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Tag: vez magazine

I Hate My Village: l’esigenza di bellezza balla a ritmo tribale

Una formazione d’eccellenza che non ha bisogno di presentazioni.

Un unico manifesto artistico: creare qualcosa di bello. Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) si sono incontrati puntando dritto a questo obiettivo.

È nato così un super-gruppo, gli I Hate My Village. Li abbiamo incontrati nel backstage del Supersonic Music Club, in occasione della data del 20 aprile a Foligno. Loro, schierati su un divano. Di fronte io, su uno scalino, con il palco alle spalle e tanta emozione. Un viaggio di andata e ritorno per l’Africa, tra curiosità, melodie sciamaniche, nuovi linguaggi e riflessioni sul villaggio musicale attuale.

 

Nel momento in cui si parla di una super-band scatta sempre il meccanismo mentale per cui non si sa se aspettarsi un progetto del tutto nuovo o un’opera di citazionismo legittimo dei rispettivi gruppi di provenienza. Su questa premessa, come nascono gli I Hate My Village?

Fabio: In realtà non sapevamo che cosa sarebbe venuto fuori. Il primo incontro è stato fra me e Adriano, in sala prove. Inizialmente l’intento era quello di vederci per suonare…niente di più. Avevamo già qualche idea da sviluppare quindi abbiamo dato al tutto una certa frequenza. Da lì, è venuto fuori il materiale per un disco che abbiamo poi portato da Marco, in studio. Un disco totalmente strumentale.

 

Quando avete detto: “Vogliamo Alberto Ferrari alla voce?”

F: Anche per quanto riguarda la linea vocale, la scelta è stata spontanea. Abbiamo chiesto ad Alberto se voleva unirsi per cantare quello che voleva, come voleva lui. Ed ha accettato.

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Perno centrale è il rimando a sonorità africane. Un tentativo di comunicazione, in musica, attraverso una lingua straniera. Che messaggio vuole veicolare?

F: Già nel nome del gruppo c’è un errore di pronuncia. Nome ispirato al titolo di un cannibal movie che gioca sui verbi odiare “hate” e aver mangiato “ate”. È vero, a noi piace la musica africana e lo spunto è stato quello…però non siamo africani… il risultato rimanda a questo enorme errore di pronuncia. Volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse e che consideravamo bello, nel senso più autentico del termine. Il messaggio, anche di stampo sociale e politico, ci si può comunque leggere: siamo noi, in questo caso, ad andare verso l’Africa? Anche noi viviamo in un piccolo grande villaggio, alla fine? Lo odiamo? Oppure…pensa anche al fatto che un errore di pronuncia tra “hate” ed “ate” l’avrebbe potuto commettere qualsiasi italiano…

 

Quindi anche gli altri equivoci lessicali in titoli come Tramp o Fame che in inglese sta per “fama, successo” sono più dei collegamenti o dei contrasti?

F: È un significato contenuto già nel titolo stesso del progetto appunto: facciamo musica africana ma poi non ci riusciamo. Anche noi abbiamo iniziato studiandola o facendoci guidare da ascolti precedenti. Ciò che emerge è l’originalità del disco.

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E quali sono le influenze, gli ascolti o le collaborazioni che hanno inciso maggiormente nella fase creativa?

Adriano: La musica africana ci ha influenzato anche in seguito a collaborazioni con artisti come Bombino e Rokia Traoré. Inoltre, nell’ambito della musica rock e blues, durante il corso degli anni Novanta si è susseguita tutta una serie di artisti africani che suonavano con le chitarre elettriche. Qualcosa che risultava molto difficile ascoltare negli anni Ottanta, famosi per le corde di nylon. È nato così un filone legato al rock ma di matrice africana: il Blues Tuareg o il Mali rock, ai quali ci siamo associati per gusto personale, mescolando le varie psichedelie del Fela Kuti dagli anni dai Settanta in poi.  Abbiamo approfondito questo linguaggio, spinti dall’interesse e dalla necessità di esprimerci con una musica basata su codici diversi, su una genesi differente per quanto riguarda la canzone e la stessa idea di band. La nostra non è una superband anni Novanta, è un po’ diversa, più contemporanea. Da non tralasciare il fatto che ci siamo ispirati a noi stessi. Se penso ai gruppi che amo di più della scena italiana sono i Calibro 35, i Jennifer Gentle, i Verdena o gli Zoo. Ci siamo trovati tra persone che si stimano a vicenda.

F: È un grande laboratorio. Poi, ovviamente, venendo tutti da altre situazioni più grandi, è normale che questo sia considerato come il b-project. Ma non è così.

A: Esatto, non c’è una classifica. La musica si fa perché viene. E volevamo fare una cosa bella…è questa la benzina, il motore che ha dato il via a tutto. E continua a farlo. L’esigenza di bellezza.

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Ricollegandomi al cannibal movie ghanese e alla copertina dell’album realizzata dall’artista romano Scarful, nel vostro progetto si rintraccia un “cannibalismo artistico”, un nutrirsi di idee. Quanto la musica italiana attuale si ciba ancora di curiosità, di sperimentazione?

F: Di sperimentazione ce n’è ancora tanta, ma non si vede così facilmente. Forse non trova il giusto spazio. Chi fa musica per lavoro spesso sceglie la strada più semplice da seguire. Soprattutto se vuoi fare musica perché preferisci non fare un cazzo nella vita…e magari ti riesce pure bene eh… allora quella è la via. Se invece hai qualcosa da dire, diventa tutto più difficile…ci vuole coraggio. Ovvio, c’è ancora chi sperimenta, magari nei teatrini da trenta persone. Però c’è. L’appiattimento esiste nella legge dei grandi numeri. Nei piccoli numeri, però, certe cose sopravviveranno sempre. Una cosa da non dimenticare è che per noi è più facile fare quello che ci pare. In questo ci ha protetto la natura di super band. A noi piace quello che abbiamo creato? Si. A voi no? Pazienza. Ci siamo sentiti liberi. L’intenzione era quella di arrivare anche al pubblico, certo. Divertirsi prima di tutto…addirittura intrattenere! Altro che sperimentazione… è l’esatto opposto!

Marco: Ma non è detto che i due aspetti siano inconciliabili, anzi!

 

È di qualche giorno fa l’annuncio del tour estivo. Il prossimo 10 agosto suonerete allo Sziget, uscendo dal “villaggio italiano”. Quali sono le aspettative sulle date all’estero?

F: In realtà, fin dall’inizio, avevamo concepito gli I Hate My Village come progetto internazionale tanto che volevamo uscire con il disco prima all’estero che in Italia. Ci stavamo anche riuscendo… poi una serie di circostanze ci ha fatto un perdere tempo e abbiamo deciso diversamente. Senza dubbio, l’estero è un sentiero inevitabile da percorrere.

A: Anche per far conoscere la nostra musica al di là dei confini italiani. Le caratteristiche si prestano molto: i testi sono in inglese, sono fruibili a tutti. Non vediamo l’ora.

IMGL6604Intervista di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani

Diario di una Band – Capitolo TRE

“E da qui… e da qui…
qui non arrivano gli ordini…
a insegnarti la strada buona…
E da qui… e da qui…
Qui non arrivano gli angeli”

Vasco Rossi

 

 

Non è sempre un gioco in cui si vince, non lo è, non lo è  affatto. Diventa maledettamente difficile in certe circostanze mantenere la lucidità, essere “legittimi” e macinare senza mandare al risparmio la materia della costanza.

