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Tag: recensione

Toothgrinder “I AM” (Spinefarm Records, 2019)

Mascelle serrate e denti digrignanti

 

La notte non porta sempre consiglio, alcune volte provoca forti attacchi di bruxismo, soprattutto in periodi stressanti o in condizioni patologiche di abuso di sostanze eccitanti (fumo, alcool, droghe, caffeina). 

I Toothgrinder volevano comunicare questo con la scelta del loro nome: un metal graffiante, velenoso, virulento; un’offensiva al nostro sistema nervoso, con uno stile che ci getta in un mondo fatto di growl, batterie incalzanti e assoli allucinogeni.

Nel 2010 cinque ragazzi in una high school del New Jersey decidono di metter su una band per urlare il loro disagio generazionale, e nel giro di un anno esce il loro primo EP Turning of the Tides, seguito da altri due EP prima di arrivare alla svolta, nel 2016 con l’album Nocturnal Masquerade e nel 2017 con Phantom Amour.

I brani con cui hanno esordito sono colmi di scream e di testi duri, puro posthardcore, per subire una trasmutazione con l’avvento dell’età adulta e della consapevolezza di sé. 

Come un fiume nasce dalla fonte e affronta anse tortuose e rapide improvvise prima di sfociare nel mare, questa band ha acquisito una maturità stilistica che ha permesso di sfruttare questo genere musicale non solo per comunicare rabbia e frustrazione, ma soprattutto per trasmettere una visione di cambiamento e di crescita passando gradualmente a toni più pacati, più melodici, senza però modificare la loro natura metalcore.

Questa trasformazione li ha portati alla produzione di I AM, un album complesso, composto da undici brani che sembrano ripercorrere i vari stadi della loro evoluzione. 

Il frontman Justin Matthews lo ha definito come un viaggio per l’accettazione di sé, un percorso ad ostacoli, costellato di errori, di scelte sbagliate, di cattive abitudini nelle quali riversare il disprezzo e la disillusione adolescenziale.

Le intenzioni sono chiare sin dal primo brano, The Silence of a Sleeping WASP. Le doti vocali del cantante ci trasportano nella loro visione di progressive metal, fatta di growl mista a passaggi melodici delicati accompagnati da un sottofondo musicale fortemente posthardcore.

La dolcezza della voce di Justin è straziante nei brani ohmymy e My favorite Hurt, ed unisce testi intimi che parlano di solitudine, di dolore ma anche di amore. Con un timbro che, in alcuni passaggi e soprattutto nel terzo brano, scade nel pop,  riprende lo stile heavy sul ritornello con assolo di chitarra a dir poco sbalorditivo: una bivalenza che ricorda molto Corey Taylor (Slipknot e Stone Sour), unito ad uno stile molto Deftones. 

L’album continua alternando pezzi melodici a brani dalle sonorità coriacee. Una montagna russa di emozioni dove si passa dalle lacrime al pogo sanguinolento, come per The New Punk Rock e too soft for the scene, TOO MEAN FOR THE GREEN, pezzi ritmicamente metalcore, caratterizzati da  growl e headbanging a volontà. 

Gli ultimi due brani (Can Ü Live Today? e The Fire of June) sono un ritorno alle loro origini, un progressive metal che sfocia nel nu metal, come per ribadire il forte attaccamento allo stile con cui sono nati. Si cresce, si cambia, ma quel che siamo stati non ci abbandona mai. 

I AM è l’ultimo pezzo dell’album. Scelta tattica del gruppo, forse, visto che in esso risiede il senso più profondo di tutto il loro lavoro. Il testo incarna un mantra, “io sono…”, che spinge a far pace con il passato, con gli errori commessi; porta a concedere un’ulteriore possibilità a noi stessi, imparando dalle debolezze a essere più forti. Quello di cui abbiamo bisogno risiede già dentro noi, dobbiamo solo trovare un modo per riscoprirlo. Tutti possiamo raggiungere il riscatto emotivo che meritiamo solo attraverso l’amore (Love will conquer all). 

Attraverso uno stile musicale notevole e mutevole l’album trabocca di tutte le emozioni umanamente concepibili, una catarsi personale coinvolgente che dona speranza e sano metalcore spaccatimpani.

 

Toothgrinder

I AM

Spinefarm Records, 2019

 

Marta Annesi

 

The Devil Wears Prada “The Act” (Solid State Records, 2019)

Sacro & Profano

 

Mai giudicare un libro dalla copertina, sia in senso metaforico, che in senso pratico.
The Devil Wear Prada, gruppo originario di Dayton, in Ohio, hanno l’aspetto tipico dei metallari ribelli: capelli lunghi, tatuaggi, abiti neri, rabbia che sprizza da tutti i pori. Eppure, sono uno dei maggiori esponenti del Christian metal. Ferventi cristiani, hanno intitolato un loro album 8:18 come riferimento ad un passo biblico della Lettera ai Romani di Paolo di Tasso.

La scelta del nome è nata come una cantonata: ispirati dal titolo del libro dell’autrice statunitense Lauren Weisberger, volevano comunicare un messaggio anti-materialistico, peccato però che ne abbiano frainteso completamente il senso. Una volta scoperto di aver preso un granchio, si sono però rifiutati di cambiare nome decidendo di creare un nuovo significato dietro al nome della loro band.

Formatisi nel 2005, hanno subito riscosso successo sia nell’ambiente del metal cristiano che nella scena metal in generale, fondendo due mondi apparentemente sconnessi, portando la dottrina cristiana all’interno dei loro testi e usando questi insegnamenti per combattere la depressione e lo scoraggiamento verso la vita.

