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Editors “EBM” (PIAS, 2022)

Il confine sottile tra malinconia e piacere

Completamente immobile su una panchina, assisto alla danza malinconica delle gialle foglie. Si tratta di un duetto, il vento le sospinge, le accompagna in questo loro ultimo viaggio che è unico, non esistono due foglie che ballano allo stesso modo.
E la loro fine non è solitaria, anzi, entrano a far parte di un collettivo, un infinito tappeto dalle sfumature cromatiche eccezionali. Ogni tappeto emette un suono, una musica tutta particolare. Ci sono tappeti secchi, che scricchiolano come vecchie porte arruginite; vi sono tappeti morbidi e accoglienti, come l’abbraccio di un’amica cara, oppure ci sono tappeti umidi, di foglie bagnate, scivolosi e precari.
Sto lì, persa in questo infinito danzare di colori che mi circonda. Il sapore agrodolce della nostalgia estiva, di occasioni perse e vacanze terminate rende l’autunno una stagione che tutti percepiscono come transitoria e malinconica.
Il grigio velo del ritorno alla vecchia e stantia routine cala inesorabile, accompagnato dalle prime battenti piogge dà la percezione alle persone che non possa esistere gioia, che tutto sia fermo.
Eppure il mondo si sta preparando.

In attesa dell’inverno tutto si trasforma e mi assale la voglia di fare anche io parte di questo mutamento, un’insolita voglia di alzarmi e ballare.

Questo mio sfrenato bisogno è soddisfatto dalla nuova uscita degli Editors, con EBM.

Il gruppo che fu additato come gli Interpol Inglesi, che dai primi anni 2000 calca la scena new wave, dalle sonorità fortemente influenzate dai Joy Division, sforna un disco autentico, decisamente in linea con il loro stile, ma con sferzate pop e elettroniche. Le tonalità dark dei primi anni vengono riscontrate anche in EBM, la loro vena drammatica è sempre presente, anche se ravvivata da sound innovativi per il loro genere.

La loro natura londinese, fumosa e malinconica, contribuisce alla particolarità del loro stile; una personale rielaborazione di gruppi inglesi (e non solo) come i sopracitati Joy Division (anche se il gruppo nega somiglianze), gli U2, Snow Patrol e Radiohead.

L’ottava meraviglia degli Editors ci viene presentata con l’uscita del signolo Heart Attack, in cui realmente il nostro cuore viene messo a dura prova dall’intro elettronica e con sonorità anni ‘80. La voce di Tom Smith ci conduce in un universo di ossessione, in un amore tossico e morboso.

Il secondo singolo sparato sul mercato è Karma Climb, dal testo disperato che si scontra con il suono ritmato del pezzo.

Con l’ingresso ufficiale di Benjamin John Power (Blanck Mass) si dà il via ad una nuova era per il gruppo, e tutto l’album è incentrato sul creare un rapporto fisico con il pubblico, servendosi di un sound elettronico anni ‘80 che divampa nei nostri cuori portandoci a chiudere gli occhi e a smarrirci nella tristezza dei testi.

L’epicità data dai synth è qualcosa che ci riporta indietro nel tempo come in Kiss, quarto brano dell’album. In Silence i toni si abbassano, e la voce profonda di Tom si trasforma in un’emergenza emotiva, una ballad romantica e memorabile, piena di malinconia. Strawberry Lemonade, Vibe ed Educate sono i pezzi che più rappresentano il concept del disco, ossia la voglia di instaurare un collegamento emozionale e fisico con i fans. 

EBM è sconcertante proprio per questo motivo: hanno architettato un album che è in grado di farti ballare grazie al sound molto anni ‘80, ma nel momento in cui ti soffermi sul significato di ogni singola parola puoi assaporare la disperazione e la malinconia tipica degli Editors. 

Come l’autunno, sono qualcosa che sembra immutabile, statico, ma in realtà in continua evoluzione. Nostalgici e sognatori, depressi ma con una sfrenata voglia di passionalità.

 

Editors
EBM
PIAS

 

Marta Annesi

The Afghan Whigs “How Do You Burn?” (Royal Cream/BMG, 2022)

Se hai il fuoco dentro, brucia con The Afghan Whigs

Sono passati cinque anni dal loro ultimo lavoro In Spades ma hanno ancora voglia di catturare il pubblico con la loro grinta attraverso la propria musica. Loro sono The Afghan Whigs ed escono ora con How Do You Burn?, che conferma l’appartenenza della band di Cincinnati al rock alternativo con il loro sound ossessionante e straziante. Un disco con una genesi non semplice, perché registrato con ogni componente della band a distanza durante il periodo pandemico. Un disco che è voglia di guardare al futuro, ma anche ricordo e omaggio a Mark Lanegan che ne aveva scelto il titolo.

L’attacco di chitarra elettrica di I’ll Make You See God è subito sferzante e si trasforma in un riff potente che si ripete come in una specie di allucinazione, mentre la voce di Dulli raggiunge timbri al limite dello sguaiato, ma che creano un sottile perfetto equilibrio con la complessità strumentale del brano.  Il disco si sviluppa poi in tracce dove il rock lascia spazio a atmosfere rarefatte di suggestione distopica tra cui domina proprio la chiusura In Flames. Lo spiccato uso del synth e la voce distorta si muovono come fiamme, in modo accattivante e seducente, con quel pizzico di sensazione di pericolo quel tanto che basta a catturarti fino all’ultimo, come se non volesse lasciare andare via l’ascoltatore, trattenerlo e avvolgerlo per “bruciare” con lui fino alla fine. Ed è questa la sensazione che ti accompagna durante l’ascolto, la voglia di rimanere che combatte con quella di andarsene perché in qualche modo il progetto entra dentro alle emozioni e te le fa mettere in gioco, ma non tutti siamo pronti per farlo. Concealer è una canzone dolce che parte in acustico per poi trasformarsi in un rock delicato quasi un abbraccio consolatorio, che ti cattura e ti culla fino a che non chiudi gli occhi. Altrettanto emozioante è The Gateway, che parte con un’atmosfera musicale sospesa per poi svilupparsi in sonorità psichedeliche e un testo non complesso, ma con parole forti che formano un dialogo immaginario tra un io e un tu o voi dove la voce di Dulli si leva in uno spietato “Waiting for the night as I destroy the day”. Attesa, volontà e fatalità riunite in una sola frase che ti prende e non ti lascia più.

