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Tag: musica

Eels: rock indietronico e musica per freaks

C’è qualcosa di unico in quello che una sola canzone può trasmetterti.

Uno stupido, apparentemente casuale susseguirsi di accordi, in fondo… eppure quando ascolto un qualsiasi brano degli Eels, succede qualcosa di inaspettato: se sono triste, mi ritrovo felice e se sono felice acquieto la mia euforia, diventando riflessiva.

Mr. Oliver Everett ha fatto questa magia, fin dall’inizio: scrivere canzoni tristi sulla felicità e canzoni felici sulla tristezza.

Ho conosciuto gli Eels a 17 anni grazie al mio fidanzatino dell’epoca. Soltanto in un periodo più maturo li ho realmente apprezzati, potendo dire ora che per me esiste una musica adatta ad ogni mio stato d’animo.

Mi spiego: gli accordi e la musica di Mr. E. si appoggiano senza peso su ogni mio tipo di emozione, rendono impalpabili i guai, mi permettono di riderci su, di alleggerire la pressione o di lasciar correre… E penso che ad avere questo effetto siano le origini, la scossa da cui nascono testi e melodie di Oliver Everett. 

“C’è qualcosa in fondo all’Io, che è fatto per non scomparire mai del tutto” dice Everett, conscio della sua continua forza per rialzarsi da ogni duro colpo infertogli dalla vita. 

L’ispirazione del cantante nasce dalla lotta che lui stesso ha dovuto intraprendere contro le perdite, i lutti familiari e lo sconforto di non essere sempre artisticamente compreso.

La sua esistenza è stata complicata fin da subito. Gli Everett non erano dei genitori tradizionali e avevano deciso di non dare alcuna regola ai propri figli, lasciando che fosse l’esperienza ad insegnare loro come cavarsela: “Ho dovuto imparare tutto nella maniera più difficile: andando per tentativi ed errori”. 

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Forse è per questo che nelle parole di ogni brano sono descritte tragedie raccontate in maniera semplice e diretta. Disarmante.

Scorrere fra le righe dei suoi testi sarà ancora più piacevole per il profondo messaggio di speranza da apprezzare, scrutando da vicino la tenacia che a lui stesso è servita per rialzarsi da ogni dura sfida.

Mentre scrivo, con accanto un bicchiere di birra, ascolto in sottofondo i testi politicamente scorretti, gli arpeggi e la voce roca di Mr. E.: un perfetto mix di rock, pop, beat indietronico, blues cantato da una voce polverosa, degna di un Tom Waits moderno. 

La musica degli Eels è malinconicamente acustica, un manifesto indie degli anni Novanta. E lo è davvero.

Come risposta alle migliaia richieste e proposte di offrire la loro musica a scopi pubblicitari, infatti, Mr. E. risponde:  “Dipende da quanto le tue canzoni significhino per te. Quando ho scritto Last Stop: This Town, non ho pensato ad un profumo, ma alla morte di mia sorella”.

É con questa dose di dignità e coraggio che Mr. E. ha subito messo tutti al proprio posto.

Gli Eels hanno sintetizzato, inoltre, quel suono a metà fra Beck ed Elliott Smith, diventato il loro marchio di fabbrica.

Non è musica che vuole seguire le mode del momento, ma nemmeno una musica “difficile”. Non ha pretese rivoluzionarie, ma è un easy listening dalla freschezza inconfondibile.

Mr. E. è un compulsivo della creazione. Ha sempre tentato, con infinita e ossessiva costanza, di superare sé stesso.

In fondo, è il minimo che ci si possa aspettare dal figlio di uno scienziato che ha dedicato la propria (breve) vita alla ricerca di una teoria sugli universi paralleli. “Mio padre era un genio, io sono solo un gran lavoratore”. 

Mr. E. è un compulsivo della composizione: ” È una tortura: certe sere me ne sto a casa a guardare un film e dopo dieci minuti sento che devo scrivere una canzone e se provo ad ignorarla il pensiero che magari quella canzone sia sfuggita per sempre mi fa diventare matto”. 

La risposta, in un’affermazione, a come gli Eels abbiano totalizzato la bellezza di dodici dischi dal 1996 ai giorni nostri.

Alcuni sicuramente vincenti, altri meno convincenti, ma sempre tutti di gran carattere. E talmente personali che, nel mercato, sono stati considerati dei mezzi flop. 

Ma i fan degli Eels, quelli che li seguono da sempre, li prendono quasi come materiale istruttivo, felici che siano l’anteprima di un nuovo eccentrico ed entusiasmante live tour.

Perché per Mr. E. un concerto non è quella sorta di mortificante “gretaest hits con applausi”, ma è un’occasione sempre nuova per ridipingere i propri brani, riarrangiando e riadattando una canzone di anni prima al presente.

Serio, ma spassosissimo dal vivo, Mr. E. crea delle vere e proprie atmosfere da garage, come se stesse suonando, come se stesse improvvisando per pochi amici. 

Insomma, che tu sia un inguaribile romantico, un cinico indefesso o un nerd in cerca di musica che non hai mai ascoltato prima, la musica degli Eels ti farà vivere la tua dimensione.

Struggente, cruda, pazza, disorientante, geniale, silenziosa o con urla da licantropo. Può farti sentire come ti pare. Non ha limiti, non ha confini. 

Foto e testo di Valentina Bellini

Tra maschere e sogni sull’Isola che Non C’è

•Peter Pan secondo Bennato•

 

“Seconda stella a destra, questo è il cammino. E poi dritto fino al mattino. Poi la strada, la trovi da te, porta all’isola che non c’è”.

Mi sembra quanto mai attuale, se pure utopico, parlare ancora oggi di sogni. Per tutta la vita ho sognato di aprire la finestra e volare via, moderna Peter Pan, verso l’Isola che non c’è.

Sarà stata la fiaba di James Matthew Barrie che mi ha influenzato, sarà stato il cartone animato Disney, sarà stata l’insofferenza verso le regole e le costrizioni, non saprei, ma una cosa non è mai cambiata: la colonna sonora.

Soltanto un cantautore italiano ha saputo trasformare in musica alcune delle più belle fiabe mai scritte: Edoardo Bennato, che ha dedicato molti dei suoi album ai personaggi più famosi di alcune opere di letteratura per l’infanzia, fra cui spiccano senza dubbio Pinocchio e Peter Pan.

L’isola che non c’è non è un luogo fisico, è un non-luogo. È una metafora, è un rifugio, è un’utopia politica: esiste per tutti un mondo ideale, che riflette i desideri più intimi, quasi sempre in contrapposizione con la vita che ci scorre addosso quotidianamente.

L’isola raccontata da Bennato è un luogo di pace e armonia, dove la criminalità è assente, così come l’ipocrisia. Un luogo, insomma, impossibile. Eppure, c’è.

Dal mio punto di vista, considerata anche la simbologia dell’isola, l’Isola che non c’è rappresenta un luogo di stasi, una pausa dalla vita di tutti i giorni, in cui il tempo si ferma.

Non deve essere necessariamente un posto reale, può anche essere un luogo mentale in cui ci si rintana dopo una brutta giornata. Per molti, l’Isola è una persona.

Comunque sia, è stato sulle note dell’armonica di Bennato che ho cominciato a sognare, perchè ascoltare una sua canzone è un po’ come ascoltare una favola.

Il Rock di Capitan Uncino invece mi ha sempre dato la carica giusta: mi ricorda l’estate dei miei undici anni, ed è a quel momento, senza dubbio, che risale la mia ferrea decisione di andare controcorrente.

Non sapevo nemmeno bene cosa volesse dire, ma non avevo dubbi: se non potevo diventare una piratessa, avrei per lo meno dovuto perseguire una vita all’insegna della ribellione.

Non so se sono sulla buona strada, ma devo a Bennato la voglia di provarci, senza sosta, ogni giorno.

Anche se “ti prendono in giro”, come canta Edoardo, tu continui a cercarla, ma l’importante è non darsi per vinti, perchè, prima o poi, l’Isola compare, come per magia. Chi rinuncia a cercare la propria oasi è davvero il più folle: cos’è una vita senza sogni?

Sarà forse infantile, ma amo ancora tantissimo le fiabe. Mi piace ascoltarle, amo immaginarne di nuove, mi diletto a raccontarle, quando ne ho occasione.

Raccontare una fiaba è una faccenda più seria di quanto sembri. Innanzi tutto, è rivolta ai bambini, e, si sa, i bambini non perdonano.

Non puoi dire “Vado di fretta”, “Finisco dopo”, “Cerca su Google”. No. Bisogna raccontarla tutta d’un fiato, dall’inizio alla fine. Almeno fino a che il pargolo non impara a leggerle da solo.

Per me, leggere è stata – ed è ancora – una scoperta, e uno dei primi libri che ricordo con immensa malinconia è proprio Peter Pan. Lo spiritello di Sir J.M. Barrie mi faceva arrabbiare tantissimo e allo stesso tempo lo invidiavo.