Ci sono giorni, periodi soprattutto, che hanno lo stesso attrito di un peso di cemento legato alle caviglie, dentro al mare della vita, obbligato ad avere la forza per nuotare  troppo in alto per prendere l’ossigeno necessario.

La musica, quella fatta con la luce delle sensazioni e dell’entusiasmo appartiene alle persone che in dote hanno un empatia spiccata. Germogliano emozioni, il concerto raggiunge picchi di collaborazione col pubblico da far venire la pelle d’oca e ogni tanto perché no si arriva alle lacrime quando la mente è sgombera, immune, impermeabile da inganni e cattivi pensieri.

Essere in grado di sviluppare una situazione musicale avente al centro un cuore pulsante di emozioni rende tutto più facile e fluido. Si inerpica però con la stessa moneta quando il buio soppianta entusiasmo e propositi.

In questi casi però si ha l’obbligo e la responsabilità di marciare a testa alta contro un sole che prova a bruciarti gli occhi, e hai il maledetto compito di tenere duro, soprattutto quando si parla di un concerto live.

Puoi avere problemi con la fidanzata, può essere un casino la situazione in famiglia, puoi avere in coma un caro amico per un incidente avuto la sera prima del concerto a 500 km da casa, può morire il tuo cane che è praticamente parte della famiglia da quindici anni. Possono succedere tutte queste cose e tu non puoi farci proprio un cazzo di niente.

Quindi cerchi di distrarti, cerchi di evadere, ti ritrovi pure a pregare l’universo, a sperare che tutto possa sistemarsi per il meglio. In mezzo a questa situazione devi essere vigile e catalizzare la disperazione in energia positiva che anche a km di distanza possa raggiungere chi ha bisogno in quel momento di ogni molecola di speranza.

A volte va bene, a volte no. Sali sul palco col groppo in gola, con gli occhi vitrei e con la mano che trema. Parti e automaticamente credi sia l’ultimo concerto, il più importante di tutti, il concerto del giudizio. E lo è davvero perché hai la responsabilità di non lasciare al caso nemmeno un millimetro di banalità, lo fai per chi sta lottando, per chi è in bilico.

Il pubblico diventa un film muto, gli amplificatori sparano bolle distorte di vento caldo. Ti lasci accarezzare da questa brezza, cerchi gli sguardi dei tuoi compagni che sanno perfettamente cosa stai vivendo e provando. Uno strizza l’occhio, l’altro acconsente con la testa come a dire “stai facendo la cosa giusta, fagli vedere chi vince”.

Canti e pensi, gridi e pensi, prendi fiato e pensi, presenti un pezzo e strappi il colore del concetto del brano con le unghie e con i denti perché chi ti sta ascoltando si fida di te, forse è in una situazione speculare alla tua e ha bisogno di essere sollevato.

Qualcuno può avere perso il lavoro o aver subito un torto, qualcuno può essere andato in ferie dopo mesi di prigionia serrata, ognuno può avere la propria battaglia più o meno pesante da combattere.

E tu sei li perché devi deviare la tristezza sul binario della spensieratezza, ma sei il primo ad essere in un turbinio di paura e inquietudine. Quindi prendi l’ossimoro in questione, lo svisceri e ti metti la maschera di ognuno che hai davanti.

Lo fai come scappatoia perché loro non lo sanno, ma tu hai bisogno del loro supporto tanto quanto loro lo hanno del tuo. Nasce una comunione, un paracadute che parzialmente accontenta tutti, una tregua, un “cessate il fuoco” provvisorio ma che ha tanto il sapore di una boccata di ossigeno.

Finisce il concerto, cambio improvviso di scenario degno del miglior Tim Burton, ringrazi e abbracci i tuoi fratelli per la loro preziosa spalla diventata di granito, indissolubile. Decomprimi un attimo prima di smontare le tue cose dal palco.

Pensi che non serve a niente magari aver scritto il nome di Christian sulla chitarra, ma speri che una piccola vibrazione possa scuotere il sonno prematuro di un ragazzo buono. Vibrazione come quelle del Nokia 3310 per intenderci, quelle che ti facevano sobbalzare di notte ai tempi delle superiori e poi “si ciao, chi dorme più adesso?”.

E qui entra in gioco la tua fragilità, dalla quale però ora non devi più nasconderti perché sei fatto di carne, ossa e sentimenti come tutti, e nella lotta di chi cerca di distinguersi, essere mescolato alla massa è un sollievo, ti arriva una spasmodica e necessaria voglia di normalità, colmabile con una buona notizia sullo smart phone magari o con un abbraccio di chi oramai ti conosce come le tue tasche.

Sai che hai suonato al massimo per chi fa parte della tua vita, della tua quotidianità. Figure che non rivedrai forse mai più, e li vuoi fermare il tempo, cercando di capire se il limbo della paura può durare per sempre oppure no. Ora non devi vergognarti per nessuna cosa al mondo di ogni reazione, perché è legittimata dall’amore.

Qui si inizia a percepire il legame tra sacro e profano che unisce la morte alla musica. Sei spaventato, ma hai fatto della musica la tua ferma compagna, quindi esigi conoscere ogni sfaccettatura, ogni cunicolo buio da illuminare e la morte volente o nolente fa parte del gioco, un fottutissimo gioco in cui non vince nessuno.

Tutto si ridimensiona e ti appare il mondo come un posto che seppur influenzato e deteriorato da pessimi principi è giornalmente una chance da sfruttare. Capisci che ogni soddisfazione anche se misera è una piccola vetta scalata, un mattoncino su cui costruire, perché anche sulla macerie è doveroso provare a costruire.

Diventi piccolo e senza potere, si fottano la boria e la presunzione, davanti alla morte ogni obiettivo raggiunto è un prodigio, farlo con la musica è un privilegio da trattare coi guanti dell’umiltà.

Per avere una panoramica reale, a 360 gradi della vita che vuoi fare, sei obbligato a conoscerne ogni volto, anche il più scomodo e quest’arte è la dimostrazione vicina e più a contatto con le sensazioni della gente.

Canteremo anche del ricordo, perché sia presente ogni giorno nei gesti più comuni, in fondo la morte si può anche esorcizzare, con l’amore

 

A volte va bene, a volte no.

 

A Seppe

A Icio

A Pablo

 

Vasco Bartowski Abbondanza

VezBuzz: quella volta che i Radiohead sono spariti completamente (dal Web)

Un po’ per curiosità, un po’ per deformazione professionale, sono sempre stata attratta dalle tecniche di comunicazione adottate da artisti e band per promuovere i propri lavori. Forse qualcuno avrà già sentito parlare del “buzz”. Questa parola onomatopeica richiama il ronzio fatto dalle api.

Il buzz infatti viene utilizzato per generare sorpresa e curiosità, e di conseguenza brusio, o parlando di marketing sarebbe meglio dire “passaparola”. E non c’è bisogno che lo dica io, quanto il passaparola sia importante, soprattutto nell’era dei social.

Anche nella musica, sono tanti gli artisti che hanno adottato e messo in piedi strategie di comunicazione insolite, il buzz appunto, per lanciare i propri dischi o per creare interesse intorno a sé, in maniera spontanea. In questa rubrica, VezBuzz, parlerò dei casi più originali.

