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Tag: musica

Ministri @ Balena Festival

Arena del Mare (Genova) // 18 Luglio 2021

 

Due anni esatti prima del concerto dei Ministri (Davide “Divi” Autelitano, Federico Dragogna e Michele “Michelino” Esposito), io mi trovavo all’Arena del Mare. Ero in piedi e, con scarso successo, mi muovevo seguendo il ritmo delle canzoni dei Fast Animals and Slow Kids. All’epoca non potevo sapere che avremmo vissuto una pandemia e che avrei sentito la mancanza della calca, del caldo asfissiante e dei capelli ricci sudati che mi bagnano il collo fino a che non li lego.

I Ministri vengono da Milano e amano Genova, lo hanno voluto ricordare sul loro account di Instagram nei giorni precedenti al concerto che si è tenuto nell’ultima serata del Balena Festival. L’ansia dell’attesa era più forte che mai e ho ripassato le canzoni della scaletta: volevo essere pronta per il mio ritorno ai live. 

In apertura si è esibito Pablo America, che ha scaldato il pubblico agitando la sua imponente massa di capelli ricci, neri e crespi che sembravano perfetti per la sua personalità. Dopo aver cantato alcuni suoi brani, come Noi non siamo il punk, Ascoltavo i Nirvana e Arianna, è iniziata un’attesa di mezz’ora che si è conclusa con l’arrivo dei Ministri sul palco e Tempi Bui. “Veramente vivo in tempi bui”: un inizio azzeccato.

Da subito, ho percepito un senso di stranezza che mi ha accompagnato per tutto il concerto: le sedie e il distanziamento non si adattavano al rock dei Ministri. Come ha detto lo stesso Divi: “Voi siete obbligati a stare seduti e noi siamo obbligati a vedervi così”. Negli intermezzi erano di poche parole, ma perfette. Più volte ci hanno invitato a farci un applauso e ricordarci che, nonostante tutto, ci stavamo portando a casa un concerto e andava bene così. Percepivamo un profondo senso di gratitudine.

Anche sul palco, la band ha ribadito in più momenti il forte legame con Genova e ha ricordato le sofferenze che la città ha vissuto e provato a superare. Avevo cinque anni, ero in vacanza, riconoscevo le mie strade nelle immagini dei telegiornali e non capivo come mai avessi paura. “Venti anni esatti fa, qua a Genova, è stato sospeso lo stato di diritto e noi ci abbiamo scritto una canzone”. La Piazza è uno dei tanti brani da pelle d’oca dei Ministri, ma ascoltarla nei giorni di commemorazione dei fatti del G8 ha tutto un altro sapore.

Abbiamo “ballato” sulle note dell’ultimo EP Cronaca Nera e Musica Leggera e di altri brani come Comunque e Gli Alberi e ci siamo emozionati sul tributo a Franco Battiato con Alexander Platz. Faceva più caldo rispetto alle sere delle settimane precedenti e tra le facce sudate del pubblico, un ragazzo ha guardato il suo smart watch e ha urlato di aver fatto molto più movimento del solito. Ho guardato anche io il mio: finalmente qualcosa ricordava la normalità.

Uno dei momenti più significativi del concerto, è stato quando Divi è sceso dal palco e ha iniziato a cantare e suonare il basso girando tra il pubblico e guardandoci negli occhi, manifestando la voglia di tutto il gruppo di ricominciare a stare in mezzo alla gente. 

Anche la chiusura è stata azzeccata e tra qualche lacrima, abbiamo iniziato a intonare Una Palude insieme ai Ministri. “Non è un segreto che la terra sia una palude senza di te” è una delle frasi migliori per salutare il pubblico che è tornato ad assistere ai concerti. Quando il gruppo ha lasciato il palco si percepiva già la nostalgia e dalle sedie delle ultime file è partito un coro che cantava Abituarsi alla Fine (in una versione più da stadio), un brano che non era nella scaletta. Tutti speravamo che la band tornasse per un ultimo pezzo. 

Poi è arrivato il momento di lasciare l’Arena del Mare, con la consapevolezza che non ci abitueremo mai alla fine dei concerti, ma c’è un pensiero che mi ha consolato mentre raggiungevo il parcheggio con i capelli finalmente legati: quello che ci mancava sta tornando. 

 

Marta Massardo

Foto di Copertina (archivio): Simone Asciutti

ferrarasottolestelle 2021

Parco Massari (Ferrara) // 30 Giugno – 4 Luglio 2021

 

L’estate è appena iniziata, questa estate 2021 che si vuol scrollare di dosso un anno durissimo, per noi tutti e per la musica in particolare.

L’estate ferrarese, si sa, è rovente, spesso afosa, e gli appuntamenti dello storico festival ferrarasottolestelle, con le sue proposte live di altissima qualità, sono più rinfrescanti che mai.

Quest’anno la location è davvero suggestiva, all’interno di un fantastico giardino, il Parco Massari, cuore verde della città. È da qui, da questo cuore, che tutto ricomincia a pulsare, con più lentezza, quasi timidamente.

Seduti sul prato, connessi con la terra e col mondo, qualcuno ai margini accenna a qualche passo di danza…

 

FSLS 30 giugno Iosonouncane credit Sara Tosi 20
Iosonouncane (foto ©Sara Tosi)

 

La prima serata comincia con l’esibizione dei Vieri Cervelli Montel, che vengono accolti con un applauso, ma l’atmosfera è ancora tranquilla, finché non irrompe il fragore dell’incipit dell’album IRA di Iacopo Incani in arte Iosonouncane, un’esplosione di suoni, una lingua artefatta che diviene essa stessa pura sorprendente sonorità . Il pubblico, a terra, completamente avvolto da questa performance artistica, sembra trasportato in un mondo sconosciuto.

La serata seguente, apre il concerto il gruppo post-punk pesarese Soviet Soviet. Il dover stare seduti nelle proprie postazioni sul prato per rispettare le regole covid stavolta diviene una sensazione scomoda: fino ad un paio di estati fa questa musica ci avrebbe trascinati tutti sotto al palco a pogare e a saltarci addosso, ma adesso, noi tutti, stoici resistiamo…

 

Massimo Volume credit Riccardo Giori 3
Massimo Volume (foto ©Riccardo Giori)

 

Arrivano i Massimo Volume, una certezza nel panorama post-punk italiano, ed i fan li accolgono con molto calore, godendo come sempre delle liriche taglienti di Emidio Clementi e della sua band, che presentano il loro ultimo lavoro Il Nuotatore.

La terza serata è strana, in concomitanza si gioca la partita di Euro 2020 tra Italia e Belgio, ma il pubblico non ha dubbi e sceglie l’ottimo intrattenimento dal vivo che ci portano La rappresentante di Lista e prima, in apertura, una giovane band di origine padovana, i Post Nebbia.

 

la rappresentante di lista credit Riccardo Giori 3
La Rappresentante di Lista (foto ©Riccardo Giori)

 

Il duo di performer porta sul palco note e colori e tantissima fisicità, che viene trasmessa al pubblico attraverso un’atmosfera molto positiva, ed il pubblico reagisce battendo i piedi, cantando insieme, alla ricerca della ritualità collettiva che ancora manca. L’emozione è tanta ed alla fine si catalizza tutta in quella bandiera su cui viene scritta la parola “vita” con una bomboletta spray.

Nella quarta serata, il pubblico è diverso, è molto più giovane. Apre il concerto Generic Animal, e tutti cominciano subito a cantare, arriva Mecna ed esplode l’entusiasmo – tutti seduti a terra, ma le braccia si agitano, le torce dei telefoni si accendono, si canta: ecco il grande rito del live che ritorna!

 

Mecna credit Riccardo Giori 3
Mecna (foto ©Riccardo Giori)

 

Le emoticon della scenografia fanno l’occhiolino ad un pubblico di ragazzi emozionati che chiedono le loro canzoni preferite, e lui concede ovviamente anche il bis.

Alla fine, tutti se ne vanno in modo composto, mentre si odono i primi tuoni dell’imminente temporale.

La serata seguente, in cui avrebbe dovuto esibirsi Venerus, è stata purtroppo annullata a causa del maltempo.

Si conclude così questa edizione di ferrarasottolestelle, rinnovata ed originale, che ha avuto un ottimo successo di pubblico, che si è mostrato molto rispettoso delle regole e che ha potuto sperimentare un modo più rilassato di divertirsi, senza rinunciare alle emozioni, grazie alle proposte di artisti che incontrano i gusti di diverse fasce d’età e ad un’organizzazione impeccabile.