Passavo le serate pensando a come sarebbe stato volare, cosa avrei fatto io nell’Isola che Non C’è, come avrei sconfitto Capitan Uncino. Poi – purtroppo – sono cresciuta, e non ho più avuto accesso a quel magico mondo, per fortuna però, ho imparato molto altro.

Ho cominciato a chiedermi se Capitan Uncino fosse così malvagio per un motivo: magari era arrabbiato con Peter Pan. E magari aveva pure ragione, chissà.

Ragionando sul background del Capitano, ho pensato che in fondo è solo un uomo che si comporta come il suo personaggio richiede. Se andasse contro al sistema, cosa succederebbe? Si è mai visto un pirata buono? Del resto, si impara a scuola “a far la faccia dura/per fare più paura”, come canta la ciurma.

Andare contro al “sistema” non è una scelta semplice: secondo Pirandello, non ci libereremo mai delle maschere che ci vengono assegnate, nè di quelle che ci scegliamo autonomamente.

Forse Bennato ci vuole dimostrare qualcosa di simile raccontandoci la storia dal punto di vista dell’antagonista principale della fiaba originale: non esiste una realtà oggettiva, una giustezza univoca delle situazioni, la vita è vera a seconda di chi la guarda.

Sarebbe quindi importante ragionare sulle situazioni e gli eventi esaminandone le sfaccettature: non sempre chi sembra il cattivo lo è davvero.

Mi sono chiesta, infine, se fosse possibile (e giusto) rimanere bambini per sempre. È allettante, dopo tutto, una vita senza regole, senza responsabilità, senza confini. Ma è davvero questo che significa essere liberi?

Irene Lodi

Singapore, il nuovo singolo di IO e la TIGRE

Ecco a voi Singapore il nuovo singolo di IO e la TIGRE, il quarto brano estratto dal loro album Grrr Power, uscito lo scorso 30 ottobre per Garrincha Dischi.

Nonostante l’assonanza, e nonostante il gruppo sia composto da due donne, il Grrr Power non ha nulla a che vedere con il Girl Power, portato in auge negli anni ’90 dalle Spice Girls.

Si tratta invece dellaforza di affrontare le sfide della vita accettando la propria parte più fragile e vulnerabile. La forza che fa andare avanti anche se tutto attorno sembra voglia farti sembrare non adatta o non adatto. Una forza che affonda le radici nel confronto”.

Singapore è stato realizzato in collaborazione con Indie Pride, un’associazione italiana che attraverso la musica e gli artisti si schiera contro il bullismo, l’omofobia e il sessismo.

Aurora Ricci e Barbara Suzzi sono due donne impegnate, che hanno sposato la causa dell’Indie Pride e nel corso del loro tour invernale, che ha toccato numerose città italiane, hanno incontrato diverse associazioni Lgbtqi per confrontarsi e scambiarsi idee su diverse tematiche.

Proprio tra la collaborazione tra la band e Indie Pride nasce il video di Singapore, fresco, semplice e spontaneo.

Nel video viene rappresentata una giornata qualsiasi di un/a musicista, dalla partenza, le chiacchiere, le amiche/gli amici, i camerini e il live. Nel video abbiamo evitato di usare il furgone per pudore: giriamo in due ma ogni volta ci chiedono se stiamo traslocando. Volevamo che principalmente veicolare libertà, gioco e volevamo trovare un modo che non fosse il classico “video impegnato”. Affrontare le tematiche del bullismo, sessismo e omo-trans-fobia non con un approccio didattico e convenzionale ma con un approccio più immediato, libero e semplice. Così, per evitare che “risultasse” un video con una postura preimpostata, abbiamo optato per girarne uno il più possibile spontaneo e la cui trama ci appartiene. Perché noi, così come chiunque altro, possiamo essere un sacco di cose e correremo più forte di ogni etichetta che cercheranno di metterci addosso. E le tigri si sa, corrono veloci“.

IO e la TIGRE saranno in tour per tutta l’estate e, se anche voi volete un assaggio di Grrr Power, non lasciatevi scappare queste date.

25 mag – Misano Adriatico – Primavera giovane
12 giu  – Bologna – Montagnola music pride
14 giu – Casaleone (VR) – Click park fest
28 giu – Roma – I-Fest – (w/Sick Tamburo)
29 giu – Castiglion fiorentino – Villaggio Rock (w/La Municipal)
5 lug – Lugo di Vicenza – Groove club
10lug – Torino – Flowers Fest
2 ago – Roè Volsciano (BS) – Restart musicando
3 ago – Sezzadio (AL) – Cascina bellaria
23 ago – Vinadio – Balla Coi Cinghiali

 

Testo di Laura Losi

Foto di Luca Ortolani

La magia del Prado

•Quando l’arte incontra la musica•

 

Madrid è una delle mie città preferite, sembra avvolta da una patina magica che la rende unica al mondo. Ovunque ti giri non puoi fare a meno di sgranare gli occhi perché in ogni angolo puoi trovare una chiesa, un palazzo o una fontana che catturano la tua attenzione.

Madrid per me è sinonimo di arte e musica.

Tra i tanti musei che la città ospita ho deciso concentrare la mia attenzione sul Museo del Prado. Non solo perché nel 2019 vengono celebrati i suoi 200 anni ma perché raccoglie una collezione di opere da lasciare senza fiato.

L’imponente museo, costituito da un dedalo di stanze in cui è facile perdersi, ospita dipinti di alcuni degli artisti più importanti della storia: Tiziano, Durer, Bosch, Raffaello…elencarli tutti sarebbe impossibile.

Passeggiando per le sale, armata di cartina, passando da un quadro ad un altro mi sono accorta che moltissimi artisti nelle loro opere inseriscono riferimenti al mondo della musica.

Ci sono autori che decidono di celebrare i musicisti intenti a fare il loro lavoro, altri che immortalano momenti di festa, altri che celano dietro l’immagine di un musico i potenti del loro tempo e altri ancora che nelle loro opere a volte in primo piano, a volte celati in disparte, inseriscono degli strumenti.

Dopotutto la musica, una forma d’arte antica quasi quanto l’uomo, è parte fondamentale della vita di tutti e quando due arti così importanti si incontrano non possono nascere che dei capolavori.

In questa breve carrellata vedremo insieme alcune opere che contengono dei richiami al mondo nella musica e come i loro artefici hanno deciso di rappresentarla.

Partiamo dal tedesco Hans Baldun Grien che nella sua opera Le Tre Grazie decide di trattare un soggetto di matrice classicheggiante molto caro ai rinascimentali. 

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Hans Baldung Grien, Armonia o Le tre Grazie, 1541-1544 

Al Prado possiamo ammirare anche l’opera di Rubens, che tratta lo stesso soggetto ma lo fa in modo totalmente diverso.

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Pieter Paul Rubens, Le tre Grazie, 1636 ca., olio su tela

Osservando i due dipinti, infatti, più che le somiglianze possiamo soffermarci sulle differenze.

Grien vive in un periodo turbolento, caratterizzato da scontri religiosi che sconvolgono gli stati tedeschi. L’artista si inserisce in un filone che viene denominato arte della riforma in cui le opere si caricano di una forte carica morale. 

Nel dipinto possiamo notare due strumenti, un liuto e una viola da braccio, e un putto che tiene tra le gambe uno spartito. L’opera, che a prima vista potrebbe sembrare di matrice puramente classica, nasconde in realtà un significato più profondo.

Sullo sfondo, attorcigliato al tronco di un albero, possiamo notare un serpente, nella cristianità simbolo per eccellenza del male e della corruzione. A questo punto, vista anche la presenza di un Cigno (che potrebbe rimandare alla seduzione di Leda ad opera di Giove) potremmo vedere nell’opera una critica negativa alla musica profana, tematica molto in voga nella patria dell’artista.

Diverso invece è il caso del nostro connazionale Tiziano Vecellio che ci propone un’opera dal titolo Venere con Organista e Cupido.

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Tiziano Vecellio, Venere con Organista e Cupido, 1540-1550

Anche quest’opera riprende un soggetto classico: la Dea della bellezza nuda distesa su un letto.

L’italiano però rispetto all’iconografia più tradizionale inserisce un musicista, abbigliato con indumenti del 500 e armato, che osserva quasi con desiderio il corpo di Venere.

Nelle sue fattezze possiamo facilmente riconoscere Filippo II, committente dell’opera.

Tiziano riesce a fondere alla perfezione il tema classico alla sua realtà inserendo nell’opera un giardino rinascimentale, carico di riferimenti simbolici.

Ma la musica entra anche nei quadri spiccatamente religiosi.

Antiveduto della Grammatica nella sua opera Santa Cecilia rappresenta la donna intenta a a suonare un organo, mentre sullo sfondo, in penobra, un angelo la ascolta rapito.

 

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Antiveduto Della Grammatica, Santa Cecilia, Olio su tela, 1611

Alle spalle della santa possiamo anche scorgere un violino e un liuto poggiato su un tavolo.

Il fatto che la santa stia suonando proprio un organo non è casuale dal momento che, secondo la tradizione, sarebbe stata proprio lei ad inventare questo strumento.

