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Tag: vez magazine

Groundation al Parma Music Park

Dopo la recente inaugurazione, entra nel vivo la programmazione del Parma Musica Park, presso la Villa del Fulcino di San Polo di Torrile. A giugno si susseguiranno le date di Cannibal Corpse, Groundation, Capo Plaza, MadMan, Pinguini Tattici Nucleari e I Hate My Village – che recuperano la data rimandata per pioggia – più il festival a tema dedicato a Woodstock e la Fiera del Mistero. I biglietti sono tutti in prevendita sul circuito Ticket One, online e nei punti vendita.

Sul fronte peace and love, sabato 15 festival dedicato a Woodstock e alle sue sonorità, nel cinquantesimo anniversario dell’evento musicale più importante di sempre, e a seguire, lunedì 17, concerto degli americani Groundation – che tornano in Italia per presentare il loro ultimo lavoro “The Next Generation”. Early ticket a 10 euro più prevendita, ancora per poco tempo.

Canzone d’autore, rap, pop, rock, indie, reggae, metal. Ce n’è per tutti i gusti nel programma del Parma Music Park. Per restare sull’ultimo citato, il metal, la parte del leone spetta ai Cannibal Corpse, formazione storica del genere in concerto a San Polo di Torrile martedì 25 giugno con il tour di “Red Before Black”, apertura dei Sadlist. Ingresso 34,5 euro compresa la prevendita.

Giovedì 27 giugno si recupera la data de I Hate My Village rimandata per pioggia. Uno dei gruppi rivelazione del 2019, che nasce dall’incontro tra Fabio Rondanini alla batteria (Calibro 35, Afterhours) e Adriano Viterbini alla chitarra (Bud Spencer Blues Explosion e molti altri), accomunati dalla passione per la musica africana e dall’esigenza di dare voce alla loro ricerca del “groove perfetto”. Ingresso gratuito.

Capo Plaza suonerà dal vivo venerdì 28 giugno con “20”, il suo primo album, pubblicato nel 2018 e insignito con due dischi di platino: un bel traguardo per il giovane rapper salernitano reduce anche da un tour europeo – cosa non particolarmente comune per un artista italiano – che si è concluso con un sold out all’Alcatraz di Milano. Ingresso 23 euro più diritti di prevendita.

Sabato 29 giugno i Pinguini Tattici Nucleari, con il nuovo disco uscito a marzo “Fuori dall’Hype”. Giovanissimi, con oltre 20 milioni di streaming e più di 7 milioni di visualizzazioni su Youtube, Pinguini Tattici Nucleari sono una delle band più interessanti di questi ultimi anni. L’album è anticipato – tra gli altri – dal singolo Verdura, che ha superato il milione di ascolti su Spotify in poco più di un mese. Ingresso 20,7 euro compreso di prevendita.

L’ultimo appuntamento del mese, domenica 30, sarà con la Fiera del Mistero, evento dedicato all’esoterismo e alla magia, per la prima volta nel parmense. Ingresso 7 euro più diritti di prevendita.

WØM FEST 2019

WØM FEST 2019

Nei giorni 7 e 8 giugno nel parco della storica Villa Bottini di Lucca

WØM FEST 2019 – Il tuo genere preferito

Saranno La Rappresentante di Lista e i Fast Animals and Slow Kids gli headliner del WØM FEST 2019, nei giorni 7 e 8 Giugno nel parco della storica Villa Bottini di Lucca.

In questa edizione il festival di primavera, organizzato dall’associazione culturale WOM, vuole puntare l’attenzione sulla parità tra uomo e donna, dedicando la prima giornata a concerti di voci femminili e la seconda a voci maschili.
Saranno infatti 
Emma Morton and the Graces e la giovanissima Boyrebecca ad accompagnare La Rappresentate di Lista il primo giorno, mentre gli esterina e i Metropol saliranno sul palco con i FASK il secondo.

Oltre all’attenzione verso la proposta musicale, il WØM FEST ha voluto sottolineare la cura particolare verso quegli aspetti che potranno rendere migliore possibile l’esperienza del festival per il proprio pubblico.

Scegliere la splendida e accogliente cornice di Villa Bottini, in continuità con le precedenti edizioni, evidenzia l’obiettivo di proporre una location suggestiva, ma anche piacevole e rilassante. Oltre alla Zona Food, con una proposta culinaria variegata e comprendente anche street food di qualità, ci sarà una zona Expo con uno spazio dedicato al vinile e a diverse produzioni artistiche, ad opera di giovani artisti trasversali, tra dipinti e fumetti, stampe e disegni.

L’intenzione del WØM è quella di rendere l’area del festival un luogo ospitale che potrà accogliere il pubblico già dalle ore 18.00, per poter degustare un aperitivo di qualità con la musica selezionata da diversi DJ.

Vi aspettiamo tutti al WØM FEST, da venerdì 7 a Sabato 8 Giugno a Lucca!

Biglietto giornaliero: 12 euro + d.p.
Abbonamento due giorni: 20 euro + d.p.
Prevendita: www.diyticket.it/festivals/9/wom-fest

Gli artisti del WØM FEST 2019

DAY 1
Venerdì 7 Giugno 2019 @ Villa Bottini di Lucca

La Rappresentante di Lista ore 22,00
L
a Rappresentante di Lista è una band che nasce nel 2011 dall’incontro tra la cantante Veronica Lucchesi e il chitarrista Dario Mangiaracina. Il 14 dicembre 2018 è uscito “GO GO DIVA”, terzo lavoro in studio della band pubblicato da Woodworm Label. Progetto che fonde scrittura, teatro e forma canzone, La Rappresentante di Lista prosegue la ricerca avviata con i precedenti lavori “(Per la) Via di Casa” e “Bu Bu Sad”. La band, forte negli anni anche di una costante e urgente attività live, è a oggi tra le nuove realtà più trasversali e interessanti del panorama musicale contemporaneo.
https://www.facebook.com/larappresentantedilistaufficiale/

Emma Morton and the Graces ore 21,00
Emma Morton ha conquistato il grande pubblico durante la sua esplosiva partecipazione all’ottava edizione di X Factor, arrivando in semifinale dove ha presentato il suo inedito “Daddy Blues” pubblicato da Sony Music e conquistando il 2° posto delle classifiche iTunes con oltre 240mila ascolti su Spotify. Da allora la musicista scozzese ha continuato il suo percorso ricevendo premi e riconoscimenti tra cui il “Music is Great Award” conferitole nel 2015 dal governo inglese, e collaborando ed esibendosi con artisti come Olly Murs, Paolo Nutini, Raphael Gualazzi, Glen Hansard, Gary Lucas, Petra Magoni, Alejandro Escovedo e DJ Molella.
https://www.facebook.com/emmamortonandthegraces/

Boyrebecca ore 20,30
Boyrebecca è un progetto musicale rap-fluid che nasce dall’esigenza di riunire vari interessi dell’artista sotto lo stesso tetto. Musica, video, moda e grafica convivono con uno stile kitsch, divertente e arrogante.
24 anni, monella, un po’ femmina un po’ maschio.

https://www.facebook.com/loveboyrebecca


DAY 2

Sabato 8 Giugno 2019 @ Villa Bottini di Lucca

Fast Animals and Slow Kids ore 22,00
I Fast Animals and Slow Kids nascono a Perugia alla fine del 2008: quattro musicisti (Aimone Romizi, Alessandro Guercini, Alessio Mingoli e Jacopo Gigliotti) frequentano il liceo e suonano in band locali. A febbraio del 2017 arriva “Forse non è la felicità”, il quarto album su Woodworm Label della definitiva consacrazione, che li porta a suonare in un lunghissimo tour nella Penisola, confermando così il loro live come uno dei migliori tra le band rock italiane. Proprio in questi giorni uscirà il nuovo singolo “Non potrei mai”, gustoso antipasto del nuovo su Warner Music Italy e in collaborazione con la consolidata famiglia pluriennale Woodworm Label e Locusta Booking, previsto per prima metà del 2019.
https://www.fask.it/

esterina ore 21,00
esterina è un gruppo indie rock italiano. Attiva dal 2008 è una presenza carsica nel panorama musicale nazionale. La sua produzione, tra post-rock e canzone italiana, è un emblema di biodiversità musicale e di divergenza parallela con la scena indie contemporanea. Un rock autoctono composto di dinamiche estreme, di suoni vintage e di elettronica, appassionato alle parole, alle storie minori, ai dolori personali e ai paradigmi della felicità.
http://www.esterina.it/

Metropol ore 20,30
Sono in quattro e arrivano da Viareggio: i Metropol raccontano la loro generazione e la vita di provincia con le chitarre distorte e la spensierata disillusione della fine dei vent’anni. Con un Ep all’attivo (“Farabola”, 2017) e numerosi live in giro per la Penisola (suonando con artisti quali Gazebo Penguins, Giorgio Canali, Any Other e molti altri), i Metropol daranno alla luce nell’autunno 2019 il loro primo disco “Un Nuovo Inverno Nucleare”, realizzato sotto la produzione artistica di Karim Qqru (Zen Circus) e Andrea Pachetti.
https://www.facebook.com/metropolbandIT/

TICKET


I biglietti per WØM FEST sono in vendita su Do It Yourself, l’innovativo servizio di biglietteria per eventi e spettacoli che semplifica il processo di acquisto a tutti gli utenti, a costi contenuti e attraverso molteplici canali di vendita.
Grazie alla partnership con SisalPay, DIY è presente con i suoi eventi lungo tutto lo Stivale: chiunque, infatti, può scegliere se acquistare il biglietto online su
www.diyticket.it, pagando con carta di credito o prepagata, e stamparlo comodamente a casa propria oppure affidarsi ad uno degli oltre 40.000 Punti SisalPay presenti in tutta Italia (bar, tabaccherie ed edicole), scegliendo il proprio biglietto online e ritirandolo, con pagamento in contanti, in ricevitoria. In alternativa, è possibile prenotare i biglietti chiamando lo 06 0406 e finalizzare il pagamento, in contanti, nei punti SisalPay.


www.womfest.it

www.facebook.com/pg/wommovement

Dale: la rivincita del pop made in Italy

A volte trovare musica italiana dal respiro internazionale sembra essere un vero e proprio rompicapo. Eppure, il nostro bel paese è pieno di giovani artisti pronti ad affacciarsi al mercato d’oltre oceano. Noi di Futura 1993 ne abbiamo scovata una in particolare: si chiama Dale ed è una promettentissima cantautrice pop dalle origini italo canadesi. Il suo nuovo singolo autoprodotto “Yes, I Will”, uscito martedì 30 aprile, ci parla di rinascita tramite sonorità pop che rimandano ai primi anni 2000. Fresca di questa nuova uscita, abbiamo deciso di farle qualche domanda per scoprire la sua storia, la sua musica e le sue ispirazioni.

 

Ciao Dale! È appena uscito il tuo ultimo singolo “Yes I will”, ci racconti cosa significa questo brano per te? 

Ciao! È appena uscito e ne sono molto contenta. Sono stata lontana dalla scena inedita per un anno e questo brano segna il mio “ritorno sulla scena” con conseguente e decisivo cambio di rotta sul piano artistico. Ho variato il team, provato nuove collaborazioni e ho tirato fuori un brano che nessuno si sarebbe aspettato da me con un testo che racconta tutti i rifiuti che mi hanno frenata molte volte e il perché non succederà mai più.

 

E come sta andando l’accoglienza da parte del pubblico?

Con “Yes, I Will” ho deciso di complicarmi le cose: a differenza dei singoli precedenti non ho

potuto contare su collaborazioni o partecipazioni di enti/persone per la diffusione del brano: in questo caso sono solo io e ogni consenso che sto ricevendo per me vale il doppio perché è stato ottenuto con le mie sole forze. È stata una piacevole sorpresa vedere apprezzato questo mio nuovo sound, mi sta permettendo di allargare il mio pubblico e mi ha chiarito ancora di più le idee sulla strada da seguire.