Confesso però che a me sono mancati un po’ i ciottoli di piazza Castello e i piedi doloranti a fine serata… Torneranno? Chissà…

 

Margherita Lambertini

Foto di copertina Riccardo Giori

Maledetti Cantautori @ Teatro della Concordia

Teatro della Concordia (Venaria Reale) // 28 Maggio 2021

 

…E quindi uscimmo a riveder le stelle
Dante, Inferno, XXXIV, 139

 

Ieri sono tornato a un evento live. Chiamiamolo concerto, anche se, a ben vedere, Maledetti Cantautori è molto di più.
Avevo un accredito stampa. E a quel punto anche un vago senso di colpa, così, avvisata la biglietteria della mia presenza, ho comunque pagato l’ingresso. È una questione di karma, è una questione di militanza e di sostegno. Io senza voi non scriverei, in fin dei conti. Ora, devo anche chiedere scusa a VEZ, perché io ai concerti tendo ad ascoltare e a pensare e così, alla fine, ho una timida foto per altro neanche scattata dal sottoscritto. E sorrido a pensarci, perché nonostante non fossimo in molti, la mia etica da concertista over quaranta mi impone di avere cautela nell’uso del telefono a un concerto. Un buon segno, penso, non ho perso le buone maniere.

Il Teatro della Concordia di Venaria Reale è il luogo che accoglierà questo nuovo inizio. Quindi sarò comodamente seduto, con un ottima acustica, in ampi spazi rispettosi di norme anti-covid. Quasi commosso anche dalla birra pre-concerto, un rituale che sembra appartenere a un’era lontana, di baccanali e festival pieni di droplet e sudore.
L’evento principale è stato preceduto dall’esibizione di due nuove proposte del panorama torinese: Carsico ed Eugenio Rodondi, esponenti di un nuovo cantautorato pieno di buoni propositi.
Lo spettacolo principale inizia quindi poco dopo le 21.00. Sul palco sale Nicholas Ciuferri, autore del libro cui si ispira lo spettacolo, Nathalie, cantautrice e vincitrice di X-Factor nel 2010, The Niro, nome d’arte del cantautore romano Davide Combusti, Riccardo Tesio, fondatore dei Marlene Kuntz, produttore e chitarrista, Andrea Angeloni ai fiati e il 23enne giovane talento Pit Coccato.

È uno spettacolo fatto di storytelling e musica, in cui alcuni autori, sia del passato sia contemporanei, vengono presentati con brevi racconti e successivamente da un brano eseguito dagli ottimi musicisti che accompagnano Ciuferri.
Per il sottoscritto è un ripartire dalle basi. Da un racconto che si fa musica, o meglio, da un racconto che arriva alla musica. L’inquadratura scelta per fotografare l’artista descritto non è mai banale e ci porta verso lati poco noti o conosciuti, raccontando aspetti delle grandi star accessibili solo a chi si è dedicato a fondo alle loro biografie. Si parte con Tim Buckley, con un genio eclettico e problematico, dal suo rapporto con il figlio, l’amore, le famiglie, la dipendenza. Il racconto non è mai morale, pietista, anzi, incalza, aumenta di ritmo, lascia indizi sparsi, quasi come fosse un gioco tra chi racconta e il pubblico. E poi, all’apice della narrazione c’è una morte, un punto fermo, un presente. E poi musica, a turno tra Nathalie e The Niro. Il racconto prosegue con la Joplin, il Chelsea Hotel e l’incontro con Cohen, un Thom Yorke alle prese con ospedali, plastiche e una mamma, un Cash che diventa statua e gigante, come nella realtà, sospeso tra Steinbeck e linee bianche da seguire, il Lead Belly di In The Pines, resa famosa dai Nirvana nell’Unplugged, e poi Chris Cornell, Jeff Buckley, Lou Reed.
È una piccola Spoon River in prosa, in cui il soggetto non è rivelato se non dalla sua musica. Un gioco fatto di parole chiave, canzoni nascoste nelle vite narrate, piccoli segreti di grandi personaggi. È come stappare una bottiglia di buon vino e trovare tutti i profumi possibili, e, alla fine, assaggiare.
Risultati della serata: ho comprato il libro oggi. Se Ciuferri scrive come racconta, allora ho delle belle ore davanti. Poi ho scoperto che la musica dal vivo è ancora in grado di emozionarmi. Anzi no, diamo merito anche al sottoscritto: i peli delle mie braccia hanno ancora memoria e sanno alzarsi con fierezza in caso di musica ben suonata. Posso vantarmi di questa cosa, ieri sera ne sono stato orgoglioso e quasi mi sono commosso. Ultimo: cantare, anche sussurrando, dentro la mascherina è come fare l’amore sotto le lenzuola.
Lo fai proprio solo se devi. 

La musica è tornata dal vivo, il mondo è tornato un posto più vivibile, grazie anche a questi artisti che nonostante il poco pubblico si sono impegnati e hanno dato vita a uno spettacolo interessante e appassionante.
Regolarmente conclusosi nel rispetto del coprifuoco vigente. 

Chiudo con un consiglio da amante dei bei racconti raccontati: il podcast. Ragazzi, questo spettacolo deve uscire dai teatri e dalle piazze. Osate. 

 

Andrea Riscossa

Foto di Copertina: Davide Garibaldi

Nesli e quel suo modo di dire che “Andrà tutto bene”

Ho un debole per l’inizio delle storie d’amore e ce n’è una che non ho mai raccontato a nessuno, una di quelle storie che sai quanto siano importanti e cosa rappresentino per te, ma che nessuno ti ha mai chiesto di raccontare e le custodisci dentro per anni. Partiamo dal fatto che come sempre per me non vale la regola del: Il primo amore non si scorda mai.” ma bensì il secondo. I miei primi amori sono sempre finiti nel dimenticatoio.

Questa storia invece inizia nel 2004, quando avevo poco più di 16 anni ed ero una ragazzina ribelle e indisciplinata, odiavo la scuola infatti non studiavo mai e mi ero trasferita da un po’ di tempo in una città, quella che attualmente è la mia città: Rimini. Il mio essere esuberante ed eccessiva praticamente in tutto, camminava di pari passo con il mio essere perennemente introspettiva… Tradotto: mi facevo delle grandi paranoie, accompagnate da grandi paure e grande estremismo nel vivere tutto in maniera totalizzante senza conoscere le vie di mezzo, ma a 16-17 anni ci sta. Il problema è che ho continuato anche a 18, 19, 20, 21 ecc ecc.

Esorcizzavo tutto con due cose: la musica e la scrittura e amavo solo la verità, come sempre, perché ad oggi che di anni ne ho 32 non è cambiato molto il mio modo di esorcizzare i dispiaceri o le cose che mi fanno soffrire, è cambiato solo lo status da negativo a positivo.

Francesco Tarducci credo sia entrato nella mia vita principalmente per questo motivo, perché attraverso le sue canzoni non faceva altro che descrivere i suoi dolori e le sue mancanze con parole vere, nette, sincere e taglienti. Era simile a me ed era tutto quello di cui avevo bisogno mentre ero in conflitto con me stessa e col mondo. Lui cantava Parole da dedicarmi ed io pensavo: “C’è qualcuno uguale a me” lui faceva promesse a sé stesso con Da domani e Un altro giorno e io imparavo cosa fosse la speranza, la fiducia. Era l’unico in grado di capirmi, l’unico in grado di descrivere i miei stati d’animo.

 

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Conosciuto da tutti come il fratello di Fabri Fibra (come se fosse necessario specificare questo dettaglio in tutte le descrizioni esistenti) per me è sempre stato solo ed esclusivamente NESLI. Quello che mi ha accompagnato in uno dei periodi cruciali della mia esistenza e che da quando ha iniziato a farmi compagnia, in realtà poi non ha più smesso di essere il compagno di quest’avventura chiamata vita.

Dal rap al pop, da testi forti a dichiarazioni d’amore, da descrizioni perfette del concetto di abbandono e di assenza allo spremere in tutti i modi possibili tutti i sentimenti e le sensazioni esistenti, io camminavo di pari passo con i suoi cambiamenti, con gli avvenimenti della sua vita descritti nelle sue canzoni.

Viaggiavamo insieme.

Una carriera che ha preso il via con Ego (primo album datato 2003) ed arrivata ad oggi con Vengo in pace (2019) In tutti questi anni c’è stata una costante, una sua costante ed è proprio quella verità che non ho mai smesso di cercare e ricercare ovunque, compreso nella musica, sapendo di poterla trovare puntualmente in tutte le sue canzoni, come se fosse una sorta di certezza per me e mentre il suo pubblico iniziava a dividersi tra quelli che gli davano addosso accusandolo di esser cambiato, di non essere più un rapper ma uno che stava per buttarsi in pasto all’essere “commerciale” io continuavo ad amare ogni suo cambiamento, perché oltre alla costante della verità Nesli ha sempre avuto un’altra costante ed è quella di parlare col cuore in mano, andando a scavare a fondo, facendosi spesso male, ma male davvero.

E’ sempre stato un artista vero, senza filtri, senza veli e senza paura di mostrarsi davvero con tutto il suo bagaglio di errori e di esperienze positive e negative. Ha sempre avuto la poesia nelle vene. I suoi viaggi interiori, le sue fragilità e quella ricerca ostinata di equilibrio e di benessere sono sempre appartenuti anche alla mia persona. Mi sentivo come lui.

Dieci anni fa, nel 2009 bussa alla mia porta per la seconda volta un periodo buio ed è l’anno in cui esce FRAGILE – Nesliving vol. 1 e 2 due album che rappresentano senza dubbio la mia salvezza ed è anche l’anno in cui finalmente grazie ad un tour nei club riesco a conoscere e ad abbracciare Francesco.

L’anno de La fine con “Vorrei che fosse oggi in un attimo già domani, per riniziare per stravolgere tutti i miei piani, perché sarà migliore ed io sarò migliore come un bel film che lascia tutti senza parole.”

L’anno di Se perdi con “Mi hai salvato la vita, sì proprio tu e la vita da quel giorno mi è piaciuta di più” ed è proprio all’interno di questa canzone che sento e mi soffermo per la prima volta sul nome Mia, nome che successivamente è diventato anche quello della protagonista dei miei libri.

Ancora una volta la sua musica diventa un appiglio, ancora una volta tutte le canzoni contenute in quei due album riescono a scrollarmi di dosso le paure e ad accendere in me la speranza di poter tornare a vedere la luce, anche se poco alla volta dalle fessure della finestra della mia camera da letto. Ma è soprattutto l’anno in cui riesco a dirgli GRAZIE guardandolo negli occhi con quel primo abbraccio che non dimenticherò mai.

 

Nesli

 

Da quel giorno ho percorso chilometri e visto decine di suoi live. Era, è stato ed è semplicemente l’artista del mio cuore, quello che lego a tanti piccoli e grandi avvenimenti della mia vita, quello che mi ha fatto compagnia nelle mie notti senza sonno, quello che mi ha accompagnato durante il mio primo viaggio a New York con l’album Nesliving volume 3 che ha segnato definitivamente il suo passaggio dall’hip-pop al pop e ricordo perfettamente di aver ascoltato fino allo sfinimento poco prima di salire sull’aereo il suo singolo Partirò e quella frase che continuava a rimanere impressa nella mia testa “Le parole hanno vita lunga, le paure hanno vita breve.”

E nel 2016 esce il mio primo libro e decido di chiamare la protagonista delle mie pagin Mia e poco dopo l’uscita del libro, come se lui l’avesse letto o sapesse già tutto mi arriva l’ennesimo regalo con il suo nono album Kill Karma che contiene una canzone dal titolo Piccola Mia, cucita perfettamente addosso al mio sogno di mollare tutto e andare a vivere a New York

“Piccola Mia che vuoi così tanto scappare, che vuoi il mondo nella tua stanza e ogni giorno da incorniciare, che sogni una ita da Marilyn che tanto non si può fare, una vita da film che non è qui perché non è reale. Piccola Mia con le valigie dentro quel taxi, che hai voluto ricominciare come se ci mancasse il male perché sapevo che volevi andare, volevi sognare senza legame…”

Ricordo di aver pianto un bel po’ dopo aver schiacciato Play perché è sempre stato puntuale, non ha mai sbagliato i tempi e mi ha insegnato a lasciare andare, con il suo motto “Il bene genera bene” mi ha insegnato a credere davvero che alla fine il bene vinca e che “La fine non esiste” che la parola fine non dev’essere una paura in più ma solo l’occasione per un nuovo inizio.

Mi ha insegnato che essere dei sognatori cronici non è poi così male, mi ha insegnato a reagire, a rischiare sempre e comunque, a trasformare le sconfitte in vittorie e le delusioni in lezioni di vita. E’ sempre grazie a lui che ho imparato la bellezza della solitudine, del saper stare sola e prendermi cura di me stessa.

Andrà tutto bene è il titolo di una sua canzone e del suo libro autobiografico ma è soprattutto la frase che ripeto oggi giorno alla Claudia versione FRAGILE.

 

Claudia Venuti

Romeo and Juliet

 

L’amore secondo una millennial attempata

Il suo riff iniziale è una delle colonne sonore più adatte ai mal d’amore, dagli anni ‘80 a oggi. Le storie tormentate o sofferte, gli innamoramenti non corrisposti, le coppie dal destino avverso: tutti possono ritrovarsi nelle strofe di questa amatissima canzone dei Dire Straits, Romeo and Juliet. Uscita nell’ottobre del 1980, non stanca di ammaliare con la sua melodia dolce ma decisa: è una ballad che parla di un Romeo lovestruck, colpito, annientato dall’amore.

La sua Juliet è algida, possiamo immaginarla guardarlo dall’alto, quasi con sufficienza, chiedendosi che cosa mai ci avrà trovato in un tipo del genere. Romeo non ha più alcun ritegno, non c’è dignità che tenga davanti all’amore: continua a implorare la sua Giulietta di ascoltarlo, di ricordare il tempo passato insieme, anche se non sa fare nulla, farebbe di tutto per lei.

Ma tutto quello che può fare è sentire la sua mancanza, ricordare le promesse di amore eterno, maledirsi per la sua pochezza. Ma il suo sguardo è perso nel vuoto, continua a fare i palloncini con la gomma da masticare: non ha memoria dei sogni del passato, è stato tutto uno dei suoi intrighi?

La musica accelera nel ritornello, a sottolineare la disperazione di quel ragazzo perduto in un metaforico labirinto, poi rallenta di nuovo: Romeo continua a parlare, da solo ormai, tiene il ritmo schioccando le dita, affogando nei ricordi. Basta qualche passo fuori dalla luce del lampione, ed è uscito per sempre dalla vita di lei.

Una storia molto diversa da quella che mette in scena Shakespare alla corte elisabettiana. Romeo e Giulietta è una tragedia talmente potente da essere diventata il simbolo dell’amore, l’archetipo degli amanti sfortunati. L’ambientazione italiana conferisce ai personaggi un tocco esotico per gli spettatori, cortigiani rinascimentali, ma credo sia importante sottolineare soprattutto quanto universale sia questa love story.

Un concetto talmente potente da varcare i confini del tempo e dello spazio: dalla Verona cinquecentesca dei Montecchi e dei Capuleti alla New York degli anni ‘80 di Mark Knopfler, dalle strade della Manhattan degli anni ‘60 di Tony e Maria alla Londra di fine 1500 dell’autore dell’opera teatrale.

La canzone dei Dire Straits, infatti, ha un costante rimando a un’altra opera musicale, West Side Story, appunto, la vicenda di due innamorati osteggiati dalle proprie famiglie, moderni Romeo e Giulietta degli anni dei diritti civili e della guerra del Vietnam. È quella del musical la movie song che Romeo non riesce a ricordare, in un gioco di specchi che rimanda ancora una volta all’idea centrale di sofferenza per amore.

Cosa accomuna tutti questi episodi nell’immaginario collettivo? Naturalmente l’amore. Questa forza che secondo i latini vinceva su tutto, questa potenza su cui siamo soliti concentrare tutto il nostro interesse e sulla base di cui ci siamo abituati a costruire le nostre vite.

Nonostante le palesi differenze, alla fine, quello su cui si può riflettere è che le esperienze dei protagonisti si intersecano e si sovrappongono: che sia Maria o Giulietta poco importa, chi ha un amore difficile si rivedrà in questa donna triste, sconsolata, impotente. E chi invece è alla conquista, o alla rinconquista di un amore impossibile, o un amore perduto, non potrà evitare di ritrovarsi nel personaggio di Romeo, pronto a tutto, anche a rendersi ridicolo, a mettersi in pericolo e pure a morire per la sua amata.

Credo che l’amore sia il sentimento più celebrato in canzoni, libri, film, opere teatrali, e in generale in qualunque forma d’arte mai esistita, fin dall’alba dei tempi. Perchè? Beh la risposta è dentro di noi: anche se sappiamo perfettamente che quello “dei film” è stucchevole, sdolcinato, esagerato, assolutamente irrealistico e irrealizzabile, lontano, in una parola, impossibile, non possiamo fare a meno di sognare qualcuno che ci ami così.

 

Irene Lodi

 

Stranger Things & the faboulous eighties

Il 4 luglio gli americani festeggiano la Giornata dell’Indipendenza. Noi che in Italia non festeggiamo un bel niente, e boccheggiamo a causa del caldo africano, potremo però consolarci con l’uscita della terza stagione di Stranger Things su Netflix.

Aria condizionata, un televisore e una vaschetta di gelato è quello che ci serve per farci trasportare nelle atmosfere cupe di Hawkins e seguire le avventure di Undici e dei suoi amici nerd, che tanto ci piacciono.

La serie fin dalla prima stagione è diventata da subito un cult tenendo incollate al teleschermo milioni di persone che volevano arrivare il prima possibile all’ultima puntata per avere una risposta alla domanda che li tormentava “Che fine ha fatto Will?”.

Il telefilm creato da Matt e Ross Duffer è riuscito a ricreare al meglio le atmosfere dei Fabolous Eighties e a farci respirare l’aria frizzante di quel periodo storico.

Ma come ci sono riusciti?

Sicuramente grazie alla colonna sonora che mixa in modo convincente brani creati ad hoc con i grandi successi degli anni ’80.

I Duffer Brothers hanno affidato fin dall’inizio della serie la creazione delle musiche a Kyle Dixon e Micheal Stein dei Survive (una band di musica elettronica di Austin). Synth elettronici e musiche un po’ psichedeliche che accompagnano i personaggi nel corso delle loro vicissitudini.

E’ proprio a loro che dobbiamo la ormai famosissima canzone della sigla che, già dalle prime note, ci accompagna nelle atmosfere cupe e un po’ angoscianti del Sottosopra.

Ma Stranger Things non è solo buio e ansia. La serie ci apre una finestra su quella che era la vita in una cittadina americana negli anni ’80 tra amori, amicizie e ovviamente problemi. Ed è qui, nella quotidianità, che trovano spazio quelle canzoni che tutti noi conosciamo e amiamo. 

Africa dei Toto, Runaway dei Bon Jovi, Should I Stay o Should I Go dei Clash e Heroes di David Bowie, sono solo alcuni dei titoli che compaiono nella ricca, anzi ricchissima, soundtrack della serie.

Tutto ciò che è anni ’80 trova nuova vita in Stranger Things. 

E voi siete curiosi di sapere cosa ci attende nella nuova stagione? Per scoprirlo dobbiamo aspettare domani quando le porte del Sottosopra si apriranno per noi per la terza volta…

Laura Losi

Vectronom, un sinuoso e sinestetico puzzle game musicale

Le campiture monocrome, acide, sgargianti. Il regolare vibrare, scotersi, agitarsi di cubi, parallelepipedi, piramidi. Il beat che scandisce il ritmo, disciplina e regola l’arrangiamento, ipnotizza il videogiocatore. Vectronom è quanto di più lisergico ci si possa immaginare, un quadro di Mondrian in costante fluire, un piano sequenza astratto di Nicolas Winding Refn, la traduzione, in forme e colori tangibili, di un concerto di Skrillex.

Sulle prime, nonostante un tutorial piuttosto esplicativo, ci si lascia sopraffare, confusi, smarriti, disorientati e quasi intimoriti da un’art design così razionalmente cacofonico, misuratissimo sul piano visivo, con linee nette e cromatismi contrastanti, caotico sotto il profilo prettamente sonoro, dove gli strumenti tendono a fagocitarsi tra loro, componendo motivi progressivamente sempre più complessi.

 

Vectronom screenshot 1

 

Se il cardine è la musica elettronica, Vectronom si spinge sino alla chiptune, all’ambient, alla goa trance per scoprire i limiti dell’utente, per sfidarlo a scoprire il meccanismo, il singolo suono che cela la soluzione dell’enigma di turno.

L’opera sinestetica di Ludopium, team di sviluppo con base operativa a Colonia, è difatti in tutto e per tutto un puzzle game, un intricato rompicapo in cui guidare un cubo verso l’uscita, evitando burroni, superando le trappole, eludendo altre forme geometriche il cui tocco vi costringerà anzitempo al game over.

Se l’abilità con il pad richiesta è estremamente limitata, è sufficiente armeggiare con la croce direzionale per compiere tutte le operazioni richieste, è fondamentale sviluppare il senso del ritmo, unico appiglio a cui aggrapparsi per svincolarsi dall’infinito susseguirsi di fallimenti a cui sarete destinati, eventualità che il più delle volte vi costringerà a ricominciare lo schema di turno da capo, fortunatamente un po’ più esperti, consapevoli di esservi avvicinati almeno di un passo al successo.

È certamente questione di provare e riprovare, sia perché sulle prime non è volutamente dato sapere come reagiranno gli oggetti e le forme geometriche che incontrerete per strada, sia perché alcune trappole sono inizialmente celate all’occhio.

Non è solo questione di pratica e materia grigia, comunque fondamentale per comprendere il funzionamento dei meccanismi che dovrete aggirare o sfruttare per raggiungere piattaforme sopraelevate o situate al di là di un burrone. Come anticipato, in Vectronom la musica è il principale strumento per sopravvivere. Solo muovendosi a ritmo anticiperete le mosse degli avversari, saboterete le trappole, verrete premiati con un punteggio soddisfacente alla fine del livello di turno.

 

Vectronom screenshot

 

L’intima connessione che lega beat, colori, forme geometriche e movimenti delle dita, induce il videogiocatore in un profondo stato di trance, una spirale ossessiva fatta di ultime partite in cui si finisce per vedere la musica e sentire sulla pelle i differenti cromatismi che dipingono le ambientazioni.

L’inspiegabile sinestesia di Vectronom è la più grande particolarità di un titolo che convince ulteriormente grazie ad un level design che si rinnova di continuo, costantemente rinvigorito da nuovi ostacoli e oggetti con cui interagire che variano la formula di partenza e propongono al videogiocatore sfide sempre nuove.

La piccola creatura di Ludopium è disponibile sia su PC che su Nintendo Switch. Per entrambe le versioni è consigliabile munirsi di un buon paio di cuffie e di giocare in un ambiente quanto più buio possibile. Correte il rischio di passare più tempo del dovuto davanti ai quadri digitali ed interattivi offerti da Vectronom, ma sarà un’esperienza che difficilmente dimenticherete.

 

Lorenzo “Kobe” Fazio

Summer VibEZ

• La nostra playlist per l’estate•

 

“Oh, when I look back now/That summer seemed to last forever/And if I had the choice/Yeah, I’d always wanna be there/ Those were the best days of my life.” (Summer of ’69, Bryan Adams)

Ogni anno, quando mi aggiro per la città, avvolta nel mio piumino ho un solo pensiero che mi spinge ad affrontare il rigido l’inverno: arriverà l’estate prima o poi.

E mentre tutti contano i giorni che li separano dal Natale io conto quelli che mi tengono lontana dal 21 giugno.

Per me l’estate è una stagione magica in cui tutto diventa più bello; vedo il mondo con occhi diversi perchè i miei ricordi più felici sono sempre legati alla bella stagione.

Nonostante il tempo a nostra disposizione sia sempre lo stesso sembra che si dilati offrendoci maggiori opportunità per stare con gli amici e fare le cose che ci rendono felici.

E finalmente quel momento è arrivato. Oggi è ufficialmente il primo giorno d’estate.

Sole, mare, ferie, gelati e ovviamente concerti e festival.

E’ quel momento dell’anno in cui ci apprestiamo anche a scoprire quale sarà il tormentone estivo che ci accompagnerà da giugno a settembre…entrandoci in testa e perseguitandoci poi fino a Natale.

Enrique Iglesias, Alvaro Soler, Giusy Ferreri, Baby K…chi vincerà il premio quest’anno?

Curiosa di sapere quali fossero i gusti dei miei amici VEZ ho chiesto loro di farmi sapere quali fossero le canzoni che per loro sono sinonimo di estate e il risultato è tutto da ascoltare.

La playlist Summer VibEZ raccoglie musica di ogni genere: rock, dance, indie ce n’è per tutti i gusti (tranne forse che per chi ama il latino americano, scusate amici).

A nome di tutto lo staff vi auguro un’estate meravigliosa che possa regalarvi dei momenti indimenticabili.

#lovez

 

Laura Losi

 

 

 

 

The Clash: white riot, black riot

Se parliamo di punk la mente corre a Londra, sul finire degli anni ’70, quando le strade della capitale britannica erano piene di giovani che volevano fare sentire la loro voce.

Il periodo storico non è dei più rosei: il razzismo è all’ordine del giorno e, in prossimità delle elezioni, il National Front il partito di estrema destra rischia di risquotere un grande successo.

Qua e la si fanno sempre più forti i richiami alle ideologie naziste e per questo motivo iniziano a nascere associazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema.

E’ grazie a Rock Against the Racism e l’Anti Nazi League che il 30 maggio 1978 viene organizzato un grande concerto al Victoria Park di Londra ed è forse grazie a questo evento che la musica punk abbandona le tendenze nichilistiche degli albori per politicizzarsi sempre più.

Un gruppo più degli altri è riuscito a far sentire la sua voce, a usare la musica come un arma per combattere le proprie battaglie: The Clash.

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The Clash in Belfast – 1977 ©Adrian Boot

Forse, proprio per questo motivo, Ono Arte Contemporanea, nella sua sede di Bologna, ha deciso di ospitare una rassegna dedicata a Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon.

La mostra dal titolo Clash: White Riot, Black Riot racconta la band attraverso gli scatti di Adrian Boot e sarà possibile visitarla da 12 giugno al 15 settembre.

Nonostante siano passati più di 30 anni da quando i Clash incendiavano le scene musicali mondiali, da quando London Calling ha invaso le radio, oggi più che mai la loro musica e la loro ribellione sono attuali.

I Clash hanno fatto la storia, hanno messo a ferro e fuoco il mondo, incitando le persone a portare avanti le loro battaglie.

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The Clash – London Westway Photosessions – 1977 ©Adrian Boot

Fin al loro primo dingolo White Riot appare chiara la loro ideologia e la loro missione: dare una voce a tutti. Non si tratta solo di una canzone ma di una sorta di inno che incita i giovani a portare avanti una rivolta personale e collettiva.

Ma i Clash non sono solo punk, sono un misto esplosivo di generi diversi.

“Vorrei che non si dicesse che i Clash sono stati solo un gruppo punk. Il punk è uno spirito molto più ampio della musica grezza e semplice che solitamente si identifica con quella parola. I Clash sono stati un gruppo di fusione, non una band di genere. Abbiamo mischiato reggae, soul e rock and roll, tutte le musiche primitive, in qualcosa di più della somma dei singoli elementi. Soprattutto in qualcosa di pù del semplice punk di tre accordi.”

Strummer ci teneva a sottolineare questa cosa e quando la loro musica si è allontanata dal punk tradizionale i fan non sempre lo hanno apprezzato.

Non tutti, fin da subito, si sono resi conto della portata rivoluzionaria della loro musica. Eppure in 10 anni hanno lasciato il segno.

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The Clash ©Adrian Boot

La mostra ospitata a Bologna il cui ingresso è gratuto racconta i Clash visti dall’obiettivo non solo di Boot, fotografo che li ha seguiti nel corso della loro carriera dagli esordi al successo, ma anche di Syd Shelton e Pennie Smith. 

I 40 scatti in esposizione a Bologna ci raccontano questa band che ha fatto della musica un arma e ha smosso, e continua a farlo ancora oggi, la coscienza di milioni di persone. Ognuno deve farsi sentire, la voce di chiunque è importante.

“Questo è il lascito che i Clash hanno trasmesso alle generazioni che sono venute dopo: lo spirito, l’impulso a cambiare, per continuare a guardare in faccia al futuro.”

Questa per Mick Jones, il chitarrista della band, era l’eredità che i Clash hanno lasciato ai posteri.

E noi non vogliamo essere ricordati come la generazione che non ha colto il loro lascito.

Laura Losi

Pixies, una monografia personale

Era il 1986, i Nirvana e l’intera ondata grunge non erano ancora apparsi sulla scena, ma l’avrebbero fatto da lì a breve in tutta la loro devastante potenza deflagratoria e con il migliore arsenale sonoro a disposizione.

Erano gli anni del cosiddetto college rock, da una parte c’erano i REM di Michael Stipe, belli e di sani principi, dall’altra i Pixies, capitanati da uno strano tizio che si faceva chiamare Black Francis, con una voce isterica e qualche chilo di troppo.

Facciamo però un passo indietro. Stava finendo il secolo e io avevo iniziato il liceo. Ai tempi ero una silenziosa e insicura ragazzina di provincia. E chi non è mai stata “la reginetta del ballo” lo sa quanto sia difficile essere adolescenti timidi e abitare in provincia.

Per fortuna, proprio per le persone come me, esiste il rock, con il suo enorme potere consolatorio. Così, visto che oltre ad essere timida e insicura, ero pure incazzata e un po’ stramba, avvicinarsi al grunge fu facilissimo.

Finalmente non ero più sola, eravamo in tanti a sentirci inadeguati, strani e completamente fuori posto. Per tutti noi c’erano loro: i Pixies. Gli alieni della scena garage. Estranei al grunge, pur essendone i padri fondatori.

Oggi, nell’era dell’apparenza, una band come i Pixies non sopravviverebbe un giorno. Troppo originali, troppo menefreghisti, troppo caustici, troppo – apparentemente – normali. Per fortuna però, il loro esordio risale al 1986 e, forse, si badava meno a tutte queste cose.

I Pixies sono una delle cose migliori successe al mondo del Rock, e non sorprende che perfino i Nirvana abbiano cercato ispirazione proprio nella loro musica, alla fine degli anni Ottanta.

Kurt Cobain ammise infatti di essersi ispirato a loro, o come disse lui stesso “di averli derubati” per scrivere Smell Like Teen Spirits. Kurt voleva essere come i Pixies, suonare con loro, o almeno essere in una loro cover band. Ascoltando la musica dei Nirvana si trova la stessa identica onda anomala presente nella musica dei Pixies.

Si parte morbidi, quasi innocui, fino a salire, sempre più rumorosi e duri. Impossibile non essere d’accordo con quello che disse Manuel Agnelli quando affermò che ”i Pixies erano i Nirvana qualche anno prima. Ma più bassi e brutti”.

La storia dei Pixies, come dicevo, inizia nel 1986, quando il cantante Black Francis, all’anagrafe Charles Thompson, incontra il chitarrista Joey Santiago, a Porto Rico. Come nelle migliori storie del rock, i due mettono un annuncio su un giornale: “Cercasi bassista appassionato di Husker Du e Peter Paul & Mary“. Ed è qui che entra in gioco l’affascinante Kim Deal, che porta con sé l’amico batterista, David Lovering. Kim è la regina nera dei Pixies che con la sua personalità ha letteralmente rubato la scena e il ruolo di leader al non convenzionale Francis.

Ma andiamo con ordine: il loro primo album Come On Pilgrim, è un lavoro sicuramente acerbo, ma che dimostra già un enorme potenziale della band di Boston. E’ sufficiente leggere i testi per capire di cosa sto parlando. Sono surreali. Francis Black e i suoi hanno inventato un nuovo linguaggio, lo spanglish. Metà inglese, metà spagnolo. “Non lo facciamo per accattivarci il pubblico latino-americano”, ha spiegato in un’intervista Kim Deal, “è che talvolta lo spagnolo suona più percussivo e riesce a definire meglio quello che cerchiamo di dire”.

Tra il 1987 e il 1992 i Pixies incidono due album incredibili: Surfer Rosa e Doolittle. Ascoltarli, ancora oggi, mi crea un curioso solletico alla corteccia cerebrale. Surfer Rosa viene osannato da critica e pubblico. In tanti lo definiscono l’ultimo capolavoro “post-punk”. Tra i tanti pezzi dissonanti e ossessivi che si possono trovare al suo interno ci sono anche Gigantic e Where is my Mind, che è diventato uno dei loro brani più conosciuti anche grazie a film come Fight Club. La chiusura del disco è la psichedelica Caribou. Si tratta di un lavoro sorprendente che, come un diamante, cambia aspetto ad ogni ascolto.

La loro è musica abrasiva, isterica e, in qualche modo, grottescamente pop. Le canzoni sono corte, in perfetto stile Ramones per capirsi. “Difficile sopportare quei riff cattivi per più di due minuti” dirà una volta Kim.

 

 

 

 

Doolittle invece è un disco che ho letteralmente consumato. Una cavalcata di 12 pezzi, che parte con Debaser e termina con There goes my gun. In mezzo c’è il meglio che la musica abbia prodotto in quegli anni: Here Comes Your Man, Wave Of Mutilation, Monkey Gone To Heaven, Gouge Away e La La Love You, il brano che non ti aspetti, uno dei più assurdi di sempre, che con fischietti, cori femminili e schitarrate ironizza sul concetto di storia d’amore. L’intro di Debaser è indimenticabile: “I am un chien, anda-luuu-sia!”, che fa riferimento al cane andaluso del film di Buñuel, pronunciato in un francese stentato e ridicolo. E non solo, basti pensare al “Rock me, Joe” di Monkey Gone To Heaven. I testi di Debaser parlano di suicidio, di nevrosi, di depressione, di droga, di prostituzione e di disastri ecologici. Siete un po’ smarriti? Pensate a come si sarà sentito chi l’ha ascoltato nel 1989.

Purtroppo però, niente dura per sempre, e anche la verve creativa dei Pixies è destinata all’inesorabile tramonto. Nel 1990 esce Bossanova, l’anno successivo Trompe Le Monde. Due lavori confusi, lontani dai precedenti. Anche a causa di continue tensioni tra Kim Deal e Black Francis, nel 1992 i Pixies si sciolgono. La storia però non finisce qui.

Di solito quando un grande gruppo del passato decide di riunirsi, lo fa partendo da qualche concerto, per poi tornare in studio e produrre materiale nuovo. I Pixies no. Dal 2004 al 2012 hanno fatto concerti, per otto lunghi anni, senza mai entrare in sala di registrazione. Nessun inedito, niente di niente. Il motivo è semplice, quasi lapalissiano, a raccontarlo è Joey Santiago: “suonando molto dal vivo non avevamo tempo di entrare in studio”.

Black Francis aveva bisogno di tempo per scrivere brani adatti al nuovo suono. Nel 2013 arrivano EP1, EP2 ed EP3, con quattro pezzi ciascuno, e infine il tanto atteso Indie Cindy, che unisce al suo interno i brani dei tre EP, senza ulteriori aggiunte. A Giugno 2013 Kim Deal abbandona la band e da quel momento in poi al basso la sostituisce Paz Lenchantin.

Tralasciando gli ultimi lavori, non troppo degni di nota, quello dei Pixies è un universo bizzarro e sconclusionato. All’interno dei loro album si può trovare tutta la psicopatia del mondo del Rock: le nevrosi dei Pere Ubu, l’acidità lisergica dei Velvet Underground, l’isteria dei Violent Femmes. Hanno shakerato tutto insieme e l’hanno servito in un bel bicchiere con l’ombrellino.

Senza i Pixies, con grande probabilità, oggi non esisterebbe quello che viene chiamato “indie”. La loro influenza è stata indelebile. Anche sui miei gusti musicali.

Il linguaggio dei Pixies, il loro modo di scrivere canzoni, ha fortemente influenzato la maggior parte dei gruppi o dei musicisti che ho amato: i Nirvana, Pj Harvey, i Radiohead, per nominarne solo alcuni.

I Pixies per me sono stati un incontro fortuito, quello che quando accade cambia tutto. Fino a quel momento ero una ragazzina timida che guardava film in bianco e nero e passava un sacco di tempo a leggere libri. E’ stato come conoscere per la prima volta qualcuno come me, sfigato e altrettanto perso: “è fatta” mi sono detta, “allora non sono sola”.

 

Daniela Fabbri

Van Gogh e i Maledetti

•Stefano Fake ci insegna come si racconta l’arte con l’arte•

 

Di norma, non occorrerebbe nessuna particolare motivazione per saltare su un treno per Firenze.
A Firenze ci vai e basta, ed ogni cosa che potrai portarti a casa sarà inestimabile bottino.

Ma quando la Chiesa di Santo Stefano, a due passi da Ponte Vecchio, diventa Cattedrale dell’Immagine, e si fa bella per ospitare una delle mostre più coraggiose e rivoluzionarie del momento,  il biglietto di questo treno si timbra da solo.

Siamo quindi sfrecciati verso una Firenze toccata e fuga, per un aperitivo maledetto con Van Gogh, Lautrec, Modigliani ed altri tormentati ragazzacci. Abbiamo sguazzato nelle loro vite tutt’altro che piacevoli e capito quanto l’arte, per loro, sia stata la vera salvezza. O forse no. 

Davanti ad una mostra come Van Gogh e i Maledetti ci si sente destabilizzati, poiché l’unica prerogativa è spogliare le opere da qualsiasi filtro di falsità, così che possano urlarci in faccia di non essere figlie predilette di divinità perfette, ma d’essere venute alla luce dalle menti esasperate di uomini soli, limitati, dannati, in un vorticoso travaglio senza gioia ne consolazione. 

A presentarci Van Gogh e i Maledetti è CROSSMEDIA GROUP, con un’esperienza multimediale progettata e diretta da Stefano Fake di THE FAKE FACTORY, artista visivo multidisciplinare che, con grande audacia e sensibilità, utilizza tecnologie di ultima generazione per raccontare l’arte con l’arte.
Abbiamo chiesto a Stefano di parlarci della mostra, dell’importanza delle nuove frontiere artistiche e del grandioso lavoro che c’è dietro allo straordinario risultato finale.

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La tua opera è colma della Parigi di fine ottocento e inizio novecento, fulcro del mondo bohemien, terreno fertile per le vite dissolute dei nostri Maledetti. Quali strade di Parigi ha percorso la tua ispirazione? 

Per questa esperienza immersiva ho lavorato su diversi binari estetici e narrativi.

Dal punto di vista storiografico ho voluto approfondire la descrizione dell’ambiente parigino a cavallo dei due secoli, usando diverse fonti cinematografiche e fotografiche.

Mi sembrava necessario far capire sin da subito come fosse importante l’ambiente di Parigi, in quel momento sicuramente la capitale mondiale dell’arte, e il motivo per cui era diventata la meta di tutti coloro che volevano vivere pienamente una vita e una carriera d’artista.

Per questo ho usato ampie scene di repertorio su Montmartre, Montparnasse, i caffè parigini, le sale danzanti, per concludere con l’apoteosi finale dei fuochi d’artificio all’inaugurazione della Tour Eiffel.

Parigi era il centro del mondo e sicuramente la meta di tutti gli artisti che volevano affermarsi nel mercato e magari nella storia dell’arte.

Quindi, oltre che per gli amici fraterni Van Gogh e Gauguin, Parigi era il punto di riferimento per tutta una serie di altri pittori molto eterogenei fra loro come stile e tecniche pittoriche.

La cosa che li accomunava era soprattutto l’aspirazione ad una vita bohémien completamente dedicata all’arte, chiaramente insaporita da vino, assenzio, hashish e sesso.

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Hai creduto fosse importante slegare le singole esperienze di questi artisti dalle vite rispettivamente intrecciate fra loro, per dedicare ad ognuna di esse un capitolo personale. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?

Si, la narrazione visuale è fatta di brevi capitoli monografici, diversi fra loro come composizione e grafica animata.

Dal punto di vista registico per me era fondamentale mostrare questa eterogeneità stilistica e tematica, questa ricchezza di colori e forme. Una frammentazione narrativa legata profondamente allo spirito del tempo.

Gli artisti maledetti dipingevano in modo differente e molto personale; rappresentavano Parigi ciascuno con la propria matrice stilistica, ma ne erano tutti figli e ciascuno ne raccontava una parte, e tutte queste porzioni ne danno una visione sicuramente più completa.

Il tutto collegato da un avvolgente fil rouge,  proprio come nei capitoli di un romanzo.

Nel corso dei quaranta minuti di video-installazione a 360°, passiamo da Modigliani a Toulouse-Lautrec da Soutine, a Gauguin e Van Gogh, senza che questa frammentazione possa sembrare dissonante. Perché tutti loro, in definitiva, stavano rappresentando in modo molto personale lo spirito del tempo.

Con la scelta musicale ho seguito lo stesso schema: grande varietà ed eterogeneità, passando da Verdi a Vivaldi da Schubert a Beethoven e Hoffenbach, stando attento unicamente a tenere alta la temperatura emotiva dell’esperienza immersiva, lavorando sull’alternanza ritmica e sulle sonorità.

Un’esperienza più che immersiva. Era tua intenzione farci rivivere l’ipotetico percorso di maledizione ed espiazione di Van Gogh ed i suoi colleghi?  

Per far viaggiare l’opera dentro un binario simbolico molto strutturato ho costruito, su un secondo livello, una narrazione che procede come un viaggio di purificazione.

Partiamo dall’inferno a cui questi artisti dalla vita dissennata erano destinati, per portarli fino al cielo, all’elevazione in paradiso, spinti dalla grandezza e dalla purezza della loro arte.

Per questo il primo capitolo inizia con il Dies Irae di Verdi e ci troviamo fra le fiamme dell’inferno e all’interno di una scena vandalizzata da scritte rosse spalmate sulle pareti dell’ambiente. Tanto forti da sembrare scritte col sangue.

Interessante la contrapposizione che hai creato ambientando una scena infernale all’interno di una chiesa sconsacrata. 

In questa scena suggerisco al pubblico la mia interpretazione del girone dantesco che ghermisce questi pittori dalla vita estrema: una chiesta sconsacrata vandalizzata come uno squot abbandonato e graffitato centimetro per centimetro.

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Abbiamo colto qualche citazione a Disney, qualcuna addirittura all’animazione giapponese. Affermazione troppo azzardata?
Assolutamente no. In questo primo capitolo c’è una citazione diretta di uno dei capolavori del cinema d’avanguardia, Fantasia di Walt Disney del 1940, così come avevo fatto per Klimt Experience.

In particolare mi sono ispirato alla scena iniziale di Fantasia, realizzata sotto la direzione artistica di Oskar Fishinger, uno dei maestri dell’animazione astratta che ha aperto le porte all’idea di film astratto all’inizio del ‘900.

Chiaramente, essendo figlio del mio tempo, ho dato un tocco manga alle animazioni astratte e ho potuto ottenere, grazie al montaggio digitale, una perfetta sincronia audio-visiva.

Hai lavorato molto sui contrasti. Lo spettatore non può che sentirsi parte di qualcosa di grande. Non possiamo chiedere ad un padre di identificare il figlio preferito, ma sicuramente c’è un “capitolo” di cui vai particolarmente fiero.
Uno dei momenti visivamente più belli e riusciti dell’opera, che fa da contrappunto a questa prima scena infernale, è il finale dell’opera immersiva, con la contemplazione del paradiso: la notte stellata di Van Gogh.  Apprendiamo affascinati come da una vita maledetta possa nascere un’arte celestiale e sublime. E’ in definitiva un inno alla forza catartica dell’arte che salva tutti, artisti e pubblico.

Per quanto riguarda la progettazione dell’ambiente immersivo non mancano strumenti che stanno aprendo le porte ad un nuovo concetto di “istallazione artistica”.

Per Van Gogh e i Maledetti ho potuto portare due tecniche che da anni utilizziamo con successo nei festival e nelle mostre immersive: il videomapping, sulle nude pareti della chiesa che ci ospita, e la Mirror Room, che dagli inizi degli anni duemila cerco di inserire sempre nelle esposizioni di cui sono autore, negli eventi e nei festival d’arte digitale.

Dopo alcuni anni in cui la Chiesa di Santo Stefano era rivestita di schermi, siamo riusciti a lavorare con la produzione di Crosserai per farla tornare alla sua forma originale.

La perfetta visione delle opere è comunque garantita dalla forma stessa dell’architettura, che ha ampie pareti intonacate sopra gli altari.

Per migliorare la visione ho fatto inserire uno schermo centrale, che non è altro che la parete portante della terrazza costruita appositamente per avere anche una visione dall’alto dello spazio.

Il balcone ospita anche una mia Mirror Room, dove il concetto di immersive art experience, che da anni è la cifra stilistica di THE FAKE FACTORY, è portato alle sue estreme conseguenze.

La mostra è completata da una parte didattica tradizionale e da un viaggio tridimensionale con Oculus.

Questi ambienti sono curati direttamente da Crossmedia, così come il bookshop, rinnovato anch’esso per questa esposizione.

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Da anni sei parte attiva di questo nuovo fenomeno chiamato “crossmedialità”. L’arte sta cambiando, così come il suo pubblico. Sperimentare è inevitabile e necessario, perché stiamo assistendo all’alba di una nuova era della comunicazione. Dopo aver parlato della tua ultima creatura, parlaci un po’ di te, della tua esperienza e della tua personale rotta.

Questa per noi  è la quinta produzione per Crossmedia Group (dopo Klimt, Monet e gli Impressionisti, Modigliani e Magritte) e consolida un rapporto che ha portato il gruppo a diventare un importate player nel mondo delle mostre multimediali.

Devo dire che la fiducia e la libertà creativa che il produttore Federico Dalgas mi ha sempre lasciato è sicuramente stata una delle chiavi del successo di questo nuovo modo di rappresentare l’arte del passato con linguaggi e tecniche contemporanee.

Se da un lato perdiamo, per così dire, la materia pittorica (non ci sono opere originali in mostra), dall’altra possiamo utilizzare la luce digitale per creare mondi fantastici, illusioni ottiche, immersioni visive sorprendenti.

Osservazione da sottolineare, perché molti storgono ancora il naso quando si tratta di mostre senza opere originali. Raccontare l’arte con l’arte, soprattutto se si trattano opere classiche e celebri, non è ancora un concetto così immediato ed accettabile, a quanto pare. Occorre avere coraggio, il nuovo pubblico sembra in continua crescita.

Proprio così. Per un artista che lavora con i new media è importante sentirsi libero di sperimentare e di reinterpretare i classici del passato senza sentirsi limitato e avendo la possibilità di sperimentare ogni volta soluzioni visive nuove, sapendo che lo sforzo economico che il produttore sostiene sarà ripagato sia in termini economici che di visibilità.

La prima esperienza che abbiamo realizzato per loro, Klimt Experience, è stato un successo mondiale che ha aperto molte porte a questa nuova forma di immersione nell’arte.

Il pubblico del terzo millennio ha voglia di vivere diverse esperienze estetiche e le immersive exhibitions sono sicuramente una proposta culturale interessante proprio perché complementari alle mostre tradizionali. Sono sicuramente anche un buon modo per introdurre all’arte bambini e teenagers.

Già, troppo spesso si parla dei giovani e della loro incapacità di mostrare interesse per la cultura e per il loro futuro. Noi crediamo invece che ogni generazione abbia il suo linguaggio e che questo linguaggio, come ogni altro, vada studiato, ascoltato, accolto. Siamo stati felici di vedere la mostra popolatissima di ragazzi e ragazze.

Penso che le strade che abbiamo aperto porteranno ad una crescente attenzione verso le mostre immersive, con la nascita di nuovi artisti visivi e nuovi produttori interessati ad investire in questo mercato.

Lo ripeto da anni: siamo come a inizio ‘900 quando nacque il cinema. Nel giro di pochi decenni le sale cinematografiche si sono moltiplicate, e c’è stato spazio per nuovi registi, nuovi autori, nuovi produttori.

Per questo penso che da parte del pubblico e della critica sia anche venuto il momento di superare la dicotomia mostra con quadri veri versus esperienza immersiva di arte digitale. 

Per usare una metafora facilmente comprensibile, le mostre immersive stanno alle mostre tradizionali come il cinema sta al teatro?

Esattamente, nessuno va al cinema sperando di trovare attori in carne ed ossa.

Oggi, se vai al cinema è normale sapere che vedrai degli attori e delle scene riprese e poi proiettate su schermi.

E’ un segno dei tempi, e la riproduzione dell’arte partendo da una foto in digitale è il modo più comune con il quale il pubblico entra in contatto con le opere d’arte del passato.

Inoltre oggi abbiamo una qualità riproduttiva eccellente, con una qualità di riproduzione molto definita e fedele all’originale. Manca la materia pittorica, certo, e le dimensioni sono riportate su grandi schermi.

Ma questo per me è un vantaggio, perché possiamo rafforzare la potenza visiva delle opere riprodotte ed esaltarne le trame e i dettagli.

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Negli anni l’arte cinematografica si è sviluppata come linguaggio e tecnica fino ad essere definita la settima arte. Oggi l’arte digitale immersiva potrebbe rappresentare l’ottava forma d’arte? 

Sicuramente è quella che maggiormente si avvicina all’idea di Arte Totale di cui si parla da quasi due secoli.

Un’esperienza immersiva, nella forma in cui la concepisco e la realizzo, è un’insieme di architettura, pittura, musica, danza, poesia, cinema… L’arte digitale immersiva è un’esperienza totalizzante.

Per questo spero che una nuova generazione di critici, divulgatori e storici dell’arte ne prenda atto e inizi ad analizzarla e a descriverla per quella che è: una forma d’arte a se stante che ha un proprio linguaggio e una propria ricerca.

E spero che si inizi a capire che dietro ad ogni mostra immersiva ci sono autori e artisti visivi con il proprio stile e la propria capacità non solo di rileggere il passato, ma anche di creare nuove estetiche. 

Partiamo da qui, il pubblico ed i lettori devono sapere quante interessanti sfaccettature, quanta progettazione e quanta ricerca creativa si celano dietro ad una mostra immersiva. Capita spesso che il vostro lavoro non venga capito?

Mi piacerebbe che un giorno si smettesse di fare domande agli autori di esperienze immersive  sul tipo e sulla quantità di proiettori utilizzati, perché sarebbe come chiedere a Fellini che tipo di cinepresa ha usato per girare il film o che proiettori utilizzano nei cinema per proiettare i suoi film.

Nessuno chiede a Bob Wilson che fari utilizza per fare i suoi enormi fondali retroilluminati a teatro. Gli viene chiesto il perché crea scene con architetture fatte di luce.

Chi chiede a James Turrell se per creare le sue stanze immersive usa Led o luci con gelatine colorate?

Noi artisti digitali ci dobbiamo preoccupare solo di creare esperienze d’arte belle e culturalmente significative. Ognuno con il proprio punto di vista e la propria visione, cosi che il pubblico possa un giorno andare a vedere un’esperienza immersiva sapendo quale autore l’ha realizzata, esattamente come accade quando si sceglie un film.

Lo si fa per vedere l’opera, non per vedere una sala dove la tecnologia permette di proiettare delle immagini su una parete bianca.

Italia, patria dell’arte, luogo dove alla domanda “che lavoro fai?” la risposta “l’artista” segue svariate e raramente benevole reazioni. Sei sicuramente un grande esempio per i giovani che sognano un futuro nel campo artistico.

Sì, e spero che quello che stiamo facendo serva come guida per gli studenti d’arte e i nuovi creativi digitali.

Ci sono enormi possibilità di esprimersi come artisti e come narratori digitali, è un mondo tutto da creare e scoprire. Ma siamo agli inizi e la definizione di un’arte nuova richiede tempo. 

Ma noi artisti andiamo avanti, sperimentando e creando, così come fecero altri prima di noi.

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Articolo di Valentina Gessaroli

I Loren e la musica pensata per essere suonata dal vivo

Il Locomotiv Club è praticamente deserto, ci sono soltanto gli addetti ai lavori che stanno preparando il locale per il concerto dei Loren. Una band composta da cinque ragazzi fiorentini che, noi di Vez, abbiamo amato fin dal primo ascolto del loro album omonimo.

Ragazzi solari, che danno una carica di positività a chi li circonda.

Quella del Locomotiv è l’ultima data del loro tour e il fatto che sia proprio a Bologna assume un significato ancora più grande. Perché è come se tutto fosse nato qui, perché Garrincha, la casa discografica che ha deciso di investire su di loro, ha sede proprio nel capoluogo emiliano.

Ci sediamo sul divano del Locomotiv e iniziamo a chiacchierare…

Chi sono, e chi erano, i Loren. Parlateci un po’ di voi.

I Loren sono un gruppo che si è formato a settembre, 10 mesi fa. 

E’ un gruppo che nasce dalle ceneri di un’ altra band, che si chiamava Amarcord, e che è uscito subito con Garrincha Dischi, una delle etichette più fighe del panorama indie italiano, che ha prodotto Loren il nostro album.

Ora stiamo portando in tour lo spettacolo con i brani del disco e qualche canzone vecchia, una sorta amarcord del gruppo precedente.

Abbiamo cominciato, con il progetto vecchio, una decina di anni fa. 

Eravamo piccolissimi ed è stato un bellissimo modo per conoscersi, stare insieme e trovare un linguaggio comune. 

Quando sei così piccolino ed inizi non sai nemmeno cosa vuoi fare davvero. Noi lo abbiamo scoperto insieme ed ora siamo contenti del lavoro che abbiamo fatto e di questo contesto che si sta creando intorno a noi. 

I vostri testi parlano di vita e di cose spesso semplici e quotidiane ma lo fate in un modo completamente vostro. Dove trovate l’ispirazione?

Grazie perché questa più che una domanda è un complimento. 

Abbiamo attraversato molte fasi di scrittura; è da quando abbiamo 14 anni che scriviamo canzoni, forse anche da prima. 

Ad un certo punto abbiamo detto: ok, vogliamo dirvi delle cose e vogliamo farlo in modo diretto, vogliamo mettere in gioco noi stessi.

Questa cosa è anche un po’ frutto dei tempi, viviamo in un mondo che è iper-realistico, in cui tutto si può guardare e controllare. 

Questo forse ci ha spinto a fare un album così intimo, che parla delle nostre cose. 

L’ispirazione è stata un po’ figlia dei tempi e di un linguaggio che abbiamo cercato di costruire negli anni, sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi. 

Perché quando si è una band, anche se nessuno ci pensa, bisogna cercare di parlare al plurale. Questo ormai non si fa più, si pensa troppo spesso all’io, mentre avere un gruppo ti fa pensare al noi.

Se c’è un merito in questo album è proprio questa connessione tra i due orizzonti: il piccolissimo, l’individuale, e l’orizzonte ampio della collettività. Credo che questi due mondi si siano ben intersecati.

La cosa che più mi ha colpito è la positività e la grinta che riuscite a trasmettere. Quali sono i messaggi di cui volete farvi portavoce?

Noi non ci siamo mai messi nell’ottica di piangerci addosso, che secondo noi è un po’ il tema del decennio. Non è una cosa che ci appartiene, non ci piace e quindi cerchiamo di evitarlo. 

Anche se tra di noi siamo molto autocritici e negativi, a volte anche autodistruttivi, il messaggio che vogliamo dare è che esiste ancora la possibilità di lavorare e costruirsi un percorso. 

Non c’è motivo di disperare mai finché si ha la forza di dire “ok, facciamo un altro passo nel nostro percorso”.

Secondo me, per la nostra esperienza, l’insegnamento è che si può fare un passo alla volta ma comunque arrivare a fare grandi cose. 

Questa cosa si può applicare a tutto, ma ultimamente va molto di più di moda l’autocommiserazione. 

Questo non ci è mai piaciuto, è quasi diseducativo. A volte ci dicono che non siamo indie perché non ci facciamo portatori di questa tematica. Ma noi siamo contenti di non far parte di questa cosa.

Noi crediamo in una costruzione collettiva che dia il senso all’individuo. Io vivo il gruppo in questo modo. Il messaggio in qualche modo si trasforma dal vivo. Assume più colori, più strati. Noi crediamo soprattutto in questa cosa della musica dal vivo, nel momento dell’essere li fisicamente.

L’album è una sorta di documento ma noi diamo molta importanza al fatto di essere li con corpo.

In un momento in cui in Italia vanno per la maggiore generi come la trap e l’indie, voi sembrate discostarvi. Come definite il vostro genere?

Ci sono due livelli secondo me. Musicalmente, il filone indie, è molto povero. Noi siamo in cinque e, spesso, anche nelle band che si ascoltano non si sente la presenza di tutti gli elementi.

Molte volte c’è un produttore che interviene e tira le fila, c’è uno che fa il lavoro per gli altri. Inoltre a volte queste parti non sono pensate per essere suonate dal vivo.

Noi facciamo un’operazione diversa. Pensiamo le cose, in cinque, che possano rendere dal vivo bene, poi la resa su disco viene dopo. Quindi forse può penalizzarci ma è un modo completamente diverso di costruire la musica, fin dalla partenza.

Non può risultare simile all’indie; anche se qualcuno forse ci può confondere. 

Ci rifacciamo alla musica indipendente precedente e internazionale. Ci ispiriamo a band come i The National, i The Killers, i Coldplay, i Kings of Leon e i Radiohead.

Gruppi che riescono a curare l’aspetto musicale, con delle belle melodie,  ma si fanno portavoce di un messaggio positivo, con dei bei testi. Noi cerchiamo di fare questa cosa.

Forse non è un momento fortunatissimo però crediamo che le cose si costruiscano nel lungo periodo e facendo un passo alla volta. Noi abbiamo mandato un messaggio, ma ne vogliamo mandare altri centomila. Questo è stato soltanto il primo sassolino.

Ci salveremo tutti, nome del tour e di una delle canzoni, lancia un messaggio molto forte.

Questa cosa forse è stata un po’ fraintesa ma ci piace che sia andata così. In questa canzone Ci Salveremo Tutti sarebbe quasi un “ci salveremo da noi stessi”.

Viviamo in tempi molto veloci, sembra che non si possa sbagliare niente, anche musicalmente. Tutto deve funzionare, subito.

Questa canzone voleva dire: prendiamoci la possibilità di fare una cosa che ci piace, vediamo se funziona e se possiamo raccogliere i frutti del nostro lavoro. E se non va, così come l’avevamo pensata, ripensiamola. Questo mondo in cui devi fare la cosa che deve funzionare su tutti i livelli non ci appartiene e l’abbiamo messa in una canzone.

Prendiamoci la possibilità di fare degli errori, di fare le cose che ci piacciono, e vediamo il riscontro delle cose.

Lo ha detto anche Saviano “Insegnate ai vostri figli a sbagliare”. Anche cantautori come De Gregori, da un punto di vista discografico, sbagliavano i primi dischi, ma era un percorso. Ci vuole del tempo.

Ormai siete in tour da parecchio. Com’è stato girare l’Italia, portando in giro le vostre canzoni, e incontrare le persone che amano la vostra musica?

Noi vorremmo suonare molto di più. Crediamo fortemente in quello che succede nel concerto, gli spunti e le letture più interessanti che abbiamo ricevuto sui testi li abbiamo avuti proprio nei live.

Nelle recensioni le persone cercano di interpretarti in un modo un po’ freddo, ai concerti invece trovi gente che si lascia trasportare dell’emotività, che sceglie di essere li. Ci sono delle interpretazioni a cui nemmeno noi avevamo pensato, le cose cose più intelligenti, che ci hanno più colpito le abbiamo ricevute li.

Fosse per noi staremo sempre a fare dei concerti, anche se è devastante fisicamente. E’ li che succede tutto. Bisognerebbe tornare ad uscire di casa, ad andare ai live. Rivendicare anche il diritto di andare a un concerto che non ha funzionato e magari di poterlo dire all’artista.

Noi crediamo molto in questa relazione che si accende. Girare è bello, ed è bello anche quando non c’è nessuno, perché impari sempre.

Viviamo in un momento in cui non c’è umiltà, tutti devono diventare, tutti ti devono ascoltare. Invece stare per strada, stare su un furgone per tante ore, insieme, è molto formativo; si parla di tante cose, si discute. Il contatto con le persone è importantissimo.

A Baronissi, in provincia di Salerno, c’erano persone che hanno fatto 80 chilometri per dirci “Abbiamo ascoltato il vostro disco, non recapitavate più e siamo venuti a sentirvi qui” sono cose che mettono i brividi.

L’ultima domanda è per Francesco. Visto che sei laureato in matematica e le vostre canzoni sono cariche di suoni molto diversi tra loro, quando componi attingi dalla logica della matematica? Visto che si dice che musica e matematica parlino la stessa lingua…

Io questa cosa non la vedo molto. I suoni molto diversi sono dovuti alla costruzione collettiva delle canzoni.

A volte nella scrittura dei brani ho usato delle citazioni che vengono dal mondo della matematica, mi piace questa metafora.

E’ una cosa che si usa nel mondo della musica, per esempio mi viene in mente il brano di Fabi, Silvestri e Gazzè che dice “ma esistiamo io e te, la nostra ribellione alla statistica”. Da matematico questa frase mi piaceva tantissimo.

E’ vero che molti matematici sono anche scrittori, e la logica mi aiuta nella scrittura della canzoni, ma finisce li.

Tutto l’arrangiamento e la diversità sono dovuti al fatto che in ogni canzone cerchiamo di trovare un punto di incontro e di equilibrio tra le nostre cinque teste pensanti. Il fatto che ci annoiamo molto rapidamente poi aiuta anche a dare sonorità sempre diverse.

Laura Losi