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Tag: marta annesi

Allusinlove “It’s Okay To Talk” (Good Soldier Songs/AWAL, 2019)

Rock is not dead: a rianimare la scena rock mondiale ci pensano gli Allusinlove, quattro ragazzi inglesi, direttamente da Castleford, con assoli micidiali, spiccate doti vocali e batteria martellante.

Una vita da vere rockstars, la loro. Giovani difficili, amanti delle droghe e della vita portata all’eccesso che li ha proiettati in un percorso di introspezione e di crescita personale, il cui risultato è un cambio nel nome della band e un utilizzo diverso della loro musica come mezzo di comunicazione per temi più profondi, con un sound totalmente rock’n’roll.

Gli Allusinlove (già conosciuti come Allusindrugs) debuttano con il loro primo album It’s ok to talkuscito il 7 giugno e non sono più una band adolescenziale, ma un fenomeno rock.

Questo esordio è totalmente autobiografico: è palese il graffiante dolore di chi, in quelle storie narrate nei testi delle loro canzoni, c’è passato realmente ed è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri come delle bellissime fenici inglesi.

È un viaggio attraverso le loro esperienze negative, per condividerle con l’ascoltatore, essere d’aiuto a chi si sente solo e dimenticato.

Il primo estratto All Good Peopleè basato sulla positività, sull’amore verso il proprio corpo, sul vivere delle sensazioni che la corporeità altrui ci regala, prendere coscienza della fisicità. Il tutto in pieno stile rock’n’roll, vocalizzi puliti, batteria potente, assoli di chitarra da brividi e un ritornello spaccacranio.

Esteticamente possono sembrare classici bad boys, tatuati e capelloni, tipi tosti insomma, ma con un cuore di panna.

Espongono tutto il loro delicatissimo mondo interiore fatto di amore non ricambiato, dolore, incomprensione, rabbia, solitudine ed alienamento.

Musicalmente ricalcano le vecchie glorie del rock, come nel pezzo Full Circlein cui ritroviamo accenni ai Black Sabbath, un perfetto connubio di chitarre basse, circolari, e assoli magnetici, che tratta di abbandono e incomprensione.

Gli assoli compaiono in quasi tutti i brani, potentissimi e seducenti. Uno dei migliori, in All my love, brano che concretizza la loro voglia di scendere in profondità nei rapporti, e di non arrendersi mai.

Testimoniano la fragilità e la superficialità dei rapporti moderni, in Bad Girls, dove espongono un classico esempio dei problemi nei rapporti moderni, un tipo di amore malato (amami/feriscimi come se ne avessi bisogno), un attaccamento morboso a qualcuno nonostante il dolore che ci provoca. Corriamo per raggiungere il nostro amore, mentre lui si allontana portando via pezzi di noi.

Nell’album è presente anche un loro vecchio brano, uno dei primi, Sunset Yellow, ed è in questo pezzo che risulta palpabile il cambiamento della band a livello sia di testi che di esecuzione, lasciandosi alle spalle gli atteggiamenti fortemente collerici e rancorosi degli esordi.

Attraverso la loro musica curativa, in It’s ok to talk(brano che dà il nome all’album), incoraggiano l’ascoltare più delicato, più problematico, a parlare dei dilemmi della sua anima, senza paura di essere giudicato debole, perché quello che più spaventa è aprire i canali del cuore e sentirci rifiutati.

Questi quattro ragazzi di Leeds sono l’emblema di una gioventù all’insegna dell’esagerazione, rappresentano chiunque di noi abbia passato un’adolescenza sopra le righe, in puro stile rock punk, quando non si ha la consapevolezza che si matura poi col tempo. Quando abusare di ogni sostanza sembra l’unica soluzione, annebbiare la mente per far zittire i demoni che popolano la nostra testa, pur di non comunicare, di non confidarci, di non guardarci dentro.
Gli Allusinlove sono maturati, crescendo hanno capito che l’unica via di salvezza da noi stessi è manifestare la nostra interiorità, esprimere i nostri sentimenti per esorcizzare tutte le nostre paure. L’unica cura è l’amore e la comprensione, perché la rabbia non è costruttiva, ma distrugge tutto ciò che di più buono è stato creato.