Inoltre il suo essere circondata da strumenti è dovuto al fatto che Santa Cecilia è, per la fede cristiana, la patrona della musica degli strumentisti e dei cantanti.

Ma andiamo a vedere un quadro pensato per essere esposto in un monastero situato a meno di cinquanta chilometri da Madrid: L’Adorazione dei Pastori di Juan Bautista Mainò. 

 

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Maino Juan Bautista, Adorazione dei Pastori, olio su tela, 1610 ca.

Nell’opera, che riprende la natività secondo il Vangelo di Luca, vengono rappresentati un gruppo di pastori e di angeli che venerano il bambino, appena nato. Il dipinto si articola su tre livelli e in quello inferiore, più vicino allo spettatore, possiamo notare un pastore intento a suonare.

In questa tela possiamo notare non solo l’influsso di Caravaggio ma anche quello di El Greco, che operava proprio a Toledo.

Ma la musica si inserisce con naturalezza anche nelle rappresentazioni dei paesaggi e della vita quotidiana. L’opera di Brueghel il Vecchio, Matrimonio in Campagna, ci fornisce uno spaccato su quella che era la vita nel primo 1600.

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Jan Brueghel Il Vecchio, Matrimonio in Campagna, olio su tela, 1612 ca.

L’autore, nonostante voglia porre l’accento sulla processione nuziale, da una grandissima importanza al paesaggio che viene rappresentato con grandissima cura.

La musica, allora come oggi, alle nozze rivestiva una grandissima importanza e quindi Brueghel inserisce i musicisti proprio nella processione. 

Notiamo infatti un uomo con un tamburo che precede lo sposo (vestito di nero con il collare), mentre tre uomini armati di strumenti a corda separano il gruppo degli uomini da quello delle donne, dove possiamo notare la sposa (anche lei in nero).

Oltre a Brueghel sono molti gli autori che hanno deciso di trattare un tema simile, basti ricordare Teniers o Snyders.

Chiudiamo questa carrellata con uno degli artisti più presenti al museo del Prado: Francisco de Goya y Lucientes.

Nonostante molti lo conoscano per opere cupe come Saturno che divora i suoi figli o Il sonno della ragione genera mostri, nel corso della sua lunga vita Goya ha attraversato diverse fasi influenzate dal suo vissuto personale, dagli artisti con cui è entrato in contatto e da una sorta di dualismo tra sentimenti e ragione.

Analizzeremo qui un’opera appartenente a quella che spesso viene definita la maniera chiara,         , confrontandola con un dipinto di suo cognato Ramon Bayeu y Subias.

In questa prima fase Goya prende spunto da persone comuni e dal folclore spagnolo e i suoi dipinti sono caratterizzati da colori chiari e da una sorta di spensieratezza.

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Francisco de Goya y Lucientes, Un uomo cieco suona la chitarra, olio su tela, 1778

In Un uomo cieco suona la chitarra Goya rappresenta uno straniero il cui ruolo è quello di spostarsi di città in città  portando notizie. In quest’opera possiamo notare anche altri personaggi come il nero, il cui ruolo tradizionale era quello di vendere acqua, il venditore di meloni e e il pescatore.

Nell’opera di Bayeu, Il musicista cieco, l’uomo è accompagnato da un ragazzo che gli fa da guida e lo aiuta a richiamare l’attenzione, grazie anche all’aiuto di un cagnolino.

 

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Ramon Bayeu y Subias, Il cieco con la chitarra, olio su tela, 1786 ca.

Nonostante il soggetto trattato sia il medesimo le due opere si discostano molto per la struttura, i colori e la composizione. L’opera di Goya ci restituisce uno spaccato della società spagnola mentre quella di Bayeu y Subias sembra quasi essere inserita un contesto pastorale.

Concludo qui il mio racconto sul Museo del Prado e lo faccio prendendo in prestito le parole di un grande artista, Pablo Picasso:

L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni.

Questo è lo stesso compito che assolve la musica.

Nella vita frenetica e quotidiana di oggi spesso non troviamo il tempo di entrare in un museo, di soffermarci ad osservare un quadro, di godere della catarsi che certe opere sono in grado di offrirci. Spesso però la musica può sopperire a questa mancanza.

Musica e pittura sono due arti gemelle che vanno di pari passo, quando queste due si incontrano non possono che nascere opere importanti, in grado di toccare le corde della nostra anima

Laura Losi

Diario di una Band – Capitolo Quattro

“Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

E a un Dio senza fiato non credere mai”

 

F.De Andrè

 

 

Contaminazioni. La vera storia, il vero percorso musicale di una persona nasce in tempi remoti, laddove la memoria del soggetto in questione probabilmente non riesce ad arrivare, se non scavando veramente a fondo, rosicchiando forse quei primi passi che i timpani assorbivano, zampettando dolcemente nella più totale e caotica beatitudine che un pargolo può avere.

Una spugna che assimila le influenze dai genitori, dai fratelli maggiori o dagli zii. Molte volte è un concorso di colpe che crea veri e propri “mostri” di personalità, a volte arroganti, a volte riflessivi, a volte melanconici, a volte trascinatori inesauribili o testardi senza freno inibitorio.

Quando l’ascolto e la passione per l’ascolto diventano uno stile di vita, quando si scalfisce in maniera preponderante il peso specifico caratteriale andando cosi a contemplare la potenza della magia del pentagramma.

La colonna sonora di una vita è costellata di periodi più o meno lunghi e più o meno stratificati, più o meno incisivi forse, ma ognuno lascia un segno, un particolare che rende unico e originale ogni persona che vede la musica come un’autostrada da percorrere giornalmente.

A volte su una fuoriserie sportiva, a volte andando al galoppo di un drago, a volte semplicemente passeggiando sotto la neve. La cosa bella è che ognuno ha la libertà di scegliere la strada musicale da percorrere e corredare a proprio piacimento i dettagli, decidere se sacrificarli, se farli esplodere, se crederci o meno, per l’appunto, ai dettagli, vero ago della bilancia in questione.

Tutto ovviamente in base alle esigenze mentali e fisiologiche del caso. Il contorno che avvolge le proprie intenzioni durante il viaggio è un gioco di specchi che riflette ogni sfaccettatura caratteriale di un individuo andando a consacrare cosi una statua granitica di melodie.

Mia madre mi dice sempre che sono un “giovane vecchio”, come biasimarla. Sono riuscito nell’intento, senza nemmeno volerlo, di imparare ad amare tante tipologie di musica, figlio della curiosità, ho solo una sola certezza in questa vita, ovvero i miei antagonisti acerrimi: la noia e la soffocante routine.

Ho fatto un gioco, un piccolo esperimento che al fine risulta anche simpatico. Ho provato a scavare nel baule del tempo i primi tre dischi che ho ascoltato all’esasperazione, scarnificato, spolpato. Dopo averli focalizzati, ho provato a capire se hanno inciso sui gusti, su l’attitudine, su la personalità, tratti identificativi che oggi compongono il MIO essere, musicale e non.

Col massimo stupore il rapporto si sostiene bene. Gioco che invito ogni lettore a provare, sicuro che il collage dei ricordi sarà più amplio del solito, sicuro del fatto che si apriranno automaticamente tante piccole finestre sul passato.

Ci rimasi di stucco quando, una volta composto questa particolare graduatoria ho realmente appioppato un peso equilibrato ai tre dischi in questione plasmati alla mia vita.

Dookie dei Green Day fu un regalo di mio fratello Mattia nel lontano luglio del 1995. Ho compiuto dieci anni e come prima cosa, arrivato in doppia cifra ho scoperto il punk rock.

Mi innamorai istantaneamente della disinvoltura come respiro primario, mi innamorai della chitarra distorta, folgorato da quell’ approccio sfrontato al quotidiano che rimbombava come uno “WOW” interminabile e di quella vena ribelle che ovviamente ai tempi non potevo conoscere e concepire, ma quel lenzuolo di stoffa ruvida me lo sentivo veramente comodo sulle mie piccole spalle.

Resta l’album che ha spalancato le porte della rozza vena che amo ancora mettere davanti a ogni mio proposito musicale. Un disco che scivola via dalla prima all’ultima canzone.

Oggi come ieri un rifugio di immagini e ricordi, di campeggi con le chitarre acustiche scordate e l’avvento dei primi sogni di gloria, quando per sfida o presunzione cercavo di assomigliare a Billy Joe, recependo gli input della sua immagine come una vera e propria figura mistica.

Credo di essere una persona del tutto propensa al divertimento, tentando di sorridere al massimo delle possibilità, cercando sempre di prendermi poco sul serio quando può giovare chi mi circonda e godendo in compagnia, facendo dell’auto ironia un’arma di condivisione di massa. Questa attitudine jokeristica la devo senza a dubbio all’album di Elio e le Storie TeseEat The Phykis 1996.

Togliendo il fatto che la suddetta band è una vera officina di tecnica e precisione, accademia pura per ogni tenace ascoltatore, volevo focalizzarmi su un’altra sfaccettatura. Ciò che prendo in esame e che ora posso vedere in maniera più cristallina è la delicata causa dell’ironia, della metafora e della denuncia mai diretta, ma velata e nascosta dietro all’aneddoto e alla similitudine.

