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Tag: recensione

Liz Lawrence “The Avalanche” (Second Breakfast/Kartel Music Group, 2021)

Prendete una voce alla Florence Welch, dei testi a tratti criptici, a tratti che ricordano una Lorde prima della svolta zen di Solar Power e delle basi dance che sono un tuffo da medaglia d’oro olimpica negli anni 80. Fatto? Si potrebbe pensare ad un calderone di cose poco omogenee che cozzano tra loro e invece, in The Avalanche di Liz Lawrence, questo bizzarro e originale mix funziona.

A primo impatto, però, questo album è anche una sorpresa continua: si parte con Down For Fun, che ha tutta l’aria di essere una lettera alla se stessa adolescente infilata in una busta di musica pop-dance e un’estetica fatta di colori saturi per non cedere alla nostalgia facile.

Canzone dopo canzone, il mood del disco sembra delinearsi su questa via, ma nel momento in cui ti sembra di averlo capito, arriva la canzone che non ti aspetti, quella così diversa da dover rivedere il giudizio. Con Violent Speed e la sua intro di percussioni, per un minuto e 54 si esce di colpo dagli anni 80. I suoni si fanno meno elettronici e l’atmosfera più struggente, ma all’improvviso la canzone finisce, quasi come se fosse tagliata a metà, e si ritorna al sound precedente con Where The Bodies Are Buried. 

Allora il viaggio prosegue ancora, tra suoni distorti, saturazione e l’intensa voce di Liz Lawrence a fare da contrappeso. E poi, di nuovo all’improvviso, a sorpresa tra un sintetizzatore e l’altro, arriva Birds e la sua base in cui si sentono i canti degli uccellini a fare compagnia alla voce della cantante. 

Ma lo stato di natura dura giusto il tempo di una canzone, perché il finale con The Avalanche riprende il fil rouge della pop-dance dell’inizio del disco. È forse anche la canzone più realmente ballabile di tutto il disco: il degno finale di questo tuffo negli anni 80.

E come per qualsiasi cosa che arrivi da questo decennio, mentre lo si ascolta, qualsiasi cosa si faccia, è impossibile stare fermi.

 

Liz Lawrence

The Avalanche

Second Breakfast/Kartel Music Group

 

Francesca Di Salvatore

Turnstile “Glow On” (Roadrunner Records, 2021)

Finalmente Glow On dei Turnstile è arrivato oggi su Spotify ed io mi sento in vena di recensione. In questi ultimi anni le mie orecchie si son dedicate quasi esclusivamente agli artisti del panorama italiano ma ho atteso per tante settimane questo disco, conscio delle grandissime aspettative che mi ero fatto su questa band.

I cinque ragazzi di Baltimora, nascono appena dieci anni fa, e suonano un Hardcore classico come migliaia di altri gruppi, ma nel corso delle loro uscite discografiche iniziano ad impressionare la critica musicale per il mix di ingredienti che usano nelle loro canzoni.

Impressionano perché lentamente e inesorabilmente, danno spazio ad una grande creatività tecnica e sonora, ed abbattono quelle leggi scritte che Hardcore è solo TU CHA TU CHA. Rimane in loro l’attitudine di quel movimento, lo spirito, le idee, le radici, (vedi gli ultimi live del 2021) ma i Turnstile oggi hanno registrato su questo disco qualcosa di mai sentito prima, sperimentando qualsiasi stile con una freschezza unica.

Se vuoi sentire una band che incarna Bane, Rage Against the Machine, Helmet e la pazzia dei Beastie Boys, hai fatto centro.
Ne sentiremo parlare… per sempre.

 

Turnstile

Glow On

Roadrunner Records

 

Peter Torelli

Sleep Walker “Alias” (UNFD, 2021)

Simulazione o Realtà?

 

Alias, questo è il nome del secondo full-length degli Sleep Waker, che segue l’EP di debutto Lost in Dreams del 2017 e l’album di esordio Don’t Look at the Moon del 2018. Ho avuto la possibilità di ascoltarlo e recensirlo in questo caldo pomeriggio di luglio, pronto a vivere quella particolare energia che il Metal-Core riesce sempre a sprigionare.

Con i due lavori precedenti, siamo stati abituati a pensare agli Sleep Waker come una band dal sound non troppo originale, ma comunque deciso e penetrante. Una malinconia di fondo che si unisce a breakdown cattivi e massicci. Un’atmosfera che a tratti può facilmente ricordare importanti gruppi come i Bad Omens o, perché no, i Code Orange, soprattutto in brani come Melatonin. L’assenza di voci clean, neppure nei ritornelli, rende il tutto ancora più cupo. A questo, si uniscono le tematiche racchiuse nei testi di Alias: secondo quanto affermato dai nostri, infatti, di assoluta importanza e ispirazione per la scrittura dell’album sono stati prodotti cinematografici come Twin Peaks, The Matrix, Blade Runner e persino Ghost in the Shell e il famosissimo anime Cowboy Bebop. In particolare, gli Sleep Waker si sono concentrati sul concetto di realtà sintetica e su quella teoria che si domanda se siamo davvero svegli, se davvero stiamo vivendo o se è tutto frutto di una simulazione ricreata nelle nostre menti. Un argomento parecchio spesso, insomma, di una complicatezza elevata e che, ovviamente, si riflette sullo stile musicale.

Ascoltando i brani, risulta particolarmente di spicco 110 Minutes, uno dei singoli pubblicati. Energica, veloce, di forte impatto, tuttavia in un certo senso oscura, che racchiude un po’ quello che è il sound della band, con tutti i suddetti elementi che la caratterizzano. Il tiro resta alto per tutta la durata dell’album, creando un’omogeneità piacevole, ma che non sarebbe stata male se spezzata ogni tanto da brani più melodici. Un po’ come succedeva nei primi album dei While She Sleeps, giusto per capirci. Qui gli Sleep Waker invece hanno preferito dare all’album un’impronta più Death-Core, che comunque fa la sua figura.

Tirando le somme, Alias, seppur non presentando elementi originali o ricercati, resta un buon album, con sonorità potenti e impetuose, ma soprattutto con tematiche molto interessanti. Non deluderà i fan del genere musicale in questione.

 

Sleep Walker

Alias

UNFD

 

Nicola Picerno

An Early Bird “Diviner” (Greywood Records, 2021)

Io soffro il caldo. Terribilmente.

Il mio grande maestro Bruno Martino nel 1960 mi toglieva le parole di bocca, “Odio l’estate / Tornerà un altro inverno“, perchè ricorrendo al classico sistema della colonna dei pro e dei contro, il risultato è sempre una vittoria in trasferta, con almeno un paio di gol di scarto. Forse, ma dico forse, in un altro periodo dell’anno meno ostile potrei persino, ma azzardo, ad arrivare a sopportare la sabbia tra le dita dei piedi.

Ebbene, in questo torrido giugno, di fronte al mio PC, a qualche giorno di distanza dalle vacanze, mentre vedo fuori dalla finestra i ciuffi d’erba del giardino che lentamente perdono il vigore ed il verde di qualche settimana fa in luogo di un assai meno invitante giallo paglierino – oddio mi sa che mi sono infilato in un cul de sac, tipo il monologo iniziale de Il Grande Lebowski – ebbene mi sento assolutamente beato e leggero. Vuoi perchè il condizionatore è acceso e le finestre chiuse, vuoi perchè ho in cuffia il nuovo disco di An Early Bird. Liberissimi di ritenere che il mio benessere sia in maggior parte dovuto al climatizzatore (non credo riuscirei a convicer(mi)vi del contrario, ma Diviner è un gran bel disco. 

Pubblicato  dalla berlinese Greywood Records, il progetto solista di Stefano De Stefano è probabilmente il suo lavoro migliore, per completezza, per gusto, un paio di brani meravigliosi (la conclusiva Angela e Fishes In The Ocean su tutti), arrangiamenti mirati, mai troppo invadenti o affettati a rispettare la leggerezza e la dolcezza del timbro vocale del cantautore napoletano.

Diviner, rabdomante in inglese, trasmette una serenità ed un piacere difficilmente descrivibili, come la già citata Fishes In The Ocean, che ammicca appena al Bon Iver di Holocene, o Iron & Wine che si palesa nel folk intimo di Prayers In A Temple. Queste sono alcune delle coordinate che si possono trovare lungo queste dieci tracce, che non risulta tuttavia scontato o (non userò il termine derivativo) derivativo, anzi. L’incedere innocente di Bad Timing, qualche incursione più pop (Holding Onto Hope, Go All Out, Mullholland Drive), e l’impressione nitida di essere di fronte ad un disco che cresce, ascolto dopo ascolto.

Caldamente (LOL) consigliato.

 

An Early Bird

Diviner

Greywood Records

 

Alberto Adustini

The Black Keys “Delta Kream” (Easy Eye Sound • Nonesuch, 2021)

Finito il tour di Let’s Rock, The Black Keys sono tornati a Nashville, tra le mura amiche dello studio Dan Auerbach, l’Easy Eye Sound. Sarà stata l’aria di casa, saranno i cieli e le notti del profondo sud, sarà il fato e la fortuna ma accade che in un paio di pomeriggi il nostro dinamico duo registra una piccola perla antologica di musica blues. I Black Keys non hanno mai fatto mistero di aver da sempre guardato al Mississippi e alle sue declinazioni di blues come fonte ispiratrice. E in dieci album ci hanno dimostrato di essere piuttosto coerenti.

Ma il Mississippi è uno e trino: il fiume è una rappresentazione geografica e plastica di un movimento musicale che è allo stesso tempo etnografico, storiografico, sociologico, artistico. Una striscia d’acqua lunga quasi 4000 km, che attraversa dieci stati, nasce vicino a Minneapolis, passa per St. Louis, Baton Rouge, Memphis, luoghi dove nacquero ed esordirono personaggi come B.B. King, Johnny Cash, Elvis Presley, Aretha Franklin, John Lee Hooker, Otis Redding, e poi giù, fino a New Orleans, città natale del jazz e di Louis Armstrong. Lo stato del Mississippi è invece il luogo dove il blues ha trovato una sua particolare declinazione o sfumatura: l’Hill Country Blues è il soggetto del lavoro dei Black Keys. Una piccola antologia o, forse, un tributo alla musica che sta dietro i loro grandi successi. E così Auerbach e Carney recuperano alcuni classici di John Lee Hooker, Junior Kimbrough, R.L. Burnside e Big Joe Williams.

Ma il Mississippi è anche una storia, fatta di schiavitù, di canti, di malinconia, di amori, di lavoro.

Il blues nasce a un crocevia. Nasce in una notte storta di Mr. Robert Johnson. Nasce con un patto col diavolo. Nasce da schiavi che diventano americani. Nasce da sudore, sangue, fango e diventa la madre di tutti i generi musicali.
E quindi le storie raccolte in Delta Kream (in cui il delta è, ça va sans dire, quello del Mississippi) raccontano di tormenti notturni e di vendette, di polvere, fughe e sbronze memorabili.

I Black Keys per l’occasione hanno reclutato il chitarrista di R.L. Burnside, Kenny Brown, e il bassista di Junior Kimbrough, Eric Deaton. Di rinforzo anche Sam Bacco alle percussioni e all’organo Ray Jacildo. Ci sono anche autocitazioni tra le citazioni, perché i pezzi Busted e Do the Romp erano già stati inseriti nel primo album dei due, The Big Come Up.

Il risultato è un album elegante, in cui i Black Keys elettrificano un blues ipnotico e notturno, che passa da ritmi lenti come il Mississippi a cadenze da biella-manovella da treno-che-taglia-campi-di-cotone. È una malinconia che scivola su note liquide e su chitarre slide. Il risultato è un album capace di smuovere bacino e nostalgie, a volte contemporaneamente. E no, non sarà un lavoro originale e no, non aggiunge nulla di inedito alla discografia dei Black Keys, ma provate a infilarvi di notte in autostrada con Delta Kream nell’autoradio e comprenderete perché va bene, benissimo, che ogni tanto si guardi indietro con un “back to the roots” da applausi.

 

The Black Keys

Delta Kream

Easy Eye Sound • Nonesuch

 

Andrea Riscossa

Bennett “II” (To Lose La Track, 2021)

Ce l’avete mezz’ora? Anche qualcosa di meno. 

Allora utilizzando il supporto a voi più congeniale (tipo io me la tiro un po’ perché per il mio genetliaco mi è arrivato il vinile edizione limitata tinta mustard che è ‘na figata anche solo dal punto di vista estetico, ma che poi se lo ascolti la gratificazione cresce esponenzialmente) avviatevi all’ascolto del secondo disco dei Bennett, quartetto toscano in forza alla sempre affidabile To Lose La Track.

Il lavoro in questione si intitola curiosamente II (leggasi due, 2) – mentre il debutto, di quattro anni più vecchio, si intitola I (leggasi uno, 1) – e si articola in otto tracce che travolgono l’ascoltatore con il chiaro intento di non fare troppi prigionieri, anzi.

Ora, l’espressione è casualmente azzeccata, sebbene involontaria, se pensiamo che il nome della band, come si può leggere in rete, è dedicato ad un personaggio del film Commando, quello con l’ex governatore della California che ha i proiettili a tracolla e spara con cannoni in spalla e altre simpaticissime dimostrazioni di potenza e risolutezza.

Aggettivi che ben si sposano con questo II, basta superare i primi quattro accordi di Distant per capire le intenzioni dei quattro: chitarre belle pesanti e distorte, batteria che picchia forte, scream taglienti, insomma ingredienti calibrati e ben amalgamati per un risultato oltremodo convincente. Anzi, a tratti davvero entusiasmante, come nella jesuslizardiana All Right, o nella dirompente Hurricane, davvero bella.

II, vista anche la lunghezza molto contenuta, è un disco che non concede pause (giusto forse un paio di frangenti nella conclusiva Hug(hes) Me), diretto e compatto come uscite di questo tipo dovrebbero suonare – non stupisce infatti scoprire che sia stato mixato da quel Jonathan Nunez, chitarra dei delicatissimi Torche – ed adattissimo, se ascoltato in questo periodo dell’anno nel quale magari fuori dalla finestra le foglie ingiallite cadono a terra e magari piove e magari è martedì, a svoltarvi la giornata. 

 

Bennett

II

To Lose La Track

 

 

Alberto Adustini

 

 

P.S. Va da sé che se le premesse su disco sono queste, qualunque data live nell’arco di 100 km da casa vostra non dovrebbe essere persa per nulla al mondo.

Mighty Oaks “Mexico” (Howl Records, 2021)

A volte la nostra mente inizia a viaggiare, produce a ruota libera pensieri che sembrerebbero scollegati tra loro e poi, ragionando, riusciamo a trovare il filo rosso. Ascoltando Mexico, il quarto album dei Mighty Oaks, mi sono ritrovata a ripetere nella mia testa che “Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”. Ma cosa c’entra la citazione di Mulan? Apparentemente niente e posso solo sperare che il trio rock indie e folk di Ian Hooper, Claudio Donzelli e Craig Saunders abbia visto il film.

I Mighty Oaks si aspettavano di vivere il 2020 impegnati in un tour mondiale a seguito del loro album All Things Go uscito a febbraio dello scorso anno, ma la pandemia ha stravolto i piani. Tuttavia, la band non ha perso tempo e si è impegnata nella scrittura di Mexico, composto da dodici tracce emozionanti. Per Hooper è stato il momento perfetto per realizzare il sogno di lavorare nel suo studio di registrazione casalingo: “È stata la prima volta dal nostro album di debutto in cui ho avuto il tempo di scrivere un sacco di canzoni per questo album”, ha detto il cantautore statunitense. I tre, infatti, hanno deciso di registrare in casa di Hooper, che ha dichiarato: “Registrare in casa mia è stato un colpo alla cieca. […] Erano tutti nervosi, me compreso. Ma alla fine si è rivelata essere la cosa migliore che avremmo potuto fare. C’è qualcosa nel registrare a casa che ci ha fatto ritornare alle origini, quando io e Claudio avevamo iniziato a fare musica nel suo appartamento insieme.”

Il singolo che dà il nome all’album si apre con un eloquente “Oh right now times are hard” e non possiamo che essere d’accordo: i tempi adesso sono difficili. Sin dagli inizi, i brani dei Mighty Oaks sono intimi, rispecchiano le emozioni del trio e di chi ascolta. Le parole arrivano dirette e ci raccontano di noi ed è bello pensare che un gruppo nato a Berlino e formato da persone provenienti da paesi diversi (Stati Uniti, Italia e Regno Unito) riesca a parlare di sentimenti universali. La musica unisce il mondo. Inoltre, è bene ricordare che i tre sono cantanti e polistrumentisti, una ricchezza che è un vero e proprio marchio distintivo.

Ogni album dei Mighty Oaks è più maturo rispetto al precedente, arricchito dalle esperienze di vita dei musicisti. Oggi la nostra forza mentale è messa alla prova, stiamo vivendo una pandemia, nel mondo si parla di razzismo, ambiente, diritti umani, omobitransfobia e femminismi e pensiamo a quanto sarebbe bello scappare in un luogo o in un tempo senza problemi. Citando Land of Broken Dreams, un altro singolo estratto da Mexico: “Go ahead and cry/What makes you bitter, makes you wise/And I hope you’ll try/To see on past the darkest times/Cuz life, it can seem/Like a land of broken dreams/But now those dreams are all you got/Beneath your feet.”.

La quarantena ci ha portato a riflettere sui valori delle nostre vite e sui rapporti che contano, quindi non poteva mancare un brano come By Your Side, che con grande semplicità esprime la volontà di restare accanto a chi amiamo. “You know that I’ll be/Right by your side/If you need me day or night/Oh I’ll be right there for you/For you” è il ritornello della canzone e termina con “La la la la la”, un verso che riesce a essere il vero protagonista del pezzo e rafforzarne il messaggio.

I Mighty Oaks raccontano di loro e di noi e ci hanno regalato un quarto album che raccoglie le riflessioni che ci hanno accompagnato in quest’ultimo anno. Mexico è musica nata in un periodo di avversità e per me l’arte che “sboccia” nelle avversità è la più rara e la più bella di tutte. 

 

Mighty Oaks

Mexico

Howl Records

 

Marta Massardo

Dropkick Murphys “Turn Up that Dial” (Born & Bred / PIAS, 2021)

L’Irlanda a casa tua

 

Classico Pub Irlandese: profumo di legno intriso di birra, umidità, chiacchiericcio. Tutti appicciccati col naso nella pinta. Musica Live.
Ecco quello che ci manca, quello che la quarantena c’ha portato via: il pub non solo come posto in cui bere, ma soprattutto un luogo dove socializzare e ascoltare buona musica.
Ecco dove ci trasporta il nuovo lavoro dei Dropkick Murphys Turn Up That Dial, decimo album per la band americana più irlandese che ci sia.

Band proveniente da Boston, fin dal 1996 calca la scena musicale internazionale a colpi di Celtic Punk; famosi anche per aver partecipato alla colonna sonora di The Departed, film diretto da Scorsese del 2006, le loro sonorità palesemente celtiche hanno sempre attirato skinhead (di destra e di sinistra), dai quali si sono sempre discostati. Hanno sempre affrontato temi sociali, mai sfociando nella politica, per evitare di influenzare i fans, ma sono molto attaccati alle lotte della classe operaia, e appoggiano i sindacati.

Gli anni trascorsi non hanno cancellato la loro voglia di far musica e di comunicare tramite essa. Con il loro stile inconfondibile hanno presentato, (non a caso il giorno di San Patrizio) alcuni brani del nuovo album, in un concerto live stream secondo le regole anticovid vigenti. “Pugni in alto e alza il volume” è il messaggio insito in questo album che la band, con 25 anni di esperienza vuole diffondere la sua gratitudine ai fans, sfornando un album tutto da ballare.

Con brani come Middle Finger, col suo ritmo celtic punk è un invito alla ribellione, a non abbassare mai il dito medio, a combattere per ciò che riteniamo giusto. Strofe indiavolate che sfociano nel ritornello figherrimo “I could never keep that middle finger down”.
Teppistelli attempati che non hanno perso il vigore dei primi anni: è una rarità che una band conservi l’energia vitale per così tanti anni, non cambiando minimamente, anzi progredendo nel loro personalissimo modo di fare musica.

Il singolo che da il nome al loro album, Turn Up That Dial, è un’ode, un ringraziamento alle band che li hanno accompagnati nell’adolescenza, che, urlando rabbiosi nei loro walkman, sono riusciti in un’opera di catarsi con la giovane collera tipica dei teenager.
Pezzi come Good As Gold, L-EE-B-O-Y, ritmo serrato, schitarrate pesanti e batterie battenti sono fatte per pagare sotto palco o, in questo particolare periodo, per fare le faccende di casa con uno sprint in più.

Per la prima volta, spiega Ken Casey fondatore dei Dropkick Murphys, hanno deciso di chiudere un loro album con una canzone decisamente più lenta e evocativa. Un tributo al padre di Al Barr, una malinconica e toccante marcia arricchita dalla fisarmonica e dalla cornamusa, che dona al pezzo una solennità unica.

L’Irlanda è più vicina di quel che pensiamo. L’Irlanda è sentirsi a casa, non importa quale sia il tuo paese di provenienza. L’Irlanda ce la portano un gruppo di “boomer” americani, che possiedono più energia e voglia di far casino dei ventenni.

FUN FACT: il13 marzo 2013 Ken Casey, durante un’esibizione al Terminal5 di New York ha aggredito un tizio per aver fatto il saluto nazista, ha preso il microfono e ha detto:
“NAZIS ARE NOT FUCKING WELCOME AT DROPKICK MURPHYS SHOWS!”

 

Dropkick Murphy

Turn Up that Dial

Born & Bred / PIAS

 

Marta Annesi

Le Endrigo “Le Endrigo” (Garrincha Dischi, 2021)

Manifesto post punk per disagiati

 

25 marzo 2021
“Oggi muoiono Gli Endrigo.
Oggi nascono Le Endrigo.
Perché?
In un mondo in cui un articolo determinativo fa ancora la differenza e comporta privilegi, noi scegliamo di liberarcene e unirci al coro e alle battaglie di chi li vuole sradicare.”

Questo l’annuncio ufficiale che hanno lanciato Le Endrigo ad un mese dall’uscita del nuovo disco Le Endrigo, anticipato dai singoli Infernino, Smettere di fumare, e la dolcissima e malinconica Anni Verdi.

Le “sorelline” Tura (Gabriele voce, Matteo chitarra, basso e tastiere) e la loro amichetta Ludo (Ludovico Gandellini alla batteria) sono la risposta umana sensata a er Faina: sono i Guerrieri dei nostri tempi, cavalieri senza mantello né destriero, pronti a difendere il più debole con una sola arma: la musica. E cercano di abbattere gli stereotipi sulla musica stessa, abbracciando davvero l’idea punk: la protesta. 

Disapprovano una società prevalentemente maschilista, omofoba, razzista, e non hanno paura a dire ciò che pensano.

La lotta contro l’omofobia e la mascolinità tossica è espressa al meglio in due brani. 

Il primo, Cose più grandi di te, con uno stile Verdena, un basso favoloso, frasi tipo “Piangere è da gay” è un attacco aperto alla mascolinità tossica, che ripudia ogni sentimentalismo, e punta ad una società dove “i ragazzi fanno i ragazzi”, dove ognuno ha il suo ruolo prestabilito.

L’altro brano è Stare Soli, una ballata sfrontatamente ritmica, e con la frase “La mia debolezza è uno stile di combattimento” distrugge l’idea dell’uomo “che non deve chiedere mai”, del prototipo maschile duro e privo di emozioni.

Manifestano la loro volontà di esprimersi. Il fatto è questo. Quando avevamo quindici anni eravamo convinti che essere ribelli significasse urlare e spaccare cose. Arrivati ai trenta ci siamo (quasi) stancati di urlare, e abbiamo solo voglia di dire quello che pensiamo, nei modi che riteniamo più giusti. 

Le Endrigo si prendono la libertà di essere sé stessi, senza la pesantezza di sentirsi incasellati dentro ad un genere musicale in cui ci si aspettano sempre lavori molto heavy, pesanti e punk. 

L’eterea malinconia nella voce di Gabriele (già nota nel singolo Anni Verdi, Infernino) è alternata a pezzi vecchio stile, sia nei titoli (Standard rock per chi ci ascoltava prima…; Il cazzo enorme di chi suona) che nelle sonorità. Un lunghissimo errore, sesto brano dell’album, è energia allo stato puro. Qui ci odiano tutti e a casa non apro a nessuno… Un pezzo che ti fa venire voglia di pogare. (per ora, col divano…).

La vera chicca dell’album è la prima canzone, Io non sono capace. Più che una canzone è un’ammissione di colpa. Il manifesto di una generazione disagiata, con evidenti problemi relazionali. Ci ritroviamo a festeggiare trent’anni senza capire come cazzo ci siamo arrivati. Quelli che sentono di non essere adatti alla vita e che soprattutto non si riconoscono negli obiettivi che ci prefissa la società. Quelli che hanno tanti amici, e nonostante tutto la solitudine li accompagna sempre.

Questo album rappresenta l’evoluzione non solo musicale di questi baldi giovani, ma anche quella spirituale, cercando di staccarsi da quello che la società vuole imporci come standard di comportamento. 

Le Endrigo sono disagio, urla, poesia, emozioni, cuore.

 

Le Endrigo

Le Endrigo

Garrincha Dischi / Manita Dischi

 

Marta Annesi

La Rappresentante di Lista “My Mamma” (Woodworm, 2021)

Quando penso a La Rappresentante di Lista, immagino un abbraccio tra l’arte e la politica e quando ascolto My Mamma, il quarto album del duo composto da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, mi immagino come una donna resistente.

My Mamma è un disco che ha deciso da che parte stare, che si schiera. È un disco libero, fluido, accogliente e pieno di spigoli” ha scritto La Rappresentante di Lista sul suo account ufficiale di Instagram, ponendo nuovamente l’accento sul tema della fluidità. Il gruppo ha dichiarato più volte di non voler essere definito con un genere specifico e quindi Lucchesi, Mangiaracina e la loro band hanno preso in prestito dalle rivendicazioni sull’identità sessuale il termine “queer”, che indica una non conformità alla cultura predominante e che descrive la loro musica. 

L’album mette al centro la figura femminile e lo annuncia con una copertina esplosiva che ritrae un nudo che gravita intorno alla vulva in primo piano: un’opera dell’artista palermitana Manuela Di Pisa, che si è ispirata a L’origine del mondo di Gustave Courbet. L’immagine richiama la vicinanza del gruppo alle lotte femministe attuali. Nel formato fisico sono previste tredici tracce, tra cui tre brani strumentali (Preludio, Lavinia e Invasione) che, invece, non sono presenti nel formato digitale. 

Alieno, uscito il 12 febbraio, è il primo singolo di My Mamma e con tutta la potenza della voce di Veronica Lucchesi, racconta la voglia di sconfiggere il dolore e provare amore. La Rappresentante di Lista su Instagram ha affermato che “Alieno è una canzone fuori posto, racconta di quando ci si sente a pezzi, avvilite, presi a botte dalla vita, spaesate”. Con il ritmo incalzante e il ritornello “Sono più forte del piacere, sono l’amore/Sono più forte dell’amore, sono il dolore/Sono più forte dеl piacere, sono l’amore/Sono più fortе dell’amore”, è difficile restare fermi. Si conferma, quindi, quella che per molti ormai è una certezza: La Rappresentante di Lista fa riflettere, ma fa anche ballare. Certezza che, peraltro, è arrivata anche sul palco del Festival di Sanremo con Amare e con la presenza scenica grintosa di Veronica Lucchesi, ben nota a chi ha assistito ai concerti del gruppo. 

Se si vuole fare una riflessione sull’attualità, non può mancare il tema dell’ambiente. Sarà è una canzone che parla della fragilità del pianeta che si riflette inevitabilmente nella dimensione individuale dei suoi abitanti e nella collettività. Il brano si apre con i drammatici versi “Sarà che la mia terra lentamente/Smette di respirare.”

Ma arriviamo ora alla canzone forse più emotiva di tutto l’album: Resistere. Le prime note accompagnano l’ascoltatore verso una strofa parlata che poi si apre nell’armonia del canto “Voglio provare ad esistere/La mia natura è resistere/E non mi importa di perdere/Quello che mi serve adesso è vivere.” A un certo punto, la voce di Veronica Lucchesi sovrasta la musica con quello che si potrebbe definire un monologo recitato, una riflessione carica di dolore e speranza. “Cosa vuoi che ti dica?/Sono a pezzi ma vado avanti.”

My Mamma è un viaggio introspettivo, un album che racconta il dolore, la fragilità e la voglia di andare avanti e amare, aiutandoci a conservare la voglia di ballare, che di questi tempi è tutt’altro che scontata. La Rappresentante di Lista ha scritto una storia travolgente che abbraccia l’attualità e la politica e noi dovremmo ascoltarla nell’attesa del primo concerto possibile. 

 

La Rappresentante di Lista

My Mamma

Woodworm

 

Marta Massardo

Julien Baker “Little Oblivions” (Matador Records, 2021)

“Chiedo perdono in anticipo per tutto ciò che manderò in frantumi in futuro”. 

Wow.

Si presenta così Julien Baker nella furiosa Hardline, apertura del suo nuovo Little Oblivions, terzo album della musicista americana.

Dopo un esordio magnifico con Sprained Ankle, ed un seguito letteralmente clamoroso di quattro anni fa, Turn Out The Lights, attendevo con grande, grandissima attesa questo terzo capitolo, non fosse altro perché in Julien Baker ho sempre visto la prosecuzione naturale di ciò che per me rappresenta Shannon Wright, ovvero musica viscerale, cruda senza essere rozza, diretta eppur elegante, al bisogno.

Little Oblivions fuga da subito un primo, possibile dubbio: Julien Baker è ancora ispirata, ha una facilità di scrittura disarmante; per dirla alla Keaton Henson “I still have art in me yet”, un disco che rimane con la giusta dose di tensione e lirismo per tutte e dodici le tracce, non si ha mai l’impressione di essere di fronte a riempitivi, o brani tappa buchi. Anzi. è compatto senza risultare piatto e il cui unico limite, se vogliamo trovarne per forza uno, è l’assenza di un acuto, inteso nell’accezione di brano totalmente superiore alla media, come potevano essere Appointments o Claws In Your Back nel precedente lavoro.

Probabilmente Little Oblivions è nella sostanza un concept album senza necessariamente esserlo nella forma, portando avanti temi centrali nella produzione bakeriana, quali dipendenza o depressione, “Until the I’ll split the difference / Between medicine and poison” in Hardline o nella successiva Heatwave, “I was on a long spiral down” lasciano pochi spazi d’interpretazione.

Faith Healer, con un arrangiamento molto meno banale di quanto un primo ascolto farebbe immaginare, contiene echi della Baker degli esordi, al contrario di Relative Fiction, più matura e per certi versi controllata, dalla quale emerge ancora con più forza la situazione di fragilità e contestuale consapevolezza della propria persona, capace di ammettere che “I won’t bother telling you I’m sorry / For something that I’m gonna do again”.

Torna a dispiegare molta della sua sconfinata potenza vocale nella tenebrosa Crying Wolf ma poi arriva Bloodshot, magnifica e martellante, quasi asfissiante nel suo incedere incalzante, con quel “There’s no one around / who can save me from myself” e il conclusivo, terribile “Drag me away in the dark / take me and tear me apart”.

Capita quando si ha a che fare con quelli bravi davvero di trovarsi di fronte a combinazioni di suoni, immagini e parole che mozzano il fiato per la potenza espressiva di cui sono capaci. E nel caso della Baker parliamo di una musicista che vanta collaborazioni con artisti di enorme valore, e le Boygenius (il trio del quale fanno parte anche Lucy Dacus e Phoebe Bridgers e delle quali la star, checché se ne dica, è Julien) sono solo una di queste; i Frightened Rabbit del compianto Scott Hutchison per dirne uno, o Matt Berninger dei National, o i Manchester Orchestra. 

Comunque si volge verso il finire del disco, con i cori di Ringside o la tambureggiante Favor, per giungere a Song in E, mia personale scelta tra tutte, per la sua durezza e quasi disperazione, per quegli accordi di tastiera, per quella fredda sincerità che mi riporta ai momenti più personali di Cat Power.

Sono gli incubi ricorrenti (che si entri in zona Lisa Germano?), o forse sono sogni, quelli che affollano Repeat, ed il travolgente finale di Highlight Reel fa da preambolo alla conclusiva Ziptie, quasi una preghiera, un’invocazione, “Good God / When you’re gonna call it off / Climb down off of the cross / And change your mind?”.

 

Julien Baker

Little Oblivions

Matador Records

 

Alberto Adustini

Tindersticks “Distractions” (City Slang, 2021)

Allora, chiariamo subito che partiamo male. Molto male.

Sto parlando di Distractions, il nuovo disco dei Tindersticks.

Siamo seri, dai, questa Man Alone (Can’t Stop Fading) è una canzone che, doveste un giorno trovarvi nella situazione di dover riempire una cristalliera di sole gemme della band di Stuart e compagni (e ce ne sono a dozzine), senza dubbio scartereste tra le prime. Che poi mi ricorda un sacco gli LCD Soundsystem, che piacciono a tutti voi, lo so, ma a me non sono mai andati giù, nemmeno quando facevate diventare This Is Happening uno dei dischi imprescindibili della storia della musica tutta.

Fine sfogo.

Comunque stiamo parlando dei Tindersticks, motivo per il quale anche fossero alle prese con una rivisitazione raggaeton di Tiny Tears o Until The Morning Comes ska non si skippa, non ci si allontana dalle casse, non ci si distrae, si sta pazientemente in attesa che passino questi 667 secondi (!), sperando che le cose cambino. Radicalmente possibilmente.

Presto (non tanto, invero) accontentati. I Imagine You ci riporta dove vogliamo stare. O dove io voglio stare. Il recitativo baritonale di Staples è quello di cui avevo bisogno, che meraviglia, con quell’attacco che pare preso in prestito dai Sigur Ros di (), poche note, qualche sussurro, non serve poi molto a creare la magia. 

Poi è la volta di A Man Needs A Maid. Toh, guarda, stesso titolo di quella di Neil Young. Ma ancora quella batteria elettronica dannazione. Ah ma è proprio quella di Neil Young! Ma sai che a dirla tutta non mi dispiace, anche se il paradosso è che sembra più vicina ai Tindersticks la versione del dio canadese rispetto a quella dei Tindersticks stessi.

Altro giro, altra cover, altra drum machine o qualche tipo di artificio. È la volta di Lady With The Braid, originale di Dory Previn del 1971. Mai sentita nominare. Nemmeno la canzone. Ma che testo magnifico! Poi in questa nuova veste viene totalmente dismesso il vestito folk cantautorale in vece di una più austera e composta, che siamo sempre i Tindersticks, ricordiamolo al mondo. 

You’ll Have To Scream Louder fa parte del versante soleggiato della band inglese, addirittura Stuart A. Staples te lo puoi immaginare farla dal vivo e ballarla col suo iconico (non è vero) passo col quale fa scivolare i piedi in un verso e nell’altro, su queste congas e queste chitarre funkeggianti.

Ma basta scherzare, Tue-Moi è il classico pugno nello stomaco che ti manda diritto al tappeto, un toccante, sofferto, sentito brano, piano e voce, in lingua francese, sull’attacco al Bataclan di qualche anno fa. 

Ma ahinoi è già tempo dei titoli di coda su questo tredicesimo capitolo in studio per la band di Nottingham, giunta ormai al trentesimo anno di vita. Ed è un meraviglioso finale, poche storie, questa The Bough Bends, coi suoi quasi dieci minuti di durata, è la perfetta nemesi dell’iniziale Man Alone (Can’t Stop Fading). 

E anche a sto giro, cari miei amori, fate un disco brutto la prossima volta.

 

Tindersticks

Distractions

City Slang

 

Alberto Adustini