Il primo che mi interessa raccontare, anche per amore verso il gruppo, è quello dei Radiohead in occasione dell’uscita di A Moon Shaped Pool. Correva l’anno 2016 e a casa di alcuni fan della band che avevano fatto acquisti sul sito ufficiale, arrivò uno strano volantino. Oltre al logo dei Radiohead una frase: “Sing a song of sixpence / that goes ‘Burn the witch” e un minaccioso “We know where you live”.

Sing a song of sixpence è il titolo di una filastrocca per bambini, mentre Burn the Witch fa pensare alla caccia alle streghe. Tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio infatti, periodo in cui vennero consegnati i volantini, si festeggia la Notte di Valpurga.

In alcuni paesi del nord Europa questo rito pagano indica la fine dell’Inverno e per lungo tempo fu associato proprio alle streghe, per via dei riti, i baccanali e i falò che avevano luogo durante quella lunga notte. Non so voi, ma io ho i brividi.

A questo, seguì un altro fatto davvero, davvero insolito. I Radiohead, da un giorno all’altro, cancellarono completamente le loro tracce dalla rete. Il sito, i profili Facebook, Instagram e Twitter della band vennero completamente svuotati, così come scomparvero i tweet di Thom Yorke dal suo profilo personale.

Questo naturalmente portò i fan, ma non solo, a parlare, a fare congetture, a chiedersi come mai. Proprio loro, che in Kid A ci avevano spiegato “How to disappear completely” l’avevano fatto veramente.

Il 2 Maggio successe qualcosa di nuovo. Su Instagram apparve un piccolo video con un uccellino in stop-motion, che cinguettava con entusiasmo. Più tardi, sempre su Instagram, la band pubblicava un altro video criptico di un gruppo di persone mascherate che ballavano intorno ad una donna legata.

Finalmente il 3 Maggio 2016 arrivò il video di Burn the Witch, il primo singolo dopo cinque anni, con chiari richiami al film horror The Wickerman e ad uno spettacolo televisivo per ragazzi degli anni Sessanta, la serie Camberwick Green.

Il pezzo ha una potenza abbagliante e frenetica, con loop di percussioni elettroniche e il falsetto di Yorke immerso in un oceano di riverbero. Il resto è storia.

A Moon Shaped Pool non sarà ricordato come l’album più sperimentale dei Radiohead, ma di certo è stato un grande ritorno dopo The King of Limbs, non particolarmente amato da alcuni fan, forse tra i lavori più difficili della loro carriera.

I Radiohead hanno sempre fatto parlare di loro per la volontà di staccarsi dalle logiche promozionali della discografia. Il concetto di sparizione però, o sarebbe meglio dire di annullamento, non è qualcosa di nuovo, ma è l’essenza stessa della loro poetica.

Con la campagna di comunicazione e di attesa per A Moon Shaped Pool hanno eliminato e ucciso, metaforicamente, la loro precedente incarnazione e si sono trasformati in una versione attualizzata di loro stessi. La loro versione aggiornata al 2016.

Dai punti di domanda per la strategia, fino ad arrivare agli immancabili “rivoluzionari” e “avantissimo” pronunciati ogni volta che si parla della band dell’Oxfordshire, passando per le millemila analisi e disanime di quanto stava accadendo c’è una sola cosa che conta: che A Moon Shaped Pool sia uscito e che l’obiettivo sia stato raggiunto.

Certo, la grandezza della band e gli album epocali che hanno realizzato negli anni hanno avuto un ruolo importante nella sua anticipazione, ma con numerose band che hanno lo stesso livello di irriducibile supporto dei Radiohead, perché A Moon Shaped Pool ha attirato così tanto l’attenzione?

Per come la vedo io, la campagna di attesa che è stata messa in piedi per il web ha giocato un ruolo importante. Annunciando l’ora del lancio alle 19:00 di domenica 8 Maggio, due giorni prima del rilascio, la band aveva predisposto uno scenario che assicurava alla gente di aspettare con impazienza davanti ai propri computer, in attesa di fare clic sul download.

L’ascolto del disco è stato la cosa più simile ad un evento a cui si sia assistito da anni. Commenti sui social e la BBC Radio 6 che ha organizzato una sorta di festa con ascolto dal vivo e speaker che commentavano le tracce.

A Moon Shaped Pool è stato un’esperienza personale, ma vissuta con la consapevolezza che migliaia di altre persone stavano facendo la stessa cosa, nello stesso identico istante.

 

Daniela Fabbri

An evening with Manuel Agnelli @ Teatro Fabbri di Forlì

Abituata ai concerti degli Afterhours, in piedi, schiacciata alla transenna, è strano pensare di ascoltare le canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla mia adolescenza comodamente seduta su una poltroncina di velluto rosso, in un teatro.

Mentre cammino per le strade che mi portano al Teatro Fabbri di Forlì, in occasione di An Evening with Manuel Agnelli mi chiedo che pubblico troverò. Chi, come me, che ha iniziato ad amarlo durante la sua militanza nelle file del rock indipendente italiano oppure persone che lo conoscono soprattutto per i suoi ultimi trascorsi televisivi? Questa cosa mi spaventa un po’.

Mentre mi accomodo nel mio posto numerato, tiro un sospiro di sollievo. Il pubblico di Agnelli è cresciuto, è diventato più trasversale, ma il clima che si respira è lo stesso che ho incontrato in passato ai suoi concerti. Ci si scambia opinioni sull’ultima volta che lo si è visto live e mi accorgo che in tanti non hanno la minima idea di cosa aspettarsi da questa inedita serata concerto-evento.

La modalità d’impianto teatrale per alcuni musicisti non è però così nuova. Penso alle “Conversations with Nick Cave”, che tanto amo e che probabilmente anche Agnelli segue con interesse. Impossibile credere che non si sia ispirato a lui per questo format che tocca diversi ambiti, dalla conversione al concerto, passando per il reading.

Anche solo la vista del palco fa intuire quale sarà l’atmosfera della serata: un appendiabiti, alcune valigie, due poltrone, un giradischi, dei vinili, un plotone di chitarre pronte per le esecuzioni acustiche.

Rodrigo D’Erasmo e Manuel Agnelli arrivano sul palco alle nove e mezza passate, entrambi indossando un cappotto. Se lo tolgono e senza dire niente partono con il primo pezzo, una cover della canzone The Killing Moon di Echo and the Bunnymen, seguita dal primo dei tanti ringraziamenti al pubblico.

Agnelli sembra rilassato, “con la musica ho trovato il mio linguaggio. Ho iniziato a fare rock contro tutto e tutti, ma ad un certo punto ho perso l’obiettivo. Combattevo per qualcosa, ma non ricordavo più per cosa, così ho scritto questo pezzo“. È Padania la canzone che usa per iniziare a parlare di sé.

 

Manuel Agnelli Nicola Dalmo 2019 002

 

 

Tra una chiacchiera e l’altra si arriva a Male di Miele. Agnelli quando parla dell’album “Hai Paura del Buio?” che li ha consacrati alla storia della musica italiana, racconta con ironia di quei tempi, tutt’altro che facili per gli Afterhours.

La band era indebitata con lo studio di registrazione, nessuno voleva comprare il nastro, Manuel aveva perso il lavoro e la sua ragazza l’aveva lasciato. A quei tempi viveva sopra un negozio di animali che, quando passava davanti, parevamo ridere di lui.