“La terra dei cachi” nel suddetto anno fece la fortuna e scalfì la sfumatura un po’ eversiva del Festival di San Remo, fin li rimasta abbastanza sterile di personalità dai tempi di mostri sacri come Rino Gaetano e Luigi Tenco.

Lo dimostra il fatto che, nella finale, agli artisti veniva concesso un singolo minuto di tempo per poter convincere il pubblico a spingerli verso la vittoria. La logica e l’ordinario, il canonico e conseguenziale pensiero strategico metteva questo minuto a disposizione dello spezzone più incisivo del brano, in linea di massima il ritornello governava questi 60 secondi di “dentro o fuori”.

La follia o la prospettiva, non so come chiamarla, ma Elio e Co. presero la loro canzone, raddoppiarono la metrica, suonarono “la terra dei cachi” in maniera impeccabile e velocizzata, restarono dentro il minuto disponibile. Per me, undicenne fu epico. Sconvolto!!!

Un messaggio chiaro, affascinante, ero divertito, stregato. Mi feci comprare il cd dai miei vecchi che ai tempi ordinavano spesso dischi e quant’altro su di un catalogo musicale che si chiamava “OK MUSIC”. Volevo saperne di più, volevo capire cosa potesse esserci dietro a quegli “scappati di casa”.

Quello che venne in futuro in compagnia dei dischi di Elio e le Storie Tese è semplicemente storia.

La bellezza del rischio, di osare, di vedere un finale diverso e perché no, un finale ontologico, mantenendo il sorriso e il coraggio. Senza dubbio virtù trasmesse alla leggera dagli zii di Milano.

Ultimo ma non ultimo, sempre nello stesso periodo, forse l’anno dopo, scoprì la bellezza e l’ammirazione che provo con rinnovato affetto anch’oggi per la rima. Divenuta in seguito una compagna fedele, amica sempre pronta alla “battaglia” che pareggia ogni mio stato d’animo quando ne percepisce l’affanno.

Iniziai a scrivere molto presto, e ricordo che la prima canzone che buttai giù, per esigenza, rigorosamente in rima e senza sapere minimamente tenere in mano una chitarra fu un inno all’Uomo Ragno, potevo avere 9 anni, non di più. Mia nonna Clara e mio nonno Mario tenevano un’edicola a San Carlo, il mio paese di nascita.

Avevo a disposizione una vasta gamma di fumetti, ma Peter Parker aveva qualcosa che andava oltre gli altri paladini dell’universo Marvel. Il mio super eroe al fianco di Dario Hubner e Marco Van Basten. Quindi tra un fumetto e un giornaletto porno che di soqquatto finiva nel mio Seven assieme ai libri di scuola, (mossa faceva le gioie dei miei compagni di classe ovviamente), scoprì l’amore per la scrittura e di conseguenza per le donne.

In quel periodo storico esplose la melodrammatica guerra giovanile nella mia zona tra chi ascoltava il Rap e chi ascoltava il Punk California modalità skate. A me il rap ha sempre destabilizzato, se non qualche sberla del primo Neffa e dei Sangue Misto, o di precursori come I Cavalieri della notte, altri tempi.

Però esplodeva a livello commerciale e radiofonico in quel periodo il successo nazionale degli Articolo 31 e Così com’è mi ha insegnato quella linea di scrittura martellante, incalzante, accattivante, rigenerante.

Ai tempi non scriveva cazzate J AX e per un adolescente brani col ritornello che fa “Con le buone si ottiene tutto” era un monito chiaro. E’ ovvio che bisogna avere la scaltrezza e la fortuna di assorbire e apprendere certi segnali dall’universo, ma quella frase, di una canzone che poi è passata in tempo celere nel dimenticatoio, mi ha sempre battuto sulla spalla, come un soffio di educazione mai svanito.

Ho scritto una canzone rap nella mia vita e mi ha pure soddisfatto ma prendo da quei tempi passati la voglia e la necessità di non banalizzare una canzone con testi scontati, frivoli o poco significativi, per lo meno per me.

Cosi come un tatuaggio, una canzone credo vada fatta per necessità interiore, per un tangibile sostentamento emotivo. Scrivere per trasmettere credo debba valere come cicatrice che nel bene o nel male farà sempre parte di te, parlerà sempre di te.

Fatevi un giro nel passato, tirate fuori le vecchie foto dagli album di famiglia, mettetevi intorno a un tavolo con amici e parenti e aprite il baule magico del passato, della spensieratezza, del collaudo verso la vita.

Son sicuro scoprirete più sensazioni e propositi che sono stati sepolti per anni, e che nella frenesia di oggi porteranno una boccata d’aria senza dubbio rigenerante.

 

Vasco Bartowsky Abbondanza

Diario di una Band – Capitolo TRE

“E da qui… e da qui…
qui non arrivano gli ordini…
a insegnarti la strada buona…
E da qui… e da qui…
Qui non arrivano gli angeli”

Vasco Rossi

 

 

Non è sempre un gioco in cui si vince, non lo è, non lo è  affatto. Diventa maledettamente difficile in certe circostanze mantenere la lucidità, essere “legittimi” e macinare senza mandare al risparmio la materia della costanza.

Ci sono giorni, periodi soprattutto, che hanno lo stesso attrito di un peso di cemento legato alle caviglie, dentro al mare della vita, obbligato ad avere la forza per nuotare  troppo in alto per prendere l’ossigeno necessario.

La musica, quella fatta con la luce delle sensazioni e dell’entusiasmo appartiene alle persone che in dote hanno un empatia spiccata. Germogliano emozioni, il concerto raggiunge picchi di collaborazione col pubblico da far venire la pelle d’oca e ogni tanto perché no si arriva alle lacrime quando la mente è sgombera, immune, impermeabile da inganni e cattivi pensieri.

Essere in grado di sviluppare una situazione musicale avente al centro un cuore pulsante di emozioni rende tutto più facile e fluido. Si inerpica però con la stessa moneta quando il buio soppianta entusiasmo e propositi.

In questi casi però si ha l’obbligo e la responsabilità di marciare a testa alta contro un sole che prova a bruciarti gli occhi, e hai il maledetto compito di tenere duro, soprattutto quando si parla di un concerto live.

Puoi avere problemi con la fidanzata, può essere un casino la situazione in famiglia, puoi avere in coma un caro amico per un incidente avuto la sera prima del concerto a 500 km da casa, può morire il tuo cane che è praticamente parte della famiglia da quindici anni. Possono succedere tutte queste cose e tu non puoi farci proprio un cazzo di niente.

Quindi cerchi di distrarti, cerchi di evadere, ti ritrovi pure a pregare l’universo, a sperare che tutto possa sistemarsi per il meglio. In mezzo a questa situazione devi essere vigile e catalizzare la disperazione in energia positiva che anche a km di distanza possa raggiungere chi ha bisogno in quel momento di ogni molecola di speranza.

A volte va bene, a volte no. Sali sul palco col groppo in gola, con gli occhi vitrei e con la mano che trema. Parti e automaticamente credi sia l’ultimo concerto, il più importante di tutti, il concerto del giudizio. E lo è davvero perché hai la responsabilità di non lasciare al caso nemmeno un millimetro di banalità, lo fai per chi sta lottando, per chi è in bilico.

Il pubblico diventa un film muto, gli amplificatori sparano bolle distorte di vento caldo. Ti lasci accarezzare da questa brezza, cerchi gli sguardi dei tuoi compagni che sanno perfettamente cosa stai vivendo e provando. Uno strizza l’occhio, l’altro acconsente con la testa come a dire “stai facendo la cosa giusta, fagli vedere chi vince”.

Canti e pensi, gridi e pensi, prendi fiato e pensi, presenti un pezzo e strappi il colore del concetto del brano con le unghie e con i denti perché chi ti sta ascoltando si fida di te, forse è in una situazione speculare alla tua e ha bisogno di essere sollevato.

Qualcuno può avere perso il lavoro o aver subito un torto, qualcuno può essere andato in ferie dopo mesi di prigionia serrata, ognuno può avere la propria battaglia più o meno pesante da combattere.

E tu sei li perché devi deviare la tristezza sul binario della spensieratezza, ma sei il primo ad essere in un turbinio di paura e inquietudine. Quindi prendi l’ossimoro in questione, lo svisceri e ti metti la maschera di ognuno che hai davanti.

Lo fai come scappatoia perché loro non lo sanno, ma tu hai bisogno del loro supporto tanto quanto loro lo hanno del tuo. Nasce una comunione, un paracadute che parzialmente accontenta tutti, una tregua, un “cessate il fuoco” provvisorio ma che ha tanto il sapore di una boccata di ossigeno.

Finisce il concerto, cambio improvviso di scenario degno del miglior Tim Burton, ringrazi e abbracci i tuoi fratelli per la loro preziosa spalla diventata di granito, indissolubile. Decomprimi un attimo prima di smontare le tue cose dal palco.

