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Tag: review

Calibro 35 “Momentum” (Record Kicks, 2020)

L’uscita di un disco dei Calibro 35 è sempre un evento speciale e particolare, capace di farci riassaporare sfumature musicali troppo spesso dimenticate ma ricche di umanità, forza ed energia. Momentum, il loro nuovo album pubblicato per Record Kicks, conferma pienamente tutto ciò, mostrando ancora una volta sfaccettature nuove dei cinque ninja della musica italiana, mai banali e amanti delle sperimentazioni. 

La band, costituita da quattro tra i più talentuosi musicisti italiani, Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini, Massimo Martellotta e Luca Cavina, è completata dal produttore pluripremiato Tommaso Colliva, quinto membro a tutti gli effetti per il fondamentale apporto sonoro da lui conferito. Negli anni si sono contraddistinti per aver saputo ricreare agilmente e in modo estremamente attuale un sound tipico dei film polizieschi italiani anni ’70, ricchi di inseguimenti e sparatorie. Da un paio di lavori, però, questo format è stato progressivamente lasciato sullo sfondo per cercare nuove vie, nuove strade inesplorate, e anche nel caso di Momentum è stato così, proponendo un immaginario inedito, figlio di nuovi ascolti.

Le dieci tracce del disco godono di estrema compattezza sonora, con una coerenza concettuale in grado di legarle tutte. L’impronta funk-jazz dei cinque rimane inalterata, ma è possibile percepire influssi post-rock ed elettronici di notevole fattura. Come sempre, la produzione di Colliva è estremamente raffinata e bilanciata, il mix è incredibilmente preciso e dettagliato, sembra quasi di osservare una goccia di sangue al microscopio. Le cose vengono messe in chiaro già nel brano d’apertura, Glory – Fake – Nation, dove ci accoglie il drumming potente e inconfondibile di Rondanini su cui si innesta un loop di voce campionata unito a stratificazioni di synth, chitarre e bassi, creando un’atmosfera rarefatta e spaziale. Il secondo pezzo della tracklist è anche il primo singolo estratto dall’opera, Stan Lee, e vede la collaborazione del rapper americano Illa J, esperimento tutto nuovo per la band, che raramente in passato aveva collaborato con cantanti all’interno delle loro composizioni. Il risultato è decisamente ben riuscito, regalando coloriture hip-hop e soul perfette per il tessuto sonoro dei Calibro. Questi ultimi sono molto bravi ad adattarsi ai vari contesti per via della carriera parallela di sessionmen, e qui non fanno eccezione, mettendo a punto un beatmaking alla DJ Shadow. 

Un altro brano sulla scia di questo mood è Black Moon, dove la voce di MEI si amalgama ottimamente all’insieme, dando la prova che il gruppo sa guardare oltre i propri orizzonti con credibilità, senza snaturarsi. La tracklist scorre che è un piacere, con variazioni timbriche sorprendenti e calzanti, tra influenze derivanti da Tortoise, The Comet is Coming, Mogwai e Cinematic Orchestra, il tutto frullato con reminescenze morriconiane e fusion. 

Insomma, Momentum è l’ennesima conferma che i Calibro 35 sono molto più di una band tributo agli anni ’70, riuscendo ad alzare l’asticella sempre più in alto e portando il proprio pubblico in mondi inaspettati. Questo lavoro ci ricorda che la musica ben suonata e ben prodotta trasmette intense emozioni e bisogna essere eternamente grati a questi ragazzi, che, pur essendo stati campionati da gente del calibro di Jay-Z, Dr. Dre e Damon Albarn, negli anni non hanno cambiato approccio, continuando a divertirsi e a suonare come se fosse sempre la prima volta in una minuscola sala prove.

 

Calibro 35

Momentum

Record Kicks

 

Filippo Duò

[Video] Pearl Jam “Dance of the Clairvoyants”

Sì, sì. Anzi.

Sisì. 

Oggi sarà la giornata del sisì.
Petrarca l’avrebbe scritta meglio, non so, una cosa del tipo s’acquetino le tempeste dell’animo; taccia il mondo, e la fortuna non più m’assordi.
Già risvegliarsi con Petrarca in testa e con l’ansia di ritagliarsi un quarto d’ora fuori dal mondo è segno di grave astoricità, ma dopo i quaranta ho deciso che mi posso concedere questi lussi sfrenati.

Ore sette e cinquanta, otto messaggi già incassati e altrettante sentenze, sicuro. Ma io oggi ho un sisì in più. Un’arma di separazione di massa, io e il mondo, io e il vaso di Pandora da cui, già so, stanno uscendo giudizi pesanti come pietre. Non importa l’esito, importa il peso. Che dai guelfi e ghibellini ci siamo evoluti poco, è nella natura delle pose.

Quindi, sisì. A noi due.

Mi metto su le cuffie, quelle belle, quelle che uso sei volte all’anno (mannaggia), e sprofondo nell’ascolto lasciando acceso un senso solo.

Primo ascolto, sospendo il giudizio, come dopo un primo boccone di un piatto mai assaggiato. Come dopo aver lasciato il mignolo del piede sullo stokke della bambina, quell’attimo prima dell’arrivo del dolore, ultima coccola ai neuroni. Poi capirò, poi lascerò che il mio cranio elabori un qualcosa. O forse no, perché ci sono pezzi di Vitalogy che ancora non riesco a decifrare ma che canto a squarciagola in auto, devastando il volante e spostando tappetini.

Ore dodici. Non succede, il giudizio non percola fino alla pancia, rimane su, nel suo mondo di idee e non prende forma. Mi fermo sul testo, e davvero m-i  f-e-r-m-o. Sarà perché ci vedo echi di canzoni che amo, sarà perché descrivere stati dell’essere così è come mettere Proust davanti a un granello di polvere e lanciare cinque euro sul pavimento per scommessa. Li hai già persi. Bastano due immagini e il mondo è costruito, bastano due sentenze e il gusto lo ritrovo. 