(Certo è che se mia nonna, durante la messa domenicale, trovasse questi quattro tipacci coi capelli lunghi e pieni di tatuaggi intenti a cantare Osanna rimarrebbe un pochino sconvolta)

Dopo sei album registrati in studio, un live e due EP all’attivo, tornano con un album nuovo, The Act. Sperimentale, innovativo, molto diverso dal loro stile primitivo. Non si parla solo di crescita personale dei componenti e del loro modo di intendere la musica: qui troviamo una voglia di intraprendere strade nuove, di cimentarsi in un nuovo progetto allontanandosi dalla comfort zone del metalcore per addentrarsi in uno stile più melodico. E non solo nella composizione musicale: i testi presenti in questo nuovo album sono poetici, profondi, trasformandosi più in una lettura di poesia con aggiunta di growl e assoli di chitarra. 

La presenza di due voci, quella scream di Mike Hranica e quella melodica di Jeremy DePoyster (che imbraccia anche la chitarra ritmica) riescono a comunicare la bivalenza del gruppo.

L’album è il risultato di una sovrapposizioni di generi: hardcore punk, heavy e nu metal fusi insieme da passaggi electronic che producono in alcuni brani una sorta di electronicore melodico.

Il primo singolo, Lines Of Your Hands, mantiene le solide radici metalcore a livello di sonorità, ma il testo è una disperata preghiera, una richiesta di attenzioni e di amore verso qualcuno che si sta allontanando. La dolcezza delle parole in forte contrapposizione con l’uso dello scream e del growl tende quasi a mettere a disagio, come in generale per le band metal: non si capisce mai se stiano parlando di amore o di omicidio.

L’album tocca la delicata tematica della depressione con Chemical, chiamata così in quanto per alcuni questo stato mentale è derivato da uno scompenso chimico a livello cerebrale. Il testo e la melodia sono delicatissimi e colpiscono nelle zone più intime dell’anima: una descrizione dettagliata della depressione, come star seduti a fissare il soffitto senza trovare una motivazione sufficiente che ci faccia alzare dal letto, congelati, immobili, quando anche urlare non aiuta. Accusare una voragine nel petto e nella testa, e sentirsi ripetere che è solo chimica. Di certo non ci fa star bene, è una bugia che preferiamo raccontarci, ma mentire non ci preserva dalla sensazione di avere una belva che ci divora dall’interno. 

La loro cristianità si fa notare in Please Say No, brano contro l’abuso di droga, e in un certo senso contro ogni forma di abuso, mentale e fisico. Musicalmente presenta una base  elettronica soft, con aggiunta di chitarra e batteria, ma come classico di questo album, la canzone si fonde tra poesia e preghiera, intramezzata da picchi scream che creano un’ambiente particolare in cui sguazzare.

La bivalenza di questo gruppo lascia interdetti: si passa da una preghiera ad un potente attacco metalcore in The Thread, dove si parla della voglia di cambiare e della sensazione di non poterlo fare, come se fossimo tutti intrappolati dentro stereotipi che noi stessi creiamo. La fusione tra le voci scream e melodica è un’esperienza mistica.

Come moderni Colombo alla scoperta delle Americhe, sono riusciti ad attraccare su terre a loro sconosciute, si sono messi in gioco, producendo un album fuori dai loro schemi, abbattendo lo stereotipo stesso del metallaro.

(Però io il metal cristiano non lo capisco. Ogni volta che ne sento parlare nella mia testa parte sempre l’intro dell’ Ave Maria di Schubert versione metal, con tanto di batterie che scendono magicamente sull’altare, statue che prendono fuoco, fonti battesimali che si prosciugano e crocifissi che si capovolgono)

 

The Devil Wears Prada

The Act

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Sleepwait “Sagittarius A*” (Self Released, 2019)

L’Album de Loin

 

XII secolo, Francia.
Il poeta e trovatore Jaufré Rudel regala al mondo uno dei primi componimenti su un topos che arriverà intatto, per forza evocativa e diffusione di esperienza, fino ai nostri giorni. Lui lo chiama L’Amour de Loin, ovvero L’Amore di Lontano, quello che un quattordicenne qualunque esperimenta a settembre, quando deve separarsi dalla conquista estiva, sfortunatamente domiciliata in altra regione.

La lontananza, in amore, è un’arma ben affilata. E’ una sana palestra per l’esplorazione del sentimento nella sua essenza, ripulito e alleggerito dal peso di quotidianità, dispiaceri, fatiche. L’assenza è meditazione, la negazione diventa sublimazione.

Partiamo da qui, per parlare di un altro tipo di esperienza, nato e vissuto in e con lontananza. Un progetto che prende vita nel 2015, quando un biologo evoluzionista, Filippo Bravi, e un ingegnere meccanico, Mauro Chiulli, si trovano, rispondendo a un annuncio sul web. Inizia una collaborazione a distanza, di Udine il primo, a Bologna il secondo, che vede i Nostri lavorare al loro primo disco per quattro lunghi anni. La lontananza tra i due però è solo geografica. Hanno un terreno comune, che non ha fisicità e che si nutre di passioni e culture condivise e che è possibile rendere materico, con devozione, con lavoro, con volontà. La stessa forza che Rudel profuse nel raccontare quell’amore lontano, che lui raggiungerà partecipando alla II crociata (e, ovviamente, morendo tra le braccia dell’amata, ça va sans dire).

Qui non ci sono crociate, ma un lavoro ben confezionato, con strumenti e liriche coerenti rispetto ai riferimenti citati dagli Sleepwait nella presentazione dell’album, Tool, Mastodon, Alice in Chains. Ecco, questo disco ha il pregio di essere figlio di quel gusto, di quelle linee matematiche e quell’iconografia musicale. Ha però il difetto di essere in qualche modo chiuso in confini fin troppo definiti. Le prime due tracce ci introducono molto bene in questa strana dicotomia interna, perché se per un lato, per come è stato costruito, questo disco è un piccolo miracolo, dall’altro è a fuoco da subito. Sia chiaro, può essere un pregio, ma il gioco dei riferimenti è fin troppo palese, io amo l’ellissi.

