche cambiato il nostro modo di interagire e inevitabilmente i social network vanno a complicare le relazioni perché tutti abbiamo bisogno di sentirci importanti e stimati e lì in un attimo puoi sentirti bene o anche male. Noi crediamo ci siamo molta solitudine e si tenda più alla malinconia che alla felicità. E’ cambiato il mondo. Prima per incontrare una persona dovevi chiamare a casa, oggi basta mettere un commento sotto una foto per farsi notare e per sentirsi o far sentire importante. L’amore inteso alla vecchia maniera come Sandra e Raimondo non esiste più ed era quella l’idea perfetta di unione che oggi manca o comunque sta scomparendo sempre di più.
Quanta vita c’è all’interno di queste scatole che tirate fuori nelle vostre canzoni?
Tutto. Praticamente tutto. Tutto quello che scriviamo in realtà nasce da quello che abbiamo vissuto. Abbiamo raccontato il nostro passato e il nostro presente. Raccontiamo le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre sensazioni. Chiunque potrebbe essere legno, perché chiunque ha vissuto o vive quello che cerchiamo di comunicare e dire attraverso le nostre canzoni.
Dopo aver conosciuto meglio la storia di questi ragazzi, ho avuto il piacere di assistere al loro live. Nascondono i loro volti è vero, ma non per paura.
Forse vorremmo avere tutti una scatola di cartone a portata di mano sotto la quale nasconderci ogni tanto, per avere anche solo per un attimo la libertà di essere qualcun altro o semplicemente per il bisogno di estraniarsi da quella necessità di apparire sempre e comunque in un modo piuttosto che in un altro.
Per loro non è importante farsi riconoscere tra la folla, per loro è importante emozionare ed emozionarsi. Per loro è importante continuare a fare quello che amano fare, esponendosi attraverso le parole e non attraverso i volti.
Non ci metteranno la faccia, ma sicuramente ci mettono il cuore ed è quello che arriva alle persone, ed è per questo che all’interno di una realtà per niente piccola come quella dell’attuale scatola Indie-pop, le loro scatole sanno sicuramente come farsi vedere e sentire.
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+ Slimboy
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C O S A F A I Q U E S T A N O T T E ?
T O U R 2 0 1 9
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È nei momenti in cui tutto va veloce che hai bisogno di un istante di relax.
Anche di un istante che sia microscopico, ma che sia solo tuo e possibilmente in compagnia di una scatola con un pulsante rosso per mettere in pausa tutto e ricominciare in solitudine a respirare lentamente a pieni polmoni.
Ma in mano ho solo un cellulare e attorno a me centinaia di persone.
Questa data del Cosa fai questa notte? Tour 2019 degli Ex Otago al PalaEstragondi Bologna inizia con la prontissima Questa notte e mi chiedo: Maurizio (Carucci ndr) stai parlando con me?
Cosa fai questa notte? Per il resto chi se ne fotte. Dove vai questa notte? Per il resto chi se ne fotte.
Ed eccolo lì il mio pulsante rosso. E spengo tutto lasciando fuori il lavoro (anche se al momento sto comunque “lavorando”), i doveri quotidiani e lo stress di una vita mai frenetica che talvolta fantastica la sedentarietà di un ufficio.
Intanto incontro amici, addetti ai lavori e musicisti che come me hanno deciso di dedicare una serata a della buona musica, sorprendendo inoltre me stessa di essere così rilassata dopo pochi minuti di concerto.
Ora Mauri, Racho e i colleghi difendono i ragazzi del 2019 in I giovani d’oggi perché se è vero che valgono poco, è altrettanto vero che le generazioni passate non hanno in alcun modo lasciato un mondo sano e salutare a quelli che verranno.
Tra brani vecchi e nuovi si salta con Tutto bene per arrivare alla dolce Quando sono con te che dedico alla mia metà, perché ogni volta che la sento esplode dentro di me un frastuono e una musica.
Sono contenta di constatare che il gruppo non è cambiato a dispetto di chi dice che il palco di Sanremo una volta calcato cambia l’attitude di un artista nei confronti del proprio pubblico.