 

Ora parlaci un po’ di te. Quando e come nasce la tua passione per la musica?

Da che ne ho ricordo, sono sempre stata attratta da tutto ciò che avesse a che fare con la musica. Non c’è stato, dunque, un particolare momento che ha segnato l’inizio di questo grande amore. Sin da piccolissima ho sempre ballato e cantato in giro per la casa seguendo il mio personale concetto di “performance” appreso in primis attraverso lo schermo dalle principesse dei grandi classici Disney. Nel corso degli anni ho poi coltivato la mia passione attraverso studi di danza, canto e recitazione.

 

Domanda di rito ma necessaria, quali ascolti hanno maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?

Quand’ero bambina, in macchina durante il tragitto casa-scuola, ho sempre ascoltato le maggiori hit anni ‘80 presenti nelle playlist di mio padre e credo di aver assorbito molto da quei brani. Quando ho cominciato ad ascoltare musica per conto mio, mi sono riconosciuta subito nel pop amando poi sopra tutti Britney Spears. Sono influenzata in generale da tutto il pop dei primi anni 2000 sia femminile che maschile (ad esempio Justin Timberlake) e dalle produzioni di Timbaland e Max Martin.

 

Hai un sound decisamente internazionale e scrivi brani in inglese. Sei italo-canadese ma so che vivi in Italia, cosa ha condizionato questa scelta linguistica?

Ho doppia cittadinanza e doppia nazionalità, sono nata in Italia, parlo in italiano, vivo, mangio e penso in italiano, mi piace l’idea di potermi avvicinare alle altre mie radici esprimendo i miei sentimenti attraverso la musica. È una scelta personale, ma non troppo ponderata perché mi è molto più facile scrivere in inglese. Non nego comunque che un domani potrò sperimentare di cantare in italiano o in francese sempre per restare fedele al mio background familiare.

 

E invece come valuti l’attuale settore discografico in Italia? 

Chiuso, improntato quasi esclusivamente sulla lingua italiana e poco incline all’internazionalità. È un settore che rischia poco, che investe solo su progetti identici tra di loro perché ormai si punta solo su ciò che saprai già di poter vendere, che si alimenta solo tramite personaggi (spesso anche validi) che emergono dai talent o contenuti virali. Secondo me si potrebbe fare molto di più e con ottimi risultati.

 

Con chi ti piacerebbe collaborare, sia in Italia che all’estero?

Sinceramente non saprei scegliere di preciso qualche artista italiano perché non ho ancora

individuato qualcuno che possa avere una visione musicale simile alla mia, in ogni caso sto continuando a monitorare il panorama e magari presto avrò una risposta anche a questa domanda. Per una collaborazione estera… ultimamente mi ha conquistata Ava Max quindi ammetto in tutta sincerità che adorerei collaborare con lei. In ogni caso una collaborazione con una qualsiasi artista pop d’oltreoceano sarebbe sempre e comunque accolta a braccia aperte!

 

Ultima domanda, cosa dobbiamo aspettarci dal tuo progetto? Puoi anticiparci qualcosa?

Sicuramente un altro brano a breve (credo di aver già deciso quale), sto lavorando a delle demo per un progetto parallelo in cui credo molto e lavorando a un featuring che mi vedrà protagonista di una canzone dove probabilmente non canterò solo in inglese… non vedo l’ora!

 

Alice Lonardi

 

Futura 1993 è il network creativo creato da Giorgia e Francesca che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro. Seguici su Instagram, Facebook e sulle frequenze di Radio Città Fujiko, in onda ogni martedì e giovedì dalle 16.30

 

VezBuzz: di quando Jack White lanciò Freedom at 21 con dei palloncini

Perché limitarsi ad un banale lancio “on air” radiofonico, quando si può letteralmente far prendere il volo alla propria musica?

Jack White deve aver pensato qualcosa del genere quando ha escogitato uno dei buzz più originali degli ultimi anni. Infatti, in occasione dell’uscita del singolo Freedom at 21, che precedeva l’album Blunderbuss si inventò qualcosa di davvero inconsueto, destinato a rimanere nell’imperitura memoria dei tanti che, come me, hanno imparato ad apprezzarlo con i White Stripes e hanno continuato ad amarlo in ognuna delle sue successive reincarnazioni. Infatti, che Jack White sia un genio della Musica, non c’è di certo bisogno che lo dica io. Non tutti però sospettavano fosse anche un genio del Marketing.

Correva l’anno 2012, i White Stripes si erano già sciolti l’anno precedente e Jack White aveva già pronti nel cassetto i pezzi che avrebbero poi dato vita a Blunderbuss, il suo primo album da solista.
Tra questi c’era Freedom at 21, un brano insolito per il musicista di Detroit, con elementi musicali che ricordano l’hip hop, una ritmica asfissiante e una chitarra che spettina. E poi c’è il testo, che si interroga su come un uomo possa diventare vittima di una donna.

Per il lancio di questo singolo la Third Man Records, l’etichetta discografica di White, fece qualcosa di particolare. Il 1° Aprile 2012 infatti il brano venne inciso in 1000 esemplari su disco flessibile e collegato ad altrettanti palloncini blu, gonfiati ad elio, che vennero liberati in aria nel cielo di Nashville.

Il flexi-disc è un supporto in vinile, molto sottile e leggero, che può essere arrotolato e piegato. Ai palloncini vennero poi attaccate anche delle cartoline con le indicazioni su come informare la Third Man Records del ritrovamento. Secondo le statistiche almeno un centinaio di persone sono entrate in possesso di uno di questi preziosi esemplari, diventati oggi dei veri e propri oggetti da collezione.

Molti sono atterrati nei pressi di Nashville, poco lontano dal luogo del lancio, il quartier generale della Third Man Records. Come era prevedibile, il lancio dei palloncini ha conquistato i fan e ha permesso di ottenere una grande visibilità.

Il 17 aprile di quello stesso anno, solo per darvi la dimensione di quello che ha potuto generare questa operazione, il sito della Third Man Records informava i gentili utenti che “in un’asta di eBay una copia del disco flessibile Freedom at 21 lanciata da un aerostato della Third Man è stata venduta ad un prezzo di $ 4.238,88. Il prezzo più alto mai pagato per un flexi-disc”. Pensate quindi che bella sorpresa per la famiglia Coker, in Alabama, che pare aver trovato un intero carico di palloncini aggrovigliati insieme, incastrati tra i rami di un albero all’interno della loro proprietà.

Freedom at 21 venne poi rilasciato anche per un download digitale e come singolo in vinile, nel mese di Giugno.

In questo video potete vedere il momento del lancio dei dischi.

 

 

So cosa vi state chiedendo: sì, belli i palloncini, ma la plastica? E all’ambiente, non ci ha pensato nessuno? Con buona pace degli ambientalisti, Jack White invece in quell’occasione pensò proprio a tutto. I palloncini utilizzati erano completamente biodegradabili. Così come le cordicelle, tutte prodotte con materiali naturali.

Quello di Jack White deve essere immaginato come un esperimento. Un tentativo di esplorare forme di distribuzione “non tradizionali”, in modo da far arrivare questo singolo anche nelle mani di persone che solitamente non frequentano i negozi di dischi. Oltre, naturalmente, a far parlare di sé.

Anche se, a dirla tutta, White non è estraneo a questo genere di operazioni, folli ma con una punta di poesia. Chi conosce un po’ la sua storia non sarà rimasto sorpreso. Infatti, prima della Third Man Records, prima dei White Stripes, prima dei Raconteurs, Jack White era solo un tappezziere di Detroit con una curiosa abitudine.

Si divertiva a nascondere all’interno dei divani che riparava foglietti con piccole poesie. Da qui alla più recente operazione denominata “vinile nello spazio”, dove, per festeggiare il quindicesimo compleanno della sua etichetta discografica, è stata lanciata oltre l’atmosfera una navicella spaziale con a bordo una speciale apparecchiatura, la Icarus Craft, in grado di far suonare un vinile, il nostro eroe non si è più fermato, inanellando una trovata pubblicitaria creativa dopo l’altra.

Jack White infatti non è solo uno degli artisti più dotati della scena contemporanea, ma è anche uno dei musicisti che ha contribuito maggiormente al ritorno del vinile.

Lo ha fatto grazie alla sua Third Man Pressing, un luogo dove il vinile prende forma, tra macchinari tedeschi antichi ed altri nuovissimi, ma anche con operazioni come il lancio di Freedom at 21, o realizzando una versione del singolo Sixteen Saltines per veri maniaci, stampata su vinile trasparente pieno di liquido traslucido e con un’incisione riproducibile del logo Third Man.

Per come lo vedo io, quello di Freedom at 21 è un bel modo di promuoversi e sostenere un po’ di sano “feticismo” del vinile, oltre che aggiungere un nuovo tassello alla leggenda di Jack White, ogni giorno più genio sregolato del mondo della Musica.

 

Daniela Fabbri

Jaspers, quelli che…

“UN INCONTRO CASUALE DI SEI MOLECOLE CHE SCONTRANDOSI CREANO REAZIONI STRANE E INASPETATTE”

I Jaspers non sono solo la band ufficiale del programma sportivo di Rai 2 “QUELLI CHE IL CALCIO” ma sono sei ragazzi che si sono conosciuti per caso, erano tutti studenti del CPM MUSIC INSTITUTE di Milano dove un po’ per gioco e un po’per scherzo hanno iniziato a provare, fino a scegliersi reciprocamente e definirsi come i più pazzi della scuola.

Non a caso hanno scelto questo nome, un chiaro omaggio al filosofo e psichiatra Karl Theodor Jaspers: “quale nome se non quello di uno psichiatra per descrivere, rappresentare dei pazzi?” hanno confessato a Vez Magazine.

“Solo insieme possiamo raggiungere ciò che ciascuno di noi cerca di raggiungere” (Karl Theodor Jaspers)

 

Jaspers 2

La band nata 10 anni fa, nel 2009 è composta da Fabrizio Bertoli (voce), Giuseppe Zito (voce), Erik Donatini (basso), Eros Pistoia (chitarra), Francesco Sgarbi (tastiere) e Joere Olivo (batteria).

Sin dal loro primo live ognuno di loro è salito sul palco con un proprio alter ego e un diverso costume di scena. Così è nato anche il loro primo album “Mondocomio”, un concept album incentrato sulla pazzia e la malattia mentale che affligge i nostri giorni.

Ora, sette anni dopo il loro debutto discografico avvenuto nel 2012 sono tornati con un nuovo album “non ce ne frega niente” che è anche il titolo dell’omonimo primo singolo estratto.

Si tratta di undici brani che ripercorrono insieme un viaggio, e rappresentano per la band un punto di arrivo definitivo da una parte, di partenza dall’altra. Un album che contiene la vera essenza dei Jaspers, la loro identità, l’essere eclettici e soprattutto uscire fuori dagli schemi come solo loro sanno fare. Un album in cui si nota la crescita e la maturazione artistica accompagnato dalla voglia e la continua ricerca di innovazione.

Il singolo omonimo “non ce ne frega niente” rappresenta il perfetto lancio per l’album. Uscito lo scorso tre maggio, è un brano pop/rock che descrive la nostra società così frenetica, distratta e indifferente. Menefreghista appunto.

Uno spaccato delle generazioni più giovani e non solo che ormai vive la propria vita attraverso un telefono e i social. Siamo sempre più avatar di noi stessi, ci nascondiamo dietro il nostro ego, sempre più privi di emozioni, sentimenti ed empatia nei confronti di chi abbiamo di fronte e questo crea inevitabilmente dei problemi per e con la collettività.