Come ogni recensione, anche questa ha una fine, e forse dovrei terminare con i consigli per gli acquisti o qualcosa di simile che la logica di mercato impone. Ma ammetto che la logica non è mai stata il mio forte, perciò vi dico solo di ascoltare How Do You Burn? lasciando aperti quei canali emotivi che permettono alla musica di rovistarci dentro e farne uscire nuove sensazioni o vecchi ricordi, oppure un bel mash up di entrambi. Sì, avete ragione, il rischio è che si può passare dal Nirvana al dolore nascosto in qualcuna delle nostre profondità, ma non è anche questo vivere, o meglio bruciare di vita? Come bruciate? Di fuoco nascosto sotto la cenere della quotidianità in attesa di spegnervi del tutto, oppure come fiamme che sono pronte a vivere in pieno le proprie emozioni? A voi la scelta di premere quel tasto che aiuti la musica a liberare ciò che avete dentro.

 

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

Royal Cream/BMG

 

Alma Marlia

The Kooks “10 Tracks to Echo in the Dark” (Lonely Cat / AWAL Recordings, 2022)

Il post punk nasce, poeticamente, dalla delusione che la generazione punk provò nei confronti del genere che gridava “No Future” a squarciagola. Quella tanto agognata rivoluzione non ebbe mai davvero luogo e dopo una manciata di anni di furore, del “No Future” rimase solo il “No”. Il post punk prese su di sé la delusione e la disillusione di una generazione che si sentì lasciata sola, abbandonata, e le diede uno spazio tutto suo.

Il sesto disco dei The Kooks nasce da una delusione molto simile, seppur temporalmente dissimile. 10 Tracks To Echo In The Dark è il sesto album della storica indie rock band, un disco molto atteso e che per certi versi supera l’ottimo predecessore Let’s Go Sunshine. Luke Pritchard, frontman della band, rimane molto deluso quando il suo paese, l’Inghilterra, decide di staccarsi dall’Europa attraverso l’arci nota Brexit.
Dopo i tour trionfali di Let’s Go Sunshine, Pritchard e i suoi si rendono conto di essere ormai tra i big e di avere un pubblico che si rinnova automaticamente ma soprattutto di avere un pubblico davvero internazionale, squisitamente europeo. Sapere di vivere in un paese dichiaratosi estraneo rispetto un continente non va a genio a The Kooks, specialmente al frontman, il quale si ritrova a viaggiare spesso nella capitale emerita dell’Europa, Berlino. Non è raro che musicisti, artisti e creativi in generale trovino rifugio nella capitale teutonica ma è proprio li che prende forma 10 Tracks To Echo In The Dark.

Con questo disco la band cerca e trova un sound che si riconosce nel suo essere genuinamente internazionale, europeo, sempre con i piedi ben piantati nell’indie rock. Si respira un’atmosfera cosmopolita, quasi libertina nel disco ma ciò che più stupisce è l’inserimento della parte elettronica che si amalgama gioiosamente con le loro caratteristiche chitarre e ritmiche.

Fin da Connection, la prima traccia, si ode quel qualcosa che ti fa dire “si sono The Kooks, ma c’è qualcosa di nuovo”, da qui poi è tutta discesa.
Piace e colpisce il synth “francese” di Jesse James, rapisce la cavalcata synthpop di Closer ma non poteva mancare il pezzo alla Bowie, Sailing on a Dream che guarda dritto in faccia il Duca Bianco, ricordandoci che anche lui ha vissuto nella mitologica Berlino. Con Modern Days The Kooks tornano ad essere The Kooks ma con una consapevolezza diversa, forse più matura, forse solo più espansa.
25 merita una nota dedicata perché ci avviciniamo a territori cari a gente come Beach House ma con un giro di basso più deciso. I synth tacciono sul finale per lasciare spazio a una ballad che sarebbe un magnifico pezzo di chiusura per una serie Netflix su giovani disadattati e disagiati che alla fine ce la fanno, Without A Doubt.

10 Tracks To Echo In The Dark è in ultima analisi un disco ben fatto, un lavoro che sa guardare davvero il presente per capirlo e farlo proprio. La colonna sonora ideale per una banda di dandy disadatti e disagiati che alla fine ce la fanno.

 

The Kooks

10 Tracks To Echo In The Dark

Lonely Cat / AWAL Recordings

 

Fernando Maistrello

Interpol “The Other Side of Make-Believe” (Matador Records, 2022)

“C’è sempre una settima occasione per una prima impressione”. Ci dice così Paul Banks, frontman e cantante degli Interpol, alla viglia dell’uscita di The Other Side of Make-Believe, settimo disco della band newyorkese. A quattro anni dall’ultimo lavoro –  Marauder (Matador Records, 2018) – gli Interpol si riscoprono la band indie rock che erano ai tempi del mai troppo amato Antics (Matador Records, 2014),  proponendo un album vivace, ispirato e preciso.