Infatti per rassicurare anche i più scettici gli Ex Otago sono scesi dal palco a ballare con i propri fan concludendo la serata con tanta gioia.
E se qualcuno mi chiedesse un hashtag per descrivere la serata positiva appena trascorsa direi proprio #GIOIA.
E sono anche riuscita a trovare all’ultimo secondo un distributore di benzina, perché con la positività si risolve tutto e non si rimane nemmeno a piedi con la macchina.
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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]
Era passato un po’ di tempo, forse anche troppo, dal primo album dei Canova che quest’anno hanno giocato d’anticipo sulla primavera regalandoci un attesissimo nuovo album Vivi per sempre, uscito il primo marzo per Maciste Dischi e un omonimo tour che si è concluso il 5 aprile al Palaestragon di Bologna.
L’immagine “regina” che regnava come sfondo sul palco è stata la stessa scelta per la copertina dell’album: quella dell’ormai famoso cane e dell’espressione dei suoi occhi, diventato un po’ l’amico fedele di tutti quelli che da sempre sono fedeli alla musica di questa giovane band milanese e di tutti quelli che in qualche modo trovano rifugio, estremo piacere e un pizzico di sana malinconia in quelle nove tracce che rimangono impresse nella testa tanto quanto gli occhi di quel cane.
Ai Canova l’originalità non è mai mancata, così come non è mai mancato l’entusiasmo e la voglia di riuscire nella missione di fare e diffondere buona musica.
E sembra abbiano fatto davvero un ottimo lavoro questi quattro ragazzi, perché sono partiti da zero ma sempre uniti e umili nel voler portare avanti il loro “credo” divenuto presto anche quello di molti giovani idealisti come me e cercando di alzare sempre di più la loro asticella fino ad arrivare al loro meritatissimo successo.
Tra salti avanti e indietro nel tempo con vecchi successi alternati ai nuovi brani che hanno il potere di diventare immediatamente colonne sonore di vita e salti nel vero senso della parola, una cosa è certa: durante un loro live è facile perdere la cognizione del tempo e del fiato a disposizione per poter cantare a squarciagola.
A tutto questo va aggiunta l’eleganza innata (nel senso più ampio e variopinto del termine) del loro front man Matteo Mobrici. Le sue parole sono quella boccata d’aria che serve dopo una lunga apnea, sono quel qualcosa che ti “tocca” dopo non so quanta apatia.
Se dovessi riassumere in una frase tutto quello che ho sentito forse non saprei bene quali parole utilizzare per descrivere al meglio il mio benessere mentale in quell’ora e mezza, ma in compenso so benissimo cosa riescono a fare loro.
So benissimo cosa sono capaci di scatenare e smuovere.dentro, fuori e ovunque ci sia della pelle su cui far venire i brividi o qualche cuore da far battere a ritmo veloce.
I Canova non deludono mai, sono una garanzia senza data di scadenza. Qualunque sia il dubbio o la domanda, tra Avete ragione tutti e Vivi per sempre ci sarà sicuramente una risposta.
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Magellano Concerti
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]
L O S P I R I T O C H E S U O N A T O U R
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]
Locomotiv Club (Bologna) // 29 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Zamboni53 Store
• Il fascino dell’Oriente da Debussy ai Cavalieri Jedi •
Immaginate per un attimo, nei panni di un artista europeo del 1867, di attraversare i grandi cancelli dell’Esposizione Universale di Parigi.In questa edizione gli argomenti trattati sono l’agricoltura, l’industria e le arti.
A costo d’essere scontati, entrando, cercherete con lo sguardo l’area dedicata alle avanguardie artistiche. Incuriositi dal padiglione del Giappone ne varcherete la soglia ignari che, di lì a poco, sarete inondati da qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui l’occidentale concepisce l’arte.
Alzando gli occhi li sgranerete entrando in contatto con qualcosa di così extraterrestre, da farvi sentire insieme spaventati e meravigliati: le stampe giapponesi, pregne di un fascino tanto ignoto e misterioso, conquistano immediatamente i nostri cuori e le nostre menti avide di sconosciuto.