Pearl Jam, pianeta terra, 2020. È una storia di evoluzione (baby), dal velluto a coste al riscaldamento globale il passo non è breve ed è giusto che non lo sia. E ancora più giusto sarà perdere amici, fans, amanti, integralisti, nostalgici. Che avranno sempre un pezzo di scia da ammirare, che, come giusto che sia, potranno sempre dire la loro. Io però la suddetta scia l’ho vista trent’anni fa e non l’ho mai persa di vista, e mi piace continuare a seguirla, magari strizzando un po’ di più gli occhi, che, con l’età, mi sto ciecando. Perché, per me, questo è. Sono le nostre vite, sotto il loro palco dagli anni novanta. Lo prendo per uno specchio, che riflette sempre la realtà, in modo molto più onesto di quanto facciano i nostri occhi davanti all’immagine riflessa. Per me loro questo sono. Sono album che diventano ere geologiche, sono canzoni che sfumano in ricordi, sono colonna sonora di un film davvero personale. Quindi, buon giudizio a tutti, basta che ne abbiate uno che a voi sembri sensato. Ci si rivede a fine marzo.

Oggi ho nuove note dei miei amati, sempre presenti, Pearl Jam.

E tutto il resto oggi è, semplicemente, sisì.

 

 

 

Andrea Riscossa

Anti-Flag “20/20 Vision” (Spinefarm Records, 2020)

Se molte band perdono in interesse per un’assenza di tematiche e contenuti, gli Anti-Flag hanno il problema opposto: gli scenari internazionali che soffiano venti di guerra imminenti, sono forse l’ennesima rampa di lancio per i ragazzi di Pittsburgh.

20/20 Vision è il nuovo album di una lunga serie, ma anche l’ennesimo guanto di sfida che i paladini della musica politicizzata internazionale della nostra generazione lanciano al “palazzo”.

Il rilancio del punk rock idealista passa necessariamente dalla Pennsylvania. 

Gli Anti-Flag evolvono senza perdere mordente, si districano in un turbinio di sonorità all’apparenza discordanti tra loro, ma legate come un nodo stretto in gola da una lunga carriera, che ha il sapore di un percorso coerente e imprescindibile. 

Chi ha avuto la costanza di seguire la band fin dagli albori troverà e subirà particolari flashback riconducibili ad album datati, chi invece avrà il primo approccio alla band con questo album, non rimarrà deluso dalla pienezza degli spunti messi in tavola. 

La varietà, per l’appunto è la colonna portante di questo lavoro. 

Un mastering azzeccato e avvolgente, suoni corposi dove batteria, basso ed elettriche si tramutano in una singola bolla di adrenalina. Una mescolanza di intro e outro che fanno da filo conduttore, quasi a voler dare al tutto l’aria di un concept album.

Il marchio di fabbrica rimane immutato, viene solamente puntellato di sfumature che danno uno scatto di maturità e flessibilità. Lo si capisce sin da subito con Hate Conquers All.

Le liriche di Chris#2 restano inconfondibili, lo scream mai invasivo e il trasporto emozionale, degno di un live ben riuscito incarnano tutta la voglia e l’attitudine esplosiva di questo mattatore. 

Il “cantato” di Justin Sane invero sembra aver avuto una sensibile modifica, a volte poco riconoscibile rispetto alle sue trentennali performance, tipologia di canto anomala, abbandonando l’accento grezzo verso una più appoggiata denuncia melodica. Esula dal discorso il primo singolo Christian Nationalist, vero e proprio cavallo di battaglia in cui si ritrova il frontman di vecchia data.

Con Don’t Let the Bastards Get You Down salutiamo dal lunotto posteriore dell’auto The Clash, ma anche The Terror State del 2003 prodotto da Tom Morello dei Rage Against The Machine.

Con a Nation Sleep ti addormenti di colpo e ti svegli in un’appendice di Underground Network, tempi raddoppiati, tecnica e velocità a fondersi in puro hardcore melodico. 

Luci soffuse nella ballad filo radiofonica Un-American, brano degno di una nostrana Virgin Radio per intenderci, che spalanca le porte ad un finale trionfale supportato da trombe e fiati per i titoli di coda redatti da una nostalgica ed energica Resistance Frequencies.

L’innesco di qualche brano pop punk potrebbe far storcere il naso agli intramontabili nostalgici, ma la musica come la vita è fatta di lampadine che si accendono e questa volta gli Anti-Flag hanno addobbato un albero di Natale. L’irriverenza di You Make Me Sick  non ha bisogno di presentazioni, il titolo serve un assist automatico.

Emerge tutto il fuoco che ancora brucia dentro questi ragazzi del popolo, artisti che hanno fatto della musica un tramite per abbracciare gli ultimi. 

Non è scontato mantenersi nella giungla del sociale quando le sorti del mondo da tanto tempo hanno sempre gli stessi protagonisti ma con facce diverse. 

Gli idealisti che amano il punk rock però possono avere ancora qualcuno in cui credere, in cui appellarsi. 

Gli Anti-Flag incarnano ancora una scuola di etica e tecnica, sopratutto nel mondo del “tutto e subito” dando una lezione importante, quella delle priorità. 

A conti fatti la vita dell’uomo viene prima del successo, cosi come il messaggio di unione viene prima della musica stessa.

 

Anti-Flag

20/20 Vision

Spinefarm Records

 

Vasco Abbondanza

Elephant Brain “Niente di Speciale” (Libellula Music, 2020)

Dolore al microscopio

 

“Conta i lividi che servono per ritornare a scrivere”

È stata questa la frase con cui ho conosciuto gli Elephant Brain, per puro caso, con una canzone tra le tante consigliate dall’algoritmo di Spotify. È l’intro di Ci Ucciderà, brano pubblicato nell’estate del 2018 da questa rock band perugina e che dopo un anno e mezzo è rientrato a pieno titolo nel loro primo album Niente di Speciale. 

Mi aveva colpito parecchio, quella frase. Innanzitutto perché sottolinea quanto sia intimo il legame tra arte e dolore, ma soprattutto lascia intendere che anche attraverso qualcosa di negativo come il dolore può fiorire qualcosa di bello.

Forse è un concetto un po’ inflazionato, ma resta comunque un bel concetto…

Niente di Speciale raccoglie questo dolore, lo scompone pezzo per pezzo e lo passa impietosamente al microscopio, ma lo fa con una dichiarazione d’intenti ben precisa: la prima traccia, Quando Finirà, è un po’ un invito alla speranza, al lasciarsi il passato alle spalle per poter ricostruire da capo sulle macerie. 

C’è quindi la sofferenza in sé, ma non mancano tutti quei i metodi che tendiamo a usare come palliativi per negarla, dal fingere che vada tutto bene di Weekend alla voglia di fuggire davanti ai problemi di Scappare Sempre. 

Le nove tracce si susseguono con velocità, seguendo un ritmo incalzante, mentre la voce graffiante di Vincenzo Garofalo si sposa benissimo con un sound crudo ed esplosivo ma curato, a dimostrazione che dal loro primo, omonimo EP del 2015 c’è stata una maturazione stilistica non da poco. 

Il cerchio si chiude con la canzone che dà il nome al disco, Niente di Speciale, che è un po’ una presa di coscienza. È il momento in cui si smette di urlare e in qualche modo si cerca di fare pace con se stessi. Grande importanza è data alla parte strumentale, che va sfumando verso la fine, quasi a darci modo di riflettere su tutto quello che abbiamo appena ascoltato.

Niente di Speciale è un album onesto e che parla a tutti, senza distinzioni. 

È anche un album che deve essere ascoltato live il più possibile, gridato a squarciagola insieme a loro a mo’ di catarsi per renderci conto che sì, siamo solo umani e quindi “niente di speciale”, ma almeno non siamo da soli e ci sarà sempre qualcosa che varrà la pena salvare.  

 

Elephant Brain

Niente di Speciale

Libellula Music, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Naftalina “La Fine” (Self Released, 2020)

1999 – 2020 Odissea nel Pop Punk

 

Erano altri tempi. 

Quando prendevi il telecomando e bastava comporre dei numeri sulla tastiera per venir catapultata in un altro mondo. Avendo cugini più grandi (che ringrazio di cuore), il nostro canale preferito era MTV. Non quello che guardate ora. Era tutto diverso. A rotazione, carrellate di videoclip, programmi, live, una meraviglia. Poi il declino. Ma questa è un’altra storia.

Girava un post punk revival melodico, i Green Day, Sum 41, Blink 182, i Fall Out Boy e Jimmy Eat World, erano il nostro pane quotidiano. La sera tardi in programmazione potevi trovare roba più “acida” o “strana” , e noi italiani andavamo forte. Verdena,  Punkreas, Prozac+, Derozer, Porno Riviste e i Succo Marcio. Spaccavamo le classifiche. 

Anche in Italia era arrivato il contagio del pop punk, e per fortuna.

Mi ricordo, però, in particolare di una band, che adoravo, i Naftalina. Erano due ragazzi e una ragazza poco più grandi di me. Li passavano in radio, in tv. Io guardavo la ragazza, Klari (basso e voce) e sognavo di diventare così da grande. Il loro primo album Non Salti Come Me fu un vero successo. Balzarono subito nelle classifiche con il singolo Se, tra tour e ospitate in TV passò un anno, al termine del quale iniziarono a registrare il nuovo album, considerato troppo rock dalla major che nel gruppo ricercava sonorità più pop. Non si sono voluti piegare alla volontà dell’etichetta, quindi il gruppo si sciolse. Nel 2008 riapparirono in una nuova veste e scomparvero di nuovo.

Tornano definitivamente (?) insieme Peter (voce e chitarra) e Klari, nel 2018, e finalmente adesso riusciamo a sentire questo nuovo album La Fine, anticipato dal videoclip di Error 404, parodia di Bitter Sweet Simphony, dove troviamo uno splendido Auroro Borealo nei panni dell’incazzosissimo Richard Ashcroft, solo più sfigato.

Mantengono le loro radici, accordi semplici, chitarre distorte e ritornelli orecchiabili come in Labile, ma i testi sono più ricercati e adulti, per esempio in Distorta parlano delle donne moderne, regine di Instagram, fashion blogger e legate alla vita paradossalmente finta dei social.

La voce melodica di Klari si fonde con quella acida e particolare di Peter, sporcando i brani di un’aura punk e alternativa, ricordando i nostrani Prozac+ o gli internazionali Sonic Youth. Ma le melodie ricadono nel pop punk.

Non mi dirai, forse il pezzo più tosto dell’album, chitarre tiratissime e batterie picchiate ad arte.

La loro crescita si denota dagli argomenti che affrontano, come in Kalief Browder, dove raccontano a loro modo la storia di un ragazzo di colore americano suicidatosi per le violenze e le angherie subite all’interno del carcere (gli ultimi minuti della canzone sono un’intervista allo stesso).

Nel album è presente anche un brano più soft (ma solo a livello musicale), Sopra di me, che parla di perdita e solitudine, in un ambient più malinconico.

La voce di Peter, in Nostrand Avenue è quasi ingenua e innamorata, per scoppiare in chitarre aspre e batterie ritmate, la presenza della tastiera e delle trombe lo rende il pezzo più pop dell’album.

Dopo 20 anni tornano, con le stesse sonorità da garage band che li ha portati al successo, ma con testi più motivati e profondi.

Per tutti quelli che hanno visto la propria adolescenza in toni pop punk sarà un ritorno al passato con la coscienza da adulto.

Per quelli che non hanno vissuto questo periodo, sarà una bella scoperta.

E mentre ci godiamo La Fine, aspettiamo già il prossimo album.

 

Naftalina

La Fine

Self Released, 2020

 

Marta Annesi

The Warriors “Monomyth” (Pure Noise Records, 2019)

Chi non muore si rivede – in questo caso possiamo dire “si risente”. 

Nella nostra cultura letteraria, il monomito, cioè il viaggio dell’eroe, è uno schema comune di un’ampia categoria di storie che descrivono le avventure intraprese dal personaggio per vincere una sfida, che lo faranno tornare a casa trasformato. Questo modello narrativo è stato descritto da Joseph Campbell studioso americano di mitologia comparata e storia delle religioni, ed ha influenzato la nascita di Star Wars e Il Signore degli Anelli.  

Capendo l’eroe e il suo scopo capiremo il mito, e capendo il mito capiremo l’uomo. 

Il monomito rappresenta lo scorrere della vita. Tutti affrontiamo le nostre battaglie interiori per riuscire a sconfiggerle, e queste storie ci raccontano di eroi che riescono a vincere, infondendo speranza a chi sta ancora lottando.

Come asserisce il maestro YodaProvare no. Fai. O non fare. Non c’è provare”.

Questa concezione di racconto ha ispirato l’album Monomyth de The Warriors, che tornano dopo otto anni di silenzio. Band punk hardcore californiana, si sono sciolti nel 2011, ed ora eccoli, cresciuti, e decisi ad esporre il loro punto di vista sulla società attraverso un viaggio musicale in dodici tappe, che mantiene l’ambientazione punk hardcore con influenze rap metal, funk metal, alternative metal e nu metal.

Quattro album all’attivo in puro stile punk hardcore americano. Influenzati dai Rage Against the Machine e Snapcase, hanno riscosso molto successo nella prima decade degli anni 2000, finendo anche in serie tv (Netflix, Daredevil seconda stagione) e in videogiochi (Far Cry 5 e Steep) con il brano The Price of Punishment.

Questo nuovo album, composto da dodici canzoni, raffinato e progressivo, è il migliore del gruppo. Il talento è palpabile, l’esperienza pure. Una band in cui ogni componente sa quello che deve fare e porta a termine il suo compito in maniera precisa e coesa.

La voce altisonante di Marshall Lichtenwaldt , la batteria pistata come se non ci fosse un domani di Roger Camero, gli assoli e riff di chitarra da paura di Charlie Alvarez e Javier Zarate e il potentissimo basso di Joe Martin sono gli ingredienti fondamentali per cui il vostro culo salterà giù dalla sedia, questo Natale.

Sono stati assenti quasi un decennio, e ora eccoli riaffacciarsi alla musica con un album possente, eccitante, che inchioda l’ascoltatore di (buona) musica sin dalla prima nota. In questo periodo di assenza hanno visto il mondo cambiare, e non solo quello musicale.

Il singolo, Death Ritual, brano musicalmente metal, con schitarrate degne di nota e un growl pesante, parla della vita, di come migliorarci. Da quando ci alziamo, tutte le nostre azioni sono rituali, ogni giorno è uguale a quello precedente, e i colpi di scena (ove presenti), non sono mai positivi. Questo brano ci spinge a cambiare la nostra routine, a guardare le nostre scelte da fuori, come se non stessimo pensando alla nostra vita. Solo sacrificando quelle situazioni che compongono una routine possiamo sentirci liberi.

L’altro singolo, The Painful Trust, è la dimostrazione che non sono cambiati, padroneggiando un growl preciso e metodico, e una forte armonia tra gli strumenti.

Sperimentano un intro groove in Fountain of Euth per sorprenderci dopo 30 secondi in un’esplosione in uno scream profondo, su una base ritmata, che sembra l’unione civile dei Massive Attack e dei Bring Me The Horizon. 

Si buttano in un pezzo decisamente trip hop, Tavi Üüs Yukwenaak (The Sun Is Dying), per poi tornare nella loro identità punk hardcore in Burn From The Lion nel quale sono evidenti le influenze rap metal.

Il viaggio dell’eroe, dalla “chiamata” ad intraprendere un’avventura, passando per le varie prove da affrontare per portarla a termine, fino all’arrivo a casa, dove il nostro eroe tornerà nei suoi luoghi totalmente cambiato. Questo è il viaggio che ci propinano, sperimentando varie sonorità ma nel tempo stesso mantenendo la loro personalità. Il tutto unito da un sentimento negativo verso la società moderna, combinato ad un bisogno di combattere la sopravvalutazione dell’ego, e anche la svalutazione di esso, in un momento storico dove l’importante è apparire e non essere. 

La visione che ci regala è straordinariamente punk. “Se vogliamo parlare di hardcore, dobbiamo iniziare a pensare in termini di fare le cose effettivamente difficili. Essere gentili e compassionevoli con qualcuno che non se lo è guadagnato. Se riesci a farlo, provoca un effetto a catena che riverbera più lontano di quanto tu possa immaginare. Vivere per gli altri può essere la cosa più difficile da fare a volte. Una volta che lo fai, inizi a sentirti più soddisfatto.”

