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Tag: recensione

Tommaso Mantelli “9 Useless Tunes” (Shyrec/Lesder, 2020)

La settimana scorsa, credo fosse lunedì, ho rivisto Sound City, un documentario diretto da Dave Grohl incentrato su di uno studio di registrazione, per appunto il Sound City Studios di Los Angeles, dove Grohl con altri due musicisti dell’epoca, un certo Krist Novoselic e tale Kurt Cobain, nel 1991 registrò un album intitolato Nevermind. 

Insomma nell’ora e mezza abbondante di durata viene raccontata la storia di questo celeberrimo studio di registrazione, dalla fine degli anni sessanta fino praticamente ai giorni nostri, attraverso immagini e reperti d’epoca e testimonianze dirette di diversi mostri sacri della storia del rock, che non ho intenzioni di citare nella maniera più assoluta perché sono davvero molti. E perché magari così vi vien voglia di vederlo (Dave, avanzo da bere per la marchetta).

L’aspetto più interessante tra i molti è a mio avviso il passaggio che lo studio, ed in particolare il vero protagonista del film, il Neve 8028 (un mixer rigorosamente analogico, prodotto in Germania e fiore all’occhiello degli studi di registrazione – quelli che se lo potevano permettere – del tempo), hanno vissuto nella nascita, sviluppo e diffusione del digitale e la contestuale soppressione, o quantomeno ridimensionamento, dell’analogico.

Un discorso così impostato parrebbe sottendere ovviamente la tesi secondo la quale analogico è bello e digitale è brutto, ma invece non è così, la questione è più affettiva quasi, più di cuore, in realtà quasi nessuno dei musicisti che compaiono rinnegano con forza l’avvento dei PC e della tecnologia, anzi, quasi tutti ne hanno fruito consapevolmente, ma in tutti c’è sempre forte questa necessità quasi ancestrale, primitiva, di tornare al centro, al nucleo, rimuovendo tutto ciò che potrebbe risultare posticcio.

Ora, quando qualche giorno fa ho iniziato ad ascoltare 9 Useless Tunes, la mente non ha potuto non finire lì, a Sound City, non ho potuto non fare questo parallelismo, davvero, troppi punti in comune, troppe fortuite (o meno) coincidenze.

L’autore del disco in questione, Tommaso Mantelli, gestisce per l’appunto uno studio (il Lesder nda), è produttore e ovviamente musicista e, per l’occasione, ha deciso di liberarsi di qualsivoglia orpello e diavoleria, e rinchiudersi nel suo studio da solo, con un microfono ed una chitarra. Come un moderno Thoreau.

È curioso che un’idea, un progetto come questo esca proprio in questi giorni di isolamento e per molti anche di solitudine, ma ciò che ne scaturisce è un disco che trasuda passione e amore per la musica e per la chitarra, dove trova spazio un’ovvia ricerca interiore ed un grado di intimità dove tutti possiamo ritrovarci.

Gli spazi in cui si muove Mantelli sono quelli del cantautorato rock in chiave acustica (ci si sentono echi di Jeff Buckley, anche se di primo acchito la mente è corsa all’Unplugged degli Archive e alla voce di Craig Walker), come nel blues d’apertura Just Around the Bend, o nella fatalmente attuale Bitter Sweet Doomsday.

I Will Learn è un’intima e sussurrata carezza, in questi tempi incerti, mentre Which Game è continuo rincorrersi tra chitarra e voce, in un serrato saliscendi.

È un disco senza trucchi e senza effetti speciali, e nonostante ciò non annoia e non risulta ripetitivo, anzi, il finale di It Can’t Be That Bad è un tocco di magia pura e autentica, che ci porta alla conclusiva I Smile, nella quale si tirano idealmente le fila del discorso, con quel “I’m proud to say I’m happy for what I’ve done, I smile because I’m not afraid anymore, I smile for all the time I’ve spent on this world”.

Nove brani che risultano tutt’altro che inutili, per riprendere il titolo del disco, ma che ci riportano ad una dimensione musicale della quale siamo sempre meno abituati e alla quale fa bene, alle orecchie e allo spirito, di tanto in tanto tornare.

 

Tommaso Mantelli

9 Useless Tunes

Shyrec | Lesder

 

Alberto Adustini

Human Impact “Human Impact” (Ipecap Recordings, 2020)

Il 3 agosto del 1530, durante la battaglia di Gavinana, Fabrizio Maramaldo (da cui il termine di uso comune, nonché fonte di incontrollate risa tra i soldati romani di Life Of Brian dei Monty Phyton) venendo meno alle regole della cavalleria, ferì a sangue freddo e trucidò il corpo di Francesco Ferrucci, condottiero per la repubblica di Firenze, gravemente ferito durante il conflitto ed in punto di morte. In questo frangente Ferrucci pronunciò la celeberrima “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.

Ebbene in questa fase della mia esistenza, già duramente provata da queste settimane di clausura, con le difese immunitarie (figurate, s’intende) in lieve difficoltà, una psiche che talvolta vacilla, mi pareva di essere in una situazione analoga. Ora lungi da me dare del vile ai quattro ragazzi dei quali a breve scriverò, sia mai, ma ecco, se ti metti ad ascoltare un disco come Human Impact, che è cosa buona e giusta, devi essere consapevole che stai per affrontare un viaggio tutt’altro che semplice e confortevole e che difficilmente ne uscirai totalmente incolume.

È una partenza abrasiva, quella di November, disturbante, affidata a basso, batteria e synth, con la chitarra di Spencer temporaneamente sullo sfondo. Il primo impatto ricorda decisamente più ciò che erano i Cop Shoot Cop rispetto alle altre forze in gioco, anche se il frontman degli Unsane provvede comunque a fornire il suo apporto con la voce, sporca e cattiva come abbiamo imparato ad amarla negli ultimi trent’anni. 

I ritmi impazziti e le urla lancinanti nel finale di E605 sono un’eco nemmeno troppo lontana degli ultimi trascorsi degli Swans del periodo da The Seer in avanti, mentre con la successiva Protester, sincopata e serratissima, torniamo più in zona Spencer/Unsane.

È infatti da queste tre band immortali e imprescindibili, accomunate dalla provenienza (New York City) e dal non aver mai avuto grande pietà per i timpani dei propri fan, che provengono i quattro Human Impact. Tecnicamente credo sia impossibile non parlare di supergruppo in un caso come questo: come già detto Chris Spencer, col suo berretto, voce e chitarra, proveniente dagli Unsane; ai synth ed elettronica provvede Jim Coleman, ex Cop Shoot Cop; il basso è quello di Chris Pravdica, attualmente con gli Swans (ma che lo scorso anno avevo visto in tour assieme agli Xiu Xiu, e dove c’era anche Thor Harris esatto, anch’egli Swans); alla batteria Phil Puleo, fondatore con Coleman dei Cop Shoot Cop ed attualmente dietro alle pelli dei monolitici Swans.

Insomma non i quattro ceffi più raccomandabili sulla faccia della terra, e le cui esperienze, pregresse ed attuali, sommate tra di loro, fanno presagire ad un risultato ben poco rassicurante; vedasi in Portrait, con Spencer che quasi rende omaggio ai sermoni apocalittici di Michael Gira, ma dura poco, perchè le intenzioni collettive sono differenti, e ben più bellicose, qui si vogliono smuovere viscere e interiora, spazzare via ogni tipo di possibile ostacolo.

E a proposito di ostacoli, non mancano gli inciampi o mezzi passi falsi: Respirator sembra un pezzo alternative degli anni ’90 al quale è stato messo su un ritornello recuperato da vecchie registrazioni e che pare non centrare molto con l’insieme, e Cause pare continuare l’andazzo, salvo poi ristabilire l’ordine stabilito piazzando senza tanto pensarci su un finale travolgente, peccato duri troppo poco.

Consequences alza un po’ il tiro e i giri, anche se non riesco a non trovare continui riferimenti e parallelismi con quel power – electro – rock – metal anni ’90 in stile Static X, Powerman 5000. Non so se rendo l’idea.

Consci del fatto che probabilmente stavano un po’ troppo tirando la corda pronti con la travolgente Unstable, una bella cavalcata con basso in spinta continua e poi ecco This Dead Sea, con un’intro che evoca i Korn di Somebody Someone ed una batteria che ora sì ci smuove dall’interno. Sono schianti e tuoni e saette (cit.), Spencer a sparare fuori tutto dalla sua gola e martoriare le sei corde, i sintetizzatori a creare la tensione massima, per un finale di brano, e di disco, di travolgente e tumultuosa bellezza.

 

Human Impact

Human Impact

Ipecap Recordings

 

Alberto Adustini

 

Deap Lips “Deap Lips” (Cooking Vinyl, 2020)

Una mia vicina di casa aveva un’adorabile dogue de bordeaux.
Era bella, intelligente, stranamente sana (la quadrupede, suvvia). Un bassotto di un amico, sfidando leggi di fisica e natura, riuscì a donarle il proprio patrimonio genetico. I due proprietari decisero di occuparsi dei cuccioli, speranzosi che l’incrocio dei due portasse a un nuovo standard di razza.
Bene.
Dall’alto dei miei studi umanistici posso affermare con assoluta certezza che la genetica segue solo una legge certa, quella di Murphy. Che, vi ricordo, come principio primo recita: “Se qualcosa può andar male, lo farà”.
Fatta questa doverosa premessa e fugato ogni dubbio che la metafora canina sia casuale e non alluda alla qualità delle band di cui parleremo a breve, dovrei e vorrei raccontarvi la storia di un progetto, nato nel 2016 e che oggi vede la luce.
Partiamo dal principio. All’angolo rosso abbiamo le Deap Vally, al secolo Lindsey Troy e Julie Edwards, powerduo femminile piuttosto ruvido che vive in uno stato di tour infinito (hanno fatto da spalla a Muse, Queens of the Stone Age, Red Hot Chili Peppers, passando da Glastonbury al Bonnaroo), mentre all’angolo blu troviamo i pluricampioni The Flaming Lips, vincitori di tre Grammy, con alle spalle qualche milione di dischi venduti in giro per il mondo, portatori sani di psichedelia d’antan, con un brutto problema alla capacità di sintesi quando si tratta di titoli e autori di live pirotecnici. Nel loro palmares spaziano da collaborazioni con Beck, Nick Cave e Miley Cyrus fino all’OST di SpongeBob, il film. 
I gruppi si conoscono nel 2016 ed inizia un lungo corteggiamento fatto di sessioni live in Oklahoma, casa dei Flaming, e di parti registrate a distanza, dato che le due ragazze sono di Los Angeles. Le tracce da tre diventano sei, nasce la voglia di realizzare un disco e così, nel marzo 2020 vede la luce Deap Lips, album di esordio omonimo nato dall’unione dei due gruppi di cui sopra.
Ora, tralasciando per un attimo il fatto del nome (immagino il brain storm che l’ha generata, ma neanche i Monthy Python), questa nuova fusione, questo scambio musical-genetico ha portato a un salto di qualità nella tecnica di ibridazione tra gruppi?
Murphy direbbe no. Io dico che se vi piacciono i dogue de bordeaux alti venti centimetri e/o amate molto i cani state sereni, il prodotto finale vi piacerà. Se invece avete aspettative molto alte, purtroppo ci sono cattive nuove.
Fin dalla prima traccia, Home Thru Hell, si palesa il paradigma dell’album: entrambi i gruppi si snaturano in funzione dell’altro, ed è un peccato, perché le californiane sanno suonare davvero bene quando si tratta di farlo entro certi confini di genere, e gli altri, beh, gli altri sono dei giganti. I Flaming Lips, ad esclusione di Hope Hell High e Motherfuckers Got to Go, prendono in mano la scena, entrando e uscendo dalle trame sonore, ma restando, di fatto, il telaio che regge il tutto, se mi passate la metafora a tappeto. Anzi, il disco intero, col passare delle tracce, sembra scivolare sempre più verso una contaminazione psichedelica che prende il sopravvento sulla parte più garage e blues del duo losangelino.
Ripeto, è un peccato, perché le premesse parevano ottime. All’atto pratico l’ascolto risulta ripetitivo, a tratti forzato, soprattutto nel continuo inserimento di parti e suoni tipicamente “flamingosi”, che inquinano o spezzano onesti riff di chitarra e tentativi di costruire tracce più classiche e meno barocche.
Rimandati, quindi.
Gli ibridi, del resto, non sempre riescono bene al primo tentativo.

 

Deap Lips

Deap Lips

Cooking Vinyl

 

Andrea Riscossa

 

Therapy? “Greatest Hits (The Abbey Road Session)” (Marshall Records, 2020)

30 e non sentirli

 

Era il ’92 quando il mondo conosceva Nurse, il primo disco major dei Therapy?, trio nordirlandese che festeggia nel 2020 i trent’anni di vita.

Da sempre di difficile catalogazione, caratteristica che al giorno d’oggi suona più come un vanto ed una stella al merito, questo Greatest Hits (The Abbey Road Session) intende raccogliere, a mò di Bignami, i dodici brani che Andy Cairns e soci hanno piazzato nella top 40 britannica, decidendo però di risuonarli ad Abbey Road, in una sorta di ritorno al presente, per brani, come appunto l’opening track, Teethgrinder, che faceva bella mostra di sé nel già citato Nurse.

Partenza schizofrenica, con Neil Cooper a mettere a dura prova il rullante, mentre Screamager ci riporta in territori più punk. I giri tornano a salire su Opal Mantra, con fendenti di chitarra taglienti e ficcanti e non puoi non sorprendenti di quanto fresca e attuale suoni una canzone come questa, che di anni ne ha più di venticinque.

Turn è il primo asso calato dai Therapy?, estratto da quel Troublegum, (probabilmente) il loro punto più alto, sicuramente dal punto di vista commerciale, anche se Nowhere non è da meno, anzi (cosa non fa Cooper in sto brano!), e non puoi non percuotere ogni cosa ti capiti a tiro e cantare “going nowheeere”.

Si salta convinti anche con Trigger Inside, durante il quale si apprezza più che altrove lo stato di salute eccellente (no pun intended) della band e l’ottima resa di questo pseudo live.

Die Laughing vede l’ingresso in scena dell’unica guest del disco, James Dean Bradfield, Mr. Manic Street Preachers, per passare poi ai poliritmi sfrenati di Stories, uno dei momenti più alti del disco.

Loose fa da antipasto per rendere omaggio ad uno dei gruppi a cui i Therapy? sono più legati (ed anche il sottoscritto), ovvero gli Hüsker Dü, con una Diane meno disperata ed arresa forse, ma non sfigura affatto.

Il giro mozzafiato di basso di Church of Noise per una tirata in apnea di tre minuti e la cavalcata punk di Lonely, Cryin’, Only suggellano quella che sulla carta ha i crismi di un’antologia (e che antologia!), ma che nella realtà dei fatti ci mostra i Therapy? che prendono la carta d’identità e ce la strappano davanti agli occhi.

 

Therapy?

Greatest Hits (The Abbey Road Session)

Marshall Records

 

Alberto Adustini

Anna Calvi “Hunted” (Domino Recording Company, 2020)

Ma perché, mi chiedo io, perché? Hai fatto un disco pazzesco, uno dei miei preferiti del 2018, e decidi di riprenderlo in mano, riarrangiarlo, e pubblicarlo e nemmeno due anni di distanza…

Perché?

Vediamo, forse perché se ti chiami Anna Calvi ne verrà comunque fuori un gran disco. E se decidi di avere anche compagnia, beh, ancora meglio. 

Scrivere di questo Hunted, avendo nei mesi scorsi consumato il fratello maggiore Hunter mi fa strano, lo ammetto, e partivo un po’ prevenuto. Come spesso mi accade per le ristampe, edizioni deluxe, remasterd, unplugged e via discorrendo. Sono snob. O qualcosa di simile, lo so.

Poi però i fatti amano sorprenderti, anzi, sbatterti in faccia la realtà e dimostrarti una volta di più che certi preconcetti, certi giudizi avventati e aprioristici sarebbe la volta buona di lasciarseli alle spalle e pensare che non sono solo operazioni commerciali, o riempitivi, tappabuchi, uscite senza pretese in periodi di magra ispirazionale (non sono sicuro dell’esistenza di questo termine, avviso).

Prendiamo proprio Swimming Pool, la prima di queste sette rivisitazioni, che si presenta qui in versione scarnita, spoglia degli archi e degli altri orpelli rispetto alla versione originale, con un semplice arpeggio di chitarra che trova sostegno nel controcanto celestiale di Julia Holter, ora solo coro, ora intermezzo, ora seconda voce. Sono già brividi.

Lo aveva annunciato la Calvi stessa che uno dei motivi principali di questo Hunted era, nelle sue intenzioni, quello di riportare questi brani alla loro forma archetipale, un ritorno all’essenza per così dire.

Per una Swimming Pool resa celestiale dal duetto con la Holter, una Hunter nella quale Anna torna ad arrangiarsi, regalandoci una versione più disturbante e notturna ed una successiva Eden che, devo ammetterlo, preferisco qui che su Hunter; saranno i bisbigli di Charlotte Gainsbourg, sarà l’ipnotico finale, non lo so, ma questa è poesia. Alta. Punto.

Away è così ridotta all’essenziale che per lunghi tratti sembra quasi a cappella, con la voce riverberata, una chitarra acustica che compare, si allontana, torna a far capolino, per accompagnarci dolcemente, con garbo, lontano.

Se mi avessero chiesto prima “Abbiamo qui Courtney Barnett, che dici? Quale canzone potremmo farle fare in duetto con Anna?” avrei risposto senza indugio Don’t Beat The Girl Out Of My Boy. Ed infatti. Una chitarra, elettrica il giusto, per una versione che sarebbe stata bene addosso alla PJ Harvey del periodo Dry/To Bring You My Love, un po’ acida, un po’ sporca, un po’ cattiva. Brutta no.

Wish era invece quella che aveva attirato più della altre la mia curiosità, non foss’altro per la presenza, ingombrante, inutile negarlo, di Joe Talbot, voce degli Idles (per i quali confesso avere una grande simpatia. E profondo rispetto. Mi piacciono in parole povere). E nemmeno sta volta riesco a rimanere neppure un pizzico deluso. O indifferente. No. Parte quasi bofonchiando, Joe, ma neanche trenta secondi e ci pare di essere quasi in piena no wave newyorkese, con echi nemmeno troppo lontani di Alan Vega e dei suoi sbalzi umorali improvvisi, infatti d’un tratto ecco il dolce duetto, quasi sognante, ma dura poco, poi è di nuovo ossessivo il riff principale, dal quale emergono fendenti di chitarra che dai Suicide portano dritti ai Velvet Underground, giusto per non cambiare città. Poi torna la quiete, ci pensa Anna, a riportare la calma, a condurci dolcemente in fondo.

Il finale, gran finale, con Indies or Paradise, mi ha portato a fare un parallelismo istantaneo con un video che ho visto qualche tempo fa, con protagonista un’altra guitar hero, ovvero St. Vincent. In questo video parla dei suoi riff preferiti, quelli che avrebbe voluto scrivere, e via discorrendo. Ad un certo punto, verso la fine, inizia a suonare, chitarra e voce, Fort Six & 2 dei Tool. Recuperatelo e poi ascoltate appunto Indies or Paradise e ditemi se non parlano la stessa lingua. A ste latitudini i 4/4 non si sono mai visti, Anna ci propina un campionario di altissimo livello, sembra andare a braccio, ora canta, ora sussurra, poi bisbiglia, esplode, s’inarca e si accartoccia, fa un po’ quello che le pare. Ed è magnifico.

 

Anna Calvi

Hunted

Domino Recording Company

 

Alberto Adustini

Henrik Lindstrand “Builder’s Journey” (One Little Indian, 2020)

Henrik Lindstrand, già membro del gruppo alternative rock danese Kashmir, è un compositore svedese di musica contemporanea neoclassica e di colonne sonore per il cinema.

Builder’s Journey è il suo terzo album da solista: dieci brani composti ed eseguiti al pianoforte, ideati per la colonna sonora di un videogioco, LEGO Builder’s Journey per l’appunto.

Un progetto peculiare, questo, ma al cui richiamo emotivo non ha saputo dire di no: “[lo studio di produzione, NdR] Avevano ascoltato il mio primo album da solista Leken e mi chiesero se fossi interessato a comporre la colonna sonora per il videogioco. Mi sembrò un’idea vincente, e dato che ero stato un bambino costruttore con i LEGO io stesso, aveva anche un forte elemento nostalgico per me.”

Ascoltando l’album si ha la sensazione immediata di entrare nella realtà aumentata di un ricordo dell’infanzia. Puoi rivederti toccare curioso i tuoi giocattoli preferiti ed interromperti ad osservare lo spazio oltre il vetro di una finestra, alla ricerca di nuove trame e personaggi.

Come i LEGO, le tracce di Builder’s Journey si completano dando vita ad un arco temporale sospeso, scandito dalla fine di un gioco e l’inizio di un altro mentre si aspetta il ritorno dei genitori a casa.

Lindstrand alterna gli ambienti intimi di brani come Our House e Kid and Dad Reunited, agli spazi all’aperto ed eterni di Sand Castle e Campfire.

Dad at Work è il brano più dinamico e asincrono, la batteria ti coglie di sorpresa.

Ascoltando Builder’s journey, il brano che ha anticipato l’uscita dell’album, non stiamo sbirciando dal finestrino di un auto una foresta di aghifoglie nel nord Europa?

Il suono delicato del pianoforte, perno centrale dell’album, pervade gli spazi abitabili di Builder’s Journey e restituisce la percezione di un luogo serafico. L’ ambiente sonoro, ricercato ed idillico, che avvolge le tracce suggerisce la visione di una luce diffusa e diurna mentre due mani piccole afferrano quei mattoncini di plastica.

La sensibilità di ogni traccia porta l’ascoltatore lontano ma dentro a qualcosa che ha già vissuto. Così la mancanza di parole viene colmata dal suono dei nostri pensieri a ritroso. A tal proposito, Lindstrand racconta di aver cercato di rendere la musica autonoma ed completa in modo che non risultasse un anonimo suono di background e compensasse la mancanza di dialogo nel gioco.

Builder’s Journey è un album tattile, generativo ed introspettivo. Brani come Gameshow e The factory stimolano un’esigenza creativa che affiora ad ogni nota sospesa. Home alone, Light Brick ne affermano la natura intima e nostalgica.

In conclusione, questo disco non è semplicemente la colonna sonora di un videogioco, ma un’opera che testimonia il grande talento di Lindstrand nel dare respiro ad immagini riconoscibili ed universali.

 

Henrik Lindstrand

Builder’s Journey

One Little Indian

 

Giulia Illari

I Deux Alpes e l’eleganza dell’elettronica

Siamo agli sgoccioli di questo inverno indubbiamente difficile e non c’è niente che possa aiutarci a stare meglio più della musica, in particolare quella che ti fa ballare e alla fine dell’ascolto ti scorre nelle vene.

Non sembra, quindi, essere un caso che proprio a fine Febbraio esca Casa Mia, il nuovo singolo dei Deux Alpes, duo elettronico di Milano.

Se, tuttavia, dall’elettronica ci aspettiamo un sound da discoteca, con un brano che gira tutto intorno alla propria esplosione, non è questo quello che troveremo in Casa mia, che sin dal primo ascolto si presenta come un brano introspettivo, quasi intimo, che incanta grazie al basso e alla batteria e, soprattutto, alla voce di Marta Moretti dei Tersø. 

La prima parola che viene in mente ascoltando il pezzo è “ipnosi”, intesa come allontanamento dalla propria dimensione per immergersi nella scoperta del ricordo e di se stessi. Insomma, Casa mia trasporta chi l’ascolta in un limbo in cui i suoni che compongono la melodia scandiscono una serie di immagini incisive ma semplici, senza troppi fronzoli.

La cosa che, a mio parere, contraddistingue il mood dei Deux Alpes (così come la loro musicalità) è sempre stato l’essere unici. È difficile, almeno per me, trovare qualcuno che in questo momento, nel panorama italiano, usi e manipoli la musica come fanno loro. Questa unicità rende certamente più difficile la piena comprensione del loro progetto al primo ascolto perché crea, sicuramente, una sorta di straniamento tale per cui è necessario non solo un secondo ascolto, ma anche una certa attenzione.

 Forse già dal nome è evidente, come lo è sempre stato, che i Deux Alpes appartenessero ad un immaginario d’oltralpe, ad una musicalità nordica. Ma con questo brano hanno definitivamente sancito il loro essere europei tanto che neppure la lingua distrae dal fatto che starebbero davvero benissimo sul palco di un festival francese o danese. Non è infatti distante dall’eleganza che caratterizza le produzioni nordiche, così come la voce di Marta suona quasi come un inno su cui perdersi, sognare ed entrare nell’immaginario onirico tipico di quei luoghi.

I Deux Alpes, anche in lingua italiana, sono quindi un progetto sicuramente ricercato e intelligente, certamente non pop. Il che, sia ben chiaro, nel loro caso non può essere che un pregio. 

Casa Mia, infatti, è un gioiellino intenso ed espressionista, più adatto ad un ascolto intimista e solitario che ad un viaggio in macchina con amici. Ma, nella sua componente essenziale, resta un brano bello, puro, attento e ragionato. Uno di quelli da mettere per impressionare, uno di quelli che, alla lunga, entrano di merito nel bagaglio musicale di un ascoltatore.

È, quindi, ben lontano dalla musica di alto consumo, dalle rotazioni continue in radio accanto a Gabbani o dall’essere adatto a tutti, ma è sicuramente questa la sua dote più accentuata, il suo asso nella manica.

In questo momento in cui tutto è adatto a tutti e davvero poco resta, infatti, sono certa che i Deux Alpes, con questo brano, siano riusciti a creare qualcosa che rimanga, forse non a tutti, ma sicuramente a chi sarà disposto ad ascoltarlo davvero.

 

Mariarita Colicchio

Non Voglio Che Clara “Superspleen Vol. 1” (Dischi Sotterranei, 2020)

Attenzione, maneggiare con cura! Avete tra le mani, o nelle orecchie a seconda, un signor disco, tra i più belli sentiti in questo primo scorcio di 2020, a parer mio.

Superspleen Vol. 1 dei Non Voglio Che Clara è un disco malinconico il giusto, arreso ma non troppo, con picchi di scrittura immaginifici. E mi sto trattenendo. Prendete la conclusiva Altrove/Peugeot, intorno al minuto 2:20: quel cambio di registro, quella virata quasi agnelliana (nel senso di Manuel, non dell’animale), “è un dolore passeggero che si cura col veleno”, il finale che gli Slowdive direbbero well done guys! Da mozzare il fiato. La rimando in loop da settimane.

È un disco dal peso specifico rilevante, è un disco non immediato seppur facilmente fruibile, frutto di un linguaggio ricercato, soppesato, ma non aulico. Per fare un parallelismo stareste leggendo un Erri de Luca, o un Culicchia, non Gesualdo Bufalino ecco. 

Canzoni che sono sguardi, spesso all’indietro, talvolta al presente, di rado al futuro, verbi quasi sempre coniugati al passato, pop d’alta classe, con aperture più radiofoniche, come ne La Croazia o San Lorenzo, o i tempi più dilatati di Ex-Factor, passaggi nei territori dell’indie contemporaneo di Epica Omerica, ma ci sono idee e linfa nuova lungo tutto questo disco, come quando si sdrammatizza ne Il Miracolo o si ammicca agli anni ’80 con La Streisand.

Probabilmente il passaggio focale del disco sta in Liquirizia, che mi piace pensare sia stata posizionata a metà disco proprio per questo, “e il gusto dolce amaro della liquirizia”, è il clima generale che si respira e che permea queste dieci riflessioni, queste dieci diapositive, appese al muro, che Fabio de Min e i suoi sodali, osservano, con il giusto distacco, senza sprofondare nei ricordi, senza lasciare il passo ai rimorsi, ma con una consapevolezza nuova, più fresca, più sincera.

Credo che questo Superspleen vol. 1 sia il classico caso di disco hic et nunc, per quanto mi riguarda, perché i Non Voglio Che Clara mi girano attorno da sempre, come satelliti, ma per questioni orbitali o altro non avevo mai inviato una stazione spaziale a studiarne la composizione (ok ok, la smetto). E sì che di occasioni, voglio dire: i loro primi dischi con l’Aiuola Dischi, quando per me quell’etichetta era quasi esclusivamente Babalot o Arte Molto Buffa, e la loro provenienza geografica, a pochi chilometri da casa mia, e quella scena indipendente con Valentina Dorme, i mitici Es e molte altre band oramai di culto, ma mai una volta che fosse scattato il fatidico colpo di fulmine.

Fino a qualche settimana fa. Ora Superspleen vol. 1 è entrato a pieno regime nelle rotazioni di queste settimane di smart working e forzata reclusione, “E di cantare chissà quando smetterò”, ci si domanda su Superspleen… Ecco, non a breve, per quanto mi riguarda, anche perché prima vorremmo il vol.2.

 

Non Voglio Che Clara

Superspleen Vol. 1

Dischi Sotterranei

 

Alberto Adustini

THINKABOUTIT “Marea” (Totally Imported, 2020)

È un viaggio musicale, quello che ci propongono i THINKABOUTIT con Marea, il loro nuovo album uscito a quattro anni di distanza dal loro ultimo lavoro in studio. Tutto il tempo trascorso, tutta la fatica e la ricerca stilistica fatti dal collettivo sono tangibili in queste 16 tracce, che un po’ si discostano dalla loro musica precedente. 

Anticipato dai due singoli Arturo Gatti e I Fly High, che già lasciavano presagire il cambio di rotta da parte del collettivo barese, Marea si presenta come un disco decisamente eterogeneo, che passa dall’elettronica alle chitarre, con anche diversi richiami al jazz. 

Tornando alla metafora del viaggio, troviamo tracce come Tokyo o Adriatico che, a dispetto del nome, sembrano voler trasportare chi ascolta proprio in un locale jazz degli Stati Uniti, uno di quelli dove trombe e sassofoni dominano la scena. Al contrario, canzoni come 2008 ricreano un’ambientazione pittoresca del Sud Italia.

Sulla stessa scia troviamo anche Leave This Place, dove invece sono le parole a farci pensare al viaggio, o forse più a una fuga per inseguire i propri sogni. “Grab your dreams and drive away, put ‘em in your suitcase and never look back”, cantano all’inizio del pezzo. 

Il brano più particolare di tutti però è sicuramente Parlesia, realizzato in collaborazione con il pianista e compositore Mario Nappi. Il titolo si riferisce al gergo tipico dei musicisti napoletani e allora, su una base di pianoforte, ad una prima parte in inglese si accosta una seconda in napoletano, senza forzature o stranezze, come se fosse il proseguimento più naturale del mondo.

Un’atmosfera mediterranea si mischia dunque a sonorità internazionali, accentuate anche grazie al passaggio dall’italiano all’inglese nei testi. Una scelta azzardata forse, ma che nel complesso funziona e rende le canzoni quasi “cinematografiche”, nel senso che potrebbero funzionare bene come la colonna sonora di qualche film indipendente. 

Marea è quindi un album decisamente evocativo, che fin dal primo ascolto riesce a trasmettere immagini nitide attraverso parole e musica, che nella maggior parte dei brani tende a fare da padrona. 

Sono proprio queste immagini a funzionare da collante tra canzoni così diverse tra loro; il fil rouge che accompagna l’ascolto.

 

THINKABOUTIT

Marea

Totally Imported, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Califone “Echo Mine” (Jealous Butcher Records, 2020)

Un nuovo album dei Califone è sempre e comunque una splendida notizia.

Provenienti da Chicago e attivi dal 1997 (dopo la dipartita dei sensazionali Red Red Meat), per questo ottavo lavoro sulla lunga distanza, in formazione “a tre”, con Ben Massarella, Brian Deck ed ovviamente sua eminenza Temistocles Hugo Rutili (per gli amici Tim), i Califone ci consegnano un disco che ci ricorda, semmai in questi sette anni di quasi silenzio ci fosse venuto qualche dubbio, che siamo di fronte a dei fuoriclasse. Punto.

Vi basteranno poco più di 60 secondi per concordare con me, un’intro di chitarra, qualche manipolazione, e poi l’inconfondibile incedere califoniano (non manca una erre, sia chiaro), una spruzzatina di slide guitar, quel pseudo blues strascicato, e la voce di Rutili a trascinarsi (e trascinarci) da vent’anni e più. Siamo sempre nei territori cari ad Heron King Blues, ma si sconfina spesso, senza pudore e senza remore, già con il ritmo folle (per gli standard compassati dei nostri, s’intende) di Bandicoot, con sfuriate di Hammond e divagazioni decisamente colorite. 

La successiva, mirabile, Night Gallery/Projector, in maniera del tutto inaspettata ma perfettamente naturale, evolve in un finale quasi “kosmik”, per lasciare il passo alla strumentale Howard St & The Beach Nov 1988 After 11, dove è Ben Massarella e le sue percussioni a tenere la rotta prima di accompagnarsi all’organo verso il finale. Si sperimenta ancora, come in Carlton Says: Find it. It’s Still There con l’apparizione di una registrazione di una voce femminile, o nella minimale Flawed Gtr.

I quasi sette minuti di Echo Mine, il brano che dà il nome al disco, sono tra i più ispirati dell’intero disco, e costituiscono davvero la perfetta fotografia di quello che i Califone rappresentano, l’incedere lento, cadenzato, uno tappeto sonoro ora scarno, ora più intrecciato, la melodia incerta che si intreccia ad intromissioni rumoreggianti, e la voce di Tim a suggellare un piccolo miracolo.

I Califone hanno deciso di tenersi i botti alla fine, pare di capire; Snow Angel V1 è una gemma chitarra e voce, che in certi passaggi mi ricorda i 16 Horsepower di Sackcloth ‘n’ Ashes, con un coro a far capolino e a rendere tutto più struggente. By the Time the Starlight Reaches Our Eyes pare citare certi momenti del Tom Waits di Bone Machine, per poi espandersi e dilatarsi in un lungo crescendo strumentale.

I titoli di coda giungono con Snow Angel V2, versione “elettrica”, chitarra + basso + batteria di Snow Angel V1, che in questa veste diventa quasi una ballad in salsa Califone.

Gran bel disco questo Echo Mine che ci regala dei Califone ancora in piena fase creativa, a rimarcare che l’universo creato da Tim Rutili e compagnia, già sconfinato, è ancora in espansione.

 

Califone

Echo Mine

Jealous Butcher Records

 

Alberto Adustini

 

Green Day “Father of All Motherfuckers” (Reprise Records, 2020)

2020 Ritorno al futuro

 

L’adolescenza è una situazione transitoria nella vita di tutti, eppure mentre la vivi sembra non finire mai. La ribellione la fa da padrone, verso la famiglia, la scuola, la società. 

Chi ha vissuto gli anni ‘90 come adolescente ricorda quanto eravamo incazzati e rissosi. Non volevamo saperne di adattarci alla società e la musica era il nostro mezzo per comunicare questo disagio.

Grazie alla “new punk explosion”, ossia la corrente di pop punk iniziata proprio durante quegli anni, la rotazione giornaliera di MTV era piena di gruppi capitanati da personaggi strambi, che urlavano inni all’apatia e al disagio verso il mondo. Nelle nostre menti risuonavano i NOFX, Offspring, Pennywise, Rancid, ma la band che più ha caratterizzato la scena pop punk di quegli anni son stati i Green Day.

Nel ‘94 esplose Dookie, terzo album di questo trio di pazzi furiosi, ma fu Basket Case il brano più iconico della band.

Per tutti quelli che son cresciuti al grido di “Sometimes I give myself the creeps, sometimes my mind plays tricks on me” l’uscita del nuovo disco di questo gruppo è un po’ come la telefonata di un ex fidanzato che non senti da anni. 

Father of All Motherfuckers (letteralmente Padre di Tutti gli Stronzi) è la rappresentazione di quello che sono stati i Green Day per noi adolescenti problematici che son cresciuti con quel tipo di rabbia che non svanisce con l’età adulta, ma rimane dentro e si ripercuote nella vita di tutti i giorni.

La paura maggiore (per gli amanti del genere e della band) era trovarsi davanti un Billie Joe Armstrong cresciuto e cambiato. Ma ci sorprendono sempre ‘sti pazzi, e questo nuovo lavoro musicalmente non è molto lontano dalle loro sonorità e contiene testi significativi.

Il brano di apertura (che prende il nome dal disco) possiede un’alone indie rock, e con la frase “I live inside of us” sintetizzano al meglio quasi trent’anni di carriera.

Le schitarrate indie rock proseguono nei brani seguenti Fire, Ready, Aim, Oh Yeah (“I am a kid of a bad education” e noi voliamo) e Meet Me On The Roof.

Si ritorna alle radici punk con I Was A Teenage Teenager, l’intro composto dal basso e voce ci fa rivivere l’adolescenza, le crisi di nervi, l’insicurezza e la nostra maleducazione civica.

Stab in you heart è un omaggio al rock’n’roll, con cori, giri di chitarre ed assoli tipici del genere. Sembra di trovarsi nella scena di Ritorno al Futuro dove Marty intona Johnny B. Goode davanti alle espressioni attonite dei presenti.   

La vecchia sensazione di essere dei perdenti che non fotteranno mai la reginetta della scuola continua a perseguitarci anche da adulti, e in Sugar Youth riversano tutto la loro voglia di scatenare l’inferno. 

Junkies On a High oltre ad essere coerente con il loro stile (ci ricorda vagamente Boulevard Of Broken Dreams)  è  il manifesto della concezione di vita per Billie: “My downward spiral / Rock’n’roll tragedy / I think the next one could be me / Heaven’s my rival / I sing in revelry”. Molti perbenisti odieranno questa canzone, dove vi è quasi un invito ad assumere droga, a lasciare che il mondo vada a puttane senza muovere un dito.                                  

I Green Day sono l’emblema della rabbia giovanile e dell’abuso di qualsiasi sostanza, li ritroviamo anni dopo, sempre pronti a farci scatenare con pezzi ritmati. Il disgusto per il mondo non è cambiato, ma ha lasciato il posto ad una strana consapevolezza di quello che è stato, senza rinnegare gli errori commessi e il bisogno di esprimere sentimenti quasi mai positivi.                                                                                                     

Questo album è un ritorno alle origini musicalmente parlando, il riassunto di una vita passata a sbroccare sul palco, a vomitare disagio. Sono stati un supporto alla nostra adolescenza, ci hanno tolto la solitudine e regalato comprensione. Ora che siamo adulti ci stanno comunicando che loro son qui, e non intendono abbassare la testa.

 

Green Day

Father of All Motherfuckers

Reprise Records

 

Marta Annesi

 

Nada Surf “Never Not Together” (City Slang, 2020)

IndieVirus

 

Il vero amante delle serie TV è quello che si affeziona anche alle colonne sonore. E ci sono delle canzoni che ti rimangono dentro tuo malgrado, perché sono legate all’emozione che, empaticamente, ti ha stimolato la scena del telefilm.

Ecco, per me è stato con i Nada Surf in O.C. con If You Leave e in vari episodi di How I Met Your Mother.

Una band che venne inserita nella rotazione di MTV con Popular nel 1996 (brano che rappresentava un’aperta critica verso i giovani, diventata hit estiva) non è mai riuscita a sfondare del tutto, sopratutto dopo che l’etichetta discografica li scaricò per divergenze stilistiche.

Il loro inizio alt-punk-rock simil Sonic Youth si è lentamente avvicinato al pop, tramutandosi nel corso degli anni (e delle mode) in una band indie rock. 

Il loro nuovo lavoro, Never Not Togheter, nono album della band statunitense, esce a distanza di quattro anni dal precedente You Know Who You Are.

Ormai lo spirito dell’indie li ha completamente infettati: alternando saggiamente ritmi rilassati a suoni più accesi, creano un ambient rilassato come in So Much Love, la canzone di apertura dell’album.         

I brani sono caratterizzati dalla presenza di un buon sound, interessanti le chitarre e i rullanti tosti della batteria.                                          

Un ritorno alla parte infantile e ai sentimenti genuini, questo è il frutto di anni di conoscenza, di impegno e sacrificio. La squadra composta da Matthew Caws, Ira Elliot e Daniel Lorça sembra aver trovato la sua vera nicchia.

L’ingenuità con cui inizia Looking For You e l’elettrica alla fine, la dolcezza di Crowded Star e quel riff di chitarra semplice ma ipnotico, sono dei validi motivi per ascoltare questo album.                                                                                            

La voce delicata di Caws, in contrapposizione con chitarra e batteria, crea un mix piacevole e accattivante in Mathilda.                                                                              

Questo loro nono album insegue un’idea di musica abbastanza commercializzabile, un’indie rock sentimentale, delicato, con riferimenti elettropop (come in Come Get Me e Something I Should Do).

Musicalmente preparati, è tangibile il loro feeling, come gruppo e come esseri umani.

Un album piacevole da ascoltare, anche se alcune volte ricade nello scontato. Per noi, nulla di nuovo, ma apprezzabile a livello di musicalità.

Sperando che questa sia la volta buona per questi artisti, che abbiano finalmente trovato il loro equilibrio e la loro vocazione.

Che l’Indie Rock Sia Con Voi.

 

Nada Surf

Never Not Together

City Slang

 

Marta Annesi