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Echo And The Bunnymen @ Percuotere_la_mente

• Echo and the Bunnymen •

Corte degli Agostiniani (Rimini) // 08 Luglio 2019

 

 

Perché gli anni Ottanta non smettono di tornare? Questa domanda mi gira in testa da un po’ e continua a ripetersi anche mentre aspetto che Echo and the Bunnymen salgano sul palco della Corte degli Agostiniani, a Rimini, in occasione della rassegna musicale Percuotere la Mente.
Il gruppo ha avuto un discreto successo tra il 1978 e per tutto il decennio successivo, con lembi di notorietà arrivati fino ai giorni nostri.

Qualcuno li avrà scoperti grazie ad una recente cover di Manuel Agnelli nel suo programma televisivo “Ossigeno”, altri invece se li ricorderanno per la presenza di uno dei loro pezzi più celebri, The Killing Moon, nella colonna sonora nel film culto Donnie Darko, altri ancora, quelli che negli anni Ottanta avevano vent’anni, perché sono stati uno dei gruppi più promettenti della scena inglese.

Nella serata dell’8 Luglio, a Rimini, hanno riempito l’arena estiva e dato vita ad uno spettacolo godibile, anche – e soprattutto – per l’ebrezza, vera o presunta non importa, di McCulloch. Il frontman del gruppo si colloca a metà strada tra Lou Reed e Jim Morrison.

E infatti, nella scaletta non mancano una cover di Roadhouse Blues dei Doors e un accenno sfumato di Walk on the Wild Side. A onore della cronaca, bisogna dire che Ian McCulloch non dimostra affatto gli anni che l’anagrafe gli attesta.

Il pubblico presente invece è variegato: ci sono i fan di prima generazione, ma non mancano nemmeno quelli come me, curiosi o appassionati della musica inglese di quegli anni, che hanno formato i propri gusti musicali a suon di Joy Division, Siouxsie and the Banshees o Bauhaus.

La band arriva da Liverpool, e della formazione originale rimangono solo due elementi: Ian McCulloch e Will Sergeant. Gli altri membri del gruppo presenti sul palco avranno trent’anni, più o meno.

Quindi, per quale motivo, così tante persone si stringono sotto il palco a cantare le loro canzoni, nonostante da tempo non esca qualcosa di nuovo? L’ultimo loro disco risale al 2014 e non ha fatto di certo gridare al miracolo e non può essere sufficiente il fatto che quella di Rimini sia l’unica data italiana.

Allora è vero che gli anni Ottanta stanno tornando? Probabilmente no. La mia sensazione è che il problema non siano tanto gli Ottanta, quanto il presente. Nessun periodo storico è stato così ossessionato dal passato come questo.

Stiamo vivendo una sorta di “retromania”, termine utilizzato Simon Reynolds per definire quell’innamoramento totale e assoluto per un passato più o meno recente. E proprio il fatto che si tratti di un passato recente, non reinventabile e che non lascia spazio a riscritture, è curioso.

Questo culto degli anni Ottanta, che si può trovare nella musica – Echo and the Bunnymen sono solo un esempio, il meno convenzionale, senza bisogno di scomodare altri gruppi ben più famosi e ingombranti – così come nelle serie TV, è legato alle nostre ossessioni.

Non è un caso che Stranger Things sia quello che di più vicino all’immaginario pop americano degli anni Ottanta si sia visto dai tempi di Donnie Darko. Quel periodo è stato l’età dell’oro, del benessere, ma anche l’inizio del declino. Oggi non esiste uno stile musicale così rappresentativo, come lo sia stato la new wave o il post punk, per gli anni Ottanta. La trap, forse?

La verità è che le tendenze scivolano veloci tra le dita e prima che possiamo accorgercene sono già state sostituite da qualcosa di nuovo. La realtà in cui viviamo è affollata di stili e noi, in tutta risposta, ci rifugiamo in questo passato recente di cui ancora possiamo avere memoria.

