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Tag: marta annesi

Bad Wolves “N.A.T.I.O.N.” (Eleven Seven Music, 2019)

(Lupacci metallari con un cuore malinconico)

 

Le persone si dividono in due gruppi: c’è chi pensa alla California come paesaggi mozzafiato, viali costeggiati da palme, mare fantastico e tramonti indimenticabili e poi c’è l’altro gruppo, quelli a cui vengono in mente Deftones, A Perfect Circle, Rage Against The Machine, System Of a Down, Incubus, Linkin Park, Papa Roach, Korn, Alien Ant Farm.

Terra buona o aria fresca, non si conosce ancora la ricetta per sfornare grandi artisti, sta di fatto che la California ci ha regalato una bella sorpresa anche stavolta, i Bad Wolves. 

Si son fatti notare nel 2018 con una cover metal di Zombie, de The Cranberries: alle parti vocali avrebbe dovuto partecipare Dolores O’Riordan, che sfortunamente ci ha lasciati troppo presto, e il gruppo ha così inserito nel video un tributo all’eterna cantante dei gruppo irlandese.

La prima bomba del nuovo album N.A.T.I.O.N. l’hanno lanciata ad agosto, I’ll be there: una presentazione in gran stile dei loro intenti. Disincanto e Metal Style since 2017, questi ragazzotti del Golden State vogliono dimostrare la loro crescita rispetto al loro primo album, Disobey, con un brano che incita a non arrendersi mai, non cambiare quello che si è per piacere agli altri.

Dopo il primo singolo hanno continuato a bombardare la scena metal con pezzi notevoli, sia a livello musicale (metal melodico/scream depresso, malinconico e incazzato) sia a livello di contenuti. Canzoni tipo Learn To Walk Again, che esprime massime tipo ride or die, cavalca o muori, affronta le difficoltà, cadi se necessario, ma rialzati sempre.

Come fossero consigli tra amici di una vita, con questo secondo pezzo dell’album tentano di entrare nella profondità dei disagi emotivi dei fans spaccando le barriere a suon di chitarre elettriche indiavolate, batteria dinamica, e parti vocali con deliziosi passaggi tra melodico e scream.

La loro anima rissosa e metallara esplode in No Messiah, rivendicando la loro appartenenza musicale e scagliandosi contro band che pur di inseguire la notorietà cambiano genere a seconda delle tendenze del momento.

Killing Me Slowly, racconta l’insicurezza di un amore, dove i nostri modi di reagire alle situazioni e la sfiducia verso quello che si è inficiano sulla nostra vita amorosa: l’amore che si trasforma in omicidio-suicidio, un tira e molla che lacera ogni parte della nostra anima.

La tematica dell’amore difficile prosegue in Better Off This Way, dove ci straziano il cuore con una melodia malinconica, una canzone per una storia finita che porta con sé il sapore amaro per la delusione e il dolore. Sanno emozionare, con un bell’assolo sul finire del brano, e la voce di Tommy Vext così delicata e in alcuni passaggi possente, per sottolineare la dualità dell’essere.

Da un’estremo all’altro. Balziamo in un metal pesante old school, rullanti caldi, chitarre elettriche e scream. Foe or Friend, entra a sfondamento in un’atmosfera malinconica e triste portando distruzione e desolazione, parlando di carcere, di droga e di vite spezzate. 

Sober, subito dopo, ci sbatte in una storia di alcolismo, con una ballata rock, melodica, che sfiora un po’ il melenso. L’onda pop rock contagia anche in Back in the Days, aperta critica verso il mondo del commercio e produzione della musica. 

L’album si inizia a riprendere dalla botta di malinconia con The Consumerist, in cui si scaglia contro il consumismo, come male fatale per la nostra società che tende a depersonificarci.

Anche Heaven so Heartless è marchiata dalla malinconia e dalla sensazione di essere intrappolati in un sistema nel quale non ci rispecchiamo, e preghiamo per una via d’uscita, già sapendo che non esiste.

Ma la tristezza è contagiosa, e inquina anche Crying Game, che rivela la sua potenza sul finire del brano con un assolo di chitarra godibile.

Fortuna che L.A. Song esce completamente da questo alone di malinconia. Ci lasciano con un bel pezzo metal, un brano omaggio-offesa a Los Angeles, ormai diventata la valle della falsità, la Terra Promessa degli artisti.

Nel primo album i Bad Wolves ci hanno dimostrato che sanno fare musica. Nel secondo, invece, che possiedono un lato malinconico (e forse anche romantico). 

 

Bad Wolves

N.A.T.I.O.N.

Eleven Seven Music, 2019

 

Marta Annesi

Saint Asonia “Flawed Design” (Spinefarm Records, 2019)

(I santi senza orecchio musicale)

 

Ci sono un cantante, un chitarrista, un bassista… No, non è l’inizio di una barzelletta, ma la formazione di un supergruppo (cioè una superband composta da musicisti già famosi in altri gruppi) canadese/statunitense che porta il nome di SAINT ASONIA.

Alla voce il già conosciuto Adam Wade Gontier (fondatore dei Three Days Grace), Mike Mushok alla chitarra (Staind), al basso Corey Lowery (Seether, Eye Empire) e fino al 2017 alla batteria era presente Rich Beddoe (Finger Eleven).

Nel 2015 debuttano con l’album Saint Asonia, stilisticamente post-grunge, e mantengono questa tendenza anche nel nuovo lavoro Flawed Design. Ci sono voluti due anni per il completamento, ma come asserisce il cantante, ha passato delle situazioni spiacevoli e ha condensato nei brani tutto il suo dolore. Questo ha contribuito a rendere l’album migliore, più personale, e stilisticamente più maturo del primo. L’aria che si respira è totalmente post-grunge, o alternative rock (come la si vuol chiamare). Il loro modo di fare musica è consolidato, chiaro e armonico, non sono ragazzini che si approcciano per la prima volta, ma possiedono esperienza e carisma. 

Singolo di debutto è The Hunted, in collaborazione con Sully Erna (Godsmack), brano molto intimo, nel quale ci troviamo a vestire i panni del cacciatore e della preda, fuori controllo, ma consci dei difetti con i quali conviviamo, cerchiando una tregua alla guerra che noi stessi abbiamo iniziato con il mondo. 

Ci fanno entrare nel loro universo con Blind, storia di un’amore finito. Descrivono quella situazione amorosa in cui l’altro/a riesce ad accendere una luce in noi, e quando il sentimento finisce rimaniamo accecati da tutta quella luce che man man si spegne, consegnandoci alle tenebre della cecità.

Sirens, secondo brano, viene da un’idea di Steve Aiello (Thirty Second To Mars) e Dustin Bates (Starset) e deve  la sua potenza emotiva anche alla partecipazione nei cori di Sharon Den Adel (Within Temptation); con questo brano ci fanno intravedere un amore coraggioso, forte, che se ne frega dell’imminente fine. E forse la morale della vita è proprio questa: trovare qualcuno con il quale cadere, perché siamo tutti in caduta libera, ma farlo in due non è poi così male. (We were born to resist if it falls\ Come with me, we will rise\ Can I believe it tonight?)

A rendere l’album molto intimo ci pensa This August Day, personale monito dello stesso cantante ad un sé stesso del tempo passato. Alla nascita di suo figlio lui era ricoverato in un centro di riabilitazione, essendo dipendente da alcol e droghe: con questo brano cerca di esorcizzare questo rimpianto, con il quale dovrà convivere con il resto della sua vita.

In Ghost troviamo ancora lo zampino di Dustin Bates, brano in cui la band rende ancora più reale questo bisogno di essere capiti, di avere qualcuno accanto per cui valga la pena cadere e frantumarsi. Ma alcune volte sono proprio le persone a cui ci aggrappiamo che svaniscono, lasciandoci il ricordo, un fantasma che si ostina a guardarci senza offrirci aiuto.

La canzone più rappresentativa di questi due anni di lotte contro la dipendenza dalle sostanze è Beast, descrizione perfetta della lotta contro la bestia presente nella vita cantante, bestia che cercava in tutti i modi di sopraffarlo, della sua voglia di riabilitarsi al mondo e di vivere a pieno gli affetti che contano davvero. The Fallen, dedicata a chi come lui è caduto, ha perso tutto quello che era importante e rimangono solo i ricordi.

Dopo Another Flight, in cui perdere alcune occasioni della vita è rappresentato dal perdere un volo, troviamo Flawed Design, che da il nome all’album ed esplora il motivo per cui le persone sentono il bisogno di presentarsi come quello che realmente non sono. La ricerca di perfezione in cui la gente disperde la propria personalità è il cancro della società e l’unica arma che possediamo per contrastare questo modus operandi è essere sé stessi, con tutti i nostri difetti, perché sono proprio essi a renderci particolari.

Adam canta per i caduti, i reietti, per chi ha toccato il fondo. Cerca di portare speranza a chi non ne ha, come un moderno Babbo Natale dei perdenti. Con la sua voce pulita ci canta di battaglie perse, rimpianti, design imperfetti, giustificazioni che cerchiamo di dare e martiri contemporanei. Lui è stato sul fondo del pozzo, è riuscito a risalire lasciandosi alle spalle i cadaveri dei rimpianti. 

 

SAINT ASONIA (SΔINT ΔSONIΔ)

Flawed Design

Spinefarm Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Norma Jean “All Hail” (Solid State Records, 2019)

(Sempre sia lodato il metalcore!)

 

Le cose non sono mai come le vedi. La filosofia (o follia?) dietro ai Norma Jean è intrigante. 

No, non si parla della famosa Norma Jean (in arte Marylin Monroe) ma di una band cresciuta nei sobborghi di Atlanta. Iniziano a farsi notare nel 1997, all’attivo contano sei album, e hanno sempre posseduto un’anima profonda con la quale filtrano la loro visione del mondo, rendendocela attraverso la musica e i testi per condurci in un universo fatto di riflessi, di complotti e di pseudo-utopia.

All Hail, rappresenta un’idea, un pensiero derivato dalla loro crescita, uno strumento per comunicare un messaggio attraverso il metalcore.

Cosa c’è dietro allo specchio? È solo un riflesso oppure ha vita propria? E se esistesse una vita all’intero, parallela alla nostra? Oppure siamo noi il riflesso, e la realtà è dall’altra parte?

Questa la filosofia alla base dei nuovi brani, che dona un’aurea di inquietudine e dannazione al disco.

Ci scaraventano in un bel trip, impattando con l’intro di Orphan Twin, primo brano dell’album, battaglia di batteria e chitarra elettrica, accompagnata da una voce calda, confortante. Il ritmo degli strumenti si scatena, ed il tono del brano cambia, l’eterna lotta tra bene e male, tra il canto delicato e uno scream graffiante. Il riflesso, e il mondo dell’altra parte.

Dipingono un mondo decadente, che sta per collassare, una terra maledetta, dove gli eroi sono dei bugiardi, e la loro presenza non serve per salvarci, ma per sottolineare quanto gli esseri umani siano perdenti, malvagi, nel brano Landslide Defeater.

Questo clima di insoddisfazione e crisi si ripercuote anche in [Mind Over Mind] in cui la morte è una rinascita, dove lottare per un futuro migliore è un’utopia. Tutto è circolare, ci porta all’abbattimento morale, e questa è un’arma pacifica per stroncare la nostra anima.

I testi presenti in questo ultimo album sono molto complessi, quasi dei saggi sull’interpretazione del mondo da parte del gruppo, dove esplicano la loro personale visione di situazioni specchio (Cosa c’è dentro? Che cosa è fuori?), riflessi dannati che tramite la morte risorgono alla vita, ad una nuova possibilità di essere. Esempio di questo è Safety Last, in cui sogni e incubi sono reali, e distruggere tutti i rapporti velenosi è l’unica soluzione per allontanarsi, per non incontrarli di nuovo.

Attraverso uno stile metalcore melodico ci trasportano attraverso lo specchio con /with_Errors, dove incontriamo la nostra nemesi, cioè noi stessi, e ci invitano a far pace con il nostro avversario, dimostrando che il peggior nemico siamo proprio noi stessi. 

L’apice di questa interpretazione distopica è per l’appunto raggiunto in Trace Levels of Dystopia, manifesto della band, la quale crede fermamente di un futuro con risvolti negativi sia sul piano sociale che politico. L’umanità sta andando verso una catastrofe, tutto si sta distruggendo, e lo comunicano con un brano estrememante metalcore, colmo di scream, chitarre elettriche, batterie  pesantemente pistate.

Nel disco troviamo anche una canzone dedicata alla scomparsa, il giorno dell’inizio della registrazione dell’album, di una loro fan poi diventata loro amica, Anna: un brano turbolento e malinconico, tributo alla memoria di una ragazza simbolo delle centinaia che popolano i concerti del gruppo.

L’intenzione della band è gettarci nella loro concezione di realtà, di confondere le nostre sicurezze, fino ad instillare nelle nostre menti un dubbio, usando il metalcore per rendere tutto estremamente spiazzante e reale. 

 

Norma Jean

All Hail

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

The Softone “Golden Youth” (Self Released, 2019)

Dalle pendici del Vesuvio arriva un album carico di emozioni, di sonorità delicate accompagnate da una voce particolare e rilassante.

Giovanni Vicinanza in arte The Softone torna sulla scena musicale dopo cinque anni di pausa ed emozioni (positive e negative) da condividere. Autoprodotto, questo album è stato ispirato dai paesaggi vesuviani, ma mixato e chiuso a Milwaukee, negli USA.

Un cantautore vecchio stampo, che ci regala un album colmo di sensazioni reali, uno spaccato di vita vera.

Un full length di 12 pezzi che si apre con un’Intro (tema armonico del quinto pezzo I Wish), e chiude con un’Outro, in cui affronta varie tematiche con uno stile pop folk, acustico, e con l’ausilio di vari strumenti (violino, pianoforte, chitarra acustica) che conferiscono un’atmosfera intima, privata.

Il secondo pezzo è Alone and Weird, in pieno stile pop, il quale possiede un ritmo e una positività derivante dalle lacrime degli angeli caduti, che ripuliscono l’anima dell’artista per purificarlo e permettergli di  intraprendere questo viaggio (dell’album), infondendo la forza e l’incoraggiamento per comunicare all’ascoltatore le sue più profonde emozioni.

Vicinanza ci spiega subito che questa forza da cui attinge proviene da un lutto recente, la morte della madre, alla quale dedica una preghiera straziante e al contempo dolcissima, Sweet Mom, resa ancor più malinconica dall’assolo di sax.

In contrapposizione alla perdita e al dolore, ci propone però anche la gioia di un dono sceso dal cielo per alleggerire questa perdita inestimabile, Little Star, in cui ci trasmette la felicità della paternità usando uno stile blues.

La nostalgia per il passato, per una giovinezza perduta, la brutalità del diventare adulti, è espressa intensamente in Golden Youth, pezzo che da nome all’album. Il concetto della malinconia per l’adolescenza, i bei ricordi e la leggerezza di questa età è presente anche in The Place. L’era della spensieratezza lascia una scia di tristezza però quando ci rendiamo conto delle scelte che abbiamo fatto, delle situazioni che ci siamo lasciati sfuggire e di quel tempo che non tornerà più.

L’età adulta arriva senza quasi che ce ne accorgiamo, portando con sé perplessità sulle decisioni che abbiamo preso, sulla strada che abbiamo imboccato: spesso ci domandiamo se potevamo fare di più, essere di più, e l’artista, in Still Believe, mette in evidenza questi dubbi esistenziali, cercando rassicurazioni. Sulla stessa tematica di insicurezze esistenziali è Lost Memories, un monito che il cantante fa se stesso, per tutte quelle volte che ha preferito la vita effimera, allontanandosi dalle cose concrete.

Psycho Visions, sul finire dell’album, è un pezzo a metà strada tra i Pink Floyd e Brian Eno, un viaggio mentale per sfuggire dalla realtà, una visione extracorporea dell’anima intenta a vagare nello spazio-tempo.

In questo suo album, Giovanni Vicinanza crea un universo di emozioni composto da pianeti di sofferenza, via lattee di malinconia e soli di felicità. Il tutto immerso in un’atmosfera pop-folk-rock dove lascia intravedere la sua anima umana, colma di dolore e sazia di gioia.

 

The Softone

Golden Youth

Self Released, 2019

 

Marta Annesi

Toothgrinder “I AM” (Spinefarm Records, 2019)

Mascelle serrate e denti digrignanti

 

La notte non porta sempre consiglio, alcune volte provoca forti attacchi di bruxismo, soprattutto in periodi stressanti o in condizioni patologiche di abuso di sostanze eccitanti (fumo, alcool, droghe, caffeina). 

I Toothgrinder volevano comunicare questo con la scelta del loro nome: un metal graffiante, velenoso, virulento; un’offensiva al nostro sistema nervoso, con uno stile che ci getta in un mondo fatto di growl, batterie incalzanti e assoli allucinogeni.

Nel 2010 cinque ragazzi in una high school del New Jersey decidono di metter su una band per urlare il loro disagio generazionale, e nel giro di un anno esce il loro primo EP Turning of the Tides, seguito da altri due EP prima di arrivare alla svolta, nel 2016 con l’album Nocturnal Masquerade e nel 2017 con Phantom Amour.

I brani con cui hanno esordito sono colmi di scream e di testi duri, puro posthardcore, per subire una trasmutazione con l’avvento dell’età adulta e della consapevolezza di sé. 

Come un fiume nasce dalla fonte e affronta anse tortuose e rapide improvvise prima di sfociare nel mare, questa band ha acquisito una maturità stilistica che ha permesso di sfruttare questo genere musicale non solo per comunicare rabbia e frustrazione, ma soprattutto per trasmettere una visione di cambiamento e di crescita passando gradualmente a toni più pacati, più melodici, senza però modificare la loro natura metalcore.

Questa trasformazione li ha portati alla produzione di I AM, un album complesso, composto da undici brani che sembrano ripercorrere i vari stadi della loro evoluzione. 

Il frontman Justin Matthews lo ha definito come un viaggio per l’accettazione di sé, un percorso ad ostacoli, costellato di errori, di scelte sbagliate, di cattive abitudini nelle quali riversare il disprezzo e la disillusione adolescenziale.

Le intenzioni sono chiare sin dal primo brano, The Silence of a Sleeping WASP. Le doti vocali del cantante ci trasportano nella loro visione di progressive metal, fatta di growl mista a passaggi melodici delicati accompagnati da un sottofondo musicale fortemente posthardcore.

La dolcezza della voce di Justin è straziante nei brani ohmymy e My favorite Hurt, ed unisce testi intimi che parlano di solitudine, di dolore ma anche di amore. Con un timbro che, in alcuni passaggi e soprattutto nel terzo brano, scade nel pop,  riprende lo stile heavy sul ritornello con assolo di chitarra a dir poco sbalorditivo: una bivalenza che ricorda molto Corey Taylor (Slipknot e Stone Sour), unito ad uno stile molto Deftones. 

L’album continua alternando pezzi melodici a brani dalle sonorità coriacee. Una montagna russa di emozioni dove si passa dalle lacrime al pogo sanguinolento, come per The New Punk Rock e too soft for the scene, TOO MEAN FOR THE GREEN, pezzi ritmicamente metalcore, caratterizzati da  growl e headbanging a volontà. 

Gli ultimi due brani (Can Ü Live Today? e The Fire of June) sono un ritorno alle loro origini, un progressive metal che sfocia nel nu metal, come per ribadire il forte attaccamento allo stile con cui sono nati. Si cresce, si cambia, ma quel che siamo stati non ci abbandona mai. 

I AM è l’ultimo pezzo dell’album. Scelta tattica del gruppo, forse, visto che in esso risiede il senso più profondo di tutto il loro lavoro. Il testo incarna un mantra, “io sono…”, che spinge a far pace con il passato, con gli errori commessi; porta a concedere un’ulteriore possibilità a noi stessi, imparando dalle debolezze a essere più forti. Quello di cui abbiamo bisogno risiede già dentro noi, dobbiamo solo trovare un modo per riscoprirlo. Tutti possiamo raggiungere il riscatto emotivo che meritiamo solo attraverso l’amore (Love will conquer all). 

Attraverso uno stile musicale notevole e mutevole l’album trabocca di tutte le emozioni umanamente concepibili, una catarsi personale coinvolgente che dona speranza e sano metalcore spaccatimpani.

 

Toothgrinder

I AM

Spinefarm Records, 2019

 

Marta Annesi

 

The Devil Wears Prada “The Act” (Solid State Records, 2019)

Sacro & Profano

 

Mai giudicare un libro dalla copertina, sia in senso metaforico, che in senso pratico.
The Devil Wear Prada, gruppo originario di Dayton, in Ohio, hanno l’aspetto tipico dei metallari ribelli: capelli lunghi, tatuaggi, abiti neri, rabbia che sprizza da tutti i pori. Eppure, sono uno dei maggiori esponenti del Christian metal. Ferventi cristiani, hanno intitolato un loro album 8:18 come riferimento ad un passo biblico della Lettera ai Romani di Paolo di Tasso.

La scelta del nome è nata come una cantonata: ispirati dal titolo del libro dell’autrice statunitense Lauren Weisberger, volevano comunicare un messaggio anti-materialistico, peccato però che ne abbiano frainteso completamente il senso. Una volta scoperto di aver preso un granchio, si sono però rifiutati di cambiare nome decidendo di creare un nuovo significato dietro al nome della loro band.

Formatisi nel 2005, hanno subito riscosso successo sia nell’ambiente del metal cristiano che nella scena metal in generale, fondendo due mondi apparentemente sconnessi, portando la dottrina cristiana all’interno dei loro testi e usando questi insegnamenti per combattere la depressione e lo scoraggiamento verso la vita.

(Certo è che se mia nonna, durante la messa domenicale, trovasse questi quattro tipacci coi capelli lunghi e pieni di tatuaggi intenti a cantare Osanna rimarrebbe un pochino sconvolta)

Dopo sei album registrati in studio, un live e due EP all’attivo, tornano con un album nuovo, The Act. Sperimentale, innovativo, molto diverso dal loro stile primitivo. Non si parla solo di crescita personale dei componenti e del loro modo di intendere la musica: qui troviamo una voglia di intraprendere strade nuove, di cimentarsi in un nuovo progetto allontanandosi dalla comfort zone del metalcore per addentrarsi in uno stile più melodico. E non solo nella composizione musicale: i testi presenti in questo nuovo album sono poetici, profondi, trasformandosi più in una lettura di poesia con aggiunta di growl e assoli di chitarra. 

La presenza di due voci, quella scream di Mike Hranica e quella melodica di Jeremy DePoyster (che imbraccia anche la chitarra ritmica) riescono a comunicare la bivalenza del gruppo.

L’album è il risultato di una sovrapposizioni di generi: hardcore punk, heavy e nu metal fusi insieme da passaggi electronic che producono in alcuni brani una sorta di electronicore melodico.

Il primo singolo, Lines Of Your Hands, mantiene le solide radici metalcore a livello di sonorità, ma il testo è una disperata preghiera, una richiesta di attenzioni e di amore verso qualcuno che si sta allontanando. La dolcezza delle parole in forte contrapposizione con l’uso dello scream e del growl tende quasi a mettere a disagio, come in generale per le band metal: non si capisce mai se stiano parlando di amore o di omicidio.

L’album tocca la delicata tematica della depressione con Chemical, chiamata così in quanto per alcuni questo stato mentale è derivato da uno scompenso chimico a livello cerebrale. Il testo e la melodia sono delicatissimi e colpiscono nelle zone più intime dell’anima: una descrizione dettagliata della depressione, come star seduti a fissare il soffitto senza trovare una motivazione sufficiente che ci faccia alzare dal letto, congelati, immobili, quando anche urlare non aiuta. Accusare una voragine nel petto e nella testa, e sentirsi ripetere che è solo chimica. Di certo non ci fa star bene, è una bugia che preferiamo raccontarci, ma mentire non ci preserva dalla sensazione di avere una belva che ci divora dall’interno. 

La loro cristianità si fa notare in Please Say No, brano contro l’abuso di droga, e in un certo senso contro ogni forma di abuso, mentale e fisico. Musicalmente presenta una base  elettronica soft, con aggiunta di chitarra e batteria, ma come classico di questo album, la canzone si fonde tra poesia e preghiera, intramezzata da picchi scream che creano un’ambiente particolare in cui sguazzare.

La bivalenza di questo gruppo lascia interdetti: si passa da una preghiera ad un potente attacco metalcore in The Thread, dove si parla della voglia di cambiare e della sensazione di non poterlo fare, come se fossimo tutti intrappolati dentro stereotipi che noi stessi creiamo. La fusione tra le voci scream e melodica è un’esperienza mistica.

Come moderni Colombo alla scoperta delle Americhe, sono riusciti ad attraccare su terre a loro sconosciute, si sono messi in gioco, producendo un album fuori dai loro schemi, abbattendo lo stereotipo stesso del metallaro.

(Però io il metal cristiano non lo capisco. Ogni volta che ne sento parlare nella mia testa parte sempre l’intro dell’ Ave Maria di Schubert versione metal, con tanto di batterie che scendono magicamente sull’altare, statue che prendono fuoco, fonti battesimali che si prosciugano e crocifissi che si capovolgono)

 

The Devil Wears Prada

The Act

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Of Mice & Men “EARTHANDSKY” (Rise Records, 2019)

(TIME FOR HEADBANGING)

 

Spesso i progetti, anche i più buoni, che fanno i topi e fanno gli uomini, finiscono in niente e in luogo della gioia restano soltanto dolori e stenti.”

Così recita una poesia di Robert Burns, da cui John Steinbeck ha preso spunto per il titolo del suo romanzo del 1937 Uomini e Topi, per l’appunto.

Il libro è stato d’ispirazione per il nome della band americana metalcore Of Mice & Men che ci regala EARTHANDSKY, il loro nuovo LP preannunciato dai singoli How to survive e Mushroom Cloud. 

Un album pieno di metallo, rabbia e resilienza, termine ormai di comune uso dalle teenager sui social, ma è in questo album che riscopriamo il significato più profondo dalla parola, ossia la capacità dell’essere umano di affrontare e superare eventi traumatici, assorbire un urto senza rompersi.

Il gruppo è fortemente legato al metal e all’hardcore punk con tendenze nu metal, ma nel tempo, e con i vari cambiamenti nella formazione del gruppo (per colpa di patologia cardiaca del cantante Austin Carlile, nonché fondatore del gruppo) hanno aggiunto sonorità alternative al metal, tornando poi alle origini nel momento in cui il bassista Aaron Pauley ha preso le redini  e il controllo del microfono.

Come un Cavaliere dell’Apocalisse ha ricondotto il gruppo a sonorità più dure, tipicamente metal, batterie ossessionanti e incalzanti, riff di chitarra complessi. 

Nei brani si mescola il canto death brutale e raschiato, con una voce più melodica, quasi a delineare una personalità borderline. La collera derivante dall’essere incompresi, oltraggiati e derisi si scontra con un’anima delicata e sensibile.

Questo concetto risulta limpido nel singolo How to survive, nel quale il cantante vuole darci una lezione di vita, su come sopravvivere alla sensazione di sentirci rifiutati, denigrati, un bersaglio.

Un moderno Frankenstein, scappato dall’ostilità dei concittadini, intrappolato nella torre. 

Le torce brillano nella notte, il fragore dell’odio sempre più vicino.

Ma stavolta il mostro non scappa. Non questa volta.

Scende tra la folla e si ribella. 

Vuole sopravvivere, non perire tra le fiamme.

Rifiutandosi di essere uno dei caduti, la liberazione del mostro e la rivincita sull’astio della società.

Il vero senso del metalcore è descritto in Mushroom Cloud, che rappresenta la discordanza con il modo di pensare della società che ci circonda, intrappolati in un mondo che non è come vorremmo, che giudica prima ancora di conoscere. Le catene ai polsi come schiavi deportati. Sbraitare il disappunto, la malinconia e la solitudine, strillare con tutta la voce e non percepire risposta. 

“Three, two, one BOOM: countdown to insanity. Three, two, one BOOM: ignite the fuse and immolate”, la nostra anima e psiche che deflagrano come bombe atomiche sotto il peso dell’incuria, sacrificarsi e scoppiare in faccia a chi non capisce il nostro disagio.

Questo album è un calcio sui denti per tutti quelli che non considerano il growl e lo scream come canto. Per tutti quelli che considerano l’alternative metal come sinonimo di satanismo e aggressività.

Questo album ha l’intento di alzare il velo sottile dell’ira funesta, facendo intravedere la grande emotività insita nel metal. Gridare per farsi capire, nel caotico mondo in cui viviamo. Sgolarsi, per esorcizzare i demoni che popolano la nostra mente.

 

Of Mice & Men

EARTHANDSKY

Rise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Tobia Lamare “Songs for the Present Time” (Lobello Records, 2019)

(Ricetta italo-americana per un ottimo indie rock)

 

Prendiamo il sound di Bob Dylan, aggiungiamo un poco dei The Cure e Mudhoney q.b. e una spolverata di musica alternativa salentina.

Incorporiamo nell’impasto amore, vita, morte.

Uniamo tutti gli ingredienti.

Il risultato finale?

Tobia Lamare (pseudonimo di Stefano Todisco), da circa vent’anni musicista e compositore per teatro, documentari, film, scelto come gruppo di spalla per artisti quali Kings of Convenience e Iggy Pop & The Stooges. Ha esordito con gli Psycho Sun, ma dal 2008 ha dato una svolta alla sua carriera come solista e cantautore.

Girando per il mondo è stato plagiato da diversi sound, culture lontane da casa sua, dal suo mare. Si è imbattuto in realtà differenti, a contatto stretto con universi musicali vari, ma così catarticamente simili, suonando per festival importanti come lo Sziget (Budapest), ma anche per feste di paese, club, biblioteche.

Il profondo contatto col mare lo ha ritrovato poi con l’oceano, come a dimostrazione che per quanto possa essere lontano da casa sua, l’acqua è l’unico elemento di congiunzione con le sue radici, con la sua terra natia.

Dopo i successi nel 2010 di The Party, nel 2012 con Are you ready for the Freaks e nel 2017 con Summer Melodies, finalmente esce Songs for the Present Time, album di nove canzoni scritte interamente da Tobia durante questi ultimi anni di tour in giro per il globo terracqueo.

Nonostante disco sia stato prodotto e arrangiato interamente nella Masseria Lobello, vicino Lecce, le varie influenze Blues and Soul tipiche della west coast americana sono preponderanti in tutti i brani, anche grazie all’uso di strumenti classici per il country come l’armonica a bocca. 

Un album nato in movimento ma completato in un posto magico, solitario e tranquillo, registrato tra il maggio 2018 e il maggio 2019, a cui hanno partecipato nomi importanti come Andrea Fazzi (Sud Sound System, La Municipàl, Major Lazer) mentre le batterie sono in collaborazione con Marco Lovato (Caparezza).

Il primo singolo uscito è Endless, che testimonia l’amore fraterno, il forte legame che unisce due consanguinei soprattutto nell’affrontare momenti drammatici come la malattia o la morte. Testimonianza della continuità dell’amore oltre la morte, di come sia impossibile lasciar andare qualcuno a cui teniamo. Rimane dentro di noi, conviviamo e ci abituiamo a questa sensazione di mancanza.

Il brano è anche colonna sonora del corto Ius Maris, vincitore del premio Migrarti 2018 e presentato durante l’ultimo Festival del Cinema di Venezia.

Il disco è un agglomerato di sonorità e di tematiche, la maggior parte dei brani sono nati in viaggio (Dada, Lost without you, Loves means trouble), mentre altri sono frutto di prove acustiche sulla spiaggia (Vampire e Higher). 

In The Big Snack Tobia tratta della malinconia del Sud, che nasce nel momento in cui la lontananza dai sapori e dagli odori della propria terra risulta quasi insopportabile.

My Flavia racconta la vita che nasce – una canzone di benvenuto alla nuova arrivata in famiglia – mentre in Endless si celebra morte; in questi brani è da notare che tutti gli strumenti sono suonati da Tobia stesso.

Dopo la lettura dei diari di bordo di due eroine che nel 1935 partirono da Londra per arrivare in Sud Africa a bordo di motociclette, partorisce This Road, onorando la memoria e il coraggio di queste donne, che, in tempi impossibili, hanno avuto la prepotenza di imporre il loro volere in una società fortemente maschilista.

Un album emotivo, profondo, artistico. Il calore della campagna, il profumo della Puglia, il sapore metallico dello smog nelle grandi città, la tranquillità della periferia. L’angoscia insostenibile e conseguentemente l’elaborazione del lutto, la gioia smisurata per una vita che nasce, questo è il contenuto del disco, e non solo. Un pellegrinaggio in giro per il mondo e nel cuore dello stesso. Differenti culture si approcciano, si fondono e confondono grazie alla musica e ai sentimenti.

Particolarità ultima di questo album risiede nella copertina. Il cantante ha scelto per ogni brano una foto anni ‘30 e del dopoguerra trovate nei mercatini, che presentano scene di vita quotidiane. Tutto molto indie.

 

Tobia Lamare

Songs for the Present Time

Lobello Records, 2019

 

Marta Annesi

 

An Early Bird “In Depths” (Ghost Records, 2019)

(Canzoni intense per cuori coraggiosi)

 

Vi sono dei momenti in cui la vita ti pone davanti dei bivi, decisioni da prendere che ti cambiano per sempre.

In questi attimi l’indecisione la fa da padrona e rimaniamo seduti a fissare un punto, snocciolando liste lunghissime di pro e contro.

Tutto sembra crollarci addosso, la malinconia per ciò che è e per ciò che potrebbe essere ci blocca nell’istante.

In siffatte circostanze ecco apparire An Early Bird (all’anagrafe Stefano de Stefano) con In Dephts, il suo nuovo EP contenente 4 tracce che preannuncia un full length previsto per il 2020.

L’intento, come d’altronde ci comunica il nome stesso dell’EP (In profondità), è di scendere sul più profondo piano emotivo di ognuno di noi, attraverso uno stile folk e acustico, macchiato qua e là da sonorità elettroniche, affrontando tematiche come l’amore, sia in senso amoroso, sia in senso fraterno; la risolutezza nell’affrontare cambiamenti e il senso di rottura in tutte le sue sfaccettature.

L’intimità di questi brani risiede negli strumenti utilizzati, per lo più suonati tutti dal cantante (piano e chitarre acustiche), nella voce delicata e profonda, unita ad arrangiamenti minimali ma più corposi attraverso sonorità scure e intense.

L’EP è stato registrato e mixato da Claudio Piperissa, assistito da Luca Ferrari, presso il Faro Recording Studio di Somma Lombardo, per la produzione artistica di Lucantonio Fusaro.

Il primo singolo uscito, che fa da cavallo di troia per la nostra psiche, è Stick it out: un inno alla tenacia, a resistere alle intemperie aggrappandosi forte agli affetti e soprattutto a non lasciare in sospeso nulla, con caparbietà e determinazione. Come durante uno tsunami, trovare un appiglio per non essere trascinati via dalla corrente.

In First Time ever si affrontano le prime volte magiche: il primo sguardo, il primo bacio di un amore vero e puro, non necessariamente il primo amore, in quanto ogni amore ha la sua importanza e porta ad una crescita personale diversa, e quindi ad un’interpretazione diversa dell’amore stesso. Si tratta di una ballata folktronic, poetica e romantica.

L’idea di Breaker, terzo brano dell’EP, nasce durante una lunga ed estenuante fila per il bagno. Questo testimonia che l’ispirazione è arte, e può coglierti in qualsiasi momento. Con la delicatezza della sua voce ci racconta storie sullo sfondamento di muri interpersonali, sulla rottura di rapporti, di promesse infrante, di scardinare le catene emotive che ci legano a situazioni dannose per la nostra anima.

Il commiato alla vita passata, in Farewell, sancisce la fine di un viaggio, di un progetto, per intraprenderne uno nuovo. Con una voce raffinata e malinconica ci invita a salutare con la mano il vecchio e a far posto alle prospettive future, abbandonando senza remore quel che è stato.

Aspettiamo con ansia il 2020 per ascoltare il full length di questo artista italiano che sa far vibrare le corde più profonde dell’anima.

 

An Early Bird

In Depths

Ghost Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Sleep On It “Pride & Disaster” (Rude Records, 2019)

(Per chi considera la musica come mezzo di evasione)

 

Ci sono giornate che iniziano male. La sveglia non suona, il caffè si brucia, il semaforo è sempre rosso e c’è un sacco di traffico.

In quei momenti, per alcune persone, basta mettere su un disco, e quel cielo che sembrava tetro si schiude a tantissime possibilità.

Ecco quello che gli Sleep on it (in italiano il significato può variare da “dormirci su” o “la notte porta consiglio” ma anche “sogni d’oro”) band di Chicago, formatasi nel 2012 iniziando da uno scantinato, cercano di comunicare con la loro ultima fatica Pride & Disaster.

Questo terzo album del quartetto americano (Lost along the way nel 2016 e Overexposed nel 2017) è circondato da un alone di positività intriso di malinconia.

Stile pop punk un po’ scontato, motivetti orecchiabili e riff di chitarra leggermente banali (ma comunque godibili) puntano più sul contenuto delle tracce. I membri del gruppo hanno sofferto di ansia e depressione e questo li ha spinti a cercare una via di scampo, a tentare di trovare il sole anche durante le giornate di pioggia.  

Hanno deciso di creare musica per chi sta attraversando un periodo spiacevole, canzoni portatrici di gioia così da generare un’onda di felicità per spingere l’ascoltatore a migliorare se stesso, apprezzando quello che di buono la vita offre, senza soffermarsi troppo sul lato negativo. Si autoproclamano come il tuo migliore amico, quello che prodiga consigli e pacche sulle spalle.

Chiaro esempio è Under the Moment, spudorata richiesta di attenzione e aiuto, con cui puntano su chi ha portato il pesante fardello della depressione sulle proprie spalle, su chi si è sentito trascurato o rifiutato. “Take my hand and pull me again” è un grido disperato di qualcuno che è sprofondato nel pozzo e necessita una corda, una mano amica per risalire le lisce e umide pareti di pietra.

Il primo singolo uscito, After Tonight, rappresenta un amore e la capacità di agire senza costrizioni o impedimenti esterni, cancellando il timore di essere respinti o di fallire: la libertà di esprimere ciò che abbiamo dentro, arrivando ad accettare quel che siamo senza vergogna alcuna.

Pride & Disaster è un album senza pretese musicali, da ascoltare in auto a tutto volume durante una giornata storta. Ci suggerisce che è inutile fuggire dai problemi della vita, o “dormirci su”: quelli torneranno più forti e prepotenti di prima. 

Attraverso la musica possiamo canalizzare queste emozioni e tirarne fuori sentimenti più costruttivi, con lo scopo di crescere e migliorarci.

 

Sleep On It

Pride & Disaster

Rude Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Senses Fail “From the Depths of Dreams” (Pure Noise Records, 2019)

Crescita personale e artistica o versione politically correct?

 

Si può scappare da ciò che siamo stati?

Possiamo, noi umani, cambiare il passato?

Per i Senses Fail, gruppo contaminato dal punk e post hardcore formato nel 2002 in New Jersey, la risposta è SI.

Il nome della band fa riferimento alla credenza Buddhista che essere vivi sia l’inferno, e l’unica via per raggiungere il Nirvana (quindi vedere Dio) sia non avere alcun attaccamento emotivo agli averi della vita terrena: per raggiungere la Pace si devono rimuovere del tutto i sensi.

Durante la loro carriera musicale hanno cercato di unire le sonorità punk\emo\post hardcore con la poesia, la letteratura e la filosofia per creare un loro personale genere.

Durante gli anni 2000 ebbero molto successo, pubblicando circa sette album e adesso, a distanza di diciassette anni, hanno deciso di ripubblicare il loro primo EP From the depths of dreams, per Pure Noise Records.

La scelta appartiene al cantante, il quale ha pubblicamente ammesso su Twitter la sua intenzione di cambiare alcuni termini denigratori contenuti nei loro testi durante la registrazione della nuova versione dell’album.

L’adolescenza, la ribellione e il disagio tipico di questa fase evolutiva è palese nei testi e nelle sonorità dell’album, il quale contiene anche pezzi screamo, che conducono l’ascoltatore su un piano di malessere generalizzato, caotico.

Questo album è sinonimo di crescita personale e stilistica, una rivisitazione espressiva sia a livello linguistico – elimina, per esempio, whore nel pezzo Hand Guns e bitch nel coro di Bastard Son –, che a livello musicale, ove si denota soprattutto una maturazione del cantante stesso, vocalizzi più puliti, potenti, senza risultare disturbanti.

Il frontman ha spiegato sempre su Twitter che usare quei termini spregiativi rappresentava una fase passeggera della sua vita, era un teenager furioso ed esprimeva in quel modo il suo disappunto, ma non è più sua intenzione insultare nessuno o permettere che qualcuno si senta denigrato dai suoi testi.

Le sonorità abbandonano le vibrazioni punk e si lasciano un po’ cadere nel pop, nel melodico, per testimoniare la loro uscita dall’era dell’odio, per entrare a gamba tesa nell’era del conformismo sociale.

Tuttavia, alcuni fan della band non hanno reagito bene alla notizia, anzi, l’hanno accolta come un tradimento al loro stile e a tutto quello che hanno rappresentato per la loro adolescenza: li hanno accusati di essere diventati politically correct, e di aver così alterato profondamente la loro natura originaria.

E forse hanno ragione.

Per citare una delle più intriganti compositrici e cantanti islandesi, BjörkLa musica deve essere libertà, non schiavitù”.

Rivisitare un album, nonostante sia piacevole all’ascolto, anche se punta più sul pop che sull’alternative, e cambiare dei termini per non risultare offensivi sembra una scelta che va sul politicamente corretto, atteggiamento in forte contrasto con tutto ciò che è punk.

 

Senses Fail

From the Depths of Dreams

Pure Noise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Grayscale “Nella Vita” (Fearless Records, 2019)

Dipinto emotivo in scala di grigi

 

L’estate sta volgendo al termine, portandosi via la tipica voglia di far baldoria, inneggiando ad una vita gioiosa e senza pensieri.
Le giornate si accorciano, l’inverno è alle porte e con esso il malessere tipico del ritorno alla vita quotidiana: clima perfetto per l’uscita del nuovo disco dei Grayscale, che tornano con Nella Vita, titolo tutto italiano per questo quintetto pop punk americano.

Musicalmente nati nel 2011, a distanza di quattro anni esce il loro primo EP, Change, ma l’anno del debutto ufficiale è senza dubbio il 2017, con l’album Adornement per Fearless Recording.

I Grayscale sono una miscela di emozione pura e grezza, con elementi del rock alternativo, radici punk ben assestate, e una combinazione di hip hop moderno.

Attraverso la musica ci restituiscono un’immagine emotiva in scala di grigi, iniziando dal nero della depressione, passando per il grigio della consapevolezza e arrivando al bianco candido della redenzione di sé stessi.

I Grayscale sono reali come le nubi, come la pioggia.
Sono reali come la sofferenza, come la perdita.
Parlano di morte, di amore tossico, di depressione, di droga e di sesso.

Con Nella Vita realizzano un album molto pop rock punk, con il quale riescono a comunicare dolore e disperazione con un ritmo orecchiabile e ritornelli indie. Canticchiando queste canzoni si finisce con l’empatizzare con le tematiche tragiche descritte nei testi.

La morte conclamata, in In Violet, primo singolo che accompagna l’uscita del disco, è un brano molto personale, come ammette il frontman del gruppo, il quale, durante un periodo tormentato, ha pensato al suo funerale dove avrebbe voluto che tutti i presenti fossero vestiti di viola, cantando e sorridendo alla vita. Fa riflettere su come noi occidentali consideriamo la morte come fine del percorso, un evento negativo. Con questo pezzo invece, i Grayscale ci propongono una nuova chiave di lettura, un’interpretazione della morte non come l’epilogo, ma piuttosto come un’esperienza di rinascita e un presupposto per gioire della vita stessa che è stata.

L’insieme di circostanze complesse che ci propina la vita prosegue in Painkiller Weather, dove si affronta una complicata storia di amore e droga, arduo conflitto amoroso tra sentimento e dipendenza. Questo pezzo descrive quanto sia penoso e complicato essere impotente di fronte alla distruzione pacata della propria amata e quanto questo conduca alla disintegrazione di sé stessi.

Temptations won, yeah, they always won” – neanche l’amore può nulla davanti all’assuefazione dal eroina. 

La tematica dell’amore malato è toccata anche in Baby Blue, dove viene decantato un sentimento depredato dall’oscurità intensa della malinconia che spazza via tutte le emozioni. Tutto intorno è annebbiato da un disagio talmente radicato che rende vuota e insignificante ogni sensazione.

I loro riff pop punk descrivono in modo schietto la depressione e la solitudine in Old friends, una ritmata ballata che colpisce nel profondo. Tutti noi ci siamo sentiti sbagliati, privi di importanza e senza futuro almeno una volta: indossare una maschera sorridente quando l’anima invece sta cadendo lentamente a pezzi, quando vorresti solo bussare alla porta di qualcuno sotto la pioggia per parlare, quando l’unico modo che hai per uscirne è confidarti e invece rimani solo, seduto sul tuo letto, colmo di odio verso te stesso.

Nella Vita è un viaggio catartico, una collezione di brani che rappresentano una cronaca di vita, di esperienze dei componenti del quintetto, con cui ci accompagnano nella scoperta della rinascita. Ascoltare questo album è esplorare la caverna umida e cupa che è in noi, il posto più nascosto che celiamo al mondo, entrare nelle viscere di noi stessi e riuscire ad uscirne più forti di prima.

Come scrive Chuck Palahniuk nel suo romanzo Fight ClubÈ solo dopo che hai perso tutto che sei libero di fare qualsiasi cosa”: solo arrivando a toccare il fondo possiamo darci la spinta per risalire, solo entrando a contatto con la solitudine e la disperazione possiamo tornare a risplendere.

 

Grayscale

Nella Vita

Fearless Records, 2019

 

Marta Annesi