Quello che ha sempre contraddistinto la produzione degli Interpol è l’attenzione alla composizione, sempre sobria ed elegante, dei pezzi dove la chitarra dialoga sapientemente con la parte ritmica. Come è diventato un marchio di fabbrica la distorsione tagliente delle corde, inimitabile è anche la voce di Banks, seria, compunta e mai fuori posto. The Other Side of Make-Believe fa pensare ai primi dischi con pezzi come Fables o Renegade Hearts, anche se l’ispirazione si coglie nel vivo con i riff di Mr Credit, un pezzo squisitamente alla Interpol ma con una marcia in più. La vena darkwave non manca e si fa possente in brani come Greenwich o Into The Night, il cui giro di basso ammicca ai Joy Division.

Banks e soci sono sempre stati affini al post punk evocativo e nostalgico, senza perdere mai l’occasione di ricordare a chi ascolta la tragedia del vivere. Nota di merito va al pezzo di chiusura, Go Easy (Palermo), breve ma intensa ode alla malinconia.

Tornando alle parole di apertura, il nuovo modo di scrittura del disco – scritto e composto in isolamento per cause note sui monti – ha portato un’ispirazione diversa alla band, una vena compositiva che guarda al passato per riscoprirsi nel presente.

Il disco piacerà alla vecchia guardia dei fan, contenti di ritrovare le origini della band ma, non di meno, accontenterà anche chi si avvicina per la prima volta, forse per sentito dire. Con The Other Side of Make-Believe, l’oscurità si mette giacca e cravatta e sfila accanto ai suoi interpreti, gli ultimi veri gentlemen dell’indie rock.

 

Interpol

The Other Side of Make-Believe

Matador Records

 

Fernando G. Maistrello

Superorganism “World Wide Pop” (Domino, 2022)

La storia dei Superorganism non è decisamente quella canonica che abbiamo sentito milioni e milioni di volte, degli amici dell’infanzia che passavano ore ed ore a suonare nel garage di qualche zio e si esibivano alle feste del liceo. I nostri beniamini infatti provengono non solo da Paesi diversi, ma proprio da emisferi differenti (UK, Giappone e Australia) e sono entrati in contatto grazie a diversi forum online di musica, coltivando una sincera amicizia basata su scambio di canzoni e meme. Il legame virtuale diventò così profondo che nel 2017 si trasferirono quasi tutti (la cantante giapponese Orono Noguchi all’epoca studiava negli USA ma mandò la registrazione della sua voce ovviamente online) a Londra nello stesso appartamento per lavorare sulle loro produzioni psychedelic indie pop e postandoli ovunque nel mondo del web, finchè non arrivarono alle orecchie della Domino, che decise di scritturarli immediatamente. Così nel 2018 uscì il primo disco omonimo dei Superoganism che li impegnò in una tournèe mondiale e milioni di dischi venduti. 

Ora, a distanza di quattro anni, tornano con un secondo attesissimo disco, in uscita sempre con la stessa etichetta. La band ha subito alcune variazioni nella composizione ma lo spirito è rimasto invariato. La forza di questo gruppo sta tutta nell’estetica peculiare che li caratterizza, ricca di uno stile hipster un po’ sfigatino ma che oggi risulta cool, accompagnato da balletti che spopoleranno su TikTok e video musicali pieni di meme, unicorni ed arcobaleni. In tutto e per tutto figli di internet e la loro musica trasuda questo stile caleidoscopico ad ogni nota. 

Il nuovo disco, infatti, è farcito di basi pop prettamente stroboscopiche, autotune e chitarrine sghembe che lo rendono un ascolto piacevole e leggero, ricordando degli acerbi Tame Impala. Il primo singolo Teenager è un’ottima anteprima del mood di tutto l’album: sound melodioso ed orecchiabile con un video colmo di galassie iper colorate, delfini, e la band che cavalca un hot dog gigante mentre l’attore Brian Jordan Alvarez (ve lo ricordate in Will and Grace?) balla come se nessuno lo stesse guardando. 
Non fatevi ingannare dagli arcobaleni e dagli animaletti pucciosi, i testi della band spesso raccolgono alla perfezione i momenti di confusione e di solitudine che la nostra generazione sta attraversando, basti ascoltare Black Hole Baby oppure Everything Falls Apart, dove la sensazione che il mondo faccia acqua da tutte le parti è descritta con ritornelli soavi e post su instagram.  

Questo secondo disco conferma l’anima pop psichedelica della band senza cadere nello scontato e nel ripetitivo, pronto a diventare un trend glitterato da un momento all’altro.

 

Superorganism

World Wide Pop

Domino

 

Alessandra D’Aloise

Una chiacchierata punk con Amyl and the Sniffers

Read this article in English here

Amyl and the Sniffers è una band punk rock/pub rock, fondata a Melbourne. È composta da Amy Taylor (voce), Bryce Wilson (batteria), Dec Martens (chitarra) and Fergus Romer (basso). La band è famosa per le loro esibizioni dal vivo e il loro stile particolarmente frenetico e dinamico, proprio come le loro canzoni. Hanno vinto diversi premi, come il Music Victoria Awards nel 2020 come miglior band, miglior musicista (vinto personalmente da Amy Taylor) e miglior esibizione dal vivo, vinto di nuovo nel Music Victoria Awards del 2021. La band ha vinto anche ARIA Music Award per il miglior album rock, nel 2019. Attualmente contano due EP, quali Giddy Up (2016) e Big Attraction (2017) e due album, Amyl and the Sniffers (2019) e Comfort Me (2021). In occasione del loro concerto per acieloaperto a Cesena, abbiamo avuto il piacere di intervistare Amy.

 

Siete ben conosciuti per i vostri live dinamici ed esplosivi. Ti senti più a tuo agio sul palco o in studio? Che relazione hai con i tuoi ascoltatori?