La terza traccia è già la title track, e ci regala una fotografia piuttosto precisa di quello che poi è l’humus cui attinge l’intero lavoro: richiami alle ritmiche dei Tool, anche a livello di cambi e passaggi all’interno dello stesso pezzo. Un sapiente gioco di altalena tra l’aggro e il progressive, giocando sulle sfumature, arpeggi che sono promesse non mantenute e liquidissimi giri di basso. Il cantato passa dalla litania al gridato, giocando a nascondino tra livelli ed emotività. Maynard James Keenan docet. 

Poi accade che gli Sleepwait, dichiarati gli intenti e messe le carte in tavola, inizino a sciogliersi, come fosse un live. Curioso per un lavoro in remoto, però la mia pancia dice che le tre tracce successive, da Virgilio a Istanbul, sono le più interessanti, perché hanno più variazioni, perché sembrano aprire il ventaglio di citazioni. Giuro, ci ho sentito Tyler Bates della colonna sonora di 300.

Il lavoro prosegue poi tornando sui binari cari a Tool, A Perfect Circle, Kyuss. Il disco si appesantisce nella costruzione dei brani, forse si avvita sull’esposizione. Questo però spiega anche perché lavori come Fear Inoculum difficilmente verranno scelti per accompagnarvi in ascensore. Salvo non siate in un condominio di Ballardiana memoria.

Scrivere a distanza un album è impresa ardua, soprattutto per un’opera prima. Ai due autori il merito di aver impiegato il giusto tempo e la necessaria pazienza per confezionare un album con riferimenti chiari e di indiscutibile coerenza. La qualità c’è, si sente, si ascolta, si vede anche, nel gioco di immagini che evocano i testi. 

 

Sleepwait

Sagittarius A*

Self Released, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Nick Cave and the Bad Seeds “Ghosteen” (Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019)

Se il termine resilienza è uno dei più abusati nel linguaggio corrente, e spesso anche nella narrativa afferente al rock, mai è stato più calzante, per contro, nel caso di Nick Cave.

L’eterno Nick Cave del dolore di vivere, della lotta alle dipendenze, il Nick Cave che suo malgrado pochi anni fa ha incontrato il vero dolore e più terribile, lancinante ed irrimediabile come quello della perdita di un figlio, era riuscito a tradurre la disperazione nel capolavoro precedente, Skeleton Tree.

E se le tracce di Skeleton Tree, già comunque scritte al momento della morte del figlio (precipitato da una scogliera di Brighton nel 2015 all’età di quindici anni) una volta riadattate sono state il mesto e silenzioso grido di dolore (ossimoro voluto) a seguito di quella sconvolgente perdita, Ghosteen pare essere l’elaborazione di quel lutto. Talmente aulica e magnificente, l’ultimo lavoro del poeta australiano-britannico d’adozione, diventa difficile anche da descrivere e recensire, perché tocca corde, nodi emotivi più o meno irrisolti che tutti abbiamo.

Lo stesso titolo, Ghosteen, allude neanche tanto velatamente ad un giovane uomo che si è fatto fantasma.

Alla vigilia dell’uscita del disco, Nick Cave ha descritto questo lavoro come un punto di arrivo nella propria maturità artistica: “Il primo album sono i bambini, il secondo i genitori. Ghosteen è uno spirito migrante”. 

Sembra esserci un filo conduttore tra le atmosfere di Skeleton Tree e Ghosteen, con quei pezzi con pochissima batteria ed atmosfere evanescenti, quasi lunari, ma questo album riesce ad essere, comunque — e qui sta l’incredibile abilità di Nick Cave — un’ulteriore novità.

Apre Spinning Song, per poi virare su una meravigliosa Bright Horses, che richiama Mermaids di Push the Sky Away, passando, tra le altre, dalle ipnotiche Leviathan e Ghosteen, fino all’ultima traccia, Hollywood: più di quattordici minuti di grido disperato ma sommesso, in cui si racconta, come in una novella straziante, come se si fosse davanti ad un camino, la perdita di un figlio invocando talvolta la propria — “I’m waiting for my time to come”, con il basso che, nel sottolineare la cupezza dell’atmosfera, diventa quasi marziale. In questo lavoro Nick osa, anche vocalmente, spingendosi su falsetti piuttosto inediti (ma non per questo meno riusciti) e il violino di Warren Ellis cede talvolta il proprio ruolo usuale al pianoforte e tastiere.

Nick Cave non è un artista facile e meno che mai lo è questo lavoro, ma è l’artista che riesce a toccare le corde più profonde, qualora un animo sia predisposto all’ascolto.

La sensazione è simile a quella che si prova ad un suo live, pur senza l’impeto dei live degli ultimi anni, dove il contatto con il pubblico è voluto, cercato, fisico, necessario. Durante queste messe in cui Cave assume il ruolo di ieratico celebrante in chiave dark, spesso gruppi di fan vengono invitati sul palco ed abbracciati, persi per mano, toccati un po’ come chi, dopo avere affrontato la più tremenda delle perdite, deve sincerarsi di avere sempre, così fisicamente presente, chi è in grado di raccogliere quel dolore così meravigliosamente sublimato. Speriamo succeda molto presto, perché assistere ad un live di Nick Cave è una esperienza quasi mistica. E noi no, non ti lasciamo, Mr. Cave.

The King is back.