Pensi che non serve a niente magari aver scritto il nome di Christian sulla chitarra, ma speri che una piccola vibrazione possa scuotere il sonno prematuro di un ragazzo buono. Vibrazione come quelle del Nokia 3310 per intenderci, quelle che ti facevano sobbalzare di notte ai tempi delle superiori e poi “si ciao, chi dorme più adesso?”.

E qui entra in gioco la tua fragilità, dalla quale però ora non devi più nasconderti perché sei fatto di carne, ossa e sentimenti come tutti, e nella lotta di chi cerca di distinguersi, essere mescolato alla massa è un sollievo, ti arriva una spasmodica e necessaria voglia di normalità, colmabile con una buona notizia sullo smart phone magari o con un abbraccio di chi oramai ti conosce come le tue tasche.

Sai che hai suonato al massimo per chi fa parte della tua vita, della tua quotidianità. Figure che non rivedrai forse mai più, e li vuoi fermare il tempo, cercando di capire se il limbo della paura può durare per sempre oppure no. Ora non devi vergognarti per nessuna cosa al mondo di ogni reazione, perché è legittimata dall’amore.

Qui si inizia a percepire il legame tra sacro e profano che unisce la morte alla musica. Sei spaventato, ma hai fatto della musica la tua ferma compagna, quindi esigi conoscere ogni sfaccettatura, ogni cunicolo buio da illuminare e la morte volente o nolente fa parte del gioco, un fottutissimo gioco in cui non vince nessuno.

Tutto si ridimensiona e ti appare il mondo come un posto che seppur influenzato e deteriorato da pessimi principi è giornalmente una chance da sfruttare. Capisci che ogni soddisfazione anche se misera è una piccola vetta scalata, un mattoncino su cui costruire, perché anche sulla macerie è doveroso provare a costruire.

Diventi piccolo e senza potere, si fottano la boria e la presunzione, davanti alla morte ogni obiettivo raggiunto è un prodigio, farlo con la musica è un privilegio da trattare coi guanti dell’umiltà.

Per avere una panoramica reale, a 360 gradi della vita che vuoi fare, sei obbligato a conoscerne ogni volto, anche il più scomodo e quest’arte è la dimostrazione vicina e più a contatto con le sensazioni della gente.

Canteremo anche del ricordo, perché sia presente ogni giorno nei gesti più comuni, in fondo la morte si può anche esorcizzare, con l’amore

 

A volte va bene, a volte no.

 

A Seppe

A Icio

A Pablo

 

Vasco Bartowski Abbondanza

Videogiochi in concerto, quando la colonna sonora merita un tour tutto per sé

Dai tempi dei tremolanti e cacofonici cinguettii a 8-bit, motivetti che in molti casi sono comunque riusciti a diventare intramontabili, brevi jingle che ossessivamente si ripetevano all’infinito nelle giovani menti di giovani videogiocatori, da quell’era ormai remota le colonne sonore dei videogiochi, soprattutto dal punto di vista puramente tecnologico, hanno fatto passi da gigante, arrivando a competere ad armi pari con quanto si produce solitamente per TV e cinema.

Se persino un grande artista del calibro di Gustavo Santaolalla, Oscar nel 2006 con I Segreti di Brokeback Mountain e di nuovo nel 2007 con Babel, è stato felicemente coinvolto nella realizzazione della soundtrack di The Last of Us, autentico capolavoro originariamente pubblicato su PlayStation 3 nel 2013, in attesa del sequel che lo vedrà nuovamente tra i protagonisti, significa che il medium anche sotto il profilo musicale ha raggiunto la piena maturità.

Con l’affermarsi di CD-ROM e DVD a formati riferimento, con il progressivo l’abbandono dei MIDI, comodi fintantoché c’erano restrittivi limiti di memoria da rispettare, team di sviluppo e compositori hanno potuto finalmente esprimere liberamente la loro creatività, arrivando al punto di confezionare temi e musiche d’accompagnamento indimenticabili, iconiche, significative tanto più quando accompagnano l’azione di un videogioco particolarmente riuscito ed ispirato.

Era questione di tempo insomma, il necessario per trasformare una generazione di ragazzini con la fissa per i videogiochi in adulti economicamente indipendenti, prima che a qualcuno venisse in mente di imbastire autentici concerti, con tanto di direttore e orchestra al seguito, che riproponessero alcuni di questi splendidi brani.

Eventi di questo tipo se ne organizzano diversi, già da qualche anno, un po’ ovunque nel mondo, Italia compresa. Non mancano iniziative meno ufficiali, con una scaletta che spazia in totale libertà da una saga all’altra. Ultimamente, tuttavia, stanno prendendo sempre più piede proposte monotematiche, sponsorizzate, organizzate e desiderate dagli stessi produttori dei videogiochi di riferimento.

Il caso più famoso, e di successo, è senza dubbio The Legend of Zelda: Symphony of the Goddesses, tour che ha fatto tappa anche nel Belpaese, che pesca a piene mani nella trentennale saga di Nintendo, non lesinando sul mescolare la musica a contributi video che contestualizzano ogni brano con il capitolo di riferimento.

Si tratta, naturalmente, di iniziative dal target estremamente ristretto, specifico, relativamente limitato. Il pieno apprezzamento del live, difatti, non può in alcun modo prescindere da quello che è il personale rapporto del singolo fruitore con l’opera da cui è ispirato.

Per quanto alcuni componimenti possano risultare piacevoli, e persino emozionanti, anche per il neofita, totalmente ignaro della provenienza di ciò che sta ascoltando, solo i fan e gli appassionati, ricordando il preciso istante in cui l’azione è accompagnata dal brano in esecuzione, può carpire appieno lo spirito che anima questa tipologia di concerti, sinceri tributi al videogioco stesso, quando non genuini album musicali di momenti nostalgici in cui crogiolarsi.

Oltre a Nintendo, anche il publisher nipponico Square-Enix, famoso per i suoi giochi di ruolo, è piuttosto attivo in questo senso. Dopo il successo mondiale di Distant World, tour dedicato alle musiche di Final Fantasy, e quello di Kingdom Hearts Orchestra – World Tour, il prossimo nove giugno, presso il Dolby Theatre di Los Angeles, debutterà il monografico Final Fantasy VII – A Symphonic Reunion, evento dedicato ad uno dei più famosi capitoli del brand di Square-Enix, occasione ideale anche per pubblicizzare l’ormai prossima uscita del remake del gioco del 1997, originariamente proposto sulla primissima PlayStation.

Iniziative del genere sono destinate a progredire negli anni, sia per frequenza con cui verranno proposte, sia per numero di artisti, publisher, organizzazioni coinvolte. L’ottimo riscontro dei tour organizzati negli anni scorsi, del resto, parla da solo.

 

Lorenzo “Kobe” Fazio

Aspettando Game of Thrones

•Quando i camei musicali approdano a Westeros•

 

L’inverno sta arrivando. No, non mi sono bevuta il cervello ma i milioni di fan che stanno aspettando con trepidazione l’arrivo dell’ottava, ed ultima, stagione di Game of Thrones sono certa che mi capiranno.

Otto anni. Otto intensi inverni che ci hanno tenuti incollati allo schermo regalandoci gioie (poche) e traumi (tantissimi).

Tutti, volenti o nolenti, sono a conoscenza delle vicende e dei personaggi che abitano il mondo inventato dalla penna di George R. R. Martin. Tutti, anche solo per sentito dire, conoscono vicende, protagonisti e persino modi di dire che vengono proprio da Il Trono di Spade.

Nessuno è rimasto immune al suo fascino, nemmeno le star. Numerosi cantanti, più o meno famosi, sono rimasti affascinati dalle vicende di Westeros e dalla corsa all’ultimo sangue per ottenere l’ambito trono.

Alcuni di loro, i più fortunati, sono persino riusciti a vestire i panni di alcuni dei personaggi e a ricoprire un ruolo attivo all’interno delle vicende narrate.

In questo articolo vedremo chi e quando si è calato nell’atmosfera dei Sette Regni.

Prima stagione, primo trauma e prima guest star musicale.

Tutti ci ricordiamo quando Ned Stark è stato decapitato da Illyn Payne. Tutti siamo rimasti sconvolti, nonostante il fatto che fosse interpretato da Sean Bean potesse farci capire che il lieto fine, per lui, non era previsto.

Quello che forse abbiamo rimosso però è che a calare la spada sulla testa del protettore del Nord sia stato Wilko Johnson, a lungo membro dei Dr. Feelgood.

Questo evento però ci ha fatto capire qual è l’unica regola per un fan di Game of Thrones: MAI affezionarsi ad un personaggio.

Dobbiamo aspettare l’ultima puntata della terza stagione per assistere ad un nuovo evento traumatico, persino più destabilizzante della decapitazione del buon Ned. Sto parlando delle nozze rosse; quando metà della famiglia Stark viene trucidata durante il corso di un ricevimento nuziale.

Noi fan quando sentiamo Le Piogge di Castamere, avvertiamo un brivido lungo la schiena perché le note ci riportano alla mente la fine di Rob. A suonare al matrimonio però era stato chiamato un bardo di tutto rispetto: Will Champion dei Coldplay. Il batterista interpreta uno dei musicisti/assassini assoldati da Lothar Frey per assassinare gli Stark.