“Probabilmente mi sento più a mio agio durante un’esibizione dal vivo piuttosto che registrare in studio. Sul palco ti senti libero e senza inibizioni. 

Adoro i miei ascoltatori. È bello vedere ragazze giovani o donne o, sai, ragazze di sessant’anni che fanno una foto con me, o piccole attività che condividono il loro prodotto con me o mi regalano un vestito, giusto per essere gentili. È fantastico sapere che la mia musica arriva alle persone e gli fa provare qualcosa.”

 

Come hai preso la vittoria del premio ARIA Music Award e la conseguente ascesa al successo? Hai rimpianti sugli esordi della vostra carriera?

“Non saprei, è stata una sorpresa enorme quando l’abbiamo vinto, quindi eravamo tipo “Ma che cazzo, è fantastico!” e poi abbiamo tirato dritto. Essere riconosciuti è stato davvero speciale. Non ha corrotto troppo l’umiltà, in generale.

Non ho mai pensato ai rimpianti prima d’ora. Sono sicura che li avrei se ci pensassi su, ma non voglio pensarci ancora, altrimenti mi sentirei male. Credo che se potessi tornare indietro direi alla me più giovane di leggere più libri e più notizie, iniziando a diventare più cosciente perché è come se vivessi sotto una roccia abbastanza grande, cosa che fa parte di chi sono e non cambierei, ma mi è piaciuto ciò che i libri hanno fatto al mio cervello quando ho iniziato a leggere.”

 

Dal debutto fino all’ultimo album, le vostre canzoni sono molto vivaci ed energiche. Qual è la ricetta per una canzone perfetta?

“Non so se esistono cose come la canzone perfetta, perché a volte non ascolto neanche le mie canzoni preferite se non sono nel giusto stato d’animo. Non ho una risposta. Se stessimo parlando di ricette e io fossi uno chef, probabilmente starei facendo toasts e non so perchè sono gustosi, ma a volte lo sono.”

 

I vostri testi sono spesso volgari e fuori dall’ordinario, senza limitazioni o censure. Cosa pensi del moralismo estremo unito alla cancel culture che oggi sfida sia la libertà di espressione che la libertà artistica?

“Credo che la cancel culture sia complicata. Penso che la call-out culture possa essere una cosa buona. Online può essere pericolosa perché è tutto dietro una tastiera, ma in generale la call-out culture significa marginalizzare persone, tipo che le loro voci vengono sentite da chi ha un po’ più di potere ed è complicato perché se hai più potere è più difficile essere messi in discussione e può sembrare di essere sempre sotto attacco, ma a volte è semplicemente qualcuno senza voce che alza un po’ la propria voce.”

 

Credi che il punk (sia come attitudine che come genere musicale) sia morto? 

“Credo che come genere sia definitivamente vivo. Il punk anni settanta è probabilmente morto. È un ambiente diverso e c’è una cultura diversa, ora. Ma è cambiato, esiste ancora. Non so dire quale sia la migliore versione del punk, ma rimane sempre punk, quindi potrebbero essere morti ma esistono diverse versioni. Tante persone hanno una visione molto limitata di cosa è punk, quindi per loro se la loro versione di punk è morta allora tutto il resto è sbagliato. Spesso è soltanto diverso e non riescono a vederlo, perché non vogliono. Dappertutto, nel mondo, è pieno di fan del punk. Può sembrare diverso e può sembrare che ognuno suoni diverse versioni del genere, ma la gente va pazza per la musica e sono sicura che a molti punk non piaccia, ma non c’è niente di più punk di non avere un lavoro quotidiano!”

 

Riccardo Rinaldini

A punk chat with Amyl and the Sniffers

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Amyl and the Sniffers is a punk rock/pub rock band, based in Melbourne. It is composed by Amy Taylor (voice), Bryce Wilson (drum), Dec Martens (guitar) and Fergus Romer (bass). The band is known thanks to their ability on live performing and their particularly frenetic and  dynamic style, exactly like their songs. They won several awards, such as 2020 Music Victoria Awards as best band, best musician (personally to Amy Taylor) and best live act, won again in 2021 Music Victoria Awards. The band also won the ARIA Music Award for the best rock album in 2019. They actually count two EPs, such as Giddy Up (2016) and Big Attraction (2017) and two albums, Amyl and the Sniffers (2019) and Comfort Me (2021). In occasion of their concert at acieloaperto in Cesena, we had the pleasure to interview Amy.

 

You are well known for explosive and extremely dynamic live experiences. Do you feel more comfortable on a stage performing live or recording in studio? What’s your relationship with your fanbase?

“Probably perfoming live makes me feel more comfortable rather than recording. On a stage it is free and you have no inhibitions. 

I like my listeners. It’s cool to see young girls or women or, you know, sixty years old girls take a picture of me, or small businesses that share their product with me or give me a little outfit, just to be kind. It’s pretty amazing to know that my music reaches people and makes people feel something.”

 

What effect had on you the ARIA Music Award victory and the consequent uprising of your success? Have you any regret about your beginnings?

“I don’t know, it was such a big surprise when we won it, so we were like “What the fuck, that is fucking awesome!” and then going forward from winning that. It definitely felt pretty special to be recognized. It didn’t corrupt the humbleness too much.

I’ve never thought about regrets before, I don’t think so. I’m sure I’d do it if I had to think about it, but I don’t want to think about it until late up, ‘cause otherwise I’ll feel bad. I think that if I could go back I would tell to the younger me to start reading more books and news more, and start being more aware ‘cause I live under a pretty big rock, which makes part of who I am, so I wouldn’t change that, but I think that when I started reading the books I liked what they did to my brain.”

 

From your debut to your last record, your signature songs are powerful and energetic. What is your recipe for the perfect song?