Nonostante questo “ho iniziato a preoccuparmi solo quando i pezzi sono diventati allegri“. La versione di Come Vorrei al pianoforte è ancora meglio di quella in studio. Un pezzo dalle sonorità dolci, ma dal testo disperato.

Anche il successivo, Pelle, viene eseguito al piano, con l’accompagnamento del violino di Rodrigo. Il risultato è un’esecuzione ariosa del brano originale. Ammetto di aver temuto l’effetto nostalgia, ma tutti i brani rieseguiti durante An evening with Manuel Agnelli acquistano una nuova identità, senza per questo tradire quella che già conosciamo.

L’ironia non manca mai, nemmeno quando tocca alcuni dei momenti più difficili della sua vita. È il caso di “Folfiri o Folfox”, l’ultimo album di inediti che racconta della morte del padre. Un lavoro catartico, dove “la musica è venuta in soccorso, per buttare fuori le tossine“.

Curioso pensare che proprio un disco così difficile e pesante, sia arrivato primo in classifica. Quando Agnelli e D’Erasmo eseguono Ti cambia il sapore il palco si tinge di verde e di blu, come se fossero imprigionati dentro un acquario, a fare i conti con il dolore. L’esecuzione è da brividi.

Si apre il momento “miti”, con una cover di The Bed di Lou Reed, tratta dall’album “Berlin“. Questo brano era la colonna sonora dei primi viaggi in giro per l’Europa di Agnelli, e dei suoi primi approcci con il sesso.

Come può un album come questo fare da sfondo a dei rapporti sessuali di un ragazzino di sedici anni? Manuel ha la risposta: “ci si nasce con questa sensibilità. Il sesso allegro non mi è mai interessato. E chissà, forse sono proprio io l’inventore del sesso emo“. Probabilmente l’aneddoto più divertente tra i tanti che Agnelli condivide con il pubblico, e proprio questi racconti sono uno dei tanti elementi che arricchiscono il live.

Bianca ottiene una piccola ovazione. Al termine del pezzo i due vanno a sedersi sulle poltroncine in fondo al palco e mentre bevono un bicchiere di vino Agnelli legge un brano di Ennio Flaiano.  Poi a ritmo serratissimo, eseguono una cover irriconoscibile dei Joy Division. Il pezzo è più simile a come l’avrebbe suonato Nick Drake, che ai suoni graffianti e caustici della band di Ian Curtis.

Uno degli aspetti più interessanti di questo concerto-evento è sentire parlare Agnelli dei suoi miti musicali e riferimenti culturali. E di quelli che, inaspettatamente, non l’hanno mai influenzato nonostante con la loro musica abbiano sancito un periodo storico. È il caso di Kurt Cobain, che oggi sarebbe quasi coetaneo di Manuel.

Erano gli anni Novanta, cadeva il muro di Berlino e in Italia imperversava Mani Pulite. Sembrava che l’onestà e la verità, stessero per vincere su tutto il resto. Il mondo poteva cambiare, finalmente tutto era possibile, nella società, nella Musica, ovunque. Poi, Kurt si suicidò e mise il sigillo a quel periodo storico. Tutto cambia per rimanere uguale.

L’abilità di Agnelli, spalleggiato dal fondamentale Rodrigo D’Erasmo, è di aver messo in piedi uno spettacolo intimo e toccante, delicato e profondo, carnale e leggero. Si passa da una lettura a un aneddoto personale, da una cover a un pezzo storico degli Afterhours, senza quasi accorgersene.

Come quando si è tra amici veri, quelli a cui si vuol bene, che tra un bicchiere di vino e il consiglio di un buon libro o un disco, si finisce a tirare tardi.

La cover di State Trooper di Springsteen è una delle meglio riuscite di tutta la serata. Tra l’urlo riverberato di Agnelli e il violino di Rodrigo, che sembra riprodurre il suono del sistema nervoso, non viene tradita la forza del pezzo che parla di chi non è mai riuscito ad integrarsi, di chi vive ai margini, dei diversi.

Il concerto scivola via, una diapositiva dopo l’altra, con Manuel che si racconta molto anche nel privato, dalla prima telefonata di Mina arrivata quasi per caso nel 1995 agli inevitabili talent. Agnelli dice di essersi liberato, durante quell’esperienza televisiva.

Di aver capito che molta della musica che viene prodotta oggi è “musica di merda“, ma che in mezzo a tutto questo ci sono pezzi interessanti e che, spesso e volentieri, è proprio sua figlia a farglieli conoscere. È il caso di Lana Del Ray. La cover di Video Games è il pezzo che non ti aspetti, eppure sembra essere tutto al posto giusto. Il pubblico ascolta incantato.

Sono passate più di due ore dall’inizio del concerto, ma il ritmo è ancora sostenuto. Nell’ultimo “encore” infila Ballata per la mia piccola Iena, Ci sono molti modi e Non è per sempre con il pubblico che canta – male – insieme a lui il ritornello. Mi scoppia il cuore.

È il momento dell’ultimo pezzo che “servirà a togliervi quello stupido sorriso ingiustificato dalla faccia“, ci dice Manuel con un’espressione da gatto. Parte Quello che non c’è.

Al termine del concerto il pubblico si alza in piedi, Agnelli e D’Erasmo se ne vanno tra gli applausi.

Quello che si è visto sul palco del Teatro Fabbri è un nuovo Manuel Agnelli, più leggero, più risolto forse, che non ha tradito quello che è stato. È una nuova versione che ha portato il musicista ruvido e puro, tutto nervo e rabbia, a una nuova dimensione, colta, irriverente e autoironica.

 

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L’impressione che ho avuto è che Agnelli abbia voluto rompere con un certo passato che forse gli stava stretto da un po’. Quello dell’ambiente “indie” che spesso, in Italia, fa rima con snob e autoreferenzialità.

Probabilmente stanco di quel clima asfittico, pieno di limiti, di barricate e di regole, Agnelli durante questa serata ha rivendicato più volte il desiderio e il diritto di fare quello che vuole, di essersi guadagnato la propria libertà.

Anche quella di non prendersi, finalmente, troppo sul serio.

 

Testo: Daniela Fabbri

Foto: Nicola Dalmo

Diario di una Band – Capitolo Due

“Ma con chiunque sappia divertirsi mi salverò
Che viva la vita senza troppo arricchirsi, mi salverò
Che sappia amare, che conosca Dio come le sue tasche”

Rino Gaetano

 

 

Caparezza disse che è sempre stato contrario ai talent show perché la musica non è una gara. Questo pensiero mi ha fin da subito affascinato, un po’ come un coro da stadio riuscito dopo un gol al 90esimo minuto. Rimasi di stucco appena lessi quelle sue parole, cosi semplici se ci pensiamo, ma cosi terribilmente rivoluzionarie in rapporto allo sterile dominio televisivo che ha gradualmente e capillarmente condizionato il palinsesto musicale.

Qualcuno potrebbe dire “ è facile parlare male del main stream quando non ci sei dentro”, giustissimo.

Però, e sottolineo però, bisogna capire la vera logica di un artista, di una band o di un cantautore. Il tipo di contributo che può dare una forma d’arte quando alla base è semplice gioia di creare, andando oltre ad ogni concetto d’ imposizione, oltre ogni numero di graduatoria e oltre a ogni conto in banca.