Attraverso questo loro primo album mettono al servizio di chi è più sensibile, debole, la loro personalissima esperienza, usando il rock come terapia ai dolori dell’anima.

“The world’s gone mad and it’s getting divided, let’s stand for unity”
Solo restando uniti, facendo squadra e non lasciando i più deboli indietro possiamo andare avanti degnamente.

 

Allusinlove

It’s Okay To Talk

Good Soldier Songs/AWAL, 2019

 

Marta Annesi

Agnello “Il Minotauro” (Garrincha Dischi, 2019)

Per definizione l’agnello è la creatura più docile del regno animale. Agnello è anche il nome (nonché il cognome del cantante e fondatore del gruppo) di una band palermitana nata nel 2016 e, ascoltando l’album, risulta essere un appellativo appropriato per questa band carica di sensibilità, dolcezza e irrequietezza verso il mondo.

L’obiettivo primario del gruppo è una crescita costruttiva e la conseguente tutela del suo stile, una ricerca estetica musicale, linguistica e spirituale, per regalare all’ascoltatore un’esperienza totalmente nuova, il più possibile distante da quello che si può trovare sul mercato musicale attuale.

Il loro album d’esordio Il Minotauro, composto da singoli usciti tra il 2017 e il 2018, è traboccante di atmosfere romantiche e commoventi, scaturite da animi nobili che sembrano cozzare con la superficialità che ci circonda oggi.

Funamboli contemporanei alla ricerca di un equilibrio tra ritmi tipici della musica italiana anni ‘60, indie e surf, adottano testi delicati e nostalgici, grazie all’uso smodato del sax, che colora di tinte malinconiche tutto l’album.

La figura fragile e riflessiva de Il Minotauro primo brano e titolo dell’album, esplode in tutta la sua angoscia ed emarginazione, la quale sembra essere il mantra della band. Emblema della società evoluta, dove ci ritroviamo più spesso lontani gli uni dagli altri, chiusi nella nostra personale disperazione (come lo è il Minotauro del suo labirinto), alla ricerca di un/a compagno/a che divida con noi l’onere di questo massiccio fardello.

Altra questione che viene valutata è la paura nei suoi più intimi aspetti: paura dell’abbandono da parte della persona amata, come nel brano Marta, dalle sonorità morbide e armoniose, fino ad arrivare alla paura delle relazioni stesse. Il terrore di impegnarsi che impregna le generazioni moderne nel pezzo Casa Tua, dove ricorre la paura di imbarcarsi in una situazione troppo grande, troppo importante — come potrebbe essere salire a casa dell’amata — ipotizza la fine del sentimento, quasi per codardia, e il raggiungimento di qualcosa con l’ansia di non esserne poi all’altezza.

Il loro intento è dar spazio e voce alle emozioni, utilizzando un registro pop per analizzare la collettività come in Sulla sdraio nato dall’unione creativa con Nicolò Carnesi. Si servono delle classiche retoriche del cantautorato indie a tratti ripetitivo e circolare per esprimere l’insoddisfazione di una generazione mentalmente relegata su una sdraio, schiacciata dalla realtà che ci scorre dinanzi come un film, nella quale non possediamo potere decisionale ma siamo solo spettatori non paganti. 

Come ammette il gruppo stesso, “il brano è volutamente più monotono, per trasmettere una percezione di tempo perduto e del fatto che vivere in dipendenza dal mondo esterno ti condanna all’infelicità”.

La critica verso la società moderna è contestualizzata in Tutto questo penare, dall’intro fresco, estivo, estremamente pop, in forte contrasto con il testo amaro, improntato sulla solitudine e sulla discordanza degli schemi sociali (sposarsi, far figli, sistemarsi) in rapporto alla vera felicità. 