“I don’t know if there is such a thing as a perfect song, because sometimes even with my favorite songs, if I’m in a different mood I wouldn’t listen to it and I’m not liking it at that time. I don’t really have the answer. I think that if we’re talking about recipes and I’m like a chef, then I’m probably making toasted sandwiches and I don’t know why they are yummy, but they are yummy sometimes.” 

 

Your lyrics are often coarse and sharp, without boundaries or censorship. What do you think about the extreme moralism borderline with cancel culture that today is challenging both speech and artistic freedom?

“I think cancel culture is complicated. I think that call-out culture can be a good thing. When online it can be too dangerous because it’s all behind keyboards, but in general call-out culture is marginalize people, like have their voices heard by people with a bit more power and so it is complicated because if you have more power it feels quite challenging to be challenged and it seems you’re under attack but sometimes it is just someone without any voice turning up a voice.” 

 

Do you think punk (both as an attitudine and musical genre) is dead? 

“I think that as a genre it is definitely alive. The 1970s punk is probably dead. It’s a different landscape and there’s a different culture now. But it’s reformed, it still exists. I might not know which better punk version is, but it’s still punk. So they might have died but there’s different versions of it. It’s like some people have a really narrow line of what punk is, so for those people if their version of punk is dead then everyone else is wrong, but often it is just different and they can’t see, because they don’t want to. All around the world there are big punk fans. It might look different, and it might look like everyone does different versions of it, people are making crazy about music and I’m sure a lot of punks don’t like that but I think there’s nothing more punk than not having a fucking day job!”

 

Riccardo Rinaldini

Fontaines D.C. “Skinty Fia” (Partisan Records, 2022)

Basso. Una linea di basso. Un coro gaelico.
“Gone is the day, gone is the night, gone is the day”, per quattro. Poi arriva il cantato. Segue mantra di chitarra, ripetitiva, industriale, al galoppo. Di nuovo coro e poi una batteria che spiazza. Break-beat, nessun climax, nessun crescendo. Il canto è ripetitivo, viscerale, quasi sguaiato. Sale, si gonfia, si eleva, sa di etereo e di terra e di muschio e di mare che divide. È un’invocazione, un preludio che apre le porte del terzo lavoro in studio dei Fontaines D.C., Skinty Fia. 

In ár gCroíthe go deo è il pezzo di apertura. Sono sei minuti dedicati a una lapide negata dal governo inglese: una signora irlandese, morta a Coventry, voleva come epitaffio la suddetta frase in gaelico.
“Per sempre nei nostri cuori” è la traduzione, cosa che non piacque per niente alle autorità locali. Epitaffio negato, troppo politico. L’episodio non è avvenuto mentre le bombe dell’IRA esplodevano in UK, è successo due anni fa. 

L’intero album può essere letto come il viaggio di un irlandese in quel di Londra.
Alla terza canzone ti accorgi che le tensioni sono il secondo tema del disco. I dualismi, meglio ancora. Un disco su quello che accade in mezzo a due poli, su quello che succede dentro, mentre forze opposte si dedicano alla tua personale lacerazione. How Cold Love Is gioca coi topoi del tema affrontato, per finire col trattare di dipendenza, del prezzo dell’essere complementari e del compromesso. 

No, non è un disco solare. Non è un disco con soluzioni. È un’analisi, un’autoanalisi, di un esule. Metafora sempreverde dell’uomo, anche se qui la “patria perduta” ha un nome, una bandiera e una identità piuttosto definita. E curiosa risulta anche l’ombra perennemente presente di un Joyce citato e raccontato, e del suo Ulisse, altra metafora-ombra che ci segue da qualche secolo, come un paradigma beffardo e ineluttabile. 

I Fontaines sono in viaggio, i Fontaines sono (di) Dublino, i Fontaines creano una loro identità lontano dalla meta-casa, per differenza e per sottrazione. Succede così che nel disco, dopo aver attraversato punte altissime come Jackie Down the Line e Roman Holiday, ci si imbatta in The Couple Across the Way. Fisarmonica e cantato. Forse qualche tasto di pianoforte, ma di un Satie intimidito. La canzone nasce dalla vista, aldilà della strada, di una coppia anziana che passa le giornate litigando. Grian Chatten li osserva dalla finestra sul cortile e convive con la fidanzata e una lunga serie di metafore e similitudini. Specchi, speranze, tempo che scorre, che passa, che rende sempre più rari i bivi e le possibilità. L’identità è opposizione. L’identità è lontananza. L’identità vive e ti guarda aldilà della strada. 

Il peso di questo album si conta nei chilometri che separano la band dal suo baricentro culturale e identitario. È nello sforzo per recuperare un equilibrio che i Fontaines producono la loro musica. La Londra in cui vivono è ostile, la distanza e il tempo sono fattori che acuiscono il dolore dell’assenza e allora si raddoppia lo sforzo nel ricordo e nel fantasmatico. È un viaggio doppio, tangibile ed interiore, è visibile e solo intuibile, come la metafora della coppia di vecchietti aldilà della strada.

Skinty Fia arriva subito dopo l’elegia per fisarmonica (regalata dalla mamma di Chatten a Natale) e ci riporta nuovamente al tema del dualismo. Il significato è dubbio, ma sicuramente veniva usata dalla prozia del batterista come intercalare non proprio elegante, e riguarda una certa “maledizione del cervo”. Per i Fontaines diventa il frutto della diaspora irlandese.
È uno spirito in esilio, una saudade ungulata. 