In sintesi è libertà allo stato puro, impermeabile da tossine, eretta su di un concetto che sosteneva fino a tempi non sospetti le possibilità e le speranze di giovani e meno giovani sognatori di professione, in balia di un settore che ancora consentiva colpi di scena .

Sembra assurdo come la ricerca della libertà espressiva sia deragliata fuori concorso, un presupposto anacronistico che personalmente destabilizza e preoccupa. Nessuno negli anni ’70 avrebbe pensato che in Italia la figura del cantautore avrebbe raggiunto tale resa, un po’ come il tracollo di Blockbuster per fare un esempio pratico, in fondo chi l’avrebbe mai detto?

Si modifica il corso degli eventi, si riduce al minimo lo sforzo per avere accesso alle possibilità, la gavetta è percepita come un gesto di autolesionismo, il paladino armato di chitarra è stretto tra gli slogan e la pochezza di un movimento denominato “Indipendente” o “Indie”, come preferite.

Vera macchina fotocopiatrice che vomita cloni più o meno bellocci da spremere per quel poco di tempo che serve ad alimentare il motore di un mercato sempre più lontano dalla bellezza della musica per quella che è, per quella che ci ha fatto innamorare e credere di poter cambiare le cose, (per lo meno migliorarle).

Da “pischello” i miti del punk rock erano una sorta di miraggio, idoli che spesso portavano alla frustrazione. La California dentro e fuori , il riflettore, la festa perfetta marchiata post America Pie. Bello, figo e allettante. Impazzivo sognando e sognavo impazzendo.

Si suonava, ci si provava e si cadeva spesso fino al punto che però la musica passava in secondo piano. Quando l’apparire diventò più importante dell’essere, inevitabilmente il giochino si ruppe senza possibilità di rimettere i cocci al loro posto.

Un chiaro segnale, molto tenue, ma palese e lungimirante su ciò il futuro avrebbe riservato, come possiamo toccare oggi con mano e orecchi.

Decisi di mollare la presa, lasciando la penna e la chitarra in un angolo per tre anni. Fino al primo viaggio a Dublino, dove l’assenza di pretese e castelli troppo grandi, mescolati alla scoperta di una cultura musicale e umana molto simile a quella del popolo Romagnolo mi hanno spinto a riprendere lo smalto abbandonato.

Reinventarsi con stimolo, sulle macerie di una passione che ha tracciato una cicatrice profonda e dolorosa. Mescolare le carte del passato e dell’imminente scoperta è stata una sfida troppo allettante. Gli astri poi si sono allineati, i compagni di viaggio arrivati come fossero li pronti a rispondere alle armi, inneschi e propositi incastrati come una partita perfetta a Tetris e condivisi dalla gente che gradualmente, aumentava ad ogni concerto.

E dopo appena tre anni di lavoro ho avuto la soddisfazione di poter suonare in molte occasioni, in Italia e all’estero al fianco di artisti che in giovinezza mi avevano condizionato e riempito di inavvicinabili aspettative solo perché io prendevo quello che non andava osannato, la presunzione.

Situazioni che sono arrivate inderogabilmente dal momento in cui l’assillo di arrivare e di dover eccellere non esisteva più. Aver una mentalità flessibile, che si accontenta ma che non si abitua all’ordinario, combattere la noia e consacrare i propri principi, i propri luoghi d’appartenenza, rapportare alla musica uno stile di pensiero e non ragionare solamente sul pentagramma.

Contornarsi di persone che abbiano la veduta semplice, serena e determinata, che sappia ridere e piangere quando è necessario, che ami la natura e per natura ami la vita.

C’è chi i castelli deve costruirseli per arrivare al cielo e chi in un castello vero e proprio ha la fortuna di creare e personalizzare tutto il tempo utile.

La predisposizione di chi ha scritto le pagine felici della storia non sono da ricercare nelle aspettative o nella scaltrezza di saper cogliere il momento giusto per comporre la melodia giusta, tra tenacia e paura lo scalino è breve. L’assillo di convincere la massa senza prima convincere se stessi è un rischio grosso che porta a conclusioni sterili o comunque a un prodotto fasullo.

Apprezzo chi lo fa, l’ha fatto e lo farà per la causa unica, la ricerca spasmodica di qualcosa di puro e personale che sia degno di essere ricordato e che possa rendere un po più semplice la vita di chi non per scelta è costretto a vivere nelle difficoltà.

Scrivo queste righe da persona libera e suono la mia musica da persona libera, per questo sono sereno di dire sempre quel cazzo che mi pare.

Il mondo non lo cambieremo ma per lo meno proviamo a colorarlo, perché in ogni caso le matite funzionano anche con la punta sbeccata.

Non aspettarsi niente, ma essere consapevole di poter dimostrare tutto.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

A Ferrara si va “Fortissimo”

Matteo Bianchi ci racconta la sua “Penna”

 

2 DICEMBRE

 

«I don’t want to be the one / left in there, left in there»… laggiù, in una cittadina tra i campi, sul cuscino di lui lei aveva sistemato una mattina il suo pigiama, prima di andare al lavoro. Si sa quanto i pigiami siano morbidi. E magari sono quello che portiamo addosso di più sincero. Spontanei, a volte scontati. Quello che basterebbe per svegliarsi bene il primo gennaio. Il suo aveva un biscotto enorme, tante stelline e tante piccole lune su un cielo blu. E lui che con gli occhi la seguiva da mesi sul finire del turno, in mezzo alla folla degli acquisti, sapeva che ci sono cieli e notti in giro che riempirebbero una casa. Più delle luci di Natale. Notti sfogliate solo nei racconti che l’avrebbero scaldato più del solito cappotto grigio. Quello da battaglia, appeso vicino all’entrata. Di solito lei dormiva sul fianco destro, lievemente raccolta, con le braccia al petto; perciò, quando spegnevano la luce al secondo piano in una stanza tra le tante, lui le prendeva le mani e la stringeva a sé. In due si vede anche al buio, e il buio stesso si fa inconsistente. Talvolta si svegliava per assicurarsi che lei non avesse freddo, le baciava i capelli che si erano sciolti sul cuscino e tornava ad appoggiare il viso sulla sua schiena, sperando di avere altri dieci minuti a disposizione, sebbene del tempo non gli importasse più granché.

 

 

Copertina Fortissimo 1 

 

Il libro si intitola Fortissimo (Minerva), comprende un mezzo piano e si apre con dei versi degli Anthony and the Johnsons. Quali e quante musiche ci sono in questo libro?

«Il testo di Hope there’s someone si sovrapponeva a quello che sentivo per la persona di fianco a me in quel momento. La musica è la prova di una coincidenza che diventa emozione. Anche il tono e il timbro vocale erano adatti alla circostanza. Fortissimo e Mezzo piano hanno sia una connotazione fisica di spazio, legata alla percezione della realtà circostante, sia una temporale: il mezzo piano è il mezzanino di ogni condominio che consente incontri momentanei, in cui ci si dice tutto con uno sguardo. Esiste una sfumatura musicale che lega i due titoli: sono entrambi indicazioni dinamiche dell’intensità sonora e, astraendo, offrono la possibilità di dare volume alle conseguenze delle nostre azioni».