Come astronauti esploratori di un universo parallelo, questa band vuole parlare di amore, di solitudine ma soprattutto della paura di una generazione, il terrore nelle relazioni interpersonali e della gestione dell’emotività in un momento storico interamente incentrato sull’avere, più che sull’essere.

 

Agnello

Il Minotauro

Garrincha Dischi, 2019

 

Marta Annesi

The Winstons “Smith” (Tarmac\Sony, 2019)

“Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unica che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica vera preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’n’Roll. Altri semplicemente vita.”

Non è una frase di Bukowsky né di un qualche santone indiano, bensì di tre fratelli lombardi, The Winstons (Linnon, Rob e Enro, pseudonimi) i quali scagliano così la bomba del loro ultimo lavoro discografico, a distanza di tre anni da The Winstons (album d’esordio nel 2016).

Stiamo parlando di Smith (probabilmente da Winston Smith, protagonista di 1984, di George Orwell; ma anche un gioco di pronuncia con The Winston’s Myth band jazz/soul americana anni ‘60) uscito il 10 maggio per le piattaforme virtuali, oggi 31 maggio invece, in formato fisico.

La loro misticità verbale è accompagnata da abiti bianchi, contrapposti ad uno spirito canterburiano, una voglia matta di mischiare le carte (musicali) in tavola e stravolgere così la concezione stessa di musica. 

Bassi graffianti e striduli, tastiere dal sound penetrante e batterie martellanti, accostati ad atmosfere classiche contraddistinguono questo disco del power trio più enigmatico della scena indie italiana.

Impossibile “etichettare” questa band, poiché il loro lavoro è un amalgamarsi di stili e di generi musicali.

Ci fanno salire su una DeLorean, catapultandoci direttamente negli iconici anni ‘60/’70: le nostre ossa scricchiolano per l’umidità del Kent e il nostro cuore è stravolto dal fango di Woodstock, in piena rivoluzione musicale.

La loro peculiarità risiede nella bravura di non scadere nella cover, o nel revival; piuttosto possiedono la capacità di modernizzare le origini del Rock, trasportandolo nel 2019. Lo stravolgono e lo fondono con generi lontani dal progressive rock, come può essere la musica classica o jazz, il tutto infarcito con del buon vecchio grunge di Seattle.

Mokumokuren, primo brano dell’album, in Giapponese identifica un fantasma casalingo che nasce dagli squarci nelle pareti di carta, tipiche delle abitazioni di questo paese. Gli occhi dello spettro appaiono dalle fenditure, spaventosi, i quali si limitano a esaminare l’interno della vostra abitazione. 

Ecco l’intento di questa band: attraverso l’intro psichedelico e in crescendo, crea pertugi nel tessuto della musica contemporanea dai quali noi possiamo spiare all’interno, regalandoci l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, fungendo da Ciceroni in questo viaggio psichedelico al di fuori della normalità a cui il mercato musicale è abituato.

Pezzi come The blue traffic light ci danno l’impressione che i Beatles si siano cimentati in un ménage a trois con i King Crimson e i Pink Floyd. E nella mischia si sia ritrovato invischiato anche Nicola Piovani.

L’album alterna pezzi melodici, dove vengono musicalmente chiamati in giudizio i Ragazzi di Liverpool come Blind o Not Dosh for Parking Lot, decisamente in stile beat anni ‘60, o Around the Boat dove abbandonano per 2 minuti e 9 secondi l’atmosfera psichedelica per regalarci una pausa malinconica, a pezzi più cazzuti come Tamarind Smile/Apple Pie, che presenta cambi di registri improvvisi e passaggi psichedelici non tradizionali.

Ci destabilizzano con l’uso di strumenti datati, poco pertinenti con lo stile rock della band come il sax in Soon Everyday, donando al brano un’atmosfera esoterica, e cori in pieno stile Ennio Morricone.