 

Nick Cave and the Bad Seeds

Ghosteen

Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019

 

Katia Goldoni

 

Jennifer Gentle “Jennifer Gentle” (La Tempesta International, 2019)

La band Jennifer Gentle, progetto musicale di Marco Fasolo, vanta una storia musicale e professionale molto complessa, fatta di saliscendi e di cambi di formazione frequenti a cui si aggiungono le recenti esperienze di Fasolo come produttore per band del calibro di Verdena, Bud Spencer Blues Explosion e I Hate My Village. Queste ultime possono essere considerate il valore aggiunto di questo lavoro, il quale sembra porsi come il manifesto di una maturità cercata e quindi finalmente conquistata.

Jennifer Gentle è un disco corposo, sia per quantità di materiale – 17 tracce per un’ora piena di musica – che per complessità di struttura sonora, nonché concettuale: accompagna l’ascoltatore in un viaggio fatto di molti mondi musicali diversi. Ad un certo punto forse lo abbandona, tradisce le sue aspettative, lo fa sentire smarrito, gli lascia addosso un senso di incompiutezza, lo respinge quasi. Gli chiede scusa, lo riconquista, per poi schiaffeggiarlo ancora.

Questo album è un lavoro contraddistinto da una triplice natura: sono di genere ethereal wave i primi due brani, un’intro intitolata Oscuro e Just Because, il primo vero e proprio brano dell’album; dopodiché, da Beautiful Girl in poi, ci si sposta in uno spazio ritmico completamente differente. Si ha come la sensazione di entrare letteralmente in un club della Swinging London e lo stesso avviene per il brano immediatamente seguente, Love you Joe.

Con Temptation, invece, il gioco comincia a farsi un po’ più intricato: si assiste ad una vera e propria dichiarazione di intenti musicali, di una band i cui musicisti prediligono gli strumenti, la ricerca e la costruzione del sound, forse a discapito dei testi. Il ritmo del brano è martellante, ti fa dondolare su e giù la testa, oscillare il piede di una gamba accavallata; al contempo è come se questo sound, ben connotato nei suoi stilemi di genere – British Rock degli anni ’60 – fosse soffocato da una nebbia grunge, che eleva il tutto quasi a metafora. È come se ci fosse una cupa minaccia da temere, pronta a mettere in discussione le atmosfere spensierate che risiedono alla base del brano.

Guilty, il singolo che nei mesi passati ha anticipato l’arrivo dell’album, segna un cambio di atmosfera: il sapore si fa decisamente più giocoso e il tutto è impreziosito da un gradevole giro di basso, so fucking groovy.

Arriva poi la traccia Argento, breve e solo strumentale, che fa da spartiacque tra la prima metà dell’album e la seconda. Da qui in poi le due nature, da un lato quella dreamy e dall’altro quella tamburelleggiante da british invasion, si intrecceranno per un po’ fino poi ad arrestarsi bruscamente con le tracce What in the World, More Than Ever e My Inner Self. Il tono da qui in poi si fa più esistenzialista, a tratti angosciante.

Tutto questo corredo sottolinea un album dall’identità molto sfaccettata, dotato di molte anime e non si fa in tempo a pensarlo che tutta la parte finale dell’album si pone come un concreto omaggio alla tradizione musicale per film, propria a questa band. In questa dimensione si viene accompagnati dolcemente: è Swine Herd, con la sua lunghissima coda, a svolgere infatti questo compito e a lasciarci il tempo di apprezzare la parte finale del lavoro. 

Tirando le somme, questo disco si presenta ben strutturato in ogni sua singola unità, eccezionalmente suonato, ma in conclusione disconnesso e frammentario nel racconto di se stesso, come distratto da mille piccoli e grandi stimoli circostanti.

 

Jennifer Gentle

Jennifer Gentle

Bianca Dischi/Artist First, 2019

 

Bruna Di Giacomo

 

I Boschi Bruciano “Ci Pesava” (Bianca Dischi/Artist First, 2019)

Le paure di una generazione urlate al microfono

Ci Pesava: un titolo programmatico per dodici tracce che trasudano energia ed intensità.

Ci sono anima e cuore nel primo lavoro in studio della band alt-rock cuneese I Boschi Bruciano, uscito per Bianca Dischi/Artist First e destinato a seguire il solco già tracciato dai Fast Animals and Slow Kids oppure dai Ministri nella scena rock italiana.

Il perché del titolo ce lo spiega la stessa band su Instagram: tutte le canzoni parlano di cose che, in un modo o nell’altro, a loro pesavano. Da qui nasce l’esigenza di raccontarsi, finendo però, in qualche modo, a raccontare anche un’intera generazione disillusa e spaventata da un futuro sempre più incerto.  

Gli onori di casa fatti li hanno fatti i singoli Odio e Pretese, pubblicati tra il 2018 e il 2019 e che già ci avevano presentato il mood intenso del disco. Tuttavia, Ci Pesava esordisce con Grigio, traccia piuttosto malinconica dove gli strumenti entrano in scena uno alla volta e poi si fondono. Una sola frase viene ripetuta come un mantra e ci interroga: cosa resterà di noi, ora che il passato già sta sbiadendo? 

Si continua poi con altri pezzi dove la perdita di illusioni, le ansie per l’inizio della vita adulta e l’incertezza fanno quasi da padrone e tutte queste sensazioni vengono perfettamente sintetizzate nel ritornello di Mi Spegnerò, che recita “vivere è un po’ come lavorare di domenica”. Non c’è solo pessimismo, ma anche tanta voglia di reagire, come quella che viene urlata verso la fine di Jet Lag oppure in Università, perché in fin dei conti, questo vivere disincantati, non si riesce proprio ad accettarlo del tutto.