 

The Warriors

Monomyth

Pure Noise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Nova Charisma “Exposition II” (Rude Records, 2019)

Dicembre. Le strade sono già invase da fastidiose luminarie, gli scaffali dei negozi da mesi sono infestati da panettoni e torroni. In TV le ipercolorate e strafelici famigliole delle pubblicità ci introducono il periodo dell’anno più noioso: il Natale.

La lotta al regalo più azzeccato forse è la parte più temibile di questa festività.

Cade a pennello quindi l’uscita di Exposition II, nuovo lavoro dei Nova Charisma, duo composto da Sergio Medina (chitarra in Stolas e Sianvar) e Donovan Melero (chitarra e batteria in Hail The Sun), due geni, oltre che profondamente amici.

Il loro è quel tipo di sperimentazione musicale che ci piace: spontanea e ben riuscita.

Artisti poliedrici e talentuosi, hanno deciso di unire le forze per combattere la musica di merda.
Agli inizi del 2019 il supergruppo di Medina si scioglie, e dopo appena quattro giorni è su un volo per Londra per iniziare questo nuovo progetto con Donovan.
Legati emotivamente, sono riusciti a trovare subito un’armonia, fondendo la voce melodica e camaleontica, quasi femminile di Melero e la strabiliante abilità di Medina con la chitarra. Escono dalla loro confort zone nel modo più spettacolare possibile: si mettono in gioco e vincono su tutti i fronti. 

L’album esce dopo quattro mesi dal precedente, Exposition I, molto apprezzato da critica e fans. Quattro minuti scarsi per quattro brani.  Ascoltando questa ultima parte di Exposition viene voglia di averne ancora. E ancora.

I quattro brani sono entità separate, pervase da un senso di disillusione e isolamento. Il filo conduttore di questo album è l’idea di inseguire qualcosa (un’idea, un amore, un sogno) e fallire.

Ci introduce l’album Diary (Don’t Speak), toni malinconici e inquietanti, sul tema della scoperta dei segreti, dopo la morte di qualcuno. k

Gemini è il primo singolo pubblicato dal duo, dove si può apprezzare in toto i loro talenti.

Ci dimostrano che sanno cambiare colore e umore in Hoxton, finalmente qualcosa di sperimentale e che riesce a portare aria nuova. Pezzo profondo, grazie alla voce del cantante, rapisce le orecchie e il cervello.

Il pezzo finale è quello di cui avevamo bisogno per chiudere in bellezza questa raccolta. Sonya presenta un intro che cambia rapidamente e ineluttabilmente, trasformando un pezzo docile e di facile riproduzione in qualcosa di veramente personale e che riporta alle loro radici post-hardcore e ci sbalordiscono grazie ai cambi di voce di Melero.

Questa unione artistica è quel regalo sotto l’albero che non ti aspetti, ma che si rivela quello migliore.

Grandi musicisti e amici, riescono nell’intento di soddisfare l’ascoltatore con qualcosa di valore, ben fatto e talentuoso.

(Se non sapete cosa regalare ad un’amante della musica, c’è anche le versione in vinile, più indicata per tutti gli indie)

 

Nova Charisma

Exposition II

Rude Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Yann Tiersen “Portrait” (Mute Records, 2019)

O no! It is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wand‘ring bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.

                                                                                W. Shakespeare

Sarà anche vero che siamo attratti dagli opposti, ma è ancora più vero che per creare, per vivere, per sentirci ispirati cerchiamo la metafora autoriferita, cerchiamo un luogo, un simbolo, un totem che ci garantisca che quello che vediamo, per come lo vediamo, sia per sempre in sintonia col nostro sentire. Una sorta di golem a protezione della nostra Musa, una trottola in Inception, un luogo sacro, pagano — sia chiaro —, che sia recinto per la vita.

Un faro, un’isola a ovest della Bretagna, l’estremo confine occidentale, per di più circondato dal mare, che diventa doppiamente finis terrae, uno di quei luoghi dove potevano vivere selkie e banshee, un luogo dove il grande faro sfida l’ Oceano Atlantico e si prende cura degli uomini in mare.

Sull’isola di Ouessant (o Ushant) un uomo ha deciso di vivere e di scrivere musica. A giudicare dalla sua storia, fatta di studi classici e di amore per il punk, e ancor più a giudicare dalla sua opera, viene da pensare che abbia, in realtà, deciso di mettere in note la terra che ha scelto. E i suoi cieli, le sue nebbie, i suoi verdi. Del resto ci sono incontri fortuiti che cambiano storie e destini. E chissà quale sarebbe potuta essere la storia di Yann Tiersen, se i suoi occhi non si fossero posati sul grande faro di Ushant. Un uomo che a tredici anni poteva già definirsi polistrumentista, che abbraccia la musica degli Stooges e dei Joy Division, che poi si perde e decide di fare da solo, in una stanza, con un registratore a otto tracce, sinth e drum machine.

E quello che ne nasce è ispirato al grande classico Freaks di Tod Browning del 1932 e ai fantasmi giapponesi di Aya no Tsuzumi. Suona cinquanta strumenti, il nostro protagonista, ma ha in testa un mare burrascoso, e trova la pace solo nel 1998, quando riesce a mettere su pentagramma il suo demone e lo ingabbia, lo esorcizza, lo chiama per nome. Un terzo album chiamato Le Phare, e una canzone, Monochrome che arriva alla cinquantesima posizione della classifica francese. Iniziano i tour, una collaborazione con i Noir Désire, il successo mondiale grazie a Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain nel 2001. Il resto è storia, nuove colonne sonore, nuovi tour con orchestra e mille collaborazioni.

Questo album, che andrebbe ascoltato solo nell’edizione in vinile (e vi spiegherò il perché), è la summa di questa strana storia e di questo fortunato incontro, tra un uomo e il suo faro.

Yann Tiersen sulla sua isola ha costruito uno studio di registrazione, battezzato The Eskal, in cui accoglie i numerosi artisti che hanno partecipato a questo suo ultimo progetto. Di fatto questo Portrait è un’antologia dei pezzi più noti e amati del compositore bretone. Ma Tiersen ha voluto rivisitare ogni traccia, e le ha reinterpretate tutte, ibridandole con idee nuove, lasciando che non ingiallissero col tempo. Ha così chiamato alcuni amici a lavorare con lui: Gruff Rhys dei Super Furry Animals, John Grant, Stephen O’Malley dei Sunn O))), Blonde Redhead.

È un’opera volta a riappropriarsi della musica nata dalla propria storia e immaginazione, che ha vissuto altre storie, che a volte è stata fraintesa. È una setlist rivisitata e che crea un nuovo contesto e una nuova chiave di lettura. Ma è ancora di più: l’intero album è registrato in presa diretta su nastro e inciso su vinile senza passaggi in digitale. Un vero album analogico, suonato con spirito da artigiani, da musicisti di strada, un po’ troubadour un po’ esploratori, sospesi tra minimalismo e malinconia. Del resto Tiersen in passato è stato accostato a Erik Satie e al Teatro dell’Assurdo.

Quest’opera, così definita a livello temporale, trova una sua dimensione anche spaziale, geografica: sembra la colonna sonora di un isola con faro, più che di una storia d’amore. È un lungo piano sequenza pieno di spiriti inquieti, di note che escono da pianoforti giocattolo, da strumenti improvvisati. E un suono antico e solo apparentemente semplice, in realtà è quasi sempre portatore di un lato nascosto e, spesso, oscuro.

E’ come il suo faro, Yann Tiersen. Calmo, osservatore, impassibile, testimone di eventi, di storie, di maree. E, come il faro di Shakespeare, sovrasta le tempeste e non vacilla mai.

 

Yann Tiersen

Portrait

Mute Records, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Cappadonia “Corpo Minore” (Brutture Moderne, 2019)

Una gemma rara

 

È arrivato il secondo atteso lavoro da solista di Cappadonia, musicista e cantautore che, dopo anni di tour con nomi importanti della scena alternativa del calibro di Pan del Diavolo e Sick Tamburo, ha deciso di esprimere la sua arte in un progetto solista in grado di dare libero sfogo al suo immaginario. Dopo il primo capitolo pubblicato nel 2016 e la parentesi del progetto Stella Maris, esce per Brutture Moderne il suo nuovo album, Corpo Minore. 

Interamente prodotto e arrangiato dallo stesso Ugo Cappadonia, il disco è relativamente breve, nove tracce, ma questo è molto probabilmente un punto di forza. Infatti, una maggior compattezza sonora permette all’opera di essere estremamente incisiva, priva di riempitivi, ogni cosa è essenziale ai fini del racconto. La coerenza del sound si percepisce fin da subito, tutte le composizioni sono guidate dalle chitarre, siano esse acustiche o elettriche, che si stratificano in arrangiamenti curati nel dettaglio. Qua e là troviamo sprazzi di sonorità noise a colorare il tutto, basti pensare alla title track, dove compare come ospite Alessandro Alosi dei Pan del Diavolo, capace di donare al pezzo un’atmosfera decisamente particolare. Il suo sodale compagno di band, Emanuele Alosi, invece, compare in tutto il disco come batterista, e la cosa si fa sentire. Le rullate e i tocchi percussivi sono raffinati e potenti allo stesso tempo, ottimi per accompagnare il crescendo emotivo dei pezzi. Un ulteriore ospite illustre è Federico Poggipollini, storico chitarrista di Ligabue, presente in Sotto Tutto Questo Trucco con un assolo di chitarra immediatamente riconoscibile. Il pezzo è uno dei più rock e tirati del lotto, ha una vera carica esplosiva. In generale, Cappadonia è stato abile nel mantenere nella totalità dell’album un’atmosfera in bilico tra il cantautorato classico e un sound più prettamente rock, piacevolmente calibrato per alternare momenti riflessivi ad altri di maggiore forza e impatto. L’autore è un musicista a tutto tondo e non lesina sul sound design, estremamente a fuoco grazie ad inserti di synth, hammond e piano mai scontati. 

I testi sono piuttosto intimi e personali, riguardano principalmente esperienze di vita dell’artista ma con l’uso di immagini universali in cui è facile riconoscersi. È percepibile grande sincerità creativa, l’insieme tocca le corde emotive giuste fino a farsi quasi catartico. Ciò è possibile grazie alla potenza granitica conferita da Cappadonia ai brani, in un continuo gioco di rimandi fra passato cantautorale e contemporaneità sonora. 

Il lavoro sembra seguire un concept legato al mondo dell’universo e delle galassie, utilizzati come punti metaforici di partenza per descrivere esperienze puramente umane. Ogni elemento, nel suo complesso, è messo al punto giusto, dalle parole ai suoni. Dunque, nonostante il forte impeto, vi è anche una intelligente spazialità, che rende il progetto di totale gradevolezza per l’ascoltatore. A tal proposito, si passa dalle chitarre distorte e fuzz di Stelle Latenti alle dolcissime acustiche di Fango con grande facilità e coerenza. La canzone di chiusura, l’emblematica Siamo in Tempo, è senza dubbio la più originale, basandosi per gran parte della sua durata solo su un intreccio di chitarre elettriche e voce che esplode in un muro di suono finale, perfetta conclusione dell’opera. 

Insomma, Cappadonia si dimostra essere un artista completo, capace di raccontare se stesso e il mondo con estrema attualità e contemporaneità, inseguendo, però, sempre la sua visione sonora, libera da vincoli e barriere di mercato. Se già in passato la sua produzione ci aveva fatto ben sperare, Corpo Minore è l’ennesima conferma che siamo di fronte a un autore di grande talento, dall’attitudine coraggiosa e indipendente, una gemma rara nel panorama italiano.

 

Cappadonia

Corpo Minore

Brutture Moderne, 2019

 

Filippo Duò

La Gabbia “Madre Nostra” (You Can’t Records, 2019)

C’è un equilibrio perfetto tra rabbia e introspezione in Madre Nostra, primo LP de La Gabbia. Con otto pezzi che nell’insieme ricordano un giro sulle montagne russe, grazie all’alternanza tra un sound incendiario ed uno più tranquillo, la band bolognese riesce a scavare a fondo nella nostra natura e a metterci davanti agli occhi un’ampia gamma di sentimenti autentici, positivi o negativi che siano, ma tutti spaventosamente umani. 

Il giro di giostra inizia con Ilaria, dove è un risentimento senza filtri e quasi cattivo a fare da padrone. Il pezzo ricorda nello stile e nei suoni decisamente rock i due singoli pubblicati dalla band, Ho Bisogno e Violenza, dove troviamo anche una sorta di spiegazione a questi sentimenti più bassi e istintivi. “Violenza sei madre nostra, ma non ci hai mai riconosciuto”, ma, come con tutte le madri, arriva prima o poi la fase della ribellione nei suoi confronti.

Paradossalmente, in questo disco, la ribellione a “madre nostra” sembra proprio un abbandono a suoni più tranquilli e a testi che mantengono una certa tenerezza di fondo nonostante i ritmi ben scanditi delle chitarre o le esplosioni di batteria. È il caso di La Luna e i Falò, chiaro omaggio al romanzo di Cesare Pavese che ruota attorno alla necessità di mettere radici, oppure di Memorie di una Prostituta, il racconto molto sentito di una storia di dolore e riscatto. 

Più ci avviciniamo alla fine della corsa, più il disco fa emergere quella vulnerabilità che tendiamo a tenere nascosta. È un esempio Non Esisti, penultima traccia dell’album, che, inizialmente solo con voce e chitarra, ci racconta una storia d’amore tra due persone che si avvicinano senza raggiungersi mai. È quindi anche una storia di paure, di fughe e di rimorsi, perché la fine è inequivocabile: “non c’è più nessuno”, un grido triste che continua finché non sopraggiunge il silenzio. 

Quindi, dopo otto canzoni, cosa rimane alla fine di questo giro di giostra?

Forse la consapevolezza che non si può ridurre la natura umana ad un solo polo, solo al bianco o solo al nero. Non a caso, Madre Nostra è un melting pot, una scala di grigi.

Ma forse è un’altra consapevolezza che, soprattutto in questo periodo storico, vale la pena ribadire. La stessa espressa anche da Pavese quando nel suo romanzo scrive che “il sangue è rosso dappertutto”. 

Nel bene e nel male, facciamo tutti parte della stessa umanità.

 

La Gabbia

Madre Nostra

You Can’t Records, 2019

 

Francesca Di Salvatore

William Patrick Corgan “Cotillions” (Reprise Records, 2019)

There’s something rotten in the (United) States of America

 

Nel 1978 William Trogdon, un professore universitario di origini native americane, perde il lavoro, la moglie e la voglia di vivere. Quale migliore inizio per una storia americana? Cambia nome, diventa William Least Heat-Moon, prende il furgone e inizia un viaggio alla ricerca di se stesso, lungo le blue highways, le strade provinciali americane. E’ un’immersione in una humanitas dimenticata, che salva l’uomo attraverso l’empatia e i chilometri, come se una dinamo fosse collegata a una batteria affamata di storie. Ne nascerà un libro, Blue Highways: A Journey into America, ormai diventato un classico. 

È un’attitudine tutta statunitense quella di partire alla ricerca delle radici, umane e culturali, in momenti di crisi. Un popolo ancorato ad un inspiegabile ottimismo, come se nello spostare continuamente la linea dell’orizzonte si potesse generare futuro.
Cosa può spingere un’icona del rock come William Patrick Corgan a prendere la prima palandrana nera, la sua altrettanto iconica chitarra e partire verso sud?
C’è una mitologia, lontana dalle nostre europee, che ancora vive nelle strade blu. C’è una sottile e quasi invisibile luce che segna le vie dei Canti inseguite da tanti artisti d’oltreoceano.

E questo di Corgan è il quarto album del 2019 che recensisco e che va a sciacquare i panni in Nashville, Tennessee.

Stati Uniti in crisi, sicuramente più morale e identitaria che economica, significa per molti avvertire la necessità di cercare “altro” che non siano i tweet di Trump e il gorgoglio di fondo della pancia del paese che offusca tutto il resto. L’esempio più lampante è il viaggio di Springsteen in Western Stars,  ma ci sono altri artisti che hanno iniziato una ricerca personale sulla musica delle radici, quasi che nella tradizione ci possa essere una chiave di lettura. O più semplicemente il country, il bluegrass, il genere Americana, sono statutari, tanto quanto la costituzione, sono colonne, sono la loro mitologia, utile in tempi di cambiamento poco gradito.

E così abbiamo per le mani un album davvero particolare, perché tutto avrei potuto pensare (soprattutto a metà anni novanta), tranne la possibilità che il frontman degli Smashing Pumpkins si dedicasse ad un’opera in cui violini e steel guitar la fan da padrone. “Un atto d’amore” lo ha definito lui stesso sui social. Di fatto è il prodotto di un viaggio verso Ovest, la frontiera per eccellenza, l’unico punto cardinale che è diventato genere. Thirty Days è il titolo del viaggio/documentario che ha visto la nascita di Cotillions, ultima fatica solista del nostro Billy.

Non è il Nebraska di Springsteen, né una radicalizzazione di una tendenza come può essere stato per altri in precedenza. Mi è parso un genuino gesto di assorbimento della cultura locale durante il viaggio, un utilizzo strumentale di un atteggiamento mentale che dovrebbe essere la quintessenza del viaggiatore. Un Chatwin con la chitarra, vestito di umiltà intellettuale, perché occorre sempre ricordarsi chi è Mr. Corgan. E così, tra esplorazione e filologia musicale, galleggiando tra Steinbeck e Woody Guthrie, il pianoforte che dominò i precedenti lavori solisti cede il passo a chitarra e archi, segnando un clamoroso cambio di genere. I testi rimangono densi, incredibilmente evocativi per immagini, bastano poche pennellate per definire bene i confini e i riferimenti.

E’ un album lungo, diciassette tracce e quasi un’ora di musica, che nelle prime otto canzoni presenta tutto quello che è l’essenza del disco. C’è la morte di To Scatter One’s Own, la crisi in Hard Times, la strada nel deserto della titletrack Cotillions. I generi si alternano, ma raramente sentiremo echi degli Smashing, se non in Fragile, The Spark, classica voce e chitarra, che pare rimasta incastrata tra i due cd di Mellon Collie.

La seconda parte dell’album è meno a fuoco. E credo sia dovuto al fatto che questo “atto d’amore” non abbia subito grandi revisioni e sia di fondo rimasto un atto genuino e viscerale. E forse è giusto così, perché in un lungo viaggio, iniziato per ritrovare un’essenza musicale e umana, dopo un po’ idee e chilometri si confondono. I pensieri si impolverano, scorrono via veloci, si mescolano al paesaggio che scorre a lato strada, si sovrappone al parallasse dell’orizzonte. E allora mi piace, davvero, che quest’album scivoli via nell’ultima parte, e se ne vada, lasciando il silenzio e i pensieri e una frontiera da esplorare, domani.

 

William Patrick Corgan

Cotillions

Reprise Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Senna “Sottomarini” (Roma 10, 2019)

Cos’è l’indie?

Questo genere musicale è rappresentato da artisti (emergenti, nella maggior parte dei casi), che sono l’anima della cultura underground, che autoproducono dischi o al massimo sono supportati da etichette discografiche minori che cercano di contrastare il dominio delle major.

In Italia, tendiamo ad appiccicare l’etichetta indie con facilità. Due accordini simpatici, testo di non facile interpretazione che per la maggiore trattano di nostalgia, avvilimento, e amarezza, et voilà! Il cantante/gruppo indie-del-momento è pronto per riempire palazzetti.

In questa mia visione musicalmente razzista verso ciò che la popolazione media indica come indie, molto spesso quando ascolto gruppi che si definiscono appartenenti a questo genere, arrivo al massimo alla seconda canzone, dopodiché il mio cervello e il timpano vanno in necrosi.

Ma ci sono sempre le eccezioni: gruppi a cui basta un nastro, un vecchio 8 piste salvato ad un mercatino dell’usato, una stanza e tanta emotività.

In questo caso è il gruppo Senna, formato da due fratelli (Carlo e Simone Senna) e un amico (Valerio Meloni) nati a Roma, i quali rappresentano il vero concetto di indie.

Prendere il nulla e creare un disco intimo, reale, sentimentale, artigianale.

La loro concezione di musica comunica purezza. Sentimenti liberamente esposti usando le loro doti canore, e la composizione della musica che entra dalle orecchie e arriva dritto al cuore (o fa scoprire di possederne uno).

Sottomarini, il loro disco d’esordio è un viaggio nelle loro vite private, come camminare in casa di sconosciuti e aprire le porte chiuse. “Imperfetto e dolce come l’anima di chi l’ha scritto, come la vita. Racconta la storia, anzi le storie, di un anno difficile” – così il gruppo descrive il loro primo lavoro.

Parlano di perdite, di dolore procurato, e di quello inflitto. E lo fanno con delicatezza, perché sanno di toccare il punto G del cuore.

Aprono questo disco con (Punto e a Capo), intro musicale, che ha il sapore del gelato sciolto sotto l’ombrellone di un’affollatissima spiaggia italiana ad agosto.

Giulia, un tenero brano che ricorda le amicizie che nascono in estate, quelle che profumano di amore non corrisposto, di imminente distacco e ingenuità.

Subito dopo troviamo Agosto, il primo singolo, un brano che sembra parlare di questo mese come un periodo pieno di aspettative, di novità, di divertimento e di amori. Ma a ferragosto (quando è stato scritto), pioveva, quindi il pezzo possiede una malinconia che è poco consona con il titolo.

Il secondo singolo che è uscito è Italifornia, è un inno alla nostra penisola, un omaggio a una terra non perfetta ma piena di bellezza e vita.

L’ultimo singolo pubblicato è Le Cose a Metà: parla di tutte delle cose straordinarie che abbiamo intorno a noi, che trascuriamo per lanciarci nell’inseguimento di altre, irraggiungibili e che magari neanche esistono. 

Fiume, ballata con chitarra, violino e voce dolce e malinconica, conduce in uno stato d’animo di tristezza pura, fa pensare a tutti i tuoi disastri amorosi, e ti ritrovi a piangere per il bambino che ti ha tirato le trecce a sei anni.

Un album che fonde estate e inverno, in un’ambientazione indie che mescola rock e pop.

Questi ragazzi son da tenere sotto occhio, talento e sentimenti, trasmessi in modo eccezionale.

 

Senna

Sottomarini

Roma 10, 2019

 

Marta Annesi