Nella stessa stagione, nel terzo episodio, troviamo anche un altro ospite Gary Lightbody degli Snow Patrol. Il cantante interpreta un soldato dei Bolton e intona la ballata The Bear and the Maiden Fair.

Nuova stagione, nuove nozze, nuova morte. Il secondo episodio della quarta stagione è incentrato sul matrimonio tra Joffrey Baratheon e Margaery Tyrell.

Al Royal Wedding di Westeros non potevano certo suonare gli ultimi arrivati e, per questo motivo, ad allietare la giornata con musiche e balli sono stati chiamati nientepopodimeno che i Sigur Ros. Vi do un consiglio spassionato; se volete un matrimonio felice io, visti i risultati, mi rivolgerei ad un’altra band.

 

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I Sigur Ros durante un concerto. Foto di Francesca Garattoni

 

Nella quinta stagione i Bruti iniziano a ricoprire un ruolo più importante, quando Jon Snow decide di provare a fondare un’alleanza con loro. Fuori dalla Barriera troviamo un’intera band metal, quella dei Mastodon, a interpretare un gruppo di Bruti. Ovviamente nemmeno per loro c’è stato un lieto fine: dopo essere stati uccisi sono stati trasformati in Estranei.

Nella stessa stagione la piccola Arya decide di darsi all’arte dedicandosi alla recitazione ed entrando a far parte di una compagnia teatrale. Durante gli spettacoli, è presente una band che accompagna le performance degli attori sul palco; si tratta degli Of Monsters and Man che hanno preso parte a ben tre episodi.

Nella settima stagione troviamo il cameo più chiacchierato della serie, che ha anche causato un caso mediatico. Ed Sheeran nei panni di un soldato Lannister canta una canzone ad Arya, che ricorda la relazione tra Tyrion Lannister e la prostituta Shae.

 

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Il cameo non è stato apprezzato da molti fan, che lo hanno visto come una forzatura non inerente alla storia, che  hanno preso di mira l’account Twitter del cantante che si è visto costretto a chiuderlo per alcune ore.

Quelli elencati fino a qui sono solo dei piccoli camei ma, in realtà, alcuni cantanti sono entrati in pianta stabile nel cast della serie.

Joel Fry degli Animal Circus ha impersonato Hizdar zo Loraq uno schiavista di Mereen intenzionato a sposare Daenerys (nella quarta e nella quinta stagione).

Natalia Tena, volto già conosciuto per Harry Potter, ha interpretato Osha. Nonostante la sua fama sia legata principalmente al mondo della recitazione è anche la cantante dei Molotov Jukebox.

E poi c’è Verme Grigio, l’Immacolato innamorato della bellissima Missandei . L’attore che lo interpreta è Jacob Anderson, conosciuto nel mondo del R&B con lo pseudonimo di Raleigh Ritchie.

Questi sono solo alcuni dei musicisti, più o meno noti, che hanno preso parte a questa serie, che ha segnato un’intera generazione di persone, tenendoci incollate ai teleschermi e insegnandoci a evitare gli spoiler. 

Dopo otto stagioni l’inverno è finalmente arrivato e noi, domani, lo aspetteremo con il fiato sospeso e i pop-corn alla mano.

E voi per chi fate il tifo? 

Laura Losi

La magia degli Avantasia a Milano

Attraversare Milano è sempre un incubo per me. Traffico lento, strombazzare di clacson, moto che sfrecciano sui marciapiedi. Insomma, un’esperienza tremenda.

Per evitare di dover guidare più del dovuto in quella giungla urbana in cui vige la legge del più forte, decidiamo di parcheggiare ad una ventina di minuti dall’Alcatraz e di farci una passeggiata.

Perchè anche se Milano è famosa per lo smog, con l’arrivo della primavera e dell’ora legale, che ci regala qualche momento di luce in più, tutto sembra più bello.

La nostra meta, come detto prima, è l’Alcatraz dove suonano gli Avantasia, per la loro unica data italiana del Moonglow Tour.

Devo ringraziare il mio amico Alessandro, che eroicamente ha anche fatto da autista durante questo viaggio, per avermi fatto scoprire questa band di cui, fino a qualche mese fa, ignoravo l’esistenza. Anche se siamo solo ad aprile per me hanno già vinto il premio come “scoperta dell’anno”.

Varchiamo le porte della discoteca alle 20.15 e c’è già una folla di gente riunita e scalpitante in attesa che i loro beniamini facciano la loro comparsa sul palco.

Ce la siamo presa comoda perché l’orario d’inizio segnato sul biglietto era alle 20.30…ma quando mai un concerto inizia all’ora prestabilita?

Le luci si abbassano e in sala inizia a risuonare You Shook Me All Night Long degli AC/DC seguita dall’Inno alla Gioia.

Guardo l’orologio: sono le 20.30. Incredibile.

Terminata la musica classica cade il sipario (no, non è un errore di battitura) e lui, Tobias Sammet, è li, in posa plastica, avvolto nella penobra.

Non si parla, niente presentazioni, si parte subito: Ghost in The Night. 

Rimango folgorata, è nato un amore.

La voce di Tobias è un qualcosa di indescrivibile. Potente e avvolgente: da brividi.

La prima cosa che noto dopo la mia folgorazione iniziale è la bellissima scenografia: sullo sfondo c’è la copertina di Moonglow, che ricorda le immagini di Tim Burton, mentre alberi con lanterne e cancellate, che richiamano alla mente un maniero vittoriano in rovina, incorniciano il tutto.

Ma non c’è tempo per perdersi dietro alla scenografia. 

La voce e il modo in cui Tobias si muove sul palco sono magnetici e continuo a seguirlo con gli occhi.

Al termine della canzone prende il microfono e ci preannuncia che lui e i suoi Avantasia ci faranno compagnia per le tre ore seguenti.

Il pubblico a quel punto impazzisce e tutti quelli presenti nel locale iniziano ad urlare e a chiamare “Toby”, come si farebbe con un vecchio amico che non vedi da anni e incontri dall’atro lato della strada.

E così una dopo l’altra gli Avantasia ci regalano le canzoni del nuovo album e i successi del passato, quelli che da vent’anni a questa parte li hanno resi un gruppo che vale la pena di conoscere.

Ma non è solo un concerto, è una festa sul palco accanto a Tobias oltre ai tre coristi (Adrienne Cowan, Ina Morgan e Herbie Langhans) duettano, alternandosi Ronnie Atkins, Jørn Lande, Geoff Tate, Eric Martin e Bob Catley. 

Tutti fanno parte della grande famiglia che sono gli Avantasia, una realtà nata da un’idea di un ragazzo, poco più che ventenne, che è stato in grado di coinvolgere artisti di ogni livello.

Tobias Sammet ama il suo pubblico, parla con lui e lo coinvolge; ride e scherza con quelli che condividono il palco con lui perché è questo che la musica dovrebbe essere: divertimento (per chi la esegue e per chi la ascolta).

Alle 23.30 dopo Farewell (da brividi cantata con la corista Adrienne Cowan) tutti quelli che hanno preso parte allo spettacolo salgono sul palco.

Li contiamo: sono in 14. 

L’ultima esibizione è un pezzo corale. Tutti cantano, tutti gli artisti che hanno preso parte a questa serata magica ci regalano un ultimo pezzo di loro, prima di salutarci, esibendosi in Sign of the Cross/The Seven Angels.

Quando ci apprestiamo ad uscire sono ancora sotto l’effetto dell’incantesimo della loro musica. 

Le tre ore del concerto non ci sono bastate e gli Avantasia ci hanno accompagnato anche nel viaggio verso casa, per farci sognare ancora un po’.

 

Laura Losi

I racconti al chiaro di luna degli Avantasia

C’era una volta Avalon, un’isola misteriosa avvolta dalla nebbia e dal mistero. Le sue sponde erano abitate da creature magiche e sfuggenti: fate, maghi, cavalieri, re e regine. 

Avalon era la patria di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di Merlino e Morgana; una terra lontana e incantata che ha sempre suscitato un fascino viscerale tra scrittori e artisti.

Nel 2000 un giovane cantante tedesco Tobias Sammet, frontman degli Edguy, ha un sogno; quello di creare un super gruppo metal che riunisca insieme alcuni dei più grandi nomi del panorama internazionale. Ed è da questa idea e da una crasi tra le parole Avalon e Fantasia, che nascono gli Avantasia.

Nel loro primo album intitolato The Metal Opera Part I, del 2001, Avantasia, traccia numero 9 del cd, viene presentata come un mondo al di la’ dell’imaginazione umana in cui si svolgono le vicende raccontate nei 13 brani che compongono l’opera.

La band nata come un side project degli Edguy ad oggi è forse la creatura più riuscita di Tobias, quella a cui dedica più tempo e sopratutto quella in cui riesce ad esprimere al meglio le sue doti sia di polistrumentista che di autore.