Ma mentre l’identità è custodita nei testi del disco, la parte musicale subisce una trasformazione inaspettata. Alla solita lista infinita di fonti e ispirazioni (Cure, Smiths, Joy Division e via dicendo), nel nuovo album si aggiungono un discreto campionario di stilemi e richiami del drum and bass, del trip hop, dell’indie rock anni novanta. Le acque del Tamigi hanno inquinato la matrice irlandese, l’aria di Londra è penetrata nell’inconscio musicale del gruppo. Cantano la loro terra, ma come a Bristol nel ’96. Tutto l’album risulta più lento dei lavori precedenti, più cantato, più baritonale. Se Dogrel era un atto d’amore per la Dublino in cui la band aveva vissuto e A Hero’s Death era il diario di un viaggio, allora Skinty Fia è la prima vera analisi che il gruppo fa di sé, della strada percorsa e di quella futura. L’Irlanda è una terra di ricordi e luogo del sentimento, ma I Love You è una trappola: è la traccia più politica e critica che abbiano mai scritto. Insomma, c’è coscienza e consapevolezza anche nell’amore incondizionato. Come dice Chatten in una recente intervista: “There’s no hope without tragedy”.

Il terzo disco dei Fontaines convince su più livelli. Ha un’anima e uno scopo, ha una traiettoria e una mappa interna. Ha dei testi splendidi fatti di pennellate e picconate. È un pastiche di generi, di echi e di epoche. E tuttavia la firma è chiara, i Fontaines sono un genere a sé, sono un Ulisse che risplende nel suo viaggio e nella sua tensione perenne tra il conosciuto e la scoperta. 

Buon viaggio, di nuovo.

 

Fontaines D.C.

Skinty Fia

Partisan Records

 

Andrea Riscossa

Wet Leg “Wet Leg” (Domino, 2022)

Se non ve ne foste accorti qualcosa ribolle nella scena musicale oltremanica.
C’è un numero considerevole di ottime band, la qualità non manca, quello che forse è ancora assente è un nome, un’etichetta, un titolo. Forse manca anche quel salto finale, un singolo o un intero disco, che apra la porta al mainstream.
Fuor di bolla è tutto tranquillo, a un qualunque festival inglese è bolgia vera. 

Le Wet Leg, ironia della sorte, nascono durante un giro su una ruota panoramica, durante l’esibizione degli IDLES, all’End Of The Road nel 2019. Ma facciamo un passo indietro. 

Rhian Teasdale e Hester Chambers sono originarie dell’Isola di Wight, si sono conosciute al college e hanno sempre coltivato la loro passione per la musica. La vita le costringe a lavori diversi e band solo nel tempo libero. Accadde però che, dopo un’estate passata tra festival e backstage, decidono di provarci davvero.
Avevano scritto alcuni pezzi e uno in particolare avrebbe cambiato il loro destino: il 15 giugno 2021 usciva il loro primo singolo, Chaise Longue, che diventa virale in poco tempo.
In realtà il disco era pronto ad aprile dello stesso anno. La Domino aveva messo a loro disposizione Dan Carey alla produzione (colui che ha mixato e prodotto i Fontaines D.C. e gli Squid), e tra Londra e la loro isola il disco prendeva forma in modo piuttosto artigianale, grazie a GarageBand, software disponibile per qualunque prodotto Apple, un multitraccia entry level che le due usavano per costruire la struttura dei pezzi che poi prendevano forma in studio, nella capitale. Sono partite in tour, con quattro singoli all’attivo, tutti osannati dal pubblico che ha lentamente riempito le sale prima e i prati d’estate. Sono comparse nelle TV britanniche e statunitensi, hanno fatto crescere l’hype fino a generare un piccolo e nuovo fenomeno musicale. 

Dove troverete le Wet Leg nel vostro negozio di dischi preferito? Se frequentate un posto con poca fantasia puntate sull’indie, sull’alternative, al massimo pop-rock. Le influenze sono ampie e si passa dal post punk alla dance, dal dream pop a Bowie.
Sono labili i confini di genere. C’è piuttosto un approccio fluido alla musica ascoltata e prodotta, in cui più che il genere a fare da fil rouge è la scrittura e l’intenzione.

Questo è un disco di un movimento. È una declinazione di un gusto che sta prendendo forma nel Regno Unito e che con questo album potrebbe diventare argomento di discussione di massa.
Della nuova musica di lassù sono forse quelle più pop. Con ritornelli catchy e, nonostante un vocabolario non esattamente da educanda, il gruppo più proiettato verso un mercato più trasversale.
Qualcosa dentro mi urla che se l’MTV dei ’90 fosse ancora viva questo album sarebbe finito in heavy rotation e che le due Wet Leg, forti di un’immagine e di un’identità più che definite, avrebbero bucato le TV catodiche degli allora adolescenti.

L’album è un inno alla vita. All’empatia, alle sensazioni, anche fisiche, materiali. Spiazzano, perché le dolci pulzelle figlie dell’isola e del mare sono in realtà due soggetti dalle liriche taglienti e dalla mente aperta. Dal sexting indesiderato a gioiosi sfanculamenti, la maleducazione qui è un punto di vista, un umorismo quasi brutale è la loro firma. Però, al di là della forma, c’è un messaggio e c’è un’intelligenza che solletica, che evoca e che ammicca. 
Le canzoni sono un bestiario di personaggi improbabili e di situazioni assurde.
C’è qualcuno in mutande seduto su una Chaise Long (e che dovrebbe essere sdraiato, perdiana), altri dediti alla masturbazione in Wet Dream, con annessa leccata di parabrezza di un’auto, che neanche Freud, probabilmente, avrebbe saputo giustificare. Piece of Shit rende plasticamente l’idea del perché non sempre le relazioni finiscano bene, mentre il nostro duo si fa quasi serio quando, citando Bowie, si interroga sulla vita e parla quasi di bilanci in I Don’t Wanna Go Out. Quasi tristi e un po’ spleen in Convincing, ma sempre costruite con immagini che sono piccoli fotogrammi di mini-racconti su un argomento. È una scrittura veloce, che evoca e accosta, non spiega, non racconta.
E comunque dissacrare tutto è un’arte. Gli ex sono pezzi di merda cui rimane solo l’opzione se galleggiare o affondare, e ci dispiace per le loro mamme (Ur Mum), mentre con le loro nuove fidanzate possiamo solo sperare stiano soffocando (Loving You). Hanno riscritto la visione di topoi della musica odierna, aprendo i cancelli a un realismo e un cinismo che sa di libertà e nuovo umanesimo. 

È un disco che non porta le mutande.
Qualunque cosa contenessero in origine.
È un disco maleducato.
Così maleducato da risultare amabile, perché portatore di verità sussurrate e condite di insulti irripetibili.
È il nonno di Little Miss Sunshine, è l’incubo di un qualunque Pillon-alpha, è una medicina contro l’anacronismo e il perbenismo.
È un disco che contiene sentenze.
Sentenze sui denti.
Ciò non impedisce di sorridere coi buchi.

 

Wet Leg

Wet Leg

Domino

 

Andrea Riscossa

Korn “Requiem” (Lomo Vista Recordings, 2022)

Nu Metal Sentimentale

La credenza comune è che i metallari non piangano. La società ci giudica per il nostro modo di vestire, e soprattutto per la musica che ascoltiamo. Ci danno dei satanisti, solamente per i nostri abiti scuri, o l’aspetto funereo.
Ma anche noi metallari abbiamo emozioni.
Possiamo dire che il nostro stile comunicativo è un pochino sopra le righe, ma questo non esclude che anche noi sappiamo essere dolci, gentili e malinconici al tempo stesso.

E sono i Korn, con il loro quattordicesimo album Requiem, ad esporre questo lato quasi tenerello del nu metal.

Jonathan Davis, come un moderno Zio Tobia (Zio Tobia Picture Show era uno spettacolo televisivo horror su Italia1, NdA), ci introduce in un mondo spettrale ed emozionale.

La pandemia ha portato una dilatazione nel tempo di creazione del disco e questo ha permesso un lavoro più accurato sulla scrittura e più melodico, dando alla luce un album-viaggio dentro sé stessi che porta alla nascita di qualcosa di nuovo.

“Non siamo mai completamente formati ma sempre soggetti a una lenta evoluzione coscienziale” diceva Marcel Proust e così i Korn, (padri fondatori nel nu metal, attivi dal 1993) iniziano il loro viaggio alla scoperta di nuove sonorità.

Requiem è composto da nove brani, il cui cuore pulsante è il quinto, Disconnect, brano molto saturnino in cui traspare una certa vulnerabilità e, stranamente, dolcezza. 

Ma l’album si apre con tutt’altro che miele e parole soavi.

Primo nella tracklist troviamo Forgotten, con un’accattivante intro di basso che lascia il passo a frammenti melodici per poi esplodere nel ritornello e nel finale. L’epicità del brano successivo, Let The Dark Do The Rest risiede nell’energia che travolge dal primo secondo di ascolto, e procede in un alternarsi di cantato lento (le doti canore di zio Jonathan Davis sono sempre spropositate) e batterie pesanti e growl. 

Hopeless and Beaten e My Confession rappresentano l’anima nu metal del disco, mentre Lost in The Grandeur e Penance To Sorrow sono i pezzi più sperimentali per il sound del gruppo, un rollercoaster di armonia e caos.

L’album si chiude con un regalo per i nostalgici, Worst Is On Its Way, un ritorno alle origini pieno di scat (che ci mancavano tanto).

E per tutti quelli che dicevano che Korn erano finiti, erano morti… Beccatevi sto ritorno in grande stile!

 

Korn

Requiem

Lomo Vista Recordings

 

Marta Annesi

Damon Albarn “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” (Transgressive Records, 2021)

Era il 1818 quando Caspar David Friedrich dipinse il suo Der Wanderer über dem Nebelmeer, noto a noi come il Viandante sul mare di nebbia. Il quadro diventò presto un’icona del movimento Romantico tedesco, perché rappresentava una sintesi di tutti quelli che erano i concetti e i dogmi del nascente pensiero romantico.

Un uomo, controluce, contempla la natura che si manifesta davanti a lui. È un gioco di contrasti, di antitesi, tra razionale e mistico, tra definito e indefinito, tra chiaro e scuro, tra immanente e trascendente. Ma è anche un gioco di metafore e di ruoli, come quello dell’uomo e del suo rapporto con la natura. E il mare fatto di nebbia, spettacolo “meraviglioso, come a volte ciò che sembra non è”, ci porta dentro un labirinto di metafore e allegorie quasi senza fine.

Ascoltando l’ultimo album di Damon Albarn, il suo secondo lavoro solista, ho avuto la sensazione di essere davanti a un Viandante che la nebbia non l’ha solo descritta, ma è andato anche a cercarsela.

Aggiungiamo il tema del sogno, quello fatto da un Damon bambino, che sogna un volo sopra una spiaggia nera. Luogo che noterà in un documentario del National Geographic nel ’97, durante un tour con i Blur. Da allora sa che in Islanda esiste il luogo dei sogni.

Altro ingrediente è l’isolamento. Che finalmente possiamo trattare come una scelta personale, come un esperimento, e non più solo come una costrizione dettata da momenti storici poco felici. Ricorda Yann Tiersen e la sua isola col faro, ricorda mille altre storie di persone che nell’isolamento contemplativo hanno trovato la strada per cantare il loro personale mare di nebbia. Perché il signor Albarn ha comprato casa in quell’Islanda dalle spiagge nere, e si è rinchiuso in uno studio circondato dalla natura, nel tentativo di rendere i lockdown momenti positivi e produttivi.