Come ci ha raccontato Giuseppe quel “non ce ne frega niente” diventa un vero e proprio motto.  Autentico come la volontà di andare verso nuove strade, percorrere un nuovo viaggio magari anche rischiando e dall’altra è la vera, reale fotografia di un comportamento sempre più attuale.

Album e singolo vogliono strizzare provocatoriamente l’occhio verso una sempre più presente indifferenza generale di questi tempi così moderni ma anche così bui dove si è (purtroppo) più interessati ai like e al mondo virtuale che alla quotidianità concreta e reale.

Un album che è frutto di collaborazioni importanti tra i Jaspers e un super team di quattro produttori: Cass Lewis  (Skunk Anansie), Diego Maggi (Elio e Le Storie Tese), Larsen Premoli (Destrage, Jarvis) e Jason Rooney (Negramaro)

Non a caso la prima e l’ultima canzone della track list dell’album rimandano e riassumono questo viaggio di formazione della band: “L’Happiness” è un brano ricco di simpatia, ironia ed energia positiva che sarà anche il prossimo singolo ad essere estratto dall’album.  Scritto da Franco Mussida (PFM) trova il featuring con Paolo e Luca conduttori di “quelli che il calcio” dove i Jaspers sono resident band dal 2017. Mentre si conclude con una versione alternativa e inedita di “palla di neve” , precedentemente eseguita solo dal vivo e che da due anni a questa parte è la sigla finale sempre del programma di Rai 2.

Cosi le sfumature e le molte facce di questa band molto versatile si riversano tutte in questo album, un disco divertente e sempre vivo. Un album in cui anche la scelta compositiva è stata cangiante, proprio come i cambi di abiti di scena quando si esibiscono live e che rispecchia il perfetto stile Jaspers.

Infine, a proposito di progetti futuri ci hanno rivelato che la loro intenzione è quella di continuare a scrivere brani, fare tour in modo tale da portare la loro musica a più persone possibili, magari negli stadi. Ci stanno lavorando, intanto le date che li vedranno protagonisti questa estate le trovate sul loro sito www.jaspersofficial.com

Originali, camaleontici e riflessivi, you rock Jaspers!

Ivana Stjepanovic

 

JASPERS 1

 

ALBUM TRACK LIST

L’HAPPINESS feat. Luca & Paolo

Mr. MELODY

IN FONDO AL MAR

MASTICA

IL CIELO IN UNA STANZA

TONALITà

NON CE NE FREGA NIENTE

VODKA E NOCCIOLINE

MILIONI DI STELLE

ECLISSI DI SOLE

PALLA DI NEVE – EXTENDED VERSION LIVE

 

 

Diario di una Band – Capitolo Cinque

“Vecchia sporca Dublino, per un figlio che ritorna sei una madre che attende al tramonto, con la puzza di alcol, coi baci e le canzoni per chi è stato un prigioniero lontano”

 

Modena City Ramblers

 

 

Ci sono luoghi che inevitabilmente ti rendono schiavo per tutta la vita. Dato di fatto.

Adesso però facciamo un ragionamento impopolare. Esuliamo dal canonico e regolamentato significato negativo che si attribuisce ordinariamente al termine “schiavo” e proviamo a incastonare in maniera positiva e forse paradossale questa parola in un contesto dalle vibrazioni dall’alto coefficiente costruttivo, anche se di per se, per come la conosciamo non può suggerire nulla di positivo.

Tutto avrei pensato in realtà, ma non sicuramente di trovare del buono in questo termine. Invece esistono catene, fili invisibili che non per forza limitano le movenze di vita e nemmeno lasciano cicatrici come una sgradita eredità nel binario del tempo che evolve.

Che sia un legame dovuto a una particolare esperienza, che sia un incontro che abbia segnato il destino di un amore, un bivio che abbia scandito una scelta importante, che sia la città dove la tua squadra del cuore abbia raggiunto un insperato quanto tanto atteso risultato sportivo. Nulla sarà più come prima, e certi luoghi ogni volta che torni a metterci piede non avranno mai un sapore scontato.

La musica come ogni forma d’arte ha diritto e necessità di avere una propria dimora, un focolare dove svilupparsi, un fuoco che vada a riscaldare e a rinnovare di luce una tradizione fatta di parole e sensazioni.

Penso su due piedi alla magia nordica dell’Islanda quando ascolto i Sigur Ros, intravedo Boston quando mi lascio ispirare dai Dropkick Murphys, mi immedesimo nell’appenino tosco-emiliano quando ascolto certi versi di Guccini, scopro mezzo mondo, in un turbinio temporale unico nel suo genere, quando analizzo De Andrè.

Amo pensare appunto, tramite la mia esperienza e concezione di vivere e sviluppare l’ascolto, che la musica e le parole figlie dalla farina del mio sacco abbiano la stessa presa sull’ascoltatore, un rapporto tra scoperta e ricerca.

Essere identificato, messo in correlazione a un luogo o più luoghi risulta una conquista dall’inestimabile valore interiore che poi esplode nell’entusiasmo costruttivo del quotidiano, perché nella verità dei fatti l’intento di questi brani prevede e richiama a certe isole felici.

La condivisione capillare e l’adrenalina che ne concerne a questo punto supera la maggior parte delle fonti di successo ordinario. La gratificazione concettuale, per chi la riconosce, sa che detiene e comanda le sorti dei dettagli.

Ampliare lo specchio dei significati emozionali, vedendo ogni sfaccettatura spirituale della musica come un tassello di un puzzle in 3D.

La mia storia racconta l’aver ritrovato fiducia nella musica dopo un viaggio fondamentale, e mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita adesso, se quel giorno di marzo del 2009 non avessi preso quell’aereo per Dublino.

Quando l‘attitudine batteva il cinque al superfluo, quando l’impellenza di fare musica per fare successo aveva lasciato spazio ad una partita che non ha mai retto il confronto con ciò che in realtà, nel mio profondo desideravo fare.

La penna prendeva polvere, i cassetti in camera si riempivano ogni giorno di più come uno scantinato troppo piccolo per contenere un grande mondo lasciato a se stesso. La scrivania che diviene giorno dopo giorno una prolunga dell’armadio, sempre più un semplice punto di accumulo di vestiti e vecchi propositi.

Il tempo passa, la musica si allontana, l’anima diventa sottile, lo spirito diventa una camicia bianca uguale ad altre mille, dentro a una discoteca qualunque, piena di gente qualunque che cerca di passare un sabato sera qualunque, per tornare poi ad una vita inevitabilmente qualsiasi.

Credere nella musica tramite certi luoghi è un modo di darsi un senso, come disegnare la propria figura e scegliere uno sfondo che sia più vicino possibile alla meta che si vuole raggiungere.

Vale per chi fa musica, per chi dipinge, per chi scrive.

Il contesto in cui si sviluppa un pensiero artistico è inevitabilmente legato a un luogo, a un mondo, che non per forza debba esistere realmente. La magia dell’immaginazione risiede anche in questo, non avere vincoli di spazio e tempo per sentirsi a casa ed essere libero, a proprio agio, leggeri.

Ecco qui si sposa l’ossimoro perfetto, essere schiavo dell’immaginazione più efferata e determinare la libertà creativa totalizzante. “sono schiavo dell’infinito e della fantasia, posso fare tutto ciò che voglio, perché nella mia visione di arte le regole le detto io”.

Sarebbe bello in tempi infausti come questi, avere una generazione curiosa che sappia riscoprire un linguaggio unitario basato sul concetto di calore domestico e farlo conoscere al mondo.

Detto ciò bacchetto anche i più grandi perché non è mai troppo tardi per reinventarsi, darsi un nuovo punto di vista. Non è mai troppo tardi per imparare un’arte, tutto è delineato dalla soglia di una curiosità che forse non si sa nemmeno di possedere, la fatica a questo punto è farla emergere.

E su questo credo anche i più navigati debbano ragionarci, avendo la consapevolezza che un viaggio o un luogo non contemplato possa aprire e nel miglior caso delle ipotesi, spalancare porte preziose.

In fondo il senso di appartenenza si può ridurre a una singola stanza, paese, castello, uno spazio delineato e particolare, dalla storia propria e dalla vita propria, oppure ancor più con stampo anarchico si può essere semplici cittadini del mondo. Di un mondo sbagliato magari, ma di una sfera che ancora ruota nel senso corretto anche grazie a energie e intenti di pionieri presi poco sul serio.

 

Non sentitevi mai da soli quando avete un luogo sempre presente nel vostro modo di pensare, in fondo ovunque sarete, prima di dormire, vi farà sempre sognare.

 

 

 

AMORE E PSICHE: TREVISO IL CUORE, LA DOGANA IL NUCLEO. ECCO CORE FESTIVAL APEROL SPRITZ

Passione e progetto: la grande musica italiana, le radici di Home Festival per un nuovo disegno. La lettera aperta del founder Amedeo Lombardi: “Treviso, preparati al futuro”

 

Sono passati dieci anni e siamo diventati maturi e la maturità porta a naturali cambiamenti, a cercare nuovi e ponderati stimoli, a creare nuovi progetti con saggezza e serietà con la consapevolezza del desiderio e la coscienza di quello che si fa, di ciò che si è fatto ma soprattutto di quello che si farà.

Treviso è sempre stata il cuore di Home, abbiamo un legame unico, continuativo e dalle mille sfaccettature che solo l’amore può dare.

La nostra casa è qui, il bar dove tutto è nato è qui. Come l’evento FreedHome Day in Fonderia, o il Bistrò sulle Mura che dà vita con rispetto ad uno dei simboli di Treviso o ancora, gli Elvis Days, una manifestazione storica che pulsa nel cuore della “nostra” città. Ma non solo.

La “Fiera d’Irlanda” in Prato della Fiera aperta a tutti e per tutti, la collaborazione alla  realizzazione della giornata dell’arte e della creatività per gli istituti superiori, il box office in Piazza Borsa, un modo per veicolare turismo e attenzione verso il centro cittadino, a due passi dai giardinetti di Sant’Andrea. E di certo, le nove edizioni di Home Festival nell’area della Dogana che saranno ricordate per sempre.

E’ tutto qui. Ma razionalmente ed in modo naturale è tempo di crescere, di dare una nuova svolta. Avevamo bisogno di
nuovi stimoli, di un nuovo progetto ed ecco Il Core Festival Aperol Spritz, nato dall’amore per la nostra città e pianificato con la professionalità ormai decennale. La svolta proporrà infatti un cambio di paradigma, proponendo per la prima volta, a livello nazionale, il meglio delle tendenze musicali italiane, ambientate in uno spazio che avete conosciuto negli anni passati, dove saranno riproposte e rese più brillanti.

Questo è un nuovo progetto legato al territorio, ma con un’idea già precisa e pianificata, realizzato grazie alla sinergia con un’azienda, l’Aperol Spritz, con cui condividiamo i valori ed il modo di celebrare Treviso: i residenti, l’amministrazione comunale, le categorie economiche, tutte le persone che da sempre credono in Home.

Il resto è il racconto di migliaia di persone che ogni giorno ci contattano, centinaia di persone che incrociamo in città o nelle riunioni in giro per l’Italia o per il mondo. Il resto è il racconto di scelte artistiche innovative, capaci di portare sul palco il made in Italy che brilla, dall’indie al rap, passando per le canzoni che impazzano nelle playlist dei giovani, che sono il futuro della musica, che come noi alla loro età eravamo già il futuro anche se i “grandi”, magari, non se ne accorgevano.

Quest’anno sarà un vero e proprio cantiere che getterà le fondamenta per realizzare questa nuova idea, un nuovo inizio, un rifacimento con basi solide.