 

Se dovessi scegliere una (o più d’una) canzone da ascoltare in sottofondo, leggendo le tue poesie, quale sarebbe?

«Mi hanno accompagnato nella stesura l’intero Bon Iver, Bon Iver, Solitude di Ryuchi Sakamoto, Odradek di Alva Noto, proprio per affrontare il buio. È stata la reazione visionaria di questi artisti, ognuno con il proprio stile, a convincermi; il modo con cui si sono opposti all’incombenza del passato sul presente. D’altronde “il sogno è l’infinita ombra del vero”, scriveva Pascoli».

 

Secondo te, poesia e musica mantengono ancora oggi il legame indissolubile che hanno fin dalle origini?

«Decisamente. La prima parte del libro è una prosa poetica, vale a dire una prosa costruita mediante figure retoriche, prevalentemente di suono. Uso assonanze, allitterazioni e rime in quantità per sostenere quello che di fatto è un flusso di coscienza. Un monologo interiore che asseconda i miei stati d’animo. È il riflesso di quello che ho provato, e la musica mi è fondamentale per tenere insieme il discorso. Dove non c’è logica e razionalità, e nella poesia non c’è, la musicalità è un medium: dà alla parola lo slancio necessario per arrivare all’orecchio del lettore, non solo alla sua mente. Non applico una struttura metrica tradizionale abbastanza solida o lavorata, sono andato a orecchio».

 

E il mondo della musica e quello della letteratura trovano ancora qualche connessione?

«Sono in realtà molto scoraggiato, mi demotiva parecchio il panorama attuale, perché il punto di collisione più forte era quello cantautoriale, anello di congiunzione tra testo poetico e musicale. Siamo circondati da prove scadenti, non trovo contemporanei viventi degni di nota. Forse solo Nicolò Fabi riesce a tenere il punto, e, quando è in forma, Samuele Bersani, poiché dimostra un grande rispetto nei confronti della lingua, questo per quanto riguarda i più giovani. Guccini, Branduardi e Vecchioni sono indimenticabili soprattutto per le prime prove; Battiato e Tenco, ovviamente, e pure Gino Paoli agli esordi. Ma la cosiddetta “scuola genovese” in toto, conquistata dalla passione di De André: “Sono evidentemente fortunato – annotava sotto le ciglia – soprattutto quando riesco a trasformare il disagio in qualcosa di bello e magari anche di utile, non necessariamente di memorabile”.

Un altro filone interessante è quello che unisce il rap al poetry slam, la poesia d’occasione incanalata su un tema a richiesta. Io non sono vicino a quel metodo di scrittura: nel poetry slam la forma si impone troppo sul contenuto rischiando di impoverirlo, non solo di storpiarlo. Davanti a un impoverimento cambierei approccio, per questo non l’ho mai concepito, anche perché scimmiotta un’urgenza, è un volersi dare un tono d’emergenza che di fatto non corrisponde alla realtà. Non c’è più la ricerca di equilibrio».

 

I temi portanti del libro sono l’amore, il tempo, la quotidianità. Qual è il filo rosso che tiene tutto insieme?

«Il filo rosso della raccolta è la necessità di innamorarsi, perché spesso, anche se non sempre, innamorarsi o riuscire a innamorarsi ancora rende liberi.  Che poi sia una libertà illusoria ed effimera, che non può fare i conti con la realtà, è vero, ma l’esigenza rimane. Se vogliamo tracciare un parallelo musicale, ciò che lega i miei testi è l’innamoramento che dà il la a un sentimento amoroso, proprio come la prima nota avvia un brano».

 

Irene Lodi

Limbrunire e l’innovazione nel cantautorato

Siamo nell’era dell’emulazione, del – tutti copiano tutti – con la convinzione che la stessa formula valga e funzioni a prescindere da quelli che siano i contenuti di ogni singolo individuo.

Siamo nell’era in cui la musica sembra un grosso contenitore, a tratti fin troppo piccolo, incapace di racchiudere così tante note e parole, ma la cosa più difficile è senza dubbio quella di distinguersi ed “emergere” facendo la differenza.

C’è un ragazzo che sa bene come fare, sa bene come farsi riconoscere senza che ci sia neanche lontanamente il rischio di non essere identificato e questo accade per due motivi: il primo riguarda i testi delle sue canzoni, tutti lontani dalla parola “banale” perché ha la straordinaria capacità di descrivere e raccontare in un modo tutto suo ciò che sente e lo fa con estrema cura nella scelta delle parole da usare e accostare l’una all’altra.

Il secondo riguarda la sua persona, il modo in cui percorre la strada che ha scelto “lottando” a mani nude e con la sua chitarra creando musica vera, proteggendo e conservando la sua identità artistica che coincide perfettamente con la sua identità personale e umana.

Il ragazzo in questione si chiama Francesco Petacco, meglio conosciuto come Limbrunire un giovane talento proveniente dal levante ligure che ho scoperto qualche mese fa grazie al suo ultimo singolo “Ho – Oponopono” estratto dal suo primo disco: “La spensieratezza”  uscito a giugno del 2018.

La prima cosa che ho pensato ascoltando quella canzone dal titolo quasi impronunciabile è stata: “Che genio!” e la stessa esclamazione mi ha accompagnata durante l’ascolto di ognuna delle restanti tracce del disco che ho ascoltato e riascoltato fino a conoscerle a memoria.

Limbrunire ormai mi accompagna “all’imbrunire”di molte delle mie giornate, soprattutto durante i viaggi in macchina.

Con la sua musica è un po’ come fare un “viaggio nel viaggio” e ho aspettato prima di chiedergli un’intervista, perché volevo andare a fondo.

Volevo capire bene quali fossero i suoi messaggi e quale fosse la sua linea che si è rivelata ben presto una bellissima linea curva, proprio come la vita di ognuno di noi…

E’ solo che poi c’è qualcuno che ha una sorta di “dono” nel raccontarla e risulta quasi impossibile non rimanerne affascinati.

Ecco alcune delle mie curiosità….

 

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Facciamo subito un passo indietro prima di arrivare ad oggi e all’uscita del tuo primo album: La spensieratezza Chi era e quali erano i sogni di Francesco prima di diventare Limbrunire?

Francesco era ed è un ragazzo come tanti altri con una grande passione diventata nel tempo sostanza vitale e necessità primaria come la testa fuori dall’acqua dopo secondi d’apnea. I sogni di Francesco in realtà sono fiori di un prato che vengono annaffiati costantemente, a volte appassiscono ma poi rinascono più grandi e colorati di prima, alle volte vengono raccolti e regalati ad un sorriso come un battito di ciglia, di stupore. Francesco ha sempre creduto nelle possibilità di ogni individuo e come tale sente il bisogno di mettersi in gioco per lasciare un punto esclamativo su questo interrogativo passaggio! La condivisione per Francesco è un pasto fondamentale così come la curiosità di andare oltre i propri limiti, circoscrivere la temuta drammaticità del tempo a favore del qui ed ora, dell’essere presenti appieno, adesso!

 

L’uscita di un disco è il primo e vero confronto diretto con il grande pubblico, è il traguardo al quale si arriva attraversando vari step che vanno dalla stesura di un testo alla sua registrazione. A distanza di quasi un anno dal giorno di uscita del tuo debut-album e dopo aver avuto modo di portare in giro la tua musica con un bel tour in giro per l’Italia, qual è la parte che hai amato o che ami maggiormente di quello che hai avuto modo di vivere grazie a questa esperienza e in generale del tuo percorso musicale personale?

