È già primavera all’Unipol Arena per la data bolognese dei Florence and The Machine. A poche ore dal tanto atteso ritorno della band capitanata da Florence Welch, il parterre è gremito di ragazze e ragazzi sorridenti che indossano coroncine di fiori, camicie dalle fantasie colorate, glitter e brillantini. Uno spirito di unione e spensieratezza che, galvanizzato ancora di più dall’energia degli eclettici Young Fathers in apertura, accoglie, intorno alle 21,15, gli otto musicisti che si posizionano ai rispettivi strumenti, su un palco dominato dai toni caldi delle luci e dei lunghi pannelli di legno.
Ed ecco apparire lei, la regina della serata. Florence è vestita di un abito lungo ricamato, color acqua marina, in armonia perfetta con il suo candido incarnato e il rosso dei suoi capelli. Dalle prime note di June e Hunger, brani con cui esordisce anche l’ultimo lavoro in studio High As Hope, la voce eterea, potente, perfetta avvolge il pubblico in un crescendo di emozioni.
“Ciao Bologna, è sempre bello tornare qui” – saluta – “Ogni volta che vengo in Italia, è un po’ come tornare a casa. Ora vi chiedo di cantare e ballare con me. Non abbiate paura!”
L’invito viene accettato, la vicinanza è concreta, palpabile. Tra canzoni del nuovo e del vecchio repertorio, l’artista inglese corre, salta, si libra in volo in piroette. Una figura in cui si fondono la libertà, il coraggio, l’istinto di un’amazzone e la grazia, l’eleganza, la delicatezza di una venere rinascimentale.
Se South London forever è dedicata alla sua città natale ed è l’occasione per manifestare contro la brexit e qualsiasi tipologia di divisione in nome di un’Europa coesa, Patricia è un omaggio a Patti Smith, ispirazione costante nel percorso artistico della Welch. “Benvenuta a Bologna” – dice, guardando all’orizzonte, come se la sacerdotessa del rock fosse presente in quell’istante. Per Sky full of song, la scenografia si trasforma in un cielo stellato perché quel brano è sceso dall’alto, come necessità, come salvezza.
Si balla, si salta e, soprattutto, si fa un gesto sempre meno usuale durante i live. Infatti, su Dogs days are over viene fatta una richiesta: “So che è difficile, so che vi sembra strano…Ma, per favore, mettete in tasca per un attimo i vostri telefoni. Su, da bravi! Non condividete. Questo momento è vostro, solo vostro… e, se volete, posso dirlo anche in un inglese più formale… Togliete quei cazzo di telefoni!”.
È così Florence, spontanea, vera, umana. Cerca il contatto, scende le scale attraverso cui il palco arriva sino alle prime file e canta Delilah e What kind of man abbracciata ai suoi fan, aggrappata a loro, perché è grazie a loro che la melodia fiabesca di Cosmic love compie dieci anni. È grazie a loro che i suoi sogni di bambina sono diventati realtà. Ed è una sensazione tanto meravigliosa quanto terrificante, a volte. È una grande responsabilità, confessa, dimostrandosi profondamente riconoscente.
L’encore è affidato alla solenne Big God e alla famosissima Shake it out. “Vi domando un’ultima cosa… cantiamola tutti insieme”. La chiusura perfetta del cerchio che rappresenta la rinascita di cui Florence è stata protagonista. Un inno a scuotere via i propri demoni, a danzare senza il loro peso sulla schiena. La consapevolezza di non poter cancellare mai totalmente il proprio passato ma accoglierlo, anche nel dolore. Lasciare che ciò accada, per liberarsi. Per volare alto, verso il proprio cielo. Per volare alto, come la speranza.
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Notti Brave A Teatro
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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Sonorità meravigliosamente british in questo ventoso 11 marzo al Palanordino di Bologna con i White Lies.
Il gruppo di Ealing, Londra, presenta l’ultimo lavoro, il quinto album in studio Five uscito proprio nel 2019 e che risulta essere una sorta di lavoro organico e riassuntivo di tutto ciò che è stato fatto in precedenza, con uno slancio verso il futuro e nuove melodie.
Canzoni che, assieme ai grandi successi che li hanno resi celebri al pari dei connazionali Editors e degli statunitensi Interpol, rievocano quasi delle atmosfere eighties alla Joy Division, tutto condito da luci blu e rosa che hanno dato un’aria magic-pop al palco e alla platea.
Come sempre impeccabili e quasi mistici, a guardare esclusivamente sul palco avremmo potuto tranquillamente essere in un film tipo Sixteen Candles, ma niente abiti pomposi e variopinti attorno a noi.