LA PROGRAMMAZIONE ARTISTICA GIORNO PER GIORNO

Venerdì 7 giugno il primo headliner a far pulsare i cuori del Core Festival Aperol Spritz è Calcutta, il fenomeno indie pop italiano che colleziona un sold out dopo l’altro. Pseudonimo di Edoardo D’Erme, Calcutta è un giovane cantautore di Latina, classe 1989, che ha raggiunto la fama grazie al singolo Cosa mi manchi a fare, primo estratto dall’album Mainstream (2015), seguito da Gaetano, Frosinone e il disco d’oro Oroscopo, il cui video ha raggiunto un milione di visualizzazioni su YouTube nel giro di un mese. A distanza di due anni, il 25 maggio scorso è uscito Evergreen, anticipato dai tre singoli Orgasmo, Pesto e Paracetamolo, album che ha subito conquistato il primo posto della classifica Fimi.

Arriva poi la band più irriverente della nuova musica italiana, i Pinguini Tattici Nucleari. Ad aprile di quest’anno, dopo due anni dall’ultimo album “Gioventù brucata”, la band bergamasca indie rock capitanata da Riccardo Zanotti pubblica “Fuori dall’hype”, il primo album di carriera ad uscire per una major, la Sony, che la impegnerà in un tour estivo con tappa a Treviso.

Venerdì presente anche Ghemon, cantautore italiano tra i big selezionati per il Festival di Sanremo 2019. Sulla scena musicale da quasi vent’anni, Ghemon ha pubblicato cinque dischi d’inediti, tra cui l’ultimo Mezzanotte, uscito nel 2017, che contiene successi come Un temporale, Bellissimo e la title track Mezzanotte.

E poi lei, la cantante mascherata più famosa della scena, Myss Keta. La rapper che ha conquistato le vette con il suo mix di elettronica e afro, è fresca di album, a marzo infatti è uscito PAPRIKA, per Island/Universal Music Italia, che vede prestigiose collaborazioni, da Guè Pequeno a Mahmood, da Wayne Santana della Dark Polo Gang a Gemitaiz, Luchè e Quentin40.

E dopo di lei, ci sono anche I Miei Migliori Complimenti, Postino, il dj e produttore italo-canadese Bruno Belissimo, il pop
stravagante di Auroro Borealo, Costiera, Jolly Mare dj set e la band trevigiana La Scimmia.

Sabato 8 giugno a tutto rap con Salmo, il rapper di Olbia capace di riempire i palasport. Il suo ultimo album “Playlist” ha conquistato le vette delle classifiche di vendita e di ascolto sulle principali piattaforme digitali, l’album è certificato doppio disco di platino. Impegnato nel “Playlist Tour”, Salmo stupirà il popolo del Core Festival Spritz con uno show unico. A condividere lo stesso palco, c’è Gemitaiz che porta una sferzata di hip hop romano. Attivo dal 2003 con l’etichetta Tanta Roba, l’artista l’anno scorso ha dato alla luce l’album “Davide” impreziosito da svariate collaborazioni con artisti del calibro di Gué Pequeno (con il quale ha inciso il terzo singolo Tanta Roba Anthem), MadMan, Fabri Fibra e Coez.

A Treviso arriva anche Achille Lauro, l’artista romano classe 1990 elogiato dalla scena rap nazionale con il primo mixtape “Barabba” (2013) per poi conquistare la fama grazie a “Dio c’è”, “Ragazzi madre” e “Pour l’amour”, nonché per la sua performance al Festival di Sanremo col brano “Rolls Royce” che l’ha incoronato nuova icona rock and roll italiana. Ad aprile è uscito “1969”, il nuovo album che lo vedrà impegnato in un intenso tour, con tappa imperdibile al Core. Ma non finisce qui, ci sono anche il rapper Luché, Ketama126 e gli immancabili amici Rumatera con la loro travolgente energia punk rock in puro dialetto veneto.

E poi, il collettivo artistico SXRRXWLAND, Christian Effe, il noto dj resident dell’Home, con le sue evoluzioni sonore, il pop del cantautore Dola e il rap dei Fuera. Sabato ancora potere alla consolle con il dj set di Susum e di Raphael Delaghetto, e infine Halba X Foldino, Giovaneeffe e A.Kawa.

Domenica 9 giugno J-Ax prosegue al Core Festival Aperol Spritz i suoi festeggiamenti per i 25 anni di una carriera di grande successo. E lo fa assieme a Dj Jad riunendo gli Articolo 31, band che ha fatto la storia del panorama italiano degli Anni Novanta e che ha fatto scatenare e cantare migliaia di persone con le canzoni simbolo L’italiano medio, La mia ragazza mena, 2030, Così com’è, Ohi Maria, pietre miliari di una generazione intera.

Un’occasione unica per rivivere quelle emozioni senza tempo. Non poteva di certomancare la band rivelazione dell’anno, i Måneskin, che con l’ep d’esordio Chosen (2017) hanno conquistato un disco di platino e, a seguire, il doppio disco di platino con l’omonimo singolo.

Dopo aver aperto il concerto milanese degli Imagine Dragons a settembre 2018, nello stesso mese presentano il singolo “Torna a casa” che ottiene il triplo disco di platino, a cui segue ad ottobre l’uscita del loro primo album “Il ballo della
vita”, già certificato doppio platino.

Emis Killa, artista con oltre 25 certificazioni tra dischi d’oro e platino, oltre 3.000.000 fan sui social, più di un milione di iscritti al canale Youtube, oltre due milioni di ascoltatori mensili su Spotify, con all’attivo un successo editoriale con il suo libro “Bus 323. Viaggio di sola andata”. Il 29enne milanese è fresco del quarto album in studio “Supereroe” per la Carosello Records (2018) certificato disco d’oro.

Domenica ad arricchire ulteriormente il cartellone artistico, arrivano altre perle musicali: il cantautore, musicista e producer romano Leo Pari, il romagnolo Duo Bucolico e Davide Petrella, il mago dei tormentoni italiani, autore di canzoni come “Pamplona” e “Vorrei ma non posto”.

E poi si vola dalle ambientazioni post elettroniche a graffi retrò di Nostromo al pop sintetico di Fosco17 fino alle sonorità rap del trevigiano Lee Odia; e ancora, la musica del cantautore Bruno Sponchia, l’ensemble dell’eclettica Funkasin Street Band,
le sperimentazioni elettroniche degli Holograph e per concludere, le peripezie folk della FGM B-Folk Band.

Gamification e musica, come imparare divertendosi con Syntorial

Con il termine gamification si intende comunemente l’utilizzo di principi e tecniche comuni nei giochi, applicate attraverso il game design, in contesti che di ludico, generalmente, hanno ben poco. Si tratta, insomma, di una strategia, ultimamente sempre più in voga, utile a rendere meno fastidioso e stressante lo svolgimento di precise attività, uno strumento a cui si affidano molte aziende per fidelizzare la clientela, quando non per motivare i propri dipendenti.

Uno dei tanti pregi della gamification è la sua applicabilità nei campi più disparati e tra questi c’è ovviamente la musica, la spesso noiosa, complicata ed ardua acquisizione di abilità e conoscenze necessarie per suonare degnamente uno strumento.

Joe Hanley, leader di Audible Genius, piccola software house statunitense, unendo le proprie competenze in qualità di insegnante, musicista e programmatore, ha ben pensato di dare vita a Syntorial, un software per PC che guida all’apprendimento dei rudimenti necessari per suonare il sintetizzatore, alternando lezioni teoriche con esercizi che non hanno nulla da invidiare ad un comune puzzle game.

Scaricato il software dal sito ufficiale, di cui esiste una versione di prova gratuita, ma il cui prezzo fissato per tutte le 199 lezioni è di 146,99 €, si verrà immediatamente introdotti ad un video che illustra le modalità di funzionamento del programma.

Avendo a che fare con un tutorial interattivo, come anticipato, il corso si avvierà con un filmato, utile ad apprendere i concetti espressi nella lezione di turno, sia essa interessata ad insegnare il lessico specifico o il significato e l’utilizzo delle icone e strumenti che compongono il sintetizzatore virtuale che occuperà costantemente la parte centrale dello schermo.

Una volta terminata la visione, si passerà immediatamente alla verifica pratica, veri e propri puzzle da risolvere, con tanto di valutazione e voto finale. A partire da un motivo preimpostato, vi verrà chiesto di riprodurlo, modificando indicatori ed effetti che compongono il sintetizzatore. Più i due suoni combaceranno, maggiore sarà il risultato ottenuto nell’esercizio.

Trattandosi di un software che ha tutte le intenzioni di incoraggiare lo spirito creativo degli aspiranti musicisti, nulla vieterà all’utente, durante i suoi molteplici tentativi, di salvare in qualsiasi istante una combinazione sonora particolarmente orecchiabile, da riutilizzare liberamente in un secondo momento.

Syntorial è un programma dalle grandi potenzialità, adatto ad un pubblico in linea teorica molto ampio. Essendo indirizzato principalmente a musicisti, è indispensabile possedere un minimo di dimestichezza con la materia in esame.

Al tempo stesso, tuttavia, ogni concetto è espresso in termini estremamente chiari e semplici, naturalmente solo in lingua inglese beninteso. A patto di possedere una tastiera USB da collegare al PC, praticamente imprescindibile per eseguire gli esercizi più complessi, e di saperla usare, con un po’ di buona volontà, persino un neofita potrebbe affidarsi a Syntorial per tentare la carriera di musicista di vaporwave, synthwave e generi affini.

Pratica, efficace, divertente, la creatura di Audible Genius è l’empirica dimostrazione di come la gamification funzioni anche in campo musicale e di quanto efficacemente veicoli l’apprendimento.

 

Lorenzo Kobe Fazio

Benjamin Clementine @ Teatro delle Celebrazioni di Bologna

“Musa, musa meravigliosa sì che esisti”

 

Esiste, sì. Non sempre si manifesta ma sono certa di averla vista, questa musa: aleggiava sulle spalle curve di Benjamin Clementine, al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, in una tiepida sera di Maggio.

Prima del concerto, mentre cammino per via Saragozza, lo incrocio. È altissimo e così vestito di bianco, con quella strana acconciatura simile a un turbante, sembra un principe africano. Passeggia con un amico, lo riconosco, mi guarda, ci sorridiamo. Poco dopo lo rivedo, mentre sta facendo qualche foto con i fan. Anche in quel momento, mi immagino la musa della Musica e della Poesia vegliarlo e proteggerlo dall’alto.

Benjamin è di origine ghanese, ha vissuto in Inghilterra ed è parigino d’adozione. A 18 anni si trasferisce in Francia, in cerca di fortuna. Qui inizia a suonare per strada, come buskers, fino a quando non viene notato da un discografico, in metropolitana. Suona, canta, scrive poesie e spesso inventa parole che non esistono. Per tutti questi motivi, per questa sua natura meticcia, è difficile definirlo. Riduttivo chiamarlo artista soul, anche se indubbiamente, nella sua musica, di anima se ne sente parecchia.

Il suo concerto è anticipato dall’esibizione di Beaven Waller, talentuoso musicista texano. Quando termina, in perfetto orario, il pubblico è clamorosamente in ritardo, come da malcostume italiano. Verso le dieci la sala è finalmente piena, le persone iniziano a chiamarlo, applaudendo e gridando il suo nome.

 

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Dopo qualche minuto Benjamin Clementine arriva, si fa strada sul palco a piedi nudi e indossa il completo bianco che avevo visto poco prima, arricchito da uno strano collo vittoriano che gli dà un’aria ancora più regale.

Insieme a lui un quintetto di archi. Tra gli applausi si siede, appollaiandosi su uno sgabello alto, forse troppo per il pianoforte. In alcuni momenti del concerto è talmente ripiegato da sovrastarlo, come se lo stesse abbracciando.

Pochi artisti riescono a catalizzare l’attenzione del pubblico con la stessa potenza di Benjamin Clementine. È un artista intelligente, mercuriale. Vivace e un attimo dopo introverso.