Ci Pesava quindi presenta agli ascoltatori due anime contrastanti. Una è governata dalla disillusione, condita con un po’ di rimpianto, ed è lei che serve ad imparare a perdere e smettere di credere alle favole – come la vita adulta ci richiederebbe. L’altra, invece, risulta più decisa e in grado prendere posizione, perché, visto che questa vita non è poi così difficile, tanto vale affrontarla di petto.

Infine, dopo quarantaquattro minuti, I Boschi Bruciano fanno un bilancio delle loro esperienze (ma sono davvero così diverse dalle nostre?) con L’ultimo Istante, canzone meno rock in senso stretto ma sicuramente una degna chiusura per un disco che scava a fondo e mette a nudo. 

Le voci dominano la musica per lasciare un ultimo messaggio.

Affrontare tutto, sempre, fino all’ultimo istante.

 

I Boschi Bruciano

Ci Pesava

Bianca Dischi/Artist First, 2019

 

Francesca Di Salvatore

Of Mice & Men “EARTHANDSKY” (Rise Records, 2019)

(TIME FOR HEADBANGING)

 

Spesso i progetti, anche i più buoni, che fanno i topi e fanno gli uomini, finiscono in niente e in luogo della gioia restano soltanto dolori e stenti.”

Così recita una poesia di Robert Burns, da cui John Steinbeck ha preso spunto per il titolo del suo romanzo del 1937 Uomini e Topi, per l’appunto.

Il libro è stato d’ispirazione per il nome della band americana metalcore Of Mice & Men che ci regala EARTHANDSKY, il loro nuovo LP preannunciato dai singoli How to survive e Mushroom Cloud. 

Un album pieno di metallo, rabbia e resilienza, termine ormai di comune uso dalle teenager sui social, ma è in questo album che riscopriamo il significato più profondo dalla parola, ossia la capacità dell’essere umano di affrontare e superare eventi traumatici, assorbire un urto senza rompersi.

Il gruppo è fortemente legato al metal e all’hardcore punk con tendenze nu metal, ma nel tempo, e con i vari cambiamenti nella formazione del gruppo (per colpa di patologia cardiaca del cantante Austin Carlile, nonché fondatore del gruppo) hanno aggiunto sonorità alternative al metal, tornando poi alle origini nel momento in cui il bassista Aaron Pauley ha preso le redini  e il controllo del microfono.

Come un Cavaliere dell’Apocalisse ha ricondotto il gruppo a sonorità più dure, tipicamente metal, batterie ossessionanti e incalzanti, riff di chitarra complessi. 

Nei brani si mescola il canto death brutale e raschiato, con una voce più melodica, quasi a delineare una personalità borderline. La collera derivante dall’essere incompresi, oltraggiati e derisi si scontra con un’anima delicata e sensibile.

Questo concetto risulta limpido nel singolo How to survive, nel quale il cantante vuole darci una lezione di vita, su come sopravvivere alla sensazione di sentirci rifiutati, denigrati, un bersaglio.

Un moderno Frankenstein, scappato dall’ostilità dei concittadini, intrappolato nella torre. 

Le torce brillano nella notte, il fragore dell’odio sempre più vicino.

Ma stavolta il mostro non scappa. Non questa volta.

Scende tra la folla e si ribella. 

Vuole sopravvivere, non perire tra le fiamme.

Rifiutandosi di essere uno dei caduti, la liberazione del mostro e la rivincita sull’astio della società.

Il vero senso del metalcore è descritto in Mushroom Cloud, che rappresenta la discordanza con il modo di pensare della società che ci circonda, intrappolati in un mondo che non è come vorremmo, che giudica prima ancora di conoscere. Le catene ai polsi come schiavi deportati. Sbraitare il disappunto, la malinconia e la solitudine, strillare con tutta la voce e non percepire risposta. 

“Three, two, one BOOM: countdown to insanity. Three, two, one BOOM: ignite the fuse and immolate”, la nostra anima e psiche che deflagrano come bombe atomiche sotto il peso dell’incuria, sacrificarsi e scoppiare in faccia a chi non capisce il nostro disagio.

Questo album è un calcio sui denti per tutti quelli che non considerano il growl e lo scream come canto. Per tutti quelli che considerano l’alternative metal come sinonimo di satanismo e aggressività.

Questo album ha l’intento di alzare il velo sottile dell’ira funesta, facendo intravedere la grande emotività insita nel metal. Gridare per farsi capire, nel caotico mondo in cui viviamo. Sgolarsi, per esorcizzare i demoni che popolano la nostra mente.

 

Of Mice & Men

EARTHANDSKY

Rise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Tobia Lamare “Songs for the Present Time” (Lobello Records, 2019)

(Ricetta italo-americana per un ottimo indie rock)

 

Prendiamo il sound di Bob Dylan, aggiungiamo un poco dei The Cure e Mudhoney q.b. e una spolverata di musica alternativa salentina.

Incorporiamo nell’impasto amore, vita, morte.

Uniamo tutti gli ingredienti.

Il risultato finale?

Tobia Lamare (pseudonimo di Stefano Todisco), da circa vent’anni musicista e compositore per teatro, documentari, film, scelto come gruppo di spalla per artisti quali Kings of Convenience e Iggy Pop & The Stooges. Ha esordito con gli Psycho Sun, ma dal 2008 ha dato una svolta alla sua carriera come solista e cantautore.

Girando per il mondo è stato plagiato da diversi sound, culture lontane da casa sua, dal suo mare. Si è imbattuto in realtà differenti, a contatto stretto con universi musicali vari, ma così catarticamente simili, suonando per festival importanti come lo Sziget (Budapest), ma anche per feste di paese, club, biblioteche.

Il profondo contatto col mare lo ha ritrovato poi con l’oceano, come a dimostrazione che per quanto possa essere lontano da casa sua, l’acqua è l’unico elemento di congiunzione con le sue radici, con la sua terra natia.