Katsushika Hokusai, “Vento del Sud, Cielo sereno” anche noto come “Fuji Rosso” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.
In occidente, vi assicuro, nulla del genere si era mai visto poiché il Giappone, per preservare la sua identità, fino a quel momento visse nel più totale isolamento.
Uno tsunami incontrollabile svegliò voci nascoste nei cuori degli artisti; la rivoluzione creativa fu inevitabile e da questa nacque quel pregevole dono per il quale saremo per sempre debitori all’Oriente: l’Art Nouveau.
Manifesto dell’Esposizione Universale di Torino del 1902
Oggi, nel 2019, dopo secoli di conoscenza ed istruzione, ciò che noi europei potremmo provare davanti alle opere giapponesi dovrebbe tradursi in un sentimento edulcorato e sbiadito.
Invece, entrando nel Museo Civico Archeologico di Bologna, ci ritroviamo tutti con le mani appoggiate sul viso e gli occhi sgranati, mentre ci godiamo quella sensazione aliena che proviamo noi occidentali quando si tratta d’Oriente.
Questa roba fa paura, giuro, perché vorresti capirla anzi, credi di capirla ma non è così, non è possibile, è di un altro pianeta. E questo, irrimediabilmente, ci attira spaventandoci ora come 150 anni fa.
Katsushika Hokusai, “Kajikazawa nella provincia Kai”, dalla serie “Le Trentasei vedute del Monte Fuji”.
La mostraHokusai Hiroshige – Oltre l’Onda si fa traghettatrice di un viaggio attraverso l’arte della stampa giapponese, arte che necessita di una disciplina ed di una concentrazione unica.
L’allestimento è davvero intelligente, non solo perché finalizzato alla comprensione dei due maestri dell’arte Ukiyo-e, ma perché porta il pubblico a confrontarne le opere, individuandone sì le uguaglianze e le differenze, ma anche le motivazioni che hanno portato ad esse.
Utagawa Hiroshige, “Ōhashi. Acquazzone ad Atake” dalla serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.
Ma che cos’è l’arte Ukiyo-e? Letteralmente il termine significa “dipinto del mondo fluttuante” e per i buddisti rappresentala fugacità e la precarietà delle cose terrene, dalla quale il saggio doveva allontanarsi il più possibile.
Nel Seicento il significato del termine venne rovesciato poiché furono proprio quei desideri effimeri e fluttuanti a rendere preziosa la vita terrena.
La pittura giapponese, infatti, era fatta di attimi fuggenti: immobilizzava con strumenti inspiegabili un istante nel tempo e nello spazio, rendendolo eterno, evanescente e fluttuante.
Il più grande maestro che l’Ukiyo-e conobbe fu Katsushika Hokusai(1760-1849) che definì se stesso “solo un vecchio pazzo per l’arte”. Anche noi siamo pazzi per l’arte, la sua.
Katsushika Hokusai, “Nakahara nella provincia di Sagami” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.
Nelle sue opere il maestro riesce a creare qualcosa di eccezionale e mai scontato, nonostante lo schema sia sempre il medesimo: in primo piano la vita quotidiana dell’uomo, sullo sfondo la natura potente e spaventosa, seppur spesso silente ed addormentata.
La mostra, dopo averci presentato Hokusai e le sue trentasei vedute del monte Fuji, ci guida davanti alla vera protagonista dell’esposizione: La Grande Ondapresso la costa di Kanagawa.
Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.
Una giornata, per ammirarla, non sarebbe bastata.
Per quanto possa essere minacciosa la natura per Hokusai, rappresenterà sempre l’armonia, la pace e l’eterna costante dell’uomo.
Il sentirsi impotenti davanti alla furia della natura, secondo la filosofia giapponese, è una certezza rassicurante. Accanto a lei, in una teca gemella, troviamo una stampa del più giovane Utagawa Hiroshige (1773–1829) che rappresenta un’onda ispirata a quella del grande maestro Hokusai, chiamata Il Mare a Satta nella provincia di Suruga.
L’Onda di Hokusai, a differenza di quella di Hiroshige, urla, ruggisce e assale le fragili navi con i suoi schiumosi artigli di drago, creando uno spettacolo drammatico.
Utagawa Hiroshige, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” dalla serie “Trentasei vedute del Fuji”.
L’Onda di Hiroshige, invece, capovolge l’inquadratura portando l’umano sullo sfondo ed il mare in primo piano.
Rappresenta una natura pacifica e materna, nella quale le navi viaggiano serene dove il pericolo è lontano. Entrambi gli artisti, inconsapevolmente, aprirono la strada all’invenzione dei celebri manga giapponesi.
Hiroshige si lasciò influenzare dall’arte occidentale, abbandonò la concezione d’istante fluttuante ed immobile di Hokusai, destando i suoi soggetti, animandoli, rendendoli gioviali ed espressivi, in stampe che paiono appena uscite dagli studi di Hayao Miyazaki.
All’Occidente Hokusai regalò, Hiroshige rubò. In più, è evidente che l’avvento della fotografia colpì fortemente il giovane artista, e lo si legge nelle splendide stampe che trasforma in profonde inquadrature fotografiche.
Dopo aver sconvolto i sentimenti di Monet, la tecnica di Van Gogh ed il tratto di Degas,l’arte giapponese proseguì la corsa alla conquista del cuore occidentale.
Anche la musica, arte sempre assetata d’influenze, si fece sedurre dal Giappone in una danza misteriosa e fluttuante.
L’amante più devoto fu Claude Debussy, che rimase tanto coinvolto dalla visione de La Grande Onda di Hokusai da comporre, nel 1905, un’incantevole raccolta di schizzi sinfonici a lei dedicata: la celebre Le Mèr. Sulla copertina della prima edizione, per sua scelta, volle proprio l’immagine de La Grande Onda.
“La musica è un’arte molto giovane, sia nei suoi mezzi, sia per la conoscenza che ne abbiamo”, disse Debussy al suo editore dopo aver compreso quanto basti poco per cambiare irreparabilmente ilmodo di vivere le piccole e grandi cose.
Dopo di lui tantissimi musicisti cavalcarono quell’Onda misteriosa, come Igor Stravinsky e Maurice Ravel, lasciandosi trascinare in un mare di profondi gorghi, di misticismo e di tensione.
Giacomo Puccini scelse di rappresentare in musica la storia di Madama Butterfly, una delle opere ancora oggi più famose, proprio perché come ogni altro artista del tempo era desideroso di toccare e plasmare la cultura giapponese, come argilla tra le sue mani.
Attraversando la classica e quella jazz, ancora oggi la musica occidentale porta i segni dorati delle influenze orientali che, inconsapevolmente, peschiamo in grande quantità anche nella cultura popolare.
Basti pensare al wagneriano John Williams che, dopo 50 anni di carriera hollywoodiana, si lascia ancora influenzare da Debussy e, indirettamente, dall’Ukiyo-e.
Per la colonna sonora della saga di Guerre Stellari, sua figlia prediletta, ha scelto quelle atmosfere ascetiche e vaporose tipiche della musica e della filosofia giapponese. Sulle dune di Tatooine o circondati dai Jawa, è inevitabile sentirne la presenza, il profumo, il tocco.
Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada I, “Veduta con la neve”.
La verità è che molto dell’iconica saga di George Lucas abbraccia caldamente l’Oriente. In fondo, cos’è la filosofia dell’Ukyio-e, se non qualcosa di incredibilmente rassomigliante alla filosofia dei Cavalieri Jedi?
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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]
Locomotiv Club (Bologna) // 26 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]Per molti è stata la rivelazione della scorsa edizione del Firenze Rocks, altri lo seguono dai tempi delle sfuriate punk rock dei Gallows e dalle distorsioni elettriche dei Pure Love. Frank Carter torna in Italia con i suoi The Rattlesnakes, progetto nato nel 2015, in costante ed eclettica evoluzione.
Dopo l’appuntamento alla Santeria Social Club, la data del 26 marzo vede come scenario il Locomotiv Club di Bologna. L’atmosfera familiare e raccolta del locale riceve con entusiasmo la band di apertura.
Sono giovani, sono inglesi, sono i King Nun. I quattro londinesi suonano forte, hanno pezzi di qualità, si divincolano sul palco con scoordinata energia.
Guardandoli, sembra di avere davanti una vecchia foto anni ’70: i classici rampolli britannici di buona famiglia e l’unico neo di aver scelto la strada del rock ‘n’roll. Per fortuna.
Giusto il tempo di posizionare la pedaliera di Dean Richardson, lo sgabello di Gareth Grover e il basso di Tom ‘Tank’ Barclay che il palco è pronto ad accogliere Frank Carter. I tatuaggi in vista dalla canotta traforata, i pantaloni della tuta rossi sgargianti, come i suoi capelli. Ci si scalda sulle note di Crowbar, primo singolo estratto dal nuovo album End of Suffering, in uscita il 3 maggio 2019. Con le sembianze di un folletto gabber, il cantante salta, corre, sorride in ghigni espressivi.
Il pubblico, esaltatissimo, non aspetta altro che uno dei suoi famosi crowdsurfing che arriva già alla terza canzone, finendo con una perfetta verticale sulla folla.
Tra circle pit, teste che si scuotono a ritmo e sudore, il live si infuoca. Un concerto che riecheggia delle note e delle parole di sentite dediche.
Se Fangs è un ringraziamento a Matt Cabani di Hellfire per aver creduto in lui fin dagli esordi, Heartbreaker è l’occasione per manifestare contro ogni forma di violenza, soprattutto contro quella sulle donne.
Il frontman ne ricorda il ruolo fondamentale, si scusa a nome del genere maschile per averle offese in qualsiasi modo e invita le ragazze ad arrivare sino al palco, passando di mano in mano, senza che nessuno si permetta di toccarle.
Anxiety è anticipata da una confessione: “Circa due anni fa, quando ho iniziato a comporre i nuovi brani, stavo attraversando un momento davvero difficile. La musica, le persone care, la mia famiglia, il mio lavoro non riuscivano a farmi dimenticare il mostro che si presentava allo specchio, ogni mattina. Mi sentivo profondamente solo. Poi ho intrapreso una battaglia. Ed è stato anche per merito dei miei amici e compagni di band che ho scelto di lottare. È una fortuna e una benedizione averli al mio fianco. Perché se la depressione appartiene al passato e l’ansia per quello che verrà al futuro, ciò che conta è vivere questo momento, insieme”.
Alla figlia, invece, è dedicata Lullaby, una ninna nanna molto alternativa che precede i ringraziamenti di rito e il gran finale.
“Grazie a chiunque si trovi qui, oggi. Grazie a voi che, a miglia e miglia da casa mia, cantate le mie canzoni. Sì, sto parlando a voi, a degli uomini. Uomini che affrontano guerre contro i propri demoni perché siamo costantemente spinti ad essere guerrieri. Sapete, però, che il nobile traguardo di un guerriero è quello di morire? Desidero, invece, che ogni singola persona qui viva una lunga, fottuta vita per i propri genitori, partner, figli e famiglie. Voglio soprattutto che lo faccia per se stessa. Parlate, apritevi. E ascoltate chi chiede il vostro aiuto”.
La chiusura con il classico I hate you, dall’album Blossom, è una festa. I King Nun si uniscono ai Rattlesnakes, in una pioggia di champagne e grida con il poco fiato rimasto.
Sì, perché a un concerto di Frank Carter non si va per l’impeccabilità della voce o per la perfetta esecuzione.
Quello a cui si assiste è l’espressione di un’urgenza artistica ed emotiva che evade ogni assolo di chitarra, ogni colpo di batteria, ogni nota urlata al microfono. Il significato che racchiude va oltre, come quello che custodisce l’inchiostro di un tatuaggio.
“If you are struggling with the weight of the world around you, please talk to someone. Embarrassment breeds Shame, shame breeds loneliness and loneliness will kill you if you let it. You are not alone.”
– Frank Carter[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]
SETLIST:
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Hellfire Booking Agency
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Laura Faccenda