Lo spettacolo inizia con Winston Churchill’s Boy. Difficile categorizzare la sua voce: è uno strumento controllato e perfetto, come se fosse nato apposta per raccontare tutte le sfumature dell’anima. Dal dolore, che è sempre profondissimo, all’amore, passando per la rabbia. La sua è una sofferenza latente, accennata e ostica. Questo è evidente soprattutto in pezzi come God Save the Jungle che evoca la crisi dei migranti senza mai diventare una tirata politica. Tutto, nelle sue canzoni, è raccontato da un punto di vista personale.

Nonostante il palco, davvero minimalista, la sua performance abbraccia la teatralità. Anche le canzoni, pur conservando quella eloquenza drammatica, sono spinte ai limiti. Mutano continuamente, prendendo strade inaspettate, come quando Clementine cambia il testo di I won’t complain, per raccontare la sua giornata bolognese, trascorsa al santuario di San Luca.

Spesso le sue interpretazioni lasciano spazio all’ironia o al falsetto. Non sempre queste scelte creative funzionano, ma non si può negare il suo talento.

La mia sensazione è che Benjamin Clementine non senta il bisogno di ripetersi per soddisfare le aspettative del pubblico. E, proprio questo atteggiamento, è una prerogativa dei grandi: Nina Simone, Nick Cave, Bob Dylan. Il suo è uno spettacolo geniale, dolce e mai noioso, durante il quale è impossibile non chiedersi quale strada imboccherà girato l’angolo dell’ultimo pezzo.

Quando vinse il Mercury Prize nel 2015 per il suo album di debutto, At Least For Now, in tanti hanno pensato che questo tizio con la voce angelica sarebbe diventato l’ennesimo cantante per tutte le stagioni, la cui musica poteva tranquillamente fare da sottofondo ad una serata romantica.

Ancora però non sapevamo quanto fosse eccentrico e originale questo ex-busker e in molti si sono dovuti ricredere. All’interno della sua musica, soprattutto nel suo modo di comporre testi, è impossibile non notare tutte le influenze di quei poeti e scrittori che ha amato: William Blake e Sylvia Plath su tutti, ma non è quello che sorprende.

È l’enorme capacità interpretativa. Tutto il suo corpo diventa strumento espressivo per raccontarci una storia, non solo la voce, ma anche le mani: schianta le dita sui tasti del pianoforte, gesticola, a volte si rivolge al pubblico come un direttore d’orchestra. La sua è un’urgenza espressiva impossibile da contenere.

Infatti Clementine parla molto, anche in italiano: buonasera, grande, grazie, chiede informazioni sulla partita di calcio che si è giocata la sera prima. È di ottimo umore, merito probabilmente anche del pubblico, caldo e reattivo.

I Won’t Complain è, come da previsioni, uno dei momenti più maestosi del concerto. La canzone si spoglia e si gonfia, fino a riempire l’intero teatro che sembra quasi non riuscire a contenerla.

 

 

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La prossima canzone è una delle prime che ho fatto in pubblico” inizia, “con questa ho smesso di ripetere le cose che facevano gli altri, i grandi artisti, e ho iniziato a cantare quello che sentivo io“. Parte Cornerstone, il pubblico si entusiasma già dalle prime note.

Clementine è sicuro, ma imprevedibile. Il suo volto è spigoloso, scolpito nell’ebano, ed è difficile dire, a volte, se si stia contorcendo i nervi oppure se si stia divertendo con il suo pubblico.

Su Adios scende dal palco e gira tra la gente, chiede partecipazione, ripete ossessivamente “the decision is mine, so let the lesson be mine” invitandoci a battere un piede a tempo fino a che non si ritiene soddisfatto della resa finale. Risale sul palco, si erge sulla ribalta dei musicisti, appoggia un piede scalzo sul piano.

È uno strano alieno Benjamine Clementine, ha la stessa sostanza matta dei grandi. Dopo l’ultima canzone, prima di lasciare la scena, spinge i musicisti a prendersi gli applausi del pubblico, facendosi da parte, un gesto che la dice lunga sul suo approccio umile verso la musica.

Al termine del concerto, mentre cammino nella notte bolognese in una serata finalmente primaverile, ho la sensazione di aver assistito a qualcosa di eccezionale. E la Musa, che indubbiamente esiste, protegga sempre Benjamin Clementine!

 

Daniela Fabbri

Foto di Carlo Vergani

Per te, Chris Cornell.

Ci sono idee che passano veloci e fai volentieri finta di non averle viste.

Ti ritrovi con gli occhi piantati sulla libreria e che poi, lentamente, vanno alla deriva verso il soffitto.

Lascia stare….

Sto smaltendo le tossine dopo il ventennale della morte di Kurt Cobain, quando un calendario interno, un senso di déjà-vu ma soprattutto Google mi ricordano che il 18 maggio è la data in cui Chris Cornell ci ha lasciato, due anni fa. Forse una riflessione gliela devo.

Forse ci ha già pensato il mio subconscio la sera prima, in un sonno agitato, accompagnato da un sogno tarantiniano o tarantinesco, figlio di un’idea che, evidentemente, era già scesa in terra. Unendo sogno e ricordi, lasciando andare  finalmente gli occhi altrove, mi godo il mio viaggio, onirico e un po’ lisergico, autoindotto e senza pilota.

 

Requiem in a dream Tutto, dicevo, nasce da un sogno che diventa location. Una scena, in cui ho miscelato senza ritegno alcuno le mie memorie cinematografiche con una abbondante dose di narcisismo e protagonismo. Spesso localizzo una riflessione in un luogo, il mio vagare ha bisogno di uno spazio fisico.

Ecco, quella notte, questa notte, sono nella chiesetta di legno di Kill Bill. Purtroppo orfana di Uma, fortunatamente priva di Bill. Legno, banchi, io di nero vestito, a tre passi dal pulpito, in testa non un cappello, ma una nebbia di idee per un elogio funebre. Uno di quei discorsi che dovrebbero, in bello stile e poco tempo, rendere onore alla vita di un uomo.

Raccontando balle, santificando una vita.

Ecco, partiamo da qui. Mi aggancio alla scena e mi aggrappo al fantasmatico, lasciando la realtà a far da sfondo per una decina di minuti.

Tre passi dal pulpito.

Cazzo non so cosa dirò.

Servono tre pensieri, di quelli veloci, di quelli che quando hai finito e hai chiuso il cerchio ti sembra passato un minuto e in realtà hai appena buttato fuori il respiro precedente. Pensa, pensa….

 

Le cadre est un cache Il critico cinematografico André Bazin scrisse queste parole il secolo scorso, quando il cinema usava pellicole, analogie e non esistevano le trilogie. Cinque parole per definire lo spazio e il tempo del cinema, ma anche l’essenza dell’immagine. Ecco, vestito da Mister Pink, in un trionfo kitsch, con LaChapelle a far foto, a me viene in mente Bazin. Però è un buon punto di partenza per chiedere scusa a Chris.

Il concetto è semplice: tutto ciò che vedo in un’inquadratura è la scelta del regista, ma anche, dati i movimenti di camera e quelli degli attori e degli elementi mobili, semplicemente ciò che posso vedere.

La cornice è una benda che stabilisce il visibile e l’invisibile. Chris Cornell per me, per anni, è stata questa cornice, il margine dell’inquadratura. E’ stato il confine tra il visibile, o meglio tra il visto e ciò che stava attorno. Negli anni novanta definiva l’inquadratura della mia musica, entrava in scena ma ne usciva spesso.

Fu amore a prima vista con i Temple of the Dog nel ’91, fu epifania divina nel ’92 con i Soundgarden. Fu, insieme ai primi accordi di Release dei Pearl Jam, semplicemente il motivo per cui ancora adesso ascolto e scrivo di quegli anni. Uscì dalla mia inquadratura, poi tornò con gli Audioslave.

Poi nuovamente fuoricampo, per tornare a mettere a fuoco l’ immagine con dei live acustici che ancora oggi sono pura emozione. Cornell ha il merito di aver allargato le dimensioni della mia inquadratura musicale, segnando il confine e fornendo il metro, il riferimento: la sua estensione vocale era unica.

Ecco, dovrebbe diventare una unità di misura, il cornell, per calcolare l’estensione che inizia nei bassi di Cash e tende all’infinito. A volte all’eternità. Chris è stato ai margini, è stato il margine. Ha definito cosa era dentro e cosa fuori. Ma così come la cornice definisce l’osmosi tra visto e non visto, Cornell definiva ciò che ascoltavo.

La nostra lunga storia termina al teatro Arcimboldi di Milano, per un tour acustico legato a un disco che amo. Furono 22 pezzi. Chitarra, violoncello e una voce ultraterrena, da 24 cornell. Quel concerto è come un tatuaggio e ho solo il rammarico di aver messo a fuoco la mia inquadratura su di lui troppo tardi. Scusa, Chris.

Secondo passo. Due metri al palco, al microfono.

 

Fatti non foste per vivere come bruti

Se il regista occulto di questa mia fantasmagoria fosse davvero il Tarantino bene ci starebbe una citazione biblica, giusto un’Ezechiele per ammiccare. Invece, con moto d’orgoglio e inspiegabile reminiscenza evoco Dante. E dai.

Chris Cornell non è morto a ventisette anni. Per quanto tragico e pieno di rimpianti sia l’epilogo della sua vita io desidero ricordare la sua Storia. Perché è il suo viaggio a lasciarci a bocca aperta, non la sua morte.

Ci sono alcuni Ulisse che mi sono cari. Sono scrittori, sono musicisti, sono atleti, semplicemente esseri umani che in comune hanno la ferrea volontà, spesso lucida e programmatica, di superare i confini del conosciuto.

Si allargano i bordi dell’inquadratura grazie a persone che, consce delle conseguenze o in preda a sacra follia, decidono di esplorare ciò che gli è sconosciuto. E’ un gesto romantico ed eroico, egoista e blasfemo, sicuramente umano. Amo gli UIisse per l’inconsapevole innocenza o (e scusate) per l’innocente inconsapevolezza che è il loro motore primo.

Non c’è il gesto eroico di Prometeo che sfida confini, dei e regole per far progredire la Storia collettiva. L’Ulisse è un irrequieto, dai sensi iperstimolati, è un Morrison in cerca di porte, ha un obbiettivo che diventa ossessione, che sia Itaca, il Bello o la morte.

E il viaggio è ciò che diventa epica, la materia del nostro osservare, ciò che ci può dare ispirazione. Chris Cornell ci ha regalato un viaggio meraviglioso, fatto di ricerca, di cambiamenti e di ritorni. Non ho mai individuato un’evoluzione musicale in lui, ma semplice esplorazione, il suo essere un Ulisse è dato da un moto continuo e affamato.

Da me si è congedato cantando i Beatles come solo lui, Chris Ulisse Cornell, poteva fare.

Uomini così sono meteoriti, schegge che entrate in contatto con l’atmosfera non possono far altro che precipitare verso la loro fine, voluta perché scelta o giunta perché la Fortuna si è voltata. Qualunque sia l’intento, il suo precipitare è uno spettacolo, per gli uomini coi piedi –letteralmente- per terra.

Ultimo passo. Ultimo respiro prima di prendere quel microfono in questa strana chiesa e decidere quali parole utilizzare. Bene, fedele e Linneo, Nick Hornby e alla mia mai dichiarata sindrome ossessivo compulsiva, ho scritto liste, redatto classifiche e creato playlist di Chris. Mi sono immerso in lui raddoppiando il peso della sua musica che già ascolto normalmente. Poi mi sono fermato, una mattina, a guardare mia figlia giocare.

 

Il puzzle.

Mia figlia ama i puzzle. L’ho osservata mentre cercava di comprendere il significato di ogni singola tessera. Io, dedito a Bazin, controllo i margini e i confini. Parto dagli angoli, osservo gli incastri. Lei prosegue cercando pezzi, piccoli particolari che si richiamino. Aggiunge tessere all’immagine che si è già composta. E mi sorprende. E imparo.