Gli ultimi tempi prima di Internet, l’ultimo decennio prima dell’invasione dell’informatica e della rete. Tutto era controllabile, gestibile, sicuro. Un piccolo Paradiso Terrestre, anche per quanto riguarda la produzione musicale.

La sensazione che ho, riguardo a questa retromania, è che rallenti ulteriormente l’arrivo di un “futuro” non meglio precisato: Lady Gaga si è ispirata a Madonna, Amy Winehouse ha ripreso gli stilemi del soul anni Sessanta, i nuovi indie indossano le magliette dei Joy Division. Mentre rimango in attesa di una tabula rasa per superare finalmente questi maledetti anni Ottanta, Echo and the Bunnyman partono subito con le grandi hit.

McCulloch e compagni hanno vissuto sulla propria pelle il post-punk e la new wave, ma solo con The Killing Moon hanno ottenuto il successo che meritavano. Per anni si sono occupati di alcuni progetti solisti fino a che non è arrivata l’inevitabile reunion. Così sono tornati, acclamati da una nuova generazione di discepoli.

Gli ultimi scampoli della loro carriera possono essere imputati alla retromania, anche se gli ultimi dischi, quelli degli anni Duemila, pur senza aggiungere niente di nuovo alla loro storia, sono comunque apprezzati dai fan. Per provare a spiegare l’affetto che il pubblico gli riserva, bisogna tirare in ballo anche la personalità di McCulloch: istrione, sopra le righe e carismatico.

Occhiali da sole anche di notte e giacca di pelle con 35°C, insieme alla sigaretta in bocca è la divisa di ordinanza, manco a dirlo, degli anni Ottanta. Quando arriva il momento, The Killing Moon fa inumidire gli occhi anche dei più insensibili. McCulloch può mostrare i muscoli o deprimersi ma risulta sempre perfetto per incarnare e raccontare la complessità di un gruppo come Echo and The Bunnymen.

Dopo le prime canzoni McCulloch fa alzare il pubblico, come si conviene a un concerto come questo, chiamandolo sotto al palco. Il quadro viene completato dal tocco decisivo, che non può mancare per completare l’affresco: l’uso dei sintetizzatori.

Quello che manca, forse, è un po’ di coraggio. Non sono i Depeche Mode che continuano a sfornare nuovo materiale, Echo and the Bunnymen stanno guardando al passato. Loro avevano le canzoni, la chitarra spettrale di Will Seargent, la sezione ritmica che funzionava come una macchina e avevano Ian McCulloch, che riusciva a camminare sul filo del rasoio, tra il punk e la poesia.

Decenni dopo sono ancora qui, in questo luogo misterioso e pieno di fan in visibilio.

 

Daniela Fabbri

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Indimenticabile Festival: Cecco e Cipo e tutto l’amore che c’è

Un’altra tappa per l’Indimenticabile Festival sulle pagine di VEZ Magazine in compagnia di Cecco e Cipo, in line up il 12 luglio.

Un duo toscano dall’incredibile e scanzonata energia live, fresco di uscita del quarto disco in studio: un viaggio Straordinario intriso dell’allegria e della spensieratezza che da sempre caratterizza il duo ma con una scrittura più matura e consapevole.

Li abbiamo incontrati e abbiamo fatto loro qualche domanda.

Buona lettura!

 

 

 

Ciao ragazzi ben trovati! Sapete che durante il periodo di pausa dopo X Factor temevo di non rivedervi più? Vi ho trovato geniali dalla prima strofa. Come componete la vostra musica e i testi? Lo fate assieme oppure vi dividete?

Ciao anche a voi e a tutti i lettori di VEZ Magazine. Siamo molto contenti di essere tornati sulla scena per raccontarvi questo nostro nuovo disco, la cui storia è iniziata con nuovi stimoli, nuove persone, nuovi luoghi e nuovi suoni. La sola cosa che non è cambiata rispetto ai nostri precedenti lavori è proprio il metodo di scrittura originale dei pezzi: o Cipo o Cecco scrivono infatti come hanno sempre fatto, ovvero rigorosamente in sedi separate. Questo perché essendo noi due persone completamente diverse, la nostra totale intimità e solitudine nel lavoro ci permette di esprimere una scrittura molto più intima e personale, e che poi all’orecchio di un fan magari un po’ più esperto permette addirittura di riconoscere di chi è la mano in una determinata canzone.