Solo tanta attualità anni duemila che ci riporta, ahimè, quarant’anni in avanti al meno colorato 2019.
Grandi e ancora grandi, nonostante ci aspettassimo di vederli muovere un pochino di più sul palco quasi ad accompagnare la folla sottostante nei balli e nei canti.
Farewell to the Fairground parte subito come secondo pezzo, così che se ancora non l’hai capito, ti rendi conto di chi c’è sul palco, seguita poco dopo dalle atmosfere più pop di Is My Love Enough?
La cosa che mi ha stupito è stata la scelta di lasciare in fondo alla scaletta il loro super singolo Tokyo tratto dal nuovo album, Five appunto.
Anche se, a questo punto, inizio a chiedermi quanto l’effetto stupore non fosse voluto, quasi a lasciarci credere fino all’ultima canzone che questo splendido pezzo non sarebbe stato suonato.
E ne sono uscita un po’ malinconica, un po’ spiazzata ma con un grande sorriso.
Un concerto riassumibile l’hashstag #solostarebene.
SETLIST
Time to Give
Farewell to the Fairground
There Goes Our Love Again
Believe It
Is My Love Enough?
Getting Even
Hold Back Your Love
Unfinished Business
Jo?
Don’t Want to Feel It All
Take It Out on Me
Never Alone
Big TV
Kick Me
Death
Tokyo
To Lose My Life
ENCORE
Change
Fire and Wings
Bigger Than Us
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Vivo Concerti
Non si muove una foglia senza che Futura 1993 non se ne accorga. Questa volta ad attrarre la nostra attenzione è stato Guglielmo Giacchetta, che già da un po’ muove i suoi primi passi nell’underground bolognese col nome d’arte di Teryble. Con il suo ultimo, omonimo, singolo “Teryble”, il giovane trapper del capoluogo emiliano vuole mettere in chiaro subito il suo intento: far tesoro di quanto prodotto fino ad adesso per ricominciare con un nuovo progetto al fianco di Parix Hilton, producer rinomato nella scena trap, ex chitarrista di Sfera Ebbasta, oltre che agente dello stesso Teryble. Abbiamo deciso dunque di fargli qualche domanda anche per testare di che pasta è fatto.
Guglielmo e Teryble, quanta distanza c’è tra la persona e il personaggio? Sono sempre stato un po’ timido nell’esprimermi e raccontare quello che sono. Quello che ho creato fa parte di me, sono semplicemente io che racconto quello che non sono mai riuscito a dire. Non voglio etichettarmi come personaggio, non mi riconosco in nulla di quello che già esiste: i miei messaggi, quel che faccio, ognuno è libero di interpretarlo come gli pare.
Parliamo del tuo nuovo singolo: come è nato e qual è il suo messaggio principale? È nato quasi per scherzo, in questa canzone ho raccontato in modo giocoso la mia vita e quello che sono, non abbiamo pensato a un messaggio preciso da dare ma piuttosto a presentare Teryble e le sue sonorità. Il vero messaggio arriverà con le prossime uscite, spero.
Hai affermato che Teryble è un collage di cose diverse; quali sono a tuo avviso le più importanti che caratterizzano il tuo alter ego?
Come ti dicevo prima, non credo sia etichettabile come alter ego, Teryble sono io, o meglio è una parte di me. Ciò che mi contraddistingue penso sia l’autoironia, direi che si vede abbastanza.
Come nascono i tuoi brani? Come gestisci il flusso creativo tra rime e strumentale?
Le canzoni, le rime e la strumentale escono sempre in modo estremamente naturale, per questo devo ringraziare Parix Hilton: ci chiudiamo in studio a parlare e fumare, è così che tutto nasce.
Qual è stata la motivazione che ti ha spinto a fare tabula rasa dei tuoi progetti autoprodotti per rilanciarti con questo nuovo progetto? La voglia di rivalsa, di raccontare chi sono al meglio delle mie possibilità. Quel che facevo prima non mi rispecchiava, credo di aver trovato finalmente la mia dimensione.
Com’è il tuo rapporto con Parix Hilton? Come avete deciso di sviluppare un progetto artistico insieme?
Parix è un amico, un fratello e un collega, oltre ad essere il mio producer e il mio manager. Insomma è un elemento fondamentale del mio percorso musicale, ma anche di vita.
La scena trap bolognese è in fermento, e giorno dopo giorno nascono nuovi ambiziosi progetti musicali. Come ti collochi in questo scenario? Perché Teryble è diverso?
Non c’è una scena statica a Bologna. Tutti i talenti che nascono qua poi faranno parte della scena di Milano, mentre noto un grande espatrio da Roma. Bologna è un punto di arrivo e un punto di partenza: un porto di talenti, si potrebbe dire così. Credo che l’unica differenza tra me e gli altri colleghi bolognesi sia la professionalità e la mentalità, punti fondamentali se vuoi che questa passione diventi un vero lavoro.
Considerando ciò che hai in serbo per il tuo pubblico, come pensi sarà il 2019 di Teryble?
Il 2019 per me è una sorpresa, il successo sarà determinato solo dalla continuità e dalla serietà. Tutto è già pronto, bisogna solo trovare il modo giusto di mostrarlo.
Ci salutiamo, ma con una domanda: perché vale la pena ascoltare Teryble? Per qualsiasi artista credo non sia possibile spiegare la sua arte o perché a qualcuno potrebbe piacere. Le arti in generale non hanno un perché, specialmente la musica. È semplicemente il mio modo di esprimermi, può piacere come non piacere, c’est la vie.
Francesco Trovato
Futura 1993 è il format radio itinerante creato da Giorgia Salerno e Francesca Zammillo che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro. Segui Giorgia e Francesca su Instagram, Facebook e sulle frequenze di RadioCittà Fujiko, in onda il martedì e il giovedì dalle 16.30
Esiste una maledizione nel mondo della musica, esiste un club esclusivo in cui nessuno spera di entrare. Stiamo parlando del “Club 27”.
Si tratta di un modo di dire, ormai entrato nella cultura popolare per identificare tutta una serie di morti, avvenute per lo più in modi misteriosi, che hanno avuto come protagonisti personaggi famosi del mondo del rock. Tutti scomparsi all’età di 27 anni.
Il “Club 27” affonda le sue origini nel 1938 quando Robert Johnson, mito del blues muore a Greenwood, nel Mississippi.
Un personaggio dal passato controverso e dalla storia burrascosa e tormentata tanto che le leggende sulla sua figura iniziano a diffondersi quando l’uomo è ancora in vita e nel fiore degli anni. Pare infatti che fosse un chitarrista mediocre ma che, nel giro di poco tempo, abbia sviluppato delle doti fuori dal comune.
Nessuno era in grado di spiegare questo miglioramento così repentino e iniziò a diffondersi la voce che avesse venduto l’anima al diavolo per ottenere l’abilità come chitarrista. Un moderno Dr. Faust che anziché la conoscenza desidera l’abilità con lo strumento a sei corde.
Amante dell’alcool, delle belle donne e della musica troverà la morte a causa di questi 3 fattori. Sembrerebbe infatti che sia stato avvelenato dal gestore di un locale in cui si stava esibendo perché aveva flirtato con la moglie di quest’ultimo.
Una vita vissuta all’insegna di eccessi e feste sfrenate al limite della legalità. Ed è proprio l’abuso di droghe il principale responsabile della rovina di molti membri del Club 27.
E’ il caso di BrianJones, fondatore e chitarrista dei Rolling Stones.
Se Mick Jagger, oggi settantacinquenne, continua a calcare i palchi con il suo amico Jones la vita non è stata così buona. L’uomo è stato trovato morto nella sua piscina, anche lui aveva solo 27 anni.
E’ il 1961 quando Brian conosce, durante un concerto all’Ealing Club di Londra, Mick Jagger e Keith Richards: un’incontro che cambierà per sempre la storia della musica. Jones fu il primo leader della band nonché colui che ne scelse il nome.
Un anno dopo i Rolling Stones si esibiscono per la prima volta a Londra e da quel momento la loro è una strada verso la leggenda. Nonostante il successo all’interno del gruppo iniziano ad esserci tensioni sempre più forti: differenze dal punto di vista artistico e screzi per questioni personali. Jones inizia a sentirsi escluso da Jagger e Richards, che invece sembrano giocare nella stessa squadra.
L’uomo troverà rifugio nell’alcol e nella droga che però inizieranno a renderlo estremamente inaffidabile. A causa di questi problemi il suo peso all’interno della band venne inizialmente ridimensionato e, nel giugno del 1969, verrà allontanato definitivamente dagli Stones.
Poco meno di un mese dopo, il 3 luglio, Brian verrà trovato morto in piscina. Il coroner dichiarò che si trattò di un incidente ma la sua compagna, Anna Wholin, affermò che fu assassinato da un costruttore. Altre voci invece sostengono che i responsabili della morte siano stati proprio Jagger e Richards.
Passa poco più di un anno e l’8 settembre del 1970 il mondo della musica deve dire addio al più grande chitarrista della storia: Jimi Hendrix.
Hendrix prenderà parte al primo festival rock della storia, il Monterey International Pop Festival, dove concluderà la sua esibizione dando fuoco alla chitarra.
Il mondo lo ricorda per la sua performance a Woodstock, che è entrato nell’immaginario collettivo come uno dei più grandi concerti della storia. Qui Hendrix si cimentò in una critica alla guerra del Vietnam: l’inno americano venne suonato in modo totalmente distorto per simulare il rumore degli spari e dei bombardamenti, un modo per ricordare l’orrore che stavano vivendo i suoi connazionali.
E’ proprio grazie a questi live iconici che Hendrix è entrato nel mito.
La sua ultima performance è stata sull’Isola di Wight. Il 18 settembre del 1970 verrà trovato morto soffocato a casa della sua fidanzata: un mix di alcool e tranquillanti gli è stato letale.
Passano solo poche settimane e il mondo della musica, ancora sconvolto dalla perdita del chitarrista, deve dire addio ad un altro nome importante: Janis Joplin.
Lei ed Hendrix avevo condiviso il palco a Woodstock ed ebbero anche una relazione.
La donna, di origini texane, durante l’infanzia venne bullizzata per la sua ideologia estremamente all’avanguardia. In una società razzista e maschilista la Joplin si fece portavoce dei diritti dei neri e degli omosessuali.
Nel 1969 prese parte al concerto in onore di Martin Luther King.
Janis viene considerata la regina del blues ma è ricordata per il suo temperamento irruente: basta ricordare l’aneddoto in cui ruppe una bottiglia in testa a Jim Morrison, che a causa dell’alcol era diventato rude, maleducato e molesto. Anche lei si esibisce nei festival di Monterey e ovviamente a Woodstock.
Venne trovata morta a causa di un overdose di eroina.
Il 3 luglio del 1971 il poeta, leader dei The Doors viene rinvenuto senza vita nella sua vasca da bagno. La sua è forse una delle morti più misteriose del mondo della musica. Pare che l’autopsia sul cadavere non sia mai stata effettuata e che la notizia del decesso sia stata resa nota soltanto il 9 di luglio.
Jim Morrison non aveva un carattere facile. Venne incarcerato più di una volta e, nel 1967 un concerto dei Doors venne annullato poiché Morrison venne arrestato durante l’esibizione. Ma in quell’anno, grazie a Light My Fire, i Doors scrivono il loro nome a caratteri cubitali nell’Olimpo del Rock.
L’abuso di alcool e di droga però iniziano a lasciare il segno su Morrison, il degrado non è solo psicologico ma anche fisico. Quando nel 1971 decide di andare a Parigi, per dedicarsi alla poesia nessuno immaginava che non sarebbe più tornato. Jim è ancora la, nel cimitero di Peres Lachaise, e la sua tomba ormai è diventata un luogo di pellegrinaggio per i tanti fan.
Tutti questi musicisti avevano la J nel nome. Tutti loro sono morti a 27 anni. Strane coincidenze che hanno fatto subito gridare al complotto. Hendrix, Joplin e Morrison sono morti in meno di un anno. Morrison ci ha lasciato esattamente due anni dopo la scomparsa di Jones ( a cui aveva dedicato una poesia durante un esibizione all’Aquarium Theatre di Los Angeles).
Morti strane, poco chiare e misteriose, dove qualcuno ci ha visto lo zampino della CIA poiché tutti erano attivi nei movimenti del post sessantotto. Ma sono tutte supposizioni, tutte coincidenze che non hanno fatto che accrescere il mistero intorno a questi decessi.
Sembra che la maledizione si sia fermata, che le morti si siano arrestate. Questo fino al 1994. E’ proprio durante quest’anno che la stampa inizia ad utilizzare il nome “Club 27” quando il mondo viene sconvolto dal suicidio di Kurt Cobain.
I Nirvana iniziano la loro carriera nel 1987, e nessuno avrebbe mai pensato che sarebbero diventati, nel giro di due anni, una delle band alternative più importanti nella storia della musica.
Al loro primo concerto al Community World Theatre di Tacoma si esibiscono davanti a 13 persone. Ma quando nel 1991 esce Nevermind, e Smell Like Ten Spirit diventa l’inno della generazione X le cose cambiano. Le persone seguono con interesse la vita privata di Kurt che, nel 1991, sposa Courtney Love e continua a calcare i palcoscenici.
Ma il destino aveva piani diversi e la vita, a quanto pare, stava troppo stretta al leader dei Nirvana. Mentre Kurt è a Roma tenta il suicidio una prima volta e viene portato d’urgenza in ospedale.
In Come As you Are cantava I swear I don’t have a gun, ma il modo per procurarsi un fucile alla fine lo ha trovato: è bastato chiedere aiuto all’amico Dylan Carson.
Il 5 aprile del 1994, dopo essersi iniettato un’ultima dose di eroina, Kurt si spara un colpo in testa. Il corpo verrà trovato solo tre giorni dopo da un elettricista.
Passano gli anni e le scene vengono sconvolte da una giovane donna con una voce profonda in grado di colpire chiunque l’ascolti: Amy Winehouse.
L’album d’esordio Frank è un successo. La sua è una vita segnata dalla droga e dalle dipendenze; la canzone che la consacra è Rehab una dichiarazione del suo rifiuto di disintossicarsi dall’alcool.
Viene trovata morta nella sua casa di Camden e l’autopsia non chiarirà le cause del decesso.
Tutte queste figure, nonostante la brevi carriere, sono diventate delle vere e proprie icone del mondo della musica. Proprio per questo motivo ONO, Galleria di arte contemporanea di Bologna, ha deciso di dedicare una mostra ai protagonisti del Club 27.
Si tratta di 40 scatti, alcuni in esclusiva italiana, per rendere omaggio a queste figure iconiche che hanno lasciato un segno indelebile nella cultura e nell’arte.
La mostra rimarrà aperta fino al 24 febbraio ed è un occasione unica per vedere degli scatti che ritraggono gli sfortunati membri del club nel momento in cui erano ancora degli uomini e non ancora delle leggende.
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Il 14 febbraio è il giorno in cui si celebra l’amore e i Negramaro non avrebbero potuto scegliere data migliore per dare inizio al loro tour che ha preso il via proprio la sera di San Valentino dall’RDS Stadium di Rimini.
Un inizio posticipato di qualche mese dopo il malore che a settembre ha colpito il chitarrista della band Lele Spedicato e la conseguente scelta da parte del gruppo di aspettare la sua ripresa per tornare a suonare tutti insieme.
Alle 21:00 si abbassano le luci ed ha inizio un intro commovente.
Giuliano Sangiorgi si siede al pianoforte ed inizia ad eseguire il brano Cosa c’è dall’altra parte scritto per l’amico Lele. Come per incantesimo Lele compare sulla scena a sorpresa suonando assieme a Giuliano la canzone scritta proprio per lui e commosso augura a tutti un buon San Valentino.
<<Ricordate che la cosa più importante della vita è l’amore. Perché l’amore aiuta tutti Grazie a tutti, tornerò presto. Grazie ancora>>.
E ci lascia lasciando il posto sul palco al fratello Giacomo che scalderà assieme alla band i cuori delle 5000 anime presenti e accompagnerà i Negramaro per tutto il resto del tour.
Il pubblico che riempie il palazzetto è eterogeneo in termini di età; un pubblico che alterna momenti di silenzio in risposta a quel modo di “rapire” l’attenzione delle persone che solo Giuliano Sangiorgi sa creare, ad altrettanti momenti di partecipazione calorosa e coinvolgente.
La voce principale dei Negramaro, Giuliano, diviene ben presto il protagonista della scena, carismatico leader di un gruppo che ha trascorso troppo tempo lontano dalle scene.
Il bisogno di tornare sul palco era tanto quanto quello dei fan di tornare a cantare a squarciagola le loro canzoni.
Nell’aria c’è del romanticismo.
Ci sono coppie di giovani amori e coppie di amori già vissuti ma comunque vivi.
Ci sono abbracci, sguardi d’intesa tra amiche, mani che si stringono e occhi lucidi, perché l’amore vanta milioni di sfumature che ogni singola canzone in scaletta sembra poter immortalare.
Come se ogni sfumatura fosse interpretata dalle parole delle canzoni di Giuliano Sangiorgi.
Dalla nostalgia de La prima volta, alle attese colme di speranza di Amore che torni, fino ad arrivare alle parole che toccano tutti quegli amori impossibili e non vissuti in Per uno come me e quegli amori eterni descritti in L’amore qui non passa.
La scenografia cambia continuamente, con laser e luci suggestive che rendono viva l’atmosfera. Palcoscenici scorrevoli che agevolano una scena in continuo movimento, vicini, sempre più vicini al pubblico “innamorato”.
I live dei Negramaro sono sempre una garanzia, un momento di riflessione personale ma soprattutto di condivisione legata a quella parola magica che inizia con la A e che dovrebbe muovere il mondo non solo il 14 febbraio, ma sempre.
E non importa quando possano far male le parole di certe canzoni o di quanto venga portata all’estremo la descrizione di quegli stati d’animo.
I Negramaro lasciano sempre e comunque Senza fiato.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]