Penso a Cornell, allora. All’immagine così complessa che ho di lui, fatta di tante tessere di cui, spesso, ho solo guardato la forma e non ciò che rappresentava, perdendo il contenuto. Ecco, forse la vita di un uomo, anche la sua, va giudicata solo con tutte le tessere sul tavolo, magari senza partire dagli angoli. Grazie Chris.

 

Ci sono. So cosa dirò. Per te, Chris Cornell.

Dissolvenza, nero.

Titoli di coda.

 

Andrea Riscossa

 

Pearl Jam: l’amore rischioso per tutto ciò che è possibile

<< I Pearl Jam sono stati uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di musica essenziale. E di se stesso >>. – Bruce Springsteen

 

Lo ammetto. Se avessi una macchina del tempo, non dubiterei nemmeno un secondo su quale periodo e su quale luogo scegliere come mete del mio viaggio. O permanenza, da inguaribile grungettona esistenzialista. Inizio anni Novanta. Seattle. La città dove lo Space Needle sembra toccare quel cielo spesso scuro, plumbeo, argentato di stelle del nord. Suona così, all’epoca, la musica. Dipinta di indaco, luminosa, melodrammatica, cinica e ironica, a volte. La rivoluzione che sta per esplodere risiede fra gli scatoloni dei garage in cui musicisti dai lunghi capelli si ritrovano per comporre, scrivere, creare, trovare una personale espressione. E ascoltare, soprattutto. Sentire musica e catturarla nel modo giusto.

Nell’autunno 1990, in una sala prove, avviene un incontro che profuma di miracolo. Stone Gossard e Jeff Ament, già conosciuti nell’ambiente per essere stati compagni di band nei Mother Love Bone di una gloria locale, il carismatico Andy Wood, morto a 24 anni di overdose, tentano di rimettere insieme i pezzi. Fanno circolare una cassetta con una demo, l’antenata Times of trouble e la futura Footsteps, che finisce nelle mani di un surfista e benzinaio di San Diego. Una voce sovraincisa, la voce che fa scoccare di nuovo la scintilla, fa credere di nuovo in un inizio. Eddie Vedder arriva a Seattle e vuole cominciare subito, mettersi alla prova, indossando la sua espressione stupita, dietro la chioma ondulata. Parla poco ma fa di tutto per diventare ingranaggio di quel mondo. << Ogni volta che Vedder tirava indietro i capelli e ti guardava con quegli occhi luccicanti e maliziosi…capivi >> – confessa il regista e storico amico Cameron Crowe – << Quel ragazzo condivideva lo stesso amore rischioso per tutto ciò che era possibile >>.

Da lì, nel giro di un anno, l’album di esordio, Ten, catapulta i Pearl Jam nel firmamento delle celebrità. Infiniti gli aneddoti, le avventure, le perdite, le esperienze, la fuga dalle luci della ribalta, il rifiuto di girare videoclip, la battaglia contro Ticketmaster, la tragedia di Roskilde, l’impegno nel sociale. Eddie Vedder fonda addirittura una radio indipendente da cui trasmette in diretta dal furgone che guida, da solo, mentre raggiunge i compagni che, invece, atterrano in aereo nelle località scelte per il tour di Vitalogy.

Ecco, non ricordo quanti anni fa, proprio alla radio di un’auto, stava girando un disco di colore rosso con una freccia nera rivolta verso l’alto. Un greatest hits, raccolta che di solito non compare mai tra i cd che colleziono. << Chi sono questi…? >>. << Dai… I Pearl Jam >>. È stato amore a primo ascolto, è stata magia. Una chiamata. È stato abbandonare quei sedili, scendere, per accettare un passaggio da sconosciuti. Un viaggio di sola andata, il cui diario di bordo si riempie di canzoni, versi, storie narrate e vissute. Da loro, da me. E poi attese, concerti, vicinanza, empatia, volume che scorre nelle vene, parole e simboli impressi sulla pelle.

I Pearl Jam non sono, infatti, soltanto quelli di Alive, di Even Flow, delle arrampicate e dei voli folli dalle americane, degli stadi sold out. I Pearl Jam sono anche, e soprattutto, il racconto di un percorso di evoluzione, in evoluzione. È arduo descrivere a parole il legame osmotico che mi connette a questi cinque artisti. Credo che chiunque mi osservi nel momento in cui ascolto la loro musica, capisca tutto dall’espressione dei miei occhi. Voglio provarci, però. In fondo, è stato concepito con tale intento l’articolo che sto scrivendo.

E lo voglio fare creando la mia personale playlist: un brano, per ogni disco pubblicato. Il mio brano “preferito”, o meglio, quello che per me ha rappresentato e rappresenta una chiave di lettura, in musica, di frangenti di esistenza. Un puzzle. Dei tasselli che, uniti con cura, disegnano l’immagine della band. Un invito, una scintilla di curiosità sia alla lettura che all’ascolto. Quindi… cuffie alla mano e alle orecchie. Si parte!

 

Pearl Jam 1

 

  • RELEASE (TEN, 1991): All’interno del dvd che celebra i vent’anni di carriera del gruppo di Seattle, Twenty, si assiste a una scena in bianco e nero. Una radura, un fuoco accesso, il tronco di un albero su cui è appoggiato il cantante. Come colonna sonora, un arpeggio iniziale. Sembra quasi il suono distratto di chi sta accordando uno strumento. In quella sala prove, dove tutto è iniziato, è stato scambiato proprio per una semplice successione di note. Una formula magica, però. Un mantra. La preghiera a cui viene affidata la liberazione dalla volontà di rivincita di Alive, dalla rabbia di Once, dalla solitudine di Deep, dalla sofferente conclusione di un amore di Black. << Una sera, mentre sedevamo a gambe incrociate a casa di un amico ascoltando cassette di Neil Young, Eddie mi ha raccontato la storia di quando ha scoperto che il suo padre biologico era un amico di famiglia che era morto >> – ricorda Crowe – << È stato un breve momento di riflessione malinconica da parte di Eddie, quasi la confessione dell’origine profonda della rabbia che si trova in certe sue canzoni >>. Con la figura paterna, evocata nella seconda strofa con l’informale “dad”, viene ricercato un contatto, un dialogo, una risoluzione dal dolore (I’ll hold the pain / Release me). Collocato in chiusura della setlist dell’album, Release è il primo brano del primo concerto, il 22 dicembre 1990, in apertura agli Alice in Chains all’Off Ramp Cafè, un bar per motocicliste nella capitale dello stato di Washington, lo stesso dove verranno girate alcuni frame del film, firmato proprio da Cameron Crowe, Singles – L’amore è un gioco. Il regista è presente quella sera assieme a Susan Silver, manager dei Soundgarden e allora compagna di Chris Cornell, la quale ripercorre il clima di attesa prima che la nuova formazione di Jeff e Stone esordisse in scena: << Tutti erano nervosi. Volevano vedere la fenice alzarsi. Era quella la prima volta che molti fan avrebbero visto Eddie e si chiedevano chi fosse quel ragazzo, se fosse abbastanza in gamba per prendere il posto di Andy Wood >>. Continua Crowe: << La prima canzone che hanno fatto è stata Release. Ho guardato mia moglie Nancy e ho detto: “Quello è il ragazzo timido? Oh mio Dio”. Presto lo vedemmo dondolarsi dalle impalcature. In qualche modo fu una specie di finale per Eddie-il ragazzo dalla timidezza atroce >>. È un battesimo artistico ed umano. Una catarsi. La rielaborazione di lutti tanto personali quanto comuni. In molti lo accolgono fin dal primo momento; quasi nessuno, però, in platea sospetta la maestosità della fenice che sta rinascendo. Dopo il debutto, per ancora un po’ di tempo, i cinque continuano a girare con il nome Mookie Blaylock, in onore dello storico cestita dell’NBA. Dal giocatore viene anche il titolo Ten, dieci, come il numero della sua maglia. Tuttavia, con la firma del contratto discografico la band deve pensare a una ragione sociale priva di complicazione di diritti. Nessuna delle versioni sulla genesi di Pearl Jam sembra appurata con certezza. La parola ai diretti interessati: << La miglior giustificazione per il nostro nome sta nel riferimento alla perla stessa e al processo naturale da cui proviene: parte da scarti ed escrementi per diventare qualcosa di bello. È così che è iniziata la nostra band >>. (“Cultivate the Pearl” è la frase che accompagna il mio tatuaggio con lo stickman, simbolo identitario del gruppo).

 

  • INDIFFERENCE (VS., 1993): Al contrario di quanto possa far intendere il titolo, la traccia che chiude Vs. è tutt’altro che un’ode all’indifferenza. È il manifesto dell’indole dei Pearl Jam a dire la propria, a prendere una posizione nelle questioni sociali, politiche, umane. Non a caso, forse, quando viene scelta come brano finale di un concerto, la band rimane sul palco ma le luci sono già accese. È una liturgia: l’unico momento in cui, in oltre due ore, ci si riesce a guardare in faccia l’uno con l’altro, a lume di candela, di fiammifero. Affrontare. Seguire, come un manuale, le istruzioni indicate già dall’inizio. “I will light the match this morning, so I won’t be alone/ Watch as she lies silent, for soon light will be gone / I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam / I will make my way through one more day… in hell. How much difference does it make?” Che differenza fa? Me lo sono chiesta anche la scorsa estate, il 24 giugno, al termine del live allo Stadio Euganeo di Padova. Ogni volta, la risposta risiede in ognuna delle affermazioni, delle intenzioni, dei sentieri declinati al futuro che, verso dopo verso, si aprono con I will. Un invito a tenere accesa una scintilla, seppur impercettibile. Farsi strada anche attraverso le difficoltà. Stringere nel palmo di una mano il fuoco che alimenta la passione, fino a bruciarsi se necessario. Prendere pugni, fino a farli stancare. Fissare il sole, fino ad accecarsi. Ingoiare veleno, per diventarne immune. Urlare a pieni polmoni, riempendo i vuoti siderali dei silenzi. Fare la differenza. Essere la differenza, sempre.

 

  • NOTHINGMAN (VITALOGY, 1994): Tra i cattivi presagi, le figure sataniche, gli scarafaggi e i canti sciamanici che dominano le grigie atmosfere del terzo lavoro in studio dei Pearl Jam, appaiono due uomini. Il più conosciuto, alla traccia numero undici, è il Better man contro il quale sfocia la rabbia di Vedder adolescente, figlio e uomo che per anni ha visto una donna, Karen, imprigionata nella relazione con Peter, “il bastardo che ha sposato mia madre”, così presentato durante il concerto ad Atlanta nel 1993. Risalendo, fino al quinto titolo, ci si imbatte in un individuo meno definito, meno circoscritto a una identità. È un’ombra, i cui contorni assumono progressivamente il suono di un’interpretazione da brividi e la forma di una granitica consapevolezza: la fine di una storia d’amore. Sembra uno spin off di Black con lo stesso protagonista, ma adulto: anche lui ha perso tutto, i pensieri lo tormentano e vaga da solo. La discrepanza, probabilmente, è solo astrologica: nel capolavoro di Ten, la figura femminile è descritta con la metafora della stella, qui prima è comparata a un fulmine, poi al sole, alla luce, che, una volta persa, acceca e brucia. In senso di perdita in un ultimo volo, degno del mito di Icaro. << Nothingman è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale >> – dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times – << L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente >>.