Il Canterbury Sound si palesa nella cooperazione con Richard Sinclar (bassista, chitarrista, compositore nonché fondatore dei Caravan) in Impotence, che combina il jazz rock, il pop al rock psichedelico, dando una connotazione surreale. 

Nic Cester (cantautore australiano frontman dei JET) firma Rocket Belt, impregnato di rock anni ‘60, con sprazzi vocali degni di Mick Jagger, tastiere impazzite sul finale,  pezzo allucinogeno e coinvolgente.

Imperdibile e stravagante, questo nuovo album è un ritorno al passato attraverso gli occhi (e le orecchie) di ragazzi che non hanno vissuto i mitici anni ‘60 dal vivo. Ci scaraventano in un universo di sonorità arcaiche, un calderone di spiritualità e trasgressione.

Una band completa, con uno stile forsennato, capaci di mischiare il Rock’n’Roll nella sua forma più pura ad un clima malinconico degno di Ennio Morricone.

 

The Winstons

Smith

Tarmac\Sony, 2019

 

Marta Annesi

Ponzio Pilates “Sukate” (Brutture Moderne, 2019)

“Una band di avventurieri dell’elettrosamba, improvvisatori carichi di effetti speciali” così si definiscono questi eterogenei e colorati filibustieri romagnoli dagli abiti sgargianti.

I Ponzio Pilates, parlando del loro nuovo album Sukate, pubblicato da Brutture Moderne grazie ad una campagna di crowdfunding su Musicraiser, dicono:

“Non c’è un genere in grado di definire tutto il disco Sukate, non c’è nemmeno una frase che possa dare un’idea che sia condivisa in ogni brano. Ogni brano è indissolubilmente legato agli altri, ma ha totalmente un’identità e forse anche un genere diverso, se vogliamo parlare di generi.

Quello che abbiamo fatto è riprodurre le nostre improvvisazioni furiose e istiganti alla danza ferina, ancora, ancora, e ancora fino a che non si sono plasmate in una forma più definita e concreta”.

Il disco è stato registrato in totale isolamento dal mondo moderno, in una villa sperduta nella campagna Romagnola (loro patria natia) durante l’autunno e l’inverno del 2017, di ritorno da un’estate “caliente” per lo sconvolgente “Pizza e Vongole tour” e per la partecipazione al Pflasterspektakel a Linz (Austria) dove hanno esportato la tipica sventatezza romagnola.

L’album, in totale 33 minuti e 15 secondi di sfrenatezza e goliardia, conferma nettamente la loro visione e interpretazione di musica che non si allontana molto da quello presente in “Abiduga”, loro primo disco uscito nel 2016 (un singolare crossover musicale sicuramente unico nel loro genere).

Mescolanza di stili (afrobeat/samba/elettronica), testi provocatori e irriverenti, ad un primo ascolto sembrano nonsense, scritte e pensate al solo scopo ludico. 

L’ecletticità di questa band, però, si percepisce anche per il suo intento involontario nell’abbattere i confini culturali e musicali, portando scompiglio e disagio, intervenendo nei processi di globalizzazione sociale, oltre che musicale.

Sprezzanti del comune senso del pudore, il disco contiene pezzi sarcastici, quasi beffardi, come L’Insalata: pungente attacco verso i vegetariani o critica contro l’abuso di carne nella società moderna?

Vogliono sconcertare, usando ogni mezzo in loro possesso, non solo con la melodia ma anche attraverso i nomi dei brani, come Disagio e Camagra (Kamagra, il noto farmaco generico del Viagra), il quale ha il solo scopo di raddrizzare la nostra voglia di ballare e liberare il nostro lato più primordiale.

Il loro traguardo è slegare la parte inconscia di ognuno di noi, e per fare ciò si servono di pezzi come Bagarre o Salomone, che presentano intro plagiate dall’elettropop, passando per il funk carioca con chiarissimi cenni alla mazurka romagnola.

L’album è impregnato di multiculturalità, dall’Africa al Giappone, passando per il Brasile e approdando nella Riviera Romagnola., quasi ad affermare che la diversità non riguarda la musica, che essa deve unirci e stringerci in un abbraccio materno e corale.

Un giro del mondo in 9 brani, destinato a far ballare tutti, dai grandi ai piccini, e non solo. Per chi possiede un’anima questo album rappresenta l’umanità e il bisogno di sentirci tutti appartenenti allo stesso Mondo.

 

Ponzio Pilates

Sukate

Brutture Moderne, 2019

 

Marta Annesi

Kaos India “Wave” (Universal Records, 2019)

Vi sentite nostalgici?

Percepite quell’abbraccio freddo della malinconia che vi attanaglia il cuore?

Il miglior rimedio è ascoltare musica triste.

Viene in nostro aiuto Wave dei Kaos India, band modenese attiva dal 2011, etichettata come alternative rock. 

Musicalmente precisi, ci regalano un album studiato, impeccabile sotto il punto di vista musicale, con molta cura nei particolari. Le melodie trascinano in universi paralleli bloccati agli anni ‘80, chitarre determinate e cori ripetitivi la cui unica ambizione è quella di rimanere in testa.

Sembra di essere vivere in Footloose, capelli cotonati, sneakers e maglioni improbabili.

Hanno avuto a disposizione cinque anni per portare a termine il loro ultimo lavoro, dando il massimo, ed è evidente, complice anche la voce perfetta di Mattia Camurri, riescono nel loro intento di dimostrare la loro bravura come musicisti e la loro voglia di mescolare generi per creare qualcosa di personale.

In generale, i brani partono tutti benissimo nell’intro: chitarre e batterie rock, come in A Second e Burn Away, ma proseguono infarcite di questo sound anni ‘80, cori retrò e orecchiabili.

Il tema fondamentale di questo album è la perdita. In Half ci parlano di una rottura amorosa, di quella particolare situazione in cui ci sentiamo a metà, e lo specchio rimanda un’immagine distorta, opalescente, quando tutto intorno a noi si dissolve e anche i colori vengono spazzati via, lasciandoci  circondati da un alone giallastro.

Close esordisce con un’intro in crescendo, per poi spegnersi in questa ambientazione anni ‘80 che perdura in tutto l’album, ed è sulla stessa scia di demoralizzazione per un amore finito, “Change is never easy/If you can get out of the rain”, non si può guarire dalla desolazione se prima non riusciamo a rialzare la testa e gettare il passato alle spalle.

A metà album troviamo Don’t Stop, un brano che ci incita a non mollare mai, ad affrontare la vita come una scala a pioli, dove per arrivare al prossimo gradino si deve avere la forza di superare quello antecedente senza spegnersi mai, senza smettere di essere ciò che si è. “Don’t stop feeling/ Don’t stop breathing/ don’t stop thinking and wondering

Il loro lavoro è un viaggio nella tristezza. Si parte dalla disperazione per arrivare poi ad una rinascita.

Come le fenici bruciano divenendo cenere, per poi risorgere proprio da lì, l’ultimo brano Burn Away è la tappa finale di questa epopea nello sconforto. Ci vogliono comunicare che tutto nella vita è un processo di perdita/rinascita, e l’unico modo per rialzarci a testa alta è bruciare tra le fiamme di una rinnovata passione.

Nel complesso un buon album, soprattutto per la ricerca metodica e la costanza di questi ragazzi italiani. Da apprezzare sicuramente l’impegno, la precisione e la voglia di provare sonorità differenti, ma da un gruppo etichettato come “alternative” mi aspettavo più bassi distorti, assoli graffianti e batterie più incazzate. Poca innovazione, melodie già sentite, nonostante la bravura del gruppo nel riproporle. Possiamo dire che gli anni ‘80 sono finiti (e per fortuna!!), è tempo di sperimentare più duramente, uscendo anche dalla propria comfort zone, piuttosto che star a ripescare suoni da un passato che non ci rappresenta più. Meno Duran Duran, please. 

 

Kaos India

Wave

Universal Music, 2019

 

Marta Annesi