Dopo i successi nel 2010 di The Party, nel 2012 con Are you ready for the Freaks e nel 2017 con Summer Melodies, finalmente esce Songs for the Present Time, album di nove canzoni scritte interamente da Tobia durante questi ultimi anni di tour in giro per il globo terracqueo.

Nonostante disco sia stato prodotto e arrangiato interamente nella Masseria Lobello, vicino Lecce, le varie influenze Blues and Soul tipiche della west coast americana sono preponderanti in tutti i brani, anche grazie all’uso di strumenti classici per il country come l’armonica a bocca. 

Un album nato in movimento ma completato in un posto magico, solitario e tranquillo, registrato tra il maggio 2018 e il maggio 2019, a cui hanno partecipato nomi importanti come Andrea Fazzi (Sud Sound System, La Municipàl, Major Lazer) mentre le batterie sono in collaborazione con Marco Lovato (Caparezza).

Il primo singolo uscito è Endless, che testimonia l’amore fraterno, il forte legame che unisce due consanguinei soprattutto nell’affrontare momenti drammatici come la malattia o la morte. Testimonianza della continuità dell’amore oltre la morte, di come sia impossibile lasciar andare qualcuno a cui teniamo. Rimane dentro di noi, conviviamo e ci abituiamo a questa sensazione di mancanza.

Il brano è anche colonna sonora del corto Ius Maris, vincitore del premio Migrarti 2018 e presentato durante l’ultimo Festival del Cinema di Venezia.

Il disco è un agglomerato di sonorità e di tematiche, la maggior parte dei brani sono nati in viaggio (Dada, Lost without you, Loves means trouble), mentre altri sono frutto di prove acustiche sulla spiaggia (Vampire e Higher). 

In The Big Snack Tobia tratta della malinconia del Sud, che nasce nel momento in cui la lontananza dai sapori e dagli odori della propria terra risulta quasi insopportabile.

My Flavia racconta la vita che nasce – una canzone di benvenuto alla nuova arrivata in famiglia – mentre in Endless si celebra morte; in questi brani è da notare che tutti gli strumenti sono suonati da Tobia stesso.

Dopo la lettura dei diari di bordo di due eroine che nel 1935 partirono da Londra per arrivare in Sud Africa a bordo di motociclette, partorisce This Road, onorando la memoria e il coraggio di queste donne, che, in tempi impossibili, hanno avuto la prepotenza di imporre il loro volere in una società fortemente maschilista.

Un album emotivo, profondo, artistico. Il calore della campagna, il profumo della Puglia, il sapore metallico dello smog nelle grandi città, la tranquillità della periferia. L’angoscia insostenibile e conseguentemente l’elaborazione del lutto, la gioia smisurata per una vita che nasce, questo è il contenuto del disco, e non solo. Un pellegrinaggio in giro per il mondo e nel cuore dello stesso. Differenti culture si approcciano, si fondono e confondono grazie alla musica e ai sentimenti.

Particolarità ultima di questo album risiede nella copertina. Il cantante ha scelto per ogni brano una foto anni ‘30 e del dopoguerra trovate nei mercatini, che presentano scene di vita quotidiane. Tutto molto indie.

 

Tobia Lamare

Songs for the Present Time

Lobello Records, 2019

 

Marta Annesi

 

An Early Bird “In Depths” (Ghost Records, 2019)

(Canzoni intense per cuori coraggiosi)

 

Vi sono dei momenti in cui la vita ti pone davanti dei bivi, decisioni da prendere che ti cambiano per sempre.

In questi attimi l’indecisione la fa da padrona e rimaniamo seduti a fissare un punto, snocciolando liste lunghissime di pro e contro.

Tutto sembra crollarci addosso, la malinconia per ciò che è e per ciò che potrebbe essere ci blocca nell’istante.

In siffatte circostanze ecco apparire An Early Bird (all’anagrafe Stefano de Stefano) con In Dephts, il suo nuovo EP contenente 4 tracce che preannuncia un full length previsto per il 2020.

L’intento, come d’altronde ci comunica il nome stesso dell’EP (In profondità), è di scendere sul più profondo piano emotivo di ognuno di noi, attraverso uno stile folk e acustico, macchiato qua e là da sonorità elettroniche, affrontando tematiche come l’amore, sia in senso amoroso, sia in senso fraterno; la risolutezza nell’affrontare cambiamenti e il senso di rottura in tutte le sue sfaccettature.

L’intimità di questi brani risiede negli strumenti utilizzati, per lo più suonati tutti dal cantante (piano e chitarre acustiche), nella voce delicata e profonda, unita ad arrangiamenti minimali ma più corposi attraverso sonorità scure e intense.

L’EP è stato registrato e mixato da Claudio Piperissa, assistito da Luca Ferrari, presso il Faro Recording Studio di Somma Lombardo, per la produzione artistica di Lucantonio Fusaro.

Il primo singolo uscito, che fa da cavallo di troia per la nostra psiche, è Stick it out: un inno alla tenacia, a resistere alle intemperie aggrappandosi forte agli affetti e soprattutto a non lasciare in sospeso nulla, con caparbietà e determinazione. Come durante uno tsunami, trovare un appiglio per non essere trascinati via dalla corrente.

In First Time ever si affrontano le prime volte magiche: il primo sguardo, il primo bacio di un amore vero e puro, non necessariamente il primo amore, in quanto ogni amore ha la sua importanza e porta ad una crescita personale diversa, e quindi ad un’interpretazione diversa dell’amore stesso. Si tratta di una ballata folktronic, poetica e romantica.

L’idea di Breaker, terzo brano dell’EP, nasce durante una lunga ed estenuante fila per il bagno. Questo testimonia che l’ispirazione è arte, e può coglierti in qualsiasi momento. Con la delicatezza della sua voce ci racconta storie sullo sfondamento di muri interpersonali, sulla rottura di rapporti, di promesse infrante, di scardinare le catene emotive che ci legano a situazioni dannose per la nostra anima.

Il commiato alla vita passata, in Farewell, sancisce la fine di un viaggio, di un progetto, per intraprenderne uno nuovo. Con una voce raffinata e malinconica ci invita a salutare con la mano il vecchio e a far posto alle prospettive future, abbandonando senza remore quel che è stato.

Aspettiamo con ansia il 2020 per ascoltare il full length di questo artista italiano che sa far vibrare le corde più profonde dell’anima.

 

An Early Bird

In Depths

Ghost Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Pixies “Beneath the Eyrie” (BMG/Infectious Music, 2019)

Il nano sulle spalle di un Gigantic (no, dai, si può?)

 

Immaginate di partecipare a un’entusiasmante raduno del liceo. Trent’anni di distanza dalla maturità, da quelle pance piatte, da quegli sguardi disincantati sulla realtà, sul futuro. Dopo aver rapidamente constatato che le carriere dei vostri ex compagni sono decollate, esattamente come i loro capelli, vi rendete conto che siete detentori di una merce rara, preziosa, roba che non si compra perché viene da lontano e deve maturare, per valere. Portate con orgoglio coerenza e uno sguardo sul mondo rimasto intatto, un vocabolario aggiornato ma fedele a un’idea, un messaggio che ha attraversato anni, mode, stili e correnti e che adesso, più che mai, vanta una matura e dignitosissima indipendenza. Poco importa se avete appena parcheggiato un maggiolone semidiroccato, rigando il Mercedes del vostro ex compagno di banco, e se avete – inavvertitamente – agganciato col vostro orologio le extensions dell’ex miss liceo. Dio, siete i Pixies, cosa diavolo vi può scalfire?
L’integrità, però, costa. E i Pixies il conto lo hanno pagato molto presto, forse perché hanno preso un’onda prima di tanti altri gruppi, che hanno poi seguito la scia. Kurt Cobain rivelò di essere un fan e di ispirarsi a loro, Eddie Vedder li ha sempre indicati come esempio di libertà di espressione e, recentemente ha inserito Surfer Rosa nell’elenco dei dischi preferiti.
Per scrivere del nuovo disco dei Pixies ho fatto un festoso bagno in quel brodo primordiale che fu la scena indipendente americana di fine anni ottanta. Band seminali che meriterebbero un capitolo nella storia della musica: dai Dinosaur Jr. ai Fugazi fino ai Sonic Youth. Perché Beneath the Eyrie è un ritorno al passato, anzi, è un disco che riporta a un ambiente familiare. E’ come rientrare nella stanza della propria adolescenza, ma con qualche anno sulle spalle.
E allora largo a un backbeat fatto come si deve, largo alla libertà e alla fantasia, largo al gotico, come immaginario e al barocco, come stile. Registrato al Dreamland Studio, una ex chiesa, è stato definito dallo stesso Franck Black come il loro Blair Witch, un disco infestato di streghe, mostri, morte. Ma i temi stridono con le melodie, che ciondolano tra punkabillie, surf rock e proto-grunge. E’ come ritrovarsi a tagliare il prato di casa una domenica mattina di giugno. Ma in un film di Tim Burton. Come se a ballare con John Travolta in Pulp Fiction ci fosse la sposa cadavere. Ok, siamo a fuoco.
Del resto è dalla frizione che nasce parte della grandezza dei Pixies, da quel cantato a volte isterico che tira per i capelli le chitarre, da quei bassi subacquei che introducono chi ascolta in mondi inquietanti e pericolosi. Sono ritornelli e cori grandiosi, ma che raccontano weird things. Capita così che il primo singolo estratto, Graveyard Hill, attraverso streghe, morte e maledizioni ci riporti a casa Pixies, interno 22, soprattutto se la consideriamo un elemento di una combo, un dinamico duo, con la successiva Catfish Kate, un delirante racconto di una lotta mortale tra una tal Kate e un pescegatto, accompagnato da riff golosi, un basso narrante e rime baciate.
Il disco si dipana così tra storie cupi, gotiche, costruite su testi a volte ermetici, a volte surreali. Citazione per merito alla bassista Lenchantin, autrice della doppietta Long Rider e Los Surfer Muertos, pezzi dedicati a un’amica surfista morta in mare a Dana Point. Il surf e le sue chitarre sono prepotenti in questo lavoro, e se non sono protagoniste sono eco, come nella splendida St. Nazaire.
Impossibile sostenere che siano tornati i vecchi Pixies, sicuramente però Beneath the Eyrie è un ottimo album, che riporta indietro l’orologio a quel glorioso periodo che dal college rock ci portò all’esplosione del grunge. Non è Surfer Rosa e non è Doolittle, ma è una scusa perfetta per riappropriarsi di una fetta di storia della musica (e personale) lasciata in naftalina senza ragione. 

Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane”, scriveva Giovanni di Salisbury.
Leggasi: la grandezza del passato ci sorregge e ci fa vedere più lontano, oltre ad elevarci. Questo disco poggia sulla storia dei Pixies per porsi (forse), più in alto di quanto potrebbe, ma sta lassù perché è coerente col passato, perché è un’ottima promessa per il futuro, perché è dannatamente ben suonato.

 

Pixies

Beneath the Eyrie

BMG/Infectious Music, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Sleep On It “Pride & Disaster” (Rude Records, 2019)

(Per chi considera la musica come mezzo di evasione)

 

Ci sono giornate che iniziano male. La sveglia non suona, il caffè si brucia, il semaforo è sempre rosso e c’è un sacco di traffico.

In quei momenti, per alcune persone, basta mettere su un disco, e quel cielo che sembrava tetro si schiude a tantissime possibilità.

Ecco quello che gli Sleep on it (in italiano il significato può variare da “dormirci su” o “la notte porta consiglio” ma anche “sogni d’oro”) band di Chicago, formatasi nel 2012 iniziando da uno scantinato, cercano di comunicare con la loro ultima fatica Pride & Disaster.

Questo terzo album del quartetto americano (Lost along the way nel 2016 e Overexposed nel 2017) è circondato da un alone di positività intriso di malinconia.

Stile pop punk un po’ scontato, motivetti orecchiabili e riff di chitarra leggermente banali (ma comunque godibili) puntano più sul contenuto delle tracce. I membri del gruppo hanno sofferto di ansia e depressione e questo li ha spinti a cercare una via di scampo, a tentare di trovare il sole anche durante le giornate di pioggia.  

Hanno deciso di creare musica per chi sta attraversando un periodo spiacevole, canzoni portatrici di gioia così da generare un’onda di felicità per spingere l’ascoltatore a migliorare se stesso, apprezzando quello che di buono la vita offre, senza soffermarsi troppo sul lato negativo. Si autoproclamano come il tuo migliore amico, quello che prodiga consigli e pacche sulle spalle.

Chiaro esempio è Under the Moment, spudorata richiesta di attenzione e aiuto, con cui puntano su chi ha portato il pesante fardello della depressione sulle proprie spalle, su chi si è sentito trascurato o rifiutato. “Take my hand and pull me again” è un grido disperato di qualcuno che è sprofondato nel pozzo e necessita una corda, una mano amica per risalire le lisce e umide pareti di pietra.

Il primo singolo uscito, After Tonight, rappresenta un amore e la capacità di agire senza costrizioni o impedimenti esterni, cancellando il timore di essere respinti o di fallire: la libertà di esprimere ciò che abbiamo dentro, arrivando ad accettare quel che siamo senza vergogna alcuna.

Pride & Disaster è un album senza pretese musicali, da ascoltare in auto a tutto volume durante una giornata storta. Ci suggerisce che è inutile fuggire dai problemi della vita, o “dormirci su”: quelli torneranno più forti e prepotenti di prima. 

Attraverso la musica possiamo canalizzare queste emozioni e tirarne fuori sentimenti più costruttivi, con lo scopo di crescere e migliorarci.

 

Sleep On It

Pride & Disaster

Rude Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Senses Fail “From the Depths of Dreams” (Pure Noise Records, 2019)

Crescita personale e artistica o versione politically correct?

 

Si può scappare da ciò che siamo stati?

Possiamo, noi umani, cambiare il passato?

Per i Senses Fail, gruppo contaminato dal punk e post hardcore formato nel 2002 in New Jersey, la risposta è SI.

Il nome della band fa riferimento alla credenza Buddhista che essere vivi sia l’inferno, e l’unica via per raggiungere il Nirvana (quindi vedere Dio) sia non avere alcun attaccamento emotivo agli averi della vita terrena: per raggiungere la Pace si devono rimuovere del tutto i sensi.

Durante la loro carriera musicale hanno cercato di unire le sonorità punk\emo\post hardcore con la poesia, la letteratura e la filosofia per creare un loro personale genere.

Durante gli anni 2000 ebbero molto successo, pubblicando circa sette album e adesso, a distanza di diciassette anni, hanno deciso di ripubblicare il loro primo EP From the depths of dreams, per Pure Noise Records.

La scelta appartiene al cantante, il quale ha pubblicamente ammesso su Twitter la sua intenzione di cambiare alcuni termini denigratori contenuti nei loro testi durante la registrazione della nuova versione dell’album.

L’adolescenza, la ribellione e il disagio tipico di questa fase evolutiva è palese nei testi e nelle sonorità dell’album, il quale contiene anche pezzi screamo, che conducono l’ascoltatore su un piano di malessere generalizzato, caotico.

Questo album è sinonimo di crescita personale e stilistica, una rivisitazione espressiva sia a livello linguistico – elimina, per esempio, whore nel pezzo Hand Guns e bitch nel coro di Bastard Son –, che a livello musicale, ove si denota soprattutto una maturazione del cantante stesso, vocalizzi più puliti, potenti, senza risultare disturbanti.

Il frontman ha spiegato sempre su Twitter che usare quei termini spregiativi rappresentava una fase passeggera della sua vita, era un teenager furioso ed esprimeva in quel modo il suo disappunto, ma non è più sua intenzione insultare nessuno o permettere che qualcuno si senta denigrato dai suoi testi.

Le sonorità abbandonano le vibrazioni punk e si lasciano un po’ cadere nel pop, nel melodico, per testimoniare la loro uscita dall’era dell’odio, per entrare a gamba tesa nell’era del conformismo sociale.

Tuttavia, alcuni fan della band non hanno reagito bene alla notizia, anzi, l’hanno accolta come un tradimento al loro stile e a tutto quello che hanno rappresentato per la loro adolescenza: li hanno accusati di essere diventati politically correct, e di aver così alterato profondamente la loro natura originaria.

E forse hanno ragione.

Per citare una delle più intriganti compositrici e cantanti islandesi, BjörkLa musica deve essere libertà, non schiavitù”.

Rivisitare un album, nonostante sia piacevole all’ascolto, anche se punta più sul pop che sull’alternative, e cambiare dei termini per non risultare offensivi sembra una scelta che va sul politicamente corretto, atteggiamento in forte contrasto con tutto ciò che è punk.

 

Senses Fail

From the Depths of Dreams

Pure Noise Records, 2019

 

Marta Annesi