 

  • OFF HE GOES (NO CODE, 1996): Quando qualcuno mi pone la domanda da un milione di dollari su quale sia il mio album preferito della discografia, la prima copertina che visualizzo è il collage delle 144 polaroid di No Code. I pezzi che lo compongono sanciscono la differenza tra quello che i musicisti erano e quello che saranno. Un nuovo inizio artistico, senza regole precise, senza definizioni. L’unica decodificazione è il senso della freccia su cui corre la nostra esistenza: da sinistra a destra, in avanti. Il doloroso ma inevitabile passaggio alla vita da adulti è personificato dal protagonista di Off he goes. Un uomo dall’espressione tesa, sempre in movimento, come una motocicletta contro il più forte dei venti. Un insieme di caratteristiche nelle quali ho rintracciato, ad ogni ascolto, la mia incapacità di restare ferma, di voler vedere che cosa c’è al di là del limite, del farmi carico di situazioni fino a non riuscire più ad essere avvicinata. In realtà, come ha ammesso anche Bruce Springsteen, durante i suoi spettacoli a Broadway, in relazione alla volontà di andarsene lontani dai luoghi natali, alla fine è sempre lì che si torna. Il bagaglio si arricchisce e pesa così tanto di esperienze che, ad ogni ritorno, muta la modalità di vivere la dimensione familiare, le birre con gli amici, le persone di cui si è sentita la mancanza. E torna la voglia di andarsene, nuovamente. Per poter fare ritorno, in una spirale dall’andamento costante. “To go off” può anche non significare andarsene fisicamente, ma soltanto lasciarsi distrarre da preoccupazioni, “spegnersi”. << Salto fuori, chiedo se è tutto apposto e non mi faccio vedere per un po’ >> – confessa il frontman in merito al suo modo di concepire i rapporti con gli altri. Quante volte mi sono specchiata in quella frase, nel tentativo di un compromesso fra il desiderio di empatia e quello di solitudine. Un compromesso che, nel punto critico di crollo, Eddie ha abbracciato, suggerito e descritto nell’invocazione che chiude e compie il senso dell’intero disco: I’m open. La porta è ora aperta. Non per uscire ma per far entrare. “Sono aperto”, al contatto, al confronto, all’aiuto e alla rinnovata capacità di accogliere, di immaginare. Decidere di sognare se stessi, per se stessi. I’m open è una preghiera, una lettera a cuore aperto spedita senza il nominativo e l’indirizzo del destinatario. Afferma l’autore: << È come un mantra. Non so se riguardi la religione o una storia d’amore. Riguarda l’essere aperto a qualsiasi cosa ci sia là fuori. Come dire: “Sono qui, sto ascoltando” >>.

 

  • GIVEN TO FLY (YIELD, 1998): Nel documentario Single Video Theory, dedicato alla stesura di Yield, scorrendo le mani sul manico della chitarra e riproducendo l’incantesimo generato dall’accostarsi delle note introduttive, Mike McCready dichiara: << Questa canzone mi ricorda una specie di onda, inizia dal basso e poi cresce sempre più alta, sempre più grande. Viene fuori da un periodo in cui stavo finalmente rimettendo insieme la mia vita, dopo aver attraversato l’oscurità. Musicalmente, rappresenta una specie di risveglio per me, un periodo di rinnovamento, dove ho capito come tornare a vivere la mia vita. Ora che avevo le idee più chiare, mi venivano in mente questi spunto che avevano un che di celebrativo… ecco perché ci sono tutti questi picchi e queste discese>>. A Eddie Vedder è affidata, invece, la stesura del testo, i cui versi emanano la potenza evocativa di un racconto fantastico, di una fiaba, come la definì egli stesso. Tra realtà e fantasia, viene narrata la storia del riscatto di un uomo che, nonostante i colpi ricevuti, è destinato a volare alto, a compiere un’eroica missione d’amore. Tra realtà e fantasia, ciò che conta è il lieto fine. << La musica riesce a darti il senso del volo e mi piace davvero cantare la parte finale che parla del sollevarsi al di sopra di quello che dicono gli altri di te e continuare comunque a dare il tuo amore. Non finire amareggiato e solo, non condannare tutto il mondo per le azioni di pochi>>.

 

  • PARTING WAYS (BINAURAL, 2000): Lo spettro più spaventoso per chi vive della passione per la scrittura, per le parole, per la musica è il blocco creativo. Le ragioni per cui, talvolta, sopraggiunge la totale aridità di ispirazione possono essere molteplici. Le conseguenze, ancora più catastrofiche: << Può far diventare la tua relazione un inferno >>. Sono profondamente legata a questo pezzo proprio per il nodo che crea, o scioglie, tra il macrocosmo dei legami e quello della realizzazione artistica. Da una parte, ho sempre ammirato con quanto orgoglio, pudore e stoica malinconia sia dipinta la scena di un allontanamento che sfuma tra le note di un violino. Dall’altra, ricollego questo brano a un sussulto ben preciso che non dimenticherò mai. Mi trovavo a casa, da sola. Il lettore cd con Binaural, con gli ultimi minuti, con gli ultimi versi di Parting ways. Immersa nelle mie attività, non sono andata a stoppare. Ormai tutto taceva, ero ripiombata nel silenzio. Il trascorrere di qualche minuto ed ecco arrivare alle mie orecchie forse la più struggente ghost track che abbia mai ascoltato. Un ticchettio, il suono delle dita che premono sui tasti di una macchina da scrivere. È la macchina da scrivere di Eddie Vedder. Per una musa che se ne è andata, l’altra è ritornata. La fantasia, l’immaginazione. Nelle ultime pagine del booklet, è riportata la sigla J.F.M., “Just Fucking Music”. È “Solo Fottuta Musica” il motivo per cui la relazione di chi canta è andata in frantumi, è “Solo Fottuta Musica” l’unico frutto che volesse vedere nascere dalle sue dita. È “Solo Fottuta Musica” l’unica cosa a cui continuerà a dedicarsi, malgrado tutto.

 

Pearl Jam 2

 

  • THUMBING MY WAY (RIOCT ACT, 2002): Dal 2017 ad oggi, ogni qualvolta che nelle cuffie inizia a girare questo pezzo, scorgo davanti a me uno scenario preciso: il mare di notte, l’abbraccio di mura antiche, le luci violacee ad illuminare il Teatro Antico di Taormina. Ricordo nitidamente l’attacco della chitarra acustica, l’istante di magia che si crea quando si riconosce una canzone. La canzone che ha racchiuso il significato del live indimenticabile a cui ho assistito. Forse perché, quella sera, ero io ad indossare i panni logori dell’autostoppista esistenziale che cammina lungo le note e le parole di Thumbing my way. La decisione di partire, nel tentativo di lasciarsi alle spalle qualcosa, o qualcuno, per ripercorrere la strada verso il proprio paradiso. Un itinerario tutto in salita, con una valigia carica di ricordi, rimpianti, domande in sospeso. Un tunnel da attraversare, in inverno, che si affaccia su una nuova stagione, la primavera. Voler scegliere tra il bene e il male e non tra quello che è giusto o sbagliato. Non perdere la fiducia in chi si può incontrare nella via apparentemente deserta di ritorno al paradiso. Il/la protagonista deve trovare qualcuno che ce lo accompagni, anche per un tratto soltanto. Un’anticipazione della lezione, musicata da Vedder, appresa da Christopher McCandless al termine del suo viaggio Into the wild: la felicità è reale solo se condivisa.

 

  • INSIDE JOB (PEARL JAM, 2006): il brano in questione è il primo che porta il sigillo del chitarrista Mike McCready. I suoi fantasmagorici assoli diventano i reagenti perfetti per un esperimento tanto coraggioso quanto vitale: fare pace con il proprio passato, anziché continuare a fuggirne, con l’obiettivo di scendere alle radici di ciò che non lo rende ancora libero. La droga, l’alcool, la dipendenza come gabbie. L’inspirare e l’espirare insicurezza (“breathing insecurity out and in”), probabilmente origine del problema. Una parola chiave, per me, “insicurezza. Motore e sabotaggio, allo stesso tempo. E che cosa c’è oltre il velo nero del timore di non essere abbastanza? Oltre quel velo, c’è una scelta: How I choose to feel / Is how I am. Ho scelto di sentirmi per come sono. Essere come sono. Una forma mentis che deriva, unicamente, da un profondo lavoro interiore. << Buttare uno sguardo all’interno se non altro aiuta a cambiare te stesso >>. “Shining a human light”, brillare della propria umanità, dopo aver scoperto, o riscoperto, la più personale luce.

 

  • AMONGST THE WAVES (BACKSPACER, 2009): Sull’artwork di Backspacer, nell’angolo in basso a destra, tra gli altri “fumetti” che raffigurano la tracklist traccia per traccia, appare l’immagine di una donna a testa in giù. È immersa nell’ondeggiare dei flutti, che la avvolgono, la cullano, la completano quasi a trasformarsi nei suoi capelli. Tra le onde. Quello dei Pearl Jam con l’acqua, come elemento naturale, è un legame che è sempre esistito e si è evoluto e disteso nel tempo. Dall’onda di dolore da cavalcare di Release, al malinconico sentimento di distanza di Oceans, alla pioggia attraverso cui correre di Inside job, ora, finalmente, il “riding amongst the waves” rimanda alla grandissima passione di Eddie Vedder, il fare surf. Un collegamento che si è sviluppato seguendo le tappe della loro carriera, ripercorse, in metafora, nelle strofe della canzone. La musica pacata, all’inizio, con il mare solo leggermente ondulato. Dopo aver apprezzato il piccolo grande istante di respirare a pieni polmoni, in Just Breathe, ora, sulla battigia, ci si gode la calma dopo la tempesta. Condividendo quella serenità (“just you and me and nothing more”), ricordando da dove si è partiti, focalizzando il punto in cui si è arrivati. L’amore, che ha permesso di non annegare. Tuffarsi, senza troppi pensieri e cavalcare le onde: << Nel fare surf c’è sempre qualcosa di liberatorio. Mantenendo l’equilibrio, restando in piedi, apprendi di essere vivo >>. Il confronto con il mare, qui, non serve a ridimensionare l’uomo davanti all’inafferrabile, all’imprevedibile. Immergersi significa, piuttosto, restituirsi al posto a cui apparteniamo, un gesto di resa e rinascita insieme. Sentire di nuovo la forza dei raggi del sole che filtrano le nuvole, per sorridere. Recuperare tutta la voce necessaria ad urlare al mondo la bellezza della propria anima, tratta in salvo. Better loud than too late.

 

  • FUTURE DAYS (LIGHTNING BOLT, 2013): Qualche giorno fa, una persona mi ha scritto: << I Pearl Jam non azzeccano una ballata dal 2002 >>. Ho risposto: << Non so se riesco a reggere un’affermazione del genere >>. Ho percepito un senso di ingiustizia nei confronti di Future days, chiosa finale della discografia finora all’attivo della band. Con lo storico produttore Brendan O’Brien come ospite, al pianoforte, la canzone viene eseguita per la prima volta al Wrigley Fields, lo stadio dei Chicago Cubs, alla serata di apertura delle Baseball World Series nel luglio 2013. Un tempio sacro, quello, che i cinque giovani musicisti che avevano esordito all’Off Ramp Caffè di Seattle non avrebbero mai pensato di varcare. << Penso che sia uno di quei pezzi che farà piangere le persone >> – dice McCready – << Quando l’abbiamo suonata al Wrigley Fields mi sono sentito un tutt’uno con il pubblico >>. Se, infatti, tutti gli inguaribili romantici vorrebbero essere i destinatari di una dichiarazione d’amore così profonda e incondizionata, il significato racchiuso in questa dolce poesia è ben più ampio. Come sottolineo spesso, parlare di futuro è una scelta coraggiosa. Perché per guardare oltre, si deve prima metabolizzare, analizzare, accettare quello che è stato. Le porte in faccia, le parentesi buie, le cadute, le perdite: << Quando le grandi lenti della tragedia ti puntano, tu cambi. Diventi più empatico >> – spiega Eddie – << È anche questo che dice il disco. Non aspettare che la tragedia ti colpisca direttamente prima di capire cosa stanno passando gli altri >>. Perché per guardare oltre bisogna avere ferma fiducia in qualcosa. In questo caso, nel loro caso, nel mio caso, la musica. << Abbiamo cominciato a fare musica per soddisfare noi stessi. Credo che questo fosse il piano all’inizio. Quel che non avremmo mai immaginato è che tante persone avrebbero stretto amicizie, scambiato idee e condiviso la propria umanità attraverso la nostra musica >>. Da Release in poi, tutte le tracce di chiusura, come nel compimento di un cerchio, o meglio, nello slancio nella spirale, hanno gettato l’occhio a quello che sarebbe stato. In Future days, il potere salvifico sta nella capacità stessa di sperare un domani, di riuscire a scorgerlo, conoscendosi e riconoscendosi, ogni giorno, nel presente. Per dirlo con le parole, con la voce di chi ci ha accompagnato fin qui: << La cosa più importante è imparare a capire chi sei adesso, nel presente >>.

 

*BONUS TRACK. HUNGER STRIKE (TEMPLE OF THE DOG, 1990): Non mi dilungherò sul significato di questo capolavoro. Non è stato scritto dai Pearl Jam. Appartiene a una band che è durata il tempo di un disco, di un’opera d’arte: i Temple of the Dog. Il mio desiderio è solamente quello che, adesso, lo ascoltiate. Tanti i temi, attuali ora come allora: lo sguardo attento al mondo, la premura per i più deboli, la coscienza politica e sociale, il pensiero per qualcuno che se n’è andato e a cui sono state dedicate dodici melodie senza tempo. L’assonanza, nel ritornello, tra “I’m going hungry” e “I’m going angry”. La proclamazione di uno sciopero della fame, di un digiuno, di una protesta dietro la quale tutto era già scritto e tutto era ancora da scrivere. Due sono le voci. C’è il tono basso, solenne di Eddie Vedder. E poi c’è la potenza, l’anima, il grido, l’unicità di colui che è stato bandiera di quella rivoluzione. C’è un artista che, sabato 18 maggio, manca terribilmente da due anni. C’è l’Uomo a cui vorrei dedicare questo articolo. C’è Chris Cornell.

 

Laura Faccenda

Foto di Henry Ruggeri

 

Quando finisce la festa, Angelica e un album da scoprire

Angelica (Schiatti ndr) è una cantautrice originaria di Monza.

Conosciuta e apprezzata come leader dei Santa Margaret, gruppo con il quale ha vinto gli MTV Awards New Generation, esce nel 2019 con un nuovo album da solista Quando finisce la festa con l’etichetta Carosello Records.

Amante del vintage applica il proprio gusto retrò nella musica in maniera mai scontata e super fresca, toccando temi come la fiducia in se stessi, l’amore e l’attualità.

Un album profondo e serio che tra le pieghe di melodie ritmate e “serene” nasconde l’ambiguità della modernità e i rapporti umani che nel male o nel bene fungono da analisi per la crescita personale.

Un lavoro puntuale e preciso che mescola malinconici scenari ad aperture verso il mondo con note che scivolano via morbide e voluttuose. Talvolta ammiccanti.

L’abbiamo incontrata e le abbiamo fatto una VEZ Rece-Intervista.

 

Essere una solista dopo l’esperienza con i Santa Margaret quali sentimenti e sensazioni ti fa provare? Quali sono i lati positivi e quali i negativi?

Di positivo c’è stata un’emancipazione sia professionale che personale. Sono una persona molto insicura e quindi avere la band era un po’ come avere una famiglia alla quale chiedere consiglio, chiedere appoggio. Lavorare da sola all’inizio mi fatto provare un forte senso di confusione, ero spaesata. Però alla fine c’è stata una vera e propria presa di coscienza di me stessa. È stata un’autoterapia poiché essendo da sola dovevo fare tutto da sola, nonostante la difficoltà sono molto serena perché mi ha permesso anche di capire meglio cosa mi piace e cosa no. Affinare l’estetica in maniera pura e sincera, poiché essendo in una band la mia personalità era ovviamente mitigata dagli altri membri della band.

 

Hai un gusto retrò. Racconti un mondo passato rendendolo comunque attuale ed è una peculiarità che avevi già ai tempi della band, anche se con delle sonorità più calde. Ora invece è come se avessi scarnificato quello che avevi creato prima. Ho percepito una sorta di voglia di eliminare la propria protezione e mostrare te stessa nella tua purezza in maniera cristallina. Sbaglio?

Ho destrutturato il lavoro di prima. È vero, ho scarnificato i miei lavori precedenti. In precedenza i lavori si basavano su un personaggio, ovviamente nato dalla mia persona poiché non era un personaggio inventato. Ora invece addio al personaggio e ci sono semplicemente io senza la “maschera”, il filtro del personaggio che mi ero creata all’interno della band. Ho voluto abbandonare il personaggio abbandonando quindi anche la protezione che il personaggio stesso ci concede di avere.

 

Tra le canzoni che mi hanno colpito c’è Guerra e Mare. Nel ritornello riecheggia la frase  “Compriamoci un’estate in pieno inverno” e si parla di persone che se hanno paura vanno al mare oppure fanno la guerra. All’ascolto sembra gioviale e tranquilla quando in realtà nasconde un messaggio anche severo nei confronti della nostra vita day by day. Persone che hanno paura del diverso e che rifuggono ciò che non conoscono voltandosi dall’altra parte e scappando oppure che lo attaccano. E se come al solito premendo play ci illudiamo di restarcene rilassati ascoltando un brano da “disimpegno e diletto” in realtà alla fine ci sentiamo quasi ammoniti. Sempre in maniera raffinata, chiaramente.

Cosa mi dici Angelica di questo brano?  Quanto c’è della situazione italiana e mondiale attuale nelle tue parole?

Molto. C’è molto. È proprio questo, in realtà. Non puoi avere paura nel 2019 di quello che non conosci. Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca nella quale se non conosci una cosa la puoi tranquillamente studiare. Una cosa ignota grazie a internet può facilmente diventare conosciuta, almeno un minimo. Inoltre è vero che la paura troppe volte non è nient’altro che una corazza che apparentemente ci fa vivere meglio. Come dire “ho paura di questa cosa e non la faccio” e sembra apparentemente di stare meglio quando in realtà non è così. Quindi scappi ma fai del male solo a te stesso impedendoti di evolvere. Oppure che fai? Attacchi ciò che non conosci. Invece di fare così dovremmo utilizzare la nostra paura come movente e stimolo alla conoscenza così che possiamo crescere e comprendere le differenze. L’ignoranza non è più una scusa e in questi anni così controversi tutto sta cambiando molto velocemente e se è vero che ci sono tanti aspetti negativi ce ne sono anche tanti positivi.

 

Nella canzone Due anni fa hai detto “ero un foglio bianco e tu mi hai scritto il mondo addosso”. È una frase che sembra introdurre ad una canzone che parla d’amore, di una storia nel momento in cui uno la sta vivendo. Poi, procedendo con l’ascolto ci si rende conto che parli del passato. Passando ad un’altra canzone inoltre, Beviamoci, viene riproposto il tema della storia passata. Il passato è un tema per te importante. Un passato che sembra solo rimpianto. O forse no. Nello stesso album quindi si parla di storie diverse ma entrambe finite. Ritieni che quindi sia più proficuo per l’arte parlare di momenti di rottura drammatici o perlomeno tristi e malinconici, oppure credi che l’atto creativo possa nutrirsi anche di narrazioni quali le giornate qualunque di un mese qualunque decantando la quotidianità?

Mi ha sempre colpito la frase di Tenco “Se sono triste scrivo canzoni, se sono felice me ne vado al mare”. Un po’ è vero, quando sei felice hai voglia di condividere la felicità anche all’atto pratico quindi di stare a contatto con le persone. Dato che la musica è terapeutica, o per lo meno per me lo è, viene quasi da dire che l’atto creativo è figlio della malinconia e di quel “male di vivere” che talvolta ti porta al raccoglimento in solitaria. Queste due canzoni che hai citato parlano di una storia finita ma c’è anche il risvolto positivo, agrodolce, perché è meglio perdersi che rimanere assieme e vivere male. In realtà queste canzoni sono come un bilancio finale più che figlie della malinconia. Un bilancio che alla fine non è negativo. È importante comunque smuovere delle emozioni con l’arte e nello specifico, con la musica anche se sono emozioni di felicità.

 

Adulti con riserva mi sembra il tuo punto di vista attuale, fai come il punto della situazione. Mi ritrovo a sorridere perché la vedo una canzone possibilista. Elenchi tante cose, ammetti la possibilità di fare qualsiasi cosa basta che lo si faccia in maniera positiva e propositiva, come un inno alla vita.

È banale da dire ma il punto di vista che si ha quando si è in mezzo ad una cosa è diverso da quello che si ha quando ci si allontana. Tutti i sorrisi che ti sei perso, le giornate e le ore che ti sei perso quando eri nel buco nero non te le ridà indietro nessuno. Quindi mentre sei nel buco nero ricorda di sorridere perché comunque passerà e quindi almeno ricorda.

 

La mia canzone preferita è Quando finisce la festa dato che mi sembra quasi che parli di me. È molto introspettiva, quasi onirica. Presenta svariati cori in sottofondo con tanti strumenti che si mischiano ad una moltitudine di voci. Sembra di fare una camminata serena in un bosco fatato. Ora cammino in questa foresta e intanto dedico del tempo solo a me stessa e a ricordarmi che io valgo. Il pezzo strumentale alla fine della canzone è un accompagnamento ad un viaggio che non sembra voler finire. Attende di iniziare nuovamente e si apre ad un nuovo inizio.

Questa canzone ricorda un periodo particolare della tua vita?

Volevo fosse un po’ una colonna sonora ad un momento che stavo vivendo. Non mi fidavo di me stessa, non mi piacevo, non mi apprezzavo. La canzone è nata da una discussione molto brutta al telefono dove mi sono state dette delle cose bruttissime. A quel punto ho capito che non meritavo delle parole così brutte e che non era giusto per me rimanerci male e rimettere in dubbio e discussione tutta la mia vita. Ma anche se sapevo che tutto era infondato sono comunque entrata un po’ in crisi. Alla fine quindi questa canzone è stata una sorta di catarsi per ritrovare il mio centro, per “ricentrarmi” e ritrovare me stessa. Doveva essere un inizio di una nuova era ricominciando a vivere tentando di fidarmi degli altri finalmente. La coda della canzone è così lunga proprio perché è una fine che in realtà non vuole finire.

 

Alla fine della canzone ci sono degli speech. Di chi sono le voci?

Ci sono Massimo Martellotta (Calibro 35), Antonio Cupertino (produttore dell’album) e ci sono anche io. Massimo e Antonio si sono messi a lavorare sull’album con grande entusiasmo regalandomi la loro fiducia e il loro entusiasmo. Per me sono stati come dei padri. Poi c’è la voce di Miles Kane conosciuto poco prima della fine delle registrazioni dell’album con il quale abbiamo iniziato a scambiare pareri e opinioni sulla musica scambiandoci registrazioni. Abbiamo anche scritto delle cose insieme. Anna Vigano’ (Verano) che fa l’entrata con la chitarra distorta sulla coda. È una delle mie migliori amiche e io la adoro. La volevo nell’album e le ho chiesto di partecipare. Poi ci sono tante voci che abbiamo preso registrando con il microfono in giro per strada.

 

Vuoi lasciarci con un messaggio?

Più rispetto e più sostegno tra le donne sarebbe importante e anche più solidarietà femminile.

 

Un album quello di Angelica che si racconta nota dopo nota invitandoti al mare, ad una festa, ad un viaggio, alla vita. Un album da portare sempre con sé.

Grazie a Carosello Records e ad Angelica per aver accettato questa rece-intervista.

 

Sara Alice Ceccarelli