La formazione attuale comprende oltre al cantante Tobias Sammet, Sasha Paeth alla chitarra, Miro Rodenberg alla tastiera e Felix Bohnke alla batteria.
Accanto a loro però nel corso degli anni, e degli album, si sono avvicendati tutti i grandi nomi del panorama metal mondiale: da Alice Cooper a Michael Kiske ( degli Helloween), da Rudolph Schenker (degli Scorpions) a Marko Hietala (dei Nightwish) per citarne alcuni.
Gli Avantasia ci propongono un metal di tipo operistico con brani spesso lunghi, che a volte superano i 10 minuti, e che ci proiettano in un mondo fiabesco e fatato. Ogni concept album ci racconta una storia diversa ed ha un suo filo conduttore.

Quello che li rende un unicum nel panorama musicale mondiale è l’abilità di spaziare da un genere ad un altro regalandoci un carosello di sonorità che vanno dal power metal al symphonic, dal folk all’hard rock, senza però stranire l’ascoltatore.

L’alternarsi continuo di generi infatti si sposa con il cambio di cantanti e di timbriche, con l’introduzione di un coro o di una voce femminile, che va a rendere la musica di Tobias non solo armonica ma anche ipnotica.

Le canzoni dei loro album si susseguono in un turbinio di generi ed emozioni che ti prendono e ti trasportano in un mondo magico al di là dello spazio e del tempo.

Dal 2001 ad oggi gli Avantasia hanno prodotto 8 album l’ultimo dei quali, Moonglow, é uscito lo scorso 15 febbraio ed è accompagnato da un tour mondiale.

Secondo Sammet Moonglow, che è costato alla band due anni di fatiche, sarebbe l’album più dettagliato che abbiano mai prodotto; non solo ambizioso ma ricco di amore per i particolari.

Come si può evincere dal titolo le canzoni prendono spunto dalla luna e dalla notte. Si tratta di 12 tracce piuttosto cupe che si ispirano ai romanzi di matrice vittoriana e che parlano di creature che si muovono nelle tenebre in cerca di qualcosa.

C’è chi ispirato dalla luce lunare abbandona le proprie convinzioni per inseguire i propri sogni, chi aspetta un segno e chi vuole ritrovare se stesso.

La notte e la luna, che dall’alba dei tempi sono fonte d’ispirazione per gli artisti, sono riuscite a catturare l’attenzione del frontman tedesco che con questo album, ha dato il meglio di sè.

Per tutti gli amanti del genere, ma anche per gli appassionati di fantasy, gli Avantasia saranno all’ Alcatraz di Milano il 31 marzo per l’unica data italiana del Moonglow Tour. Un appuntamento da non perdere per chi vuole farsi trasportare dalla loro musica; per chi vuole chiudere gli occhi e immaginare di trovarsi tra le Nebbie di Avalon.

Laura Losi

Hokusai Hiroshige: Oltre l’Onda

• Il fascino dell’Oriente da Debussy ai Cavalieri Jedi •

 

Immaginate per un attimo, nei panni di un artista europeo del 1867, di attraversare i grandi cancelli dell’Esposizione Universale di Parigi. In questa edizione gli argomenti trattati sono l’agricoltura, l’industria e le arti.

A costo d’essere scontati, entrando, cercherete con lo sguardo l’area dedicata alle avanguardie artistiche. Incuriositi dal padiglione del Giappone ne varcherete la soglia ignari che, di lì a poco, sarete inondati da qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui l’occidentale concepisce l’arte.

Alzando gli occhi li sgranerete entrando in contatto con qualcosa di così extraterrestre, da farvi sentire insieme spaventati e meravigliati: le stampe giapponesi, pregne di un fascino tanto ignoto e misterioso, conquistano immediatamente i nostri cuori e le nostre menti avide di sconosciuto.

 

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Katsushika Hokusai, “Vento del Sud, Cielo sereno” anche noto come “Fuji Rosso” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

In occidente, vi assicuro, nulla del genere si era mai visto poiché il Giappone, per preservare la sua identità, fino a quel momento visse nel più totale isolamento.

Uno tsunami incontrollabile svegliò voci nascoste nei cuori degli artisti; la rivoluzione creativa fu inevitabile e da questa nacque quel pregevole dono per il quale saremo per sempre debitori all’Oriente: l’Art Nouveau.

 

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Manifesto dell’Esposizione Universale di Torino del 1902

 

Oggi, nel 2019, dopo secoli di conoscenza ed istruzione, ciò che noi europei potremmo provare davanti alle opere giapponesi dovrebbe tradursi in un sentimento edulcorato e sbiadito.

Invece, entrando nel Museo Civico Archeologico di Bologna, ci ritroviamo tutti con le mani appoggiate sul viso e gli occhi sgranati, mentre ci godiamo quella sensazione aliena che proviamo noi occidentali quando si tratta d’Oriente.

Questa roba fa paura, giuro, perché vorresti capirla anzi, credi di capirla ma non è così, non è possibile, è di un altro pianeta. E questo, irrimediabilmente, ci attira spaventandoci ora come 150 anni fa. 

 

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Katsushika Hokusai, “Kajikazawa nella provincia Kai”, dalla serie “Le Trentasei vedute del Monte Fuji”.

 

La mostra  Hokusai Hiroshige – Oltre l’Onda si fa traghettatrice di un viaggio attraverso l’arte della stampa giapponese, arte che necessita di una disciplina ed di una concentrazione unica.

L’allestimento è davvero intelligente, non solo perché finalizzato alla comprensione dei due maestri dell’arte Ukiyo-e, ma perché porta il pubblico a confrontarne le opere, individuandone sì le uguaglianze e le differenze, ma anche le motivazioni che hanno portato ad esse. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Ōhashi. Acquazzone ad Atake” dalla serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.

 

Ma che cos’è l’arte Ukiyo-e? Letteralmente il termine significa “dipinto del mondo fluttuante” e per i buddisti rappresenta la fugacità e la precarietà delle cose terrene, dalla quale il saggio doveva allontanarsi il più possibile.

Nel Seicento il significato del termine venne rovesciato poiché furono proprio quei desideri effimeri e fluttuanti a rendere preziosa la vita terrena.

La pittura giapponese, infatti, era fatta di attimi fuggenti: immobilizzava con strumenti inspiegabili un istante nel tempo e nello spazio, rendendolo eterno, evanescente e fluttuante.

Il più grande maestro che l’Ukiyo-e conobbe fu Katsushika Hokusai (1760-1849) che definì se stesso “solo un vecchio pazzo per l’arte”. Anche noi siamo pazzi per l’arte, la sua. 

 

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Katsushika Hokusai, “Nakahara nella provincia di Sagami” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

 

Nelle sue opere il maestro riesce a creare qualcosa di eccezionale e mai scontato, nonostante lo schema sia sempre il medesimo: in primo piano la vita quotidiana dell’uomo, sullo sfondo la natura potente e spaventosa, seppur spesso silente ed addormentata.

La mostra, dopo averci presentato Hokusai e le sue trentasei vedute del monte Fuji, ci guida davanti alla vera protagonista dell’esposizione: La Grande Onda presso la costa di Kanagawa.

 

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Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.

Una giornata, per ammirarla, non sarebbe bastata.

Per quanto possa essere minacciosa la natura per Hokusai, rappresenterà sempre l’armonia, la pace e l’eterna costante dell’uomo.

Il sentirsi impotenti davanti alla furia della natura, secondo la filosofia giapponese, è una certezza rassicurante. Accanto a lei, in una teca gemella, troviamo una stampa del più giovane Utagawa Hiroshige (17731829) che rappresenta un’onda ispirata a quella del grande maestro Hokusai, chiamata Il Mare a Satta nella provincia di Suruga.

L’Onda di Hokusai, a differenza di quella di Hiroshige, urla, ruggisce e assale le fragili navi con i suoi schiumosi artigli di drago, creando uno spettacolo drammatico. 

 

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Utagawa Hiroshige, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” dalla serie “Trentasei vedute del Fuji”.

 

L’Onda di Hiroshige, invece, capovolge l’inquadratura portando l’umano sullo sfondo ed il mare in primo piano.

Rappresenta una natura pacifica e materna, nella quale le navi viaggiano serene dove il pericolo è lontano. Entrambi gli artisti, inconsapevolmente, aprirono la strada all’invenzione dei celebri manga giapponesi.

Hiroshige si lasciò influenzare dall’arte occidentale, abbandonò la concezione d’istante fluttuante ed immobile di Hokusai, destando i suoi soggetti, animandoli, rendendoli gioviali ed espressivi, in stampe che paiono appena uscite dagli studi di Hayao Miyazaki.

All’Occidente Hokusai regalò, Hiroshige rubò. In più, è evidente che l’avvento della fotografia colpì fortemente il giovane artista, e lo si legge nelle splendide stampe che trasforma in profonde inquadrature fotografiche. 

Dopo aver sconvolto i sentimenti di Monet, la tecnica di Van Gogh ed il tratto di Degas, l’arte giapponese proseguì la corsa alla conquista del cuore occidentale. 

Anche la musica, arte sempre assetata d’influenze, si fece sedurre dal Giappone in una danza misteriosa e fluttuante.