Per realizzare The nearer the fountain, more pure the stream flows si è ispirato al lavoro del poeta ottocentesco John Claire, autore di Love and Memory. E i testi dell’album sono effettivamente centrati sui temi del ricordo, dell’amore, della malinconia, del lutto. E c’è la natura, ci sono colori, c’è il contrasto della sua isola, così fredda e piena di lava. E c’è acqua, tantissima acqua, dalle onde del mare fino al rumore delle gocce che cadono. È un disco acquatico, a volte subacqueo, capace di geyser e di ghiaccio.

I brani sono un patchwork delle ispirazioni di Albarn, dal quasi Blur(esque) di Royal Morning Blue, al folle e malinconico pezzo dedicato a un palazzo anni venti di Montevideo, The Tower of Montevideo appunto, dove l’altrove è un posto lontano, dove la malinconia diventa un genere. E poi synth sparsi, alternati al pianoforte, testi meravigliosi come quello di The Cormorant, colori (silver and blue) in Daft Wader, fino a Esja, una suite vichinga per pelli di narvalo e ansia.

Sono appunti sparsi dai confini del mondo, sulla fine del mondo. Una riflessione, una contemplazione sul mare di nebbia islandese, in cui la musica è lo strumento di analisi, ma è anche il prodotto, è sintesi e sintassi.

E infine è un viaggio o una tappa di un percorso. Perché Damon Albarn incarna perfettamente il ruolo di esploratore, di sperimentatore. Consapevole della meraviglia che un percorso simile comporta, affronta con uno spirito romantico il ruolo di artista. Un Ulisse, consapevole del carico di responsabilità, conscio dei rischi, ma entusiasta per la continua scoperta.

Se l’Islanda sarà la sua Itaca o l’ennesima tappa, lo sapremo solo quando si fermerà a contemplare un nuovo mare di nebbia.

 

Damon Albarn

The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows

Transgressive Records

 

Andrea Riscossa

Idles “Crawler” (Partisan Records, 2021)

“Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, è il cosiddetto moralista.” 

Così diceva Pasolini durante la sua ultima intervista nel 1975, riguardo al suo film Salò o Le 120 Giornate di Sodoma, e sembra che gli Idles abbiamo preso questa frase alla lettera.

Che i moralisti si tengano a debita distanza, dunque, perché loro intendono scandalizzarci portando la loro musica sempre al limite, sperimentando nuovi sound e fondendo il tutto con attacchi improvvisi di punk.

Se il 2020 è stato l’anno della rivelazione, il 2021 è quello della consacrazione grazie al loro ultimo lavoro, Crawler uscito dopo un anno da ULTRA MONO.

Sulla carta possono essere identificati come appartenenti al post punk all’inglese per via della particolarità del timbro vocale del cantante Joe Talbot, della rozzezza delle linee di basso, dei suoni distorti e delle tematiche trattate, ma il gruppo stesso (già dal precedente album) non accetta di essere categorizzato in una nicchia così ristretta e hanno solo voglia di dire le cose a modo loro. Divertendosi, nel frattempo. 

La loro voglia di sconvolgere è palese già con il primo singolo, The Beachland Ballroom, una ballata dall’intro delicato e romantico, lontanissima dalle corde della band. Eppure l’enorme talento e l’accorata interpretazione di Talbot rendono il pezzo inequivocabilmente malinconico e rabbioso.

Nonostante non vogliano dedicarsi solo al punk, provando ad inserire sempre elementi sonori innovativi per creare qualcosa di unico, la loro anima post punk esplode in When the Lights Come On, che risuona di chiare vibrazioni alla Joy Division.

Basso, batteria e le due chitarre (rispettivamente Adam Devonshire, Jon Beavis, Mark Bowen, Lee Kiernan) non si tirano indietro quando c’è da pestare seri, e in The New Sensation e Meds si fanno ben sentire.

La genialità di questo gruppo risiede nel fatto che tutti i membri hanno una personalità e un talento allucinante, ed ogni strumento risuona chiaro e preciso. A testimoniare ciò è l’incalzante intro di The Wheel, che prosegue per tutto il brano con un ritmo convulso, e la linea di basso è sempre più profonda e scandita. Il brano parla di un rapporto problematico con la propria madre e il ritmo insistente riesce a trasmettere l’angoscia di quella relazione complicata.

La dimostrazione della loro versatilità invece la troviamo in Car Cash, iniziando il brano con del rap metal (alla Rage Against The Machine), per poi concludere il pezzo con qualcosa simile a The Smashing Pumpkins (solo per far capire le sonorità trattate).

Uno dei brani più peculiari è senza dubbio Progress, un qualcosa che assomiglia più ad un mantra. Un brano utilizzabile tranquillamente per la meditazione, l’ennesimo esperimento stilistico degli Idles. Subito dopo, Wizz: trenta secondi di grindcore puro. Dopo la calma benefica di una preghiera c’era bisogno di una botta di adrenalina, è un po’ come il sorbetto di limone per togliere il sapore del pesce.

Quattordici brani per un’esperienza fuori dal comune. Una band che racconta di traumi, relazioni difficili, abbandono e sofferenza, ma anche di ripresa e auto-realizzazione. 

Una band che possiede talento, cuore e personalità.

E voi, siete dei moralisti?

Nel caso la risposta sia “No”, andatevi ad ascoltare questo album e lasciatevi scandalizzare!

 

IDLES

Crawler

Partisan Records

 

Marta Annesi

 

PS: Per capire la grandezza degli Idles consiglio l’ascolto di The God That Failed contenuto in The Metallica Blacklist. L’identità musicale della band è talmente consolidata da stravolgere completamente il brano per farlo definitamente loro.