Chiudere i flight-case, preparare la valigia, salire in auto, fermarsi agli autogrill, le cazzate, i chilometri on the road, le domande, i dubbi, le tensioni, i gradini, il palco, il sound-check, il riscaldamento, il bicchiere di vino, l’ultimo briefing e l’abbraccio con la band, l’ok, 3..2..1, la sensazione d’infinito! Turbinio d’emozioni e lacrime trattenute a stento, nastri riavvolti.

 

C’è un tuo brano che amo in particolar modo e che ad ogni ascolto mi regala una riflessione in più perché riesco a cogliere sempre qualche dettaglio che la volta prima mi era sfuggito ed è Non è allarmante. Prendendo spunto proprio dal suo testo, per te di cos’è fatta quella bellezza (da tramandare) e come inganni le forze contrarie?

La bellezza da tramandare risiede dentro di noi, nella nostra anima, nella fratellanza e riconoscenza, nella mano allungata e non nel pugno in faccia, nei piccoli gesti e negli spazi grandi, negli abbracci sinceri, nella presenza! Il mondo è pregno di bellezza ma l’odio, la brutalità, la malvagità ahimè fanno più notizia, hanno maggiore appeal mediatico e catalizzano maggior interessi, e tutto ciò che si ripete ciclicamente se viene servito come unico pasto quotidiano alla fine diventa paradossalmente buono, l’alibi sul quale addossare un nemico. Io credo che l’impegno di ognuno possa risiedere nel tramandare i flussi positivi e non considerare quelli negativi, nell’ignorarli completamente. Martin Luther King affermava:

“L’odio genera l’odio, la violenza genera la violenza, un conflitto genera conflitti ancora più grandi”.

Io credo che la bellezza possa generare solo bellezza, la non violenza la pace, la gratitudine e riconoscenza solo un mondo migliore. Gli esempi sono fondamentali perché noi un giorno saremo gli antenati di coloro che verranno! La mia missione risiede in questo, nell’essere ricordato come “artista” ma ancor prima come persona.

 

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Seguendoti molto sui social, ho avuto modo di vedere che hai fatto da poco un viaggio a Praga e da lì hai pubblicato la foto di un foglio pieno di parole, ci sono nuovi progetti in cantiere? E a proposito di viaggi, se avessi la possibilità di teletrasportarti in questo istante da qualche parte, dove andresti e perché?

Ci sono sempre nuovi progetti in cantiere, vivo di progetti, mi aiutano ad essere intenso e costantemente stimolato, ad essere proiettato sempre sul prossimo step da compiere! Nell’immediato uscirà un nuovo singolo con relativo videoclip e dopo… Chissà. Se avessi la possibilità di teletrasportarmi adesso sarei in Islanda o in Nuova Zelanda, comunque sia agli antipodi di dove sono adesso, per immergermi totalmente nell’ambiente selvaggio, lasciarmi rapire da scenari unici e creare un tutt’uno con gli elementi per ridimensionare l’ego e riconsiderare me stesso.

 

Se dovessi descriverti con uno stato d’animo, quale sceglieresti e perché?

Nostalgico perché ho la sensazione che qualcosa ci sia sfuggito, che qualcosa ci manchi.

 

Ultima domanda: quali sono gli elementi fondamentali della tua felicità? Li hai tutti in questo momento o c’è qualcosa che ti manca?

Non so cosa sia realmente la felicità, ci sto lavorando. So cos’è l’altopiano della serenità, il benessere psico-fisico e quello che mi permette di essere allineato. Mi manca sempre e comunque una cosa ma non la dirò per scaramanzia, la sto cercando da anni!

 

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Ringrazio Francesco per aver condiviso un pezzettino del suo mondo raccontando qualcosa in più di sé stesso e vi consiglio di ascoltare il suo album (disponibile su tutte le piattaforme online) per intraprendere uno di quei viaggi di cui vi parlavo poco fa, in grado di far guardare tutto quello che ci circonda ogni giorno da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati.

Se a scuola durante l’ora di musica ci fosse la possibilità di studiare i testi delle canzoni, proporrei senza dubbio di analizzare alcune delle sue.

Chi mette attenzione in quello che fa, poi quella stessa attenzione la merita ed automaticamente l’attira.

Limbrunire in questo è un fuoriclasse.

 

Claudia Venuti

Un anno di VEZ musica

Ogni anno mi trovo nei giorni che precedono il Natale a pensare alla classifica delle migliori canzoni che ho ascoltato nell’anno che sta volgendo al termine.

Mi rendo conto che, soprattutto recentemente, è molto difficile come operazione perché escono sempre meno dischi leggendari, cosa che porta di conseguenza alla malinconia degli anni passati.

Una malinconia che non è solo tale dal punto di vista musicale, a mio avviso.

Ma la musica, così come la vita va avanti.

La musica come procede, però?

La musica, attraverso nuove forme di espressione e mediazione rimane sempre la compagna della nostra vita e così come la tecnologia, cambia anche la modalità di fruizione.

 

Si dice poi che si comprano sempre meno dischi e si ascolta molta meno musica nuova. Tutto questo nonostante la musica sia gratis e facilmente raggiungibile per tutti.

Ma è proprio vero?

Vorrei con questo articolo, smentire il luogo comune ormai diffuso che vede additare la musica attuale come una produzione di scarsa qualità, perché penso che di buona musica ne esca ancora. Basta cercarla.

C’è chi per voi qualcosina ne ha scovata, perché se una volta si andava dal negoziante di musica per chiedere dei consigli, oggi il vostro “genius” si chiama VEZ Magazine.

Quando ho pensato a questo articolo mi sono chiesto: “ma faccio la solita classifica o cerco di coinvolgere tutti i collaboratori di VEZ?”

Lo sport e la vita mi hanno insegnato che è sempre meglio condividere le proprie emozioni per cercare di poter migliorare me stesso e chi mi sta a fianco.

Tutto questo ha portato ad un articolo che sembra banale ma che alla fine reputo un grosso lavoro di squadra.

Il bello di lavorare per una rivista come VEZ è quello di vivere tra tante teste pensanti con diversi gusti dal punto di vista musicale.

Il mio lavoro è stato solo quello di unire tutte le forze del gruppo per estrapolare una compilation molto varia in modo da esprimere in musica l’anno che è stato per VEZ .

Non ci sono spiegazioni per l’inserimento di una canzone rispetto ad un’altra, la musica parla da se.

Ogni canzone di questa playlist rappresenta un momento ben preciso del 2018 per tutti noi.

Questo è il nostro modo di dirvi grazie per tutto il sostegno che ci date e che ci permette di crescere e migliorare.

In questo periodo di festa spero possiate trovare un momento per ascoltare questa Playlist, da soli o in compagnia, magari in viaggio.

Vi propongo un estratto da un film che spiega in pieno il mio pensiero su cosa deve essere una playlist perfetta.

 

Non mi dire che non hai mai fatto un viaggio da solo in macchina! Ma dai, tutti quanti dovrebbero fare un viaggio da soli almeno una volta nella vita! Solo tu e un po’ di musica!”

 

Carlo Vergani

 

 

The Smashing Pumpkins

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 • The Smashing Pumpkins •

 Unipol Arena – Bologna // 18 Ottobre 2018

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Ieri sera Gli SMASHING PUMPKINS hanno concluso il loro tour all’Unipol Arena di Bologna con 3 ore e 15 minuti di concerto.

Una scaletta che sarebbe stata riconoscibile anche da quelli un po’ meno fan di quello che sono io, che non potevo credere di essere realmente nello stesso posto di Billy Corgan.

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Gli Smashing Pumpkins hanno subito scaldato il pubblico con Disarm, una canzone che è quasi evocativa per i tempi in cui viviamo anche ora e lui ci spedisce subito un sorriso.
Non ho potuto fare in modo di non vedere una sorta di parallelismo in questa scelta come brano d’apertura.
Attorno a me il clima che si respira è proprio quello che mi sarei aspettata da un concerto di un gruppo come gli Smashing Pumpkins, che per lungo tempo hanno calcato le scene e hanno riunito sotto un genere particolare con una voce altrettanto originale, un pubblico sempre più eterogeneo.
Giovani, molto giovani, meno giovani (come noi) e pubblico di mezza età che cantavano e saltavano. Bellissimo.

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Billy corgan ha una voce che pare è rimasta tale e quale, delle chitarre e una batteria che non sembrano nemmeno suonati dal vivo.
Una scaletta che ancora adesso mi fa commuovere al solo pensiero, perché se già non avevo ricevuto una botta di emozioni tutte assieme con Disarm all’inizio, Billy ha pensato bene di incasellare una dopo l’altra canzoni come Tonight , Tonight, Today, la splendida e mia preferita 1979 e Ava Adore, tra gli altri.
Tre ore e un quarto quindi.
Un tempo davvero unico, trascorso con tutti i membri di VEZ Magazine.
Eravamo cinque realmente presenti, ma la nostra chat “aziendale” è stata ricca scatti e note audio. Per stare comunque tutti assieme.

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SETLIST:

Disarm

Rocket

Siva

Rhinoceros

Space Oddity
(David Bowie cover)

Drown

Zero

The Everlasting Gaze

Stand Inside Your Love

Thirty-Three

Eye

Soma

Blew Away

For Martha

To Sheila

Mayonaise

Porcelina of the Vast Oceans

Landslide
(Fleetwood Mac cover)

Tonight, Tonight

Stairway to Heaven
(Led Zeppelin cover)

Cherub Rock

1979

Ava Adore

Try, Try, Try

The Beginning Is the End Is the Beginning

Hummer

Today

Bullet With Butterfly Wings

Muzzle

Encore:
Silvery Sometimes (Ghosts)

Baby Mine
(Betty Noyes cover)

Foto per gentile concessione di Luigi Rizzo

Testo: Sara Alice Ceccarelli[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Mercury Rev

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Mercury Rev @ Teatro Moderno – Savignano Sul Rubicone // September 13, 2018

+ Herself

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Dopo avere inaugurato a Milano le quattro date italiane, gli americani Mercury Rev arrivano a Savignano per festeggiare i vent’anni di Deserter’s Songs , a detta di tutti il loro album capolavoro.
Deserter’s Songs è il quarto disco dei Mercury Rev, uscito nel 1998 a sette anni da Yerself Is Steam , il loro disco d’esordio.
Successivamente pubblicheranno tra alti e bassi altri quattro album, varie raccolte ed una colonna sonora, ma Deserter’s Songs rimarrà il picco della loro carriera.
Questo capolavoro “dream pop” è arte. L’inconfondibile voce di Jonathan Donahue, canzone dopo canzone ci guida nel suo mondo, fatto di pura magia.
Un concerto intimo con un meraviglioso Teatro a fare da cornice ad una folla incantata da melodie quasi fiabesche. Canzoni fuori dal tempo, come in un racconto medievale denso di suoni e strumenti.
Erano i primi anni 2000 quando un amico mi fece ascoltare questo disco, chiusi gli occhi, perdendomi in quelle melodie, in quella bellissima Opus 40 , forse la mia preferita.
E questa sera è stato come riaprire gli occhi dopo vent’anni.

Tears in waves minds on fire / nights alone by your side

ed è subito pelle d’oca.

Ringrazio come sempre DNA Concerti ed i ragazzi di Retro Pop Live per l’accoglienza.

Foto e Testo: Luca Ortolani

 

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Opening:

Herself (Gioele Valenti)

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Setlist:

The Funny Bird

Tonite It Shows

Peaceful Night

I Collect Coins

Hudson Line

Here

Endlessly

Delta Sun

Sea Of Teeth

Goddess

Holes

Opus 40

Dark Is Rising

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Cosmo

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Cosmo @ Festareggio // August 30, 2018

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Cosmo.

Cosa dire? Che bomba!

10 anni fa pubblicava il suo primo disco ufficiale coi Drink To Me e ora lo ritroviamo tra gli artisti emergenti più affermati del panorama italiano.

Se Dr. Jekyll e Mr. Hyde sono diventati l’emblema della doppia personalità in campo letterario forse Cosmo potrebbe esserlo in campo musicale. Una doppia anima è la caratteristica del suo nuovo disco Cosmotronic. Il mondo pop si incontra con il clubbing in un dualismo che riesce ad esaltarne le singole parti.

Due facce di una stessa medaglia, due personaggi che esistono uno in funzione dell’altro, due viaggi in parallelo ben distanti ma anche così dannatamente legati. Un giovane artista per cui la sperimentazione è vita.

Nulla è dato per scontato e nulla è lasciato al caso. Tutto è studiato nei minimi dettagli ma la sorpresa è sempre dietro l’angolo, tanto da domandarsi “cosa combinerà in questo live?”.

La libertà è probabilmente uno dei suoi più grandi cavalli di battaglia e ciò che gli permette di potersi realizzare appieno come artista. Dalle parole, ai mix alle grafiche tutto passa quasi interamente da lui. Un artista a tutto tondo a cui piace lavorare in casa, offrendo un prodotto che non si può negare essere a km 0.

Se in questa nuova avventura ha voluto curare molto la parte strumentale non ha però abbandonato il lato pop estremamente comunicativo ed è l’empatia rimane la sua più grande forza.

L’abbiamo visto chiaramente al concerto del 30/08 a Reggio Emilia.

Determinato più che mai a coinvolgere i presenti, Cosmo ha invitato a nascondere i cellulari e godersi a 360 gradi lo spettacolo. Così finalmente la potenza della musica ha riconquistato il suo posto in vetta, troppo spesso rubato dagli schermi.

Il pubblico ha allora potuto ballare e cantare come non mai al ritmo di una nuova era nella musica italiana.

Mille grazie a DNA Concerti e a FestaReggio per la bellissima serata.

 

 

Foto Mirko Fava

Testo Martina Boselli[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8455″ image_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8448″ image_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”8464″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8463″ image_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8457″ image_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8458″ image_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”8460″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8459″ image_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”8454″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8449″ image_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8452″ image_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”8451″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8462″ image_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”8456″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1517934209414{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][edgtf_single_image enable_image_shadow=”no” image=”8446″ image_size=”full”][/vc_column][/vc_row]

Nick Murphy fka Chet Faker

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Nick Murphy fka Chet Faker
@ Circolo Magnolia // August 22, 2018

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Thanks to Live Nation / Indipendente Concerti

 

 

 

 

 

 

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