L’amante più devoto fu Claude Debussy, che rimase tanto coinvolto dalla visione de La Grande Onda di Hokusai da comporre, nel 1905, un’incantevole raccolta di schizzi sinfonici a lei dedicata: la celebre Le Mèr. Sulla copertina della prima edizione, per sua scelta, volle proprio l’immagine de La Grande Onda. 

“La musica è un’arte molto giovane, sia nei suoi mezzi, sia per la conoscenza che ne abbiamo”, disse Debussy al suo editore dopo aver compreso quanto basti poco per cambiare irreparabilmente il  modo di vivere le piccole e grandi cose.

Dopo di lui tantissimi musicisti cavalcarono quell’Onda misteriosa, come Igor Stravinsky e Maurice Ravel, lasciandosi trascinare in un mare di profondi gorghi, di misticismo e di tensione.

Giacomo Puccini scelse di rappresentare in musica la storia di Madama Butterfly, una delle opere ancora oggi più famose, proprio perché come ogni altro artista del tempo era desideroso di toccare e plasmare la cultura giapponese, come argilla tra le sue mani.

Attraversando la classica e quella jazz, ancora oggi la musica occidentale porta i segni dorati delle influenze orientali che, inconsapevolmente, peschiamo in grande quantità anche nella cultura popolare.

Basti pensare al wagneriano John Williams che, dopo 50 anni di carriera hollywoodiana, si lascia ancora influenzare da Debussy e, indirettamente, dall’Ukiyo-e.

Per la colonna sonora della saga di Guerre Stellari, sua figlia prediletta, ha scelto quelle atmosfere ascetiche e vaporose tipiche della musica e della filosofia giapponese. Sulle dune di Tatooine o circondati dai Jawa, è inevitabile sentirne la presenza, il profumo, il tocco. 

 

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Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada I, “Veduta con la neve”.

 

La verità è che molto dell’iconica saga di George Lucas abbraccia caldamente l’Oriente. In fondo, cos’è la filosofia dell’Ukyio-e, se non qualcosa di incredibilmente rassomigliante alla filosofia dei Cavalieri Jedi?

Valentina Gessaroli

L’infinito di Giacomo Leopardi

Duecento anni di dolce naufragare, tra musica e poesia

 

<< Perché Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto >>.

Francesco De Sanctis

 

Vicino al palazzo della famiglia Leopardi, a Recanati, si leva un’altura solitaria, dalla cui sommità lo sguardo può spaziare sul panorama sottostante. Un panorama che si estende dai colli al mare.

Durante la sua giovinezza, Giacomo Leopardi (1798 – 1837) vi si recava spesso, non tanto per ammirare la vista, quanto per immaginare: seduto dietro a una siepe che gli impediva di vedere il lontano orizzonte, egli lasciava operare la forza creativa della mente.

Un potere che, stimolato dalla momentanea sospensione dei sensi, lo rendeva spettatore di scenari ben più ampi, al limite della dimensione spaziale e temporale, quasi al di là della condizione umana. Nacque proprio qui L’infinito, uno dei più celebri componimenti del poeta, l’Idillio per eccellenza, contenuto nei Canti.

 

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A duecento anni dalla sua prima stesura, la città di Recanati ha voluto festeggiare l’importante anniversario organizzando conferenze, mostre, spettacoli e concerti dal 21 al 24 marzo, inaugurando la serie di eventi proprio in occasione della Giornata mondiale della Poesia, istituita nel 1999 dall’Unesco.

La data, che segna anche l’equinozio di primavera, riconosce all’espressione poetica un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comprensione interculturali, della diversità linguistica e culturale, della comunicazione e della pace. La celebrazione, appunto, cade il primo giorno di primavera in armonia con l’idea di un’arte poetica originaria e presupposto di tutte le altre forme di creatività letteraria ed artistica, luogo fondante della memoria della nostra società” – (dalla XXX Sessione della Conferenza Generale Unesco).

Il suggestivo palcoscenico del Teatro Persiani ha accolto il primo grande ospite della manifestazione, testimone del possibile incontro tra musica e poesia: Samuel, frontman dei Subsonica.

 

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Che cosa accomuna il cantautore e il sommo autore marchigiano? Innanzitutto, la centralità del concetto di infinito. Lo scorso 12 ottobre, la band di Torino ha pubblicato il nuovo album intitolato 8, un numero dalla valenza sia matematica, essendo l’ottavo lavoro in studio, sia metaforica.

Una cifra che, capovolta, rimanda al simbolo dell’infinito, allo scorrere del tempo e alla sua circolarità, in una sorta di eterno ritorno. Obiettivo, poi, del musicista è quello di non limitarsi al panorama di fronte a sé ma lanciare lo sguardo oltre la siepe, verso quell’orizzonte irraggiungibile che è prolifica fonte di ispirazione.

È questo costante andamento iperbolico che spinge l’artista a creare, ad innovare ed innovarsi. È il potente motore dell’immaginazione, madre di tutte le arti.

 

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Stasera, però, non ascolterete melodie propriamente “leopardiane” – ha confessato Samuel, prima di prendere posizione alla consolle e far ballare l’intero teatro sui ritmi dell’elettronica e della dance anni Novanta.

In realtà, il merito di aver osato nell’organizzazione di un dj set – che spesso sta per “utilizzo del suono alternativo e contemporaneo” – all’interno di un’occasione del genere, ha offerto la possibilità di indagare sulla natura del legame tra musica e poesia in tutta la produzione lirica del recanatese.

Le ore “suonano” ne Le ricordanze, così come suonano le “quiete stanze e le vie d’intorno al perpetuo canto” di Silvia nell’opera a lei dedicata. Suona il canto del “faticoso” agricoltore” ne Alla sua donna. Il vento “stormisce” ed ha una “voce” ne L’infinito. Tutta la poesia di Leopardi è come una cassa risonante.

 

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Versi più o meno noti sono suggellati da una colonna sonora a riprova dell’importanza che viene assegnata all’attitudine auditiva e al valore della vocalità. Fascinazioni e ritorni ad immagini concrete confermano la complicità tra suono e parola, tra musica e verso (si pensi al titolo dei Canti).

Chi teme, canta” – scrive Leopardi in un passaggio cruciale dello Zibaldone (3527), all’indomani delle delusioni del soggiorno romano (settembre 1823), durante una notte insonne e dominata dalla suggestione del vuoto. Un vuoto in cui l’immaginazione, diventata sterile, trova compenso in un’attitudine ad interrogarsi incessantemente, disperatamente.

Un vuoto che si apre a dismisura, che si muta in un fantasma di sogni quasi spezzati, esorcizzabile soltanto attraverso l’eccitazione dei sensi e della mente nell’armonia di suono e di parole. Un sogno che, benché sconfessato dalla realtà, se cantato, mantiene l’altissimo potere di attrazione.

 

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Chi teme, canta” – o meglio – invoca il canto come sorgente di forza sull’animo dell’uomo, in grado di colmare abissi, timori, incertezze. Non si pone come mero bisogno di distrazione, quanto come una rassicurazione, una restaurazione, soprattutto nel frangente della notte, quando le tenebre avvicinano alla constatazione tragica del rischio di fallimento.

Canto, melodia, musica e armonia sono assi portanti nella struttura poetica dell’autore. Si incontrano e si incrociano in un sistema che, a partire dal concetto di natura, assegna al suono un ruolo preminente, in linea con le teorie dell’arte nella sua primordiale autenticità pertinenti con la cultura estetica romantica.

Si afferma, in modo chiaro, nello Zibaldone (79): a differenza delle diverse arti (pittura, scultura, architettura, poesia) che “imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento”, solo la musica “non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura”.

 

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Secondo Leopardi, tutte le arti si servono dei più vari strumenti espressivi per raggiungere lo stesso obiettivo: il “diletto”.

L’identica considerazione vale anche per la musica i cui effetti, però, non appartengono alla sfera del “bello”, ma esclusivamente a quella del “piacere”, grazie alla capacità del suono di agire sull’animo umano a presa diretta, senza ricorrere al concetto di armonia, influenzato invece da molteplici indicatori di gusto.

I suoni, come gli odori, non sono definibili né belli né brutti, ma solo più o meno piacevoli. Essi, agendo direttamente sull’immaginazione e sul ricordo, suscitano quel desiderio infinito di cui il poeta tratta nella sua “teoria del piacere”, definendolo come tendenza connaturata all’esistenza che spinge l’uomo verso il piacere in senso assoluto.

 

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Un suono, un oggetto, un odore, un luogo ignoto, un ostacolo che restringe la vista, uno scenario sconfinato, sono i principali stimolatori di quella facoltà immaginativa che compensa l’inafferrabile conquista del piacere.

In questa accezione, il suono, sia in versione tenue che cupa, è un fenomeno naturale capace di evocare rappresentazioni poetiche: così una musica dolce o il rumore del tuono, un’orchestra classica o una traccia elettronica, la furia della tempesta o lo stormire del vento, creeranno “immagini bellissime in poesia”, rendendo dolce il naufragare.

 

Testo: Laura Faccenda

Foto: Luca Ortolani