 

Siete una ventata d’aria fresca. Le vostre canzoni mettono allegria e fanno sorridere da quanto sono realistiche. Per esempio quanto raccontato in Dovresti farci una canzone credo sia qualcosa che possa accomunare tanti artisti. Ci raccontate un aneddoto, magari anche due, che potrebbero essere spunti di canzoni?

Grazie mille per le belle parole! In realtà ci abbiamo pensato dopo al fatto che i temi narrati in Dovresti farci una canzone siano situazioni che potrebbero accomunare diversi artisti, ma appena ce ne siamo resi conto, beh, diciamo che la cosa ci ha fatto molto sorridere! Di aneddoti che potrebbero essere spunti di canzoni ce ne sono tantissimi e possono andare dai viaggi in furgone con la band verso le location dei concerti (anzi, forse è la maggior fonte di spunti per noi artisti!) al raccontare episodi accaduti durante la pratica dei nostri hobby preferiti (una pescata, una notte in tenda, la ricerca di un paninaro buono alle 4 del mattino, ecc.); quello che però abbiamo cercato di raccontare in Dovresti farci una canzone è nello specifico di esaudire il desiderio di parenti, amici, conoscenti e non, che abbiano espressamente fatto richiesta di far entrare un particolare avvenimento (che magari ha colpito più loro che noi) nel nostro repertorio.

 

Nel nuovo album si sentono nuove e intimiste melodie, dolci e delicate. Come in Decidi tu, dove anche la batteria sembra concorrere al premio dolcezza assieme alle vostre voci. Com’è cambiato il vostro stile negli anni? 

Sì, è un disco pieno d’amore, ma che ci possiamo fare? Ci è venuto così a questo giro. Ci sono canzoni molto dolci, accompagnate da una musica dolce, altre invece più improntate sul rock, a volte anche inglese, più da band, più elettriche, per fare ballare un po’, avevamo voglia di far ballare. E’ il nostro quarto disco, quindi forse, più maturo, per forza di cose, non perché sia più bello, ma perché siamo cresciuti noi. di sicuro oggi entriamo in studio con un’altra testa, e andiamo ai live con un’altra sicurezza, anche se siamo sempre comunque una band di scappati di casa e ne succede sempre una. a livello di suono, nei dischi precedenti si sentiva molto l’influenza dei nostri bengalini, tipo Rino, oggi, forse, stiamo trovando una strada più nostra, uno stile solo nostro, che è alla fine è quello che conta.

 

Ci siamo, L’Indimenticabile Festival è alle porte! Cosa vi aspettate dal pubblico e da questa opportunità?

Siamo molto orgogliosi e felici di partecipare all’indimenticabile, gran bella opportunità. Ci aspettiamo molta gente, anche se noi comunque suoneremo il pomeriggio, abbastanza presto, ma la cosa ci foga lo stesso, poi bologna è sempre estate una piazza fighissima. Non vediamo l’ora di suonare!

 

Sara Alice Ceccarelli

I Viito: anima e cuore.

Ci sono cose che nascono e svaniscono in fretta e cose che invece, dal momento in cui prendono vita, non fanno altro che crescere giorno dopo giorno senza nessuna pretesa e senza la fretta di raggiungere un risultato immediato.

Credo che il segreto per fare in modo che tutto ciò che desideriamo arrivi a noi, non sia solo la determinazione e la giusta dose di ambizione, ma penso sia fondamentale la cura, l’attenzione minuziosa nei confronti di ciò che amiamo fare e il modo in cui decidiamo di metterci in gioco e portare avanti quello in cui crediamo, il tutto senza mai tralasciare un aspetto fondamentale: l’umiltà.

Se dovessi pensare qualcuno in grado di viaggiare su questa linea in perfetto equilibrio, penserei sicuramente a Vito e Giuseppe che insieme formano i Viito con due i, due lettere identiche, vicine, ma soprattutto due basi solide ed è proprio da quelle basi che circa un anno e mezzo fa è nato un progetto musicale che ho amato sin dal primo istante.

Colpo di fulmine.

Dopo l’uscita del primo singolo Bella come Roma (gennaio 2018) ho aspettato l’uscita del secondo, poi del terzo e del quarto fino ad arrivare al primo attesissimo album Troppo forte, ricco di tutta quella vita che spesso viviamo ma non riusciamo a descrivere perché guardarsi dentro a volte è un duro lavoro, tra attimi di nostalgia e altri di speranza, tra malinconia ed entusiasmo, tra voglia di superare il passato e concentrarsi sul presente… Una cosa è certa: nelle canzoni dei Viito regna l’amore in ogni sua forma, tempo e declinazione. Regna la voglia di raccontare la verità che per quanto a tratti possa far male è sicuramente una delle cose che ricerchiamo e di cui abbiamo più bisogno e regna la voglia di riuscire a trovare sempre e comunque un lato positivo.

Lontani dagli schemi e dalla banalità nel raccontarsi, questi due ragazzi con la loro musica sono una boccata d’aria fresca, un bel punto vivo, un angolo a parte in questa nuova scena musicale italiana e una volta entrati in contatto con così tanta energia, quell’angolo diventa automaticamente uno dei posti preferiti in cui rifugiarsi, una volta schiacciato play e dato il via alla riproduzione dei loro brani, tutto sembra prendere forma e diventare possibile. E’ possibile sentirsi leggeri e allo stesso tempo imparare a dare il giusto peso a persone ed avvenimenti.

Dalla capitale a Bolo Centrale, è stato un piacere per me realizzare questa intervista…

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Torniamo un po’ indietro nel tempo, al principio di tutto quando eravate due studenti fuori sede che condividevano la stessa casa. Qual è stato il momento in cui avete deciso di unire le vostre passioni e diventare insieme i Viito? Un ricordo particolarmente bello di quel periodo? 

Inizialmente abbiamo cominciato a scrivere canzoni insieme per gioco. Pensavamo di poterle proporre a qualcuno anche solo come autori, non necessariamente cantarle e suonarle in prima persona. Il momento esatto in cui abbiamo deciso di essere i Viito è stato in una mattina di settembre 2016, quando Giuseppe ha proposto il nome del progetto a Vito. Pochi minuti dopo avevamo una pagina Facebook e un anno dopo un contratto discografico. Di quel periodo ricordiamo le nottate passate a curare le ferite di vecchie relazioni attraverso la musica; è stata un’autentica terapia.

Sembrate due persone caratterialmente all’opposto eppure traspare allo stesso tempo anche la vostra forte complicità, come se foste davvero fratelli. La cosa bella è che siete entrambi protagonisti di ciò che fate. Sempre. C’è stato un momento in cui avete pensato di mandare tutto all’aria e mollare la presa? E quant’è stato difficile credere fino in fondo in un progetto musicale come il vostro in questo panorama Indie-pop ormai ricco di nomi emergenti dove crearsi un proprio spazio non è poi così semplice. Lati positivi e negativi della vostra esperienza?!

Sembra banale dirlo ma il nostro rapporto è quanto più si avvicina a quello di due fratelli. Hai presente quando dici “ho un fratello che è l’opposto di me… ci rompiamo le palle a vicenda ma ci vorremo bene per la vita”? È così. In realtà abbiamo anche molte cose in comune, una su tutte: dare la massima priorità alla trasparenza e alla fiducia nei rapporti della vita, che siano personali o lavorativi. Insomma abbiamo una radice solida che ci tiene uniti, poi come in un albero i rami puntano in direzioni svariate, ma questo è un bene perché i frutti sono tanti e genuini. Non riusciremmo a smettere perché quello che facciamo nasce da una reale esigenza, anche per questo “non crederci” è sempre stata un’opzione che non esisteva.

Chi scrive tra i due?

Entrambi.

L’estate scorsa, proprio in questo periodo usciva “Compro Oro” uno dei singoli che ha anticipato l’uscita del vostro album d’esordio, quest’anno è arrivata “Bolo Centrale” seguita poco dopo da “Sistema solare” Qual è il bilancio di questi ultimi mesi? Quante e quali cose sono cambiate e in che modo siete cambiati voi?

Abbiamo cambiato città, abbiamo scritto tanto, per la prima volta abbiamo anche cancellato quello che avevamo scritto per riscriverlo da capo (è stata una novità per noi), abbiamo provato a migliorarci sotto ogni aspetto di questa passione-lavoro. E stato giustamente faticoso, ma anche bello. Siamo felici dei risultati e molto carichi per quello che verrà.

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Tornando a Bolo Centrale, brano che sembra anche un po’ omaggiare la città che vi ha recentemente adottato dopo Roma, com’è nata l’idea di girare il video catturando attimi “di passaggio” proprio all’interno della stazione di Bologna Centrale? E’ un video semplice eppure d’impatto, lo definirei speciale perché estremamente vero. Quale messaggio volevate trasmettere?

Pochi giorni dopo l’uscita de brano abbiamo incontrato Olmo Parenti che, insieme a Marco Zannoni e Arturo Vicario, ha realizzato il video. Quando Olmo ci ha raccontato la sua idea abbiamo subito capito che era quella giusta, quella che interpretava a pieno lo spirito della canzone. L’unico messaggio che volevamo mandare, se di messaggio si stratta, è “osserva e assapora le cose piccole e autentiche che ti sono attorno perché sono le più preziose”.

Da quando vi ho scoperti ad oggi, ho visto crescere a dismisura la vostra fan- base eppure non è mai cambiato il vostro modo di interagire col pubblico che vi segue. Come vivete l’aspetto “social”? 

Cerchiamo di essere spontanei, questa cosa dei social la stiamo digerendo a piccoli passi… è un mondo che ti fagocita e distorce quello che sei con molta facilità. Ma c’è una parte bellissima di tutto questo: il rapporto diretto che abbiamo con chi ci segue con interesse. Stiamo diventando una specie di famiglia e in privato cerchiamo di rispondere sempre a tutti.

Dai Festival ai sold out nei club e date extra fino al nuovo tour “Mi farei arrestare”. Da 4 singoli ad un album che è andato davvero -Troppoforte- cosa state provando in questo momento in cui state “raccogliendo” e vedendo i frutti del vostro lavoro e della vostra passione? E tra ormai direi centinaia di palchi vissuti, ce n’è uno che ricordate o vi ha emozionato in particolar modo?

 A volte guardiamo le foto e i video dei nostri scorsi concerti e ancora ci emozioniamo come quando eravamo lì sul palco. Altre volte siamo con la testa proiettata sul futuro: scriviamo, progettiamo, sogniamo. La musica per noi è così, non si ferma, non si celebra più di tanto, ma scorre… come linfa, come sangue, è una cosa viva. Ci ricordiamo tutti i palchi come ci si ricorda di tutte le notti passate con un nuovo amore. Questo amore, tra noi e il nostro pubblico, è giovane e noi crediamo (speriamo) che durerà nel tempo.

E’ questo il bello dei Viito, riescono sempre a rendere tutto più magico, riescono a toccare tante anime e cuori perché è tutto ciò che hanno e che mostrano ed inevitabilmente tutto ciò che arriva in maniera talmente pura e diretta da non poterne fare a meno per star bene.

Il grande potere della musica.

Il loro grande potere.

Claudia Venuti

VezBuzz: i Sex Pistols e “the great rock’n’roll marketing”

Uno dei buzz più conosciuti della storia della musica è quello che vede protagonisti i Sex Pistols. Era il Giugno del 1977, le strade di Londra venivano addobbate per la grande festa del Giubileo della Regina Elisabetta II e i Sex Pistols pubblicavano il loro dissacrante singolo God Save the Queen.

Non si può però parlare dei Pistols senza tirare fuori il nome di Malcom McLaren, la grande mente che architettava ogni provocazione della band di Johnny Rotten, Sid Vicious e compagni. McLaren riuscirebbe a vendere qualsiasi cosa – anche il classico frigorifero agli eskimesi – grazie alla sua dialettica.

Gli viene naturale, è la cosa più facile del mondo per lui. Questo spiega tante cose, soprattutto come abbia fatto grazie ad un pionieristico lavoro di marketing, a far diventare famosa in tutto il mondo una band che, di fatto, non sapeva suonare.

Passato alla storia come manager del gruppo, questa definizione risulta comunque essere riduttiva per descrivere quello che è stato davvero McLaren: un curioso, spregiudicato, irriverente anticipatore di tendenze ma soprattutto il burattinaio che ha mosso i fili della grande “truffa del rock’n’roll”.

Sì, perché i Sex Pistols, una delle band simbolo del movimento punk, furono in realtà il primo gruppo creato a tavolino con uno scopo ben preciso: promuovere gli abiti creati dall’allora semi-sconosciuta stilista Vivienne Westwood, fidanzata di McLaren, venduti nel negozio “Sex”, da cui appunto presero il nome i Sex Pistols. Una enorme operazione di marketing, una delle più grosse del mondo della Musica.

Quello che riuscì a fare McLaren insieme ai suoi Pistols in quella serata di Giugno ha dell’incredibile.

God Save the Queen era uscita il 27 Maggio di quell’anno e in pochi giorni era diventata il pezzo che nessuna radio voleva passare, che le televisioni si affrettavano a censurare e che, fin dai primi versi, scandalizzava i ben pensanti. Addirittura alcuni negozi di dischi si rifiutavano di mettere in vendita il singolo, a causa del contenuto ritenuto oltraggioso.

In God Save the Queen, i Pistols si facevano beffe della sacra monarchia inglese paragonandola al regime fascista, anche se Johnny Rotten, cantante della band, dichiarò diversi anni dopo che “non si scrive una canzone come God Save the Queen perché si odiano gli inglesi. Si scrive una canzone come quella perché si amano e si è stanchi di vederli maltrattati.”

Il pezzo originariamente doveva chiamarsi No Future, come ripetuto ossessivamente nel ritornello diventato poi un emblema del punk, ma McLaren decise di cambiarlo in God Save the Queen, proprio per la coincidenza della sua uscita con il Giubileo d’argento della regina.

God Save the Queen è l’inno del punk inglese, che in quel “no future, no future, no future for you” racchiude tutto il senso del movimento, che non è più solo una corrente musicale, ma una vera e propria sottocultura giovanile.

Il punk era arrivato a dare una vigorosissima spallata al mondo della musica rock e ad urlare parolacce nelle orecchie dell’imbolsita borghesia inglese, disinteressata ai problemi sociali ma sempre premurosa verso la propria Regina. Era la rivolta, l’elettricità, una musica che non voleva essere condizionata da niente ad eccezione di se stessa.

Nessun futuro, nessuna speranza per il sogno inglese, nessun desiderio: la generazione dei ragazzi della seconda metà degli anni Settanta nel Regno Unito poteva anche piantare i chiodi nella bara delle proprie illusioni e i Sex Pistols erano lì per ricordarglielo: il mondo non cambia, le cose non cambiano, tutto rimane uguale, quello che puoi fare è arrabbiarti e gridare.

Il punk era l’aperta e dichiarata contestazione di ogni regola e nessuno più dei Pistols riusciva a incarnare questo atteggiamento. La band nel giro di poche settimane collezionò contratti con case discografiche, firmati e stracciati alla velocità della luce, uno dopo l’altro.

McLaren però non è il tipo che si accontenta, serviva una delle sue inverosimili trovate per tenere sempre alto l’interesse generale sui Pistols. Probabilmente avrebbe desiderato che la sua band eseguisse God Save the Queen di fronte alla faccia impassibile di Sua Maestà, ma non potendolo fare si inventò qualcosa di diverso, ma altrettanto esplosivo.

Per promuovere il singolo venne organizzata un’operazione di marketing magistrale: il 9 Giugno 1977 McLaren noleggiò una barca, che ribattezzò “Queen Elizabeth River Boat”, ci fece salire sopra i Sex Pistols e la fece navigare sul Tamigi, fino ad arrivare di fronte al Palazzo di Westminster. Qui iniziarono a suonare, facendo inevitabilmente scalpore tra i presenti.

L’attitudine di un gruppo scalcinato e violento, come i Pistols, unita alla mente da agitatore di Malcom McLaren fecero il resto. Immaginate la scena: una chiatta scivola sul Tamigi, sopra i Pistols suonano – male – e urlano oscenità mentre a riva si festeggia il Giubileo. Lo sguardo allucinato di Lydon, le magliette strappate, il corteo di freak brutti, sporchi e cattivi di cui i Pistols si circondano.

La band è guardata a vista dalla polizia inglese, che ad un certo punto li accosta e sale a bordo. La festa in barca si interrompe tra gli insulti alla regina. Nel frattempo una rissa coinvolge Jah Wobble – amico dei Pistols e poi bassista nei PIL di Lydon – e un cameraman, così la barca viene fatta attraccare e undici persone vengono arrestate.

Il resto è storia: il giorno dopo i giornali riportano a caratteri cubitali l’evento scandalistico dei nuovi selvaggi del rock e God Save the Queen sale al secondo posto delle classifiche inglesi.

La leggenda vuole che in realtà fosse addirittura al primo, mai dichiarato perché l’industria radiofonica inglese cospirò contro il brano, censurandolo come poteva.

Nei giorni successivi il singolo venne poi bandito dalla radio della BBC e l’Independent Broadcasting Authority, un’associazione che controlla e regola le trasmissioni nel Regno Unito, vietò la messa in onda di qualsiasi sua esecuzione. Questo naturalmente non fece che alimentarne il mito, arrivato fino ai giorni nostri.

 

Daniela Fabbri

 

https://youtube.com/watch?v=tHrUleT8HTs

 

Ex-Otago e Indimenticabile Festival: l’intervista

Continua il nostro viaggio in compagnia dei protagonisti dell’Indimenticabile Festival che si terrà il 12 e 13 Luglio 2019 Bologna Sonic Park.

Una prima edizione nata per celebrare il movimento nato fuori dal circuito delle grandi etichette discografiche e dai talent televisivi, cresciuto tra concerti in piccoli club, sostenuto dal mondo social e arrivato alle grandi platee e all’attenzione dei media nazionali partendo dal basso.

Dopo l’intervista ai direttori artistici, a fare un altro pezzo di strada assieme a noi verso il 12 e il 13 luglio ci sono oggi gli Ex-Otago, un gruppo che dai circuiti indipendenti si è ormai fatto conoscere anche dal grande pubblico, specialmente dopo la partecipazione a Sanremo di quest’anno con Solo una canzone.

 

Bologna Sonic Park

Bologna Sonic Park in preparazione

Fotografia di Luigi Rizzato

 

Ciao Ragazzi! Premetto che ci siamo incontrati diverse volte e siete anche una delle prime band che abbiamo fotografato quando ancora non eravamo testata ma eravamo solo una minuscola webzine composta da due persone. Noi di VEZ vi sentiamo quindi molto vicini nonostante abitiamo sulle riviere opposte. Potete quindi raccontarci qual è la cosa che amate di più di Genova, che vi lega a quella città così da farla sentire “familiare” anche a noi?

Genova da sempre è una città che accoglie e con le sue bellezze artistiche e culinarie non può che conquistarti e farti sentire a casa! Noi con Genova abbiamo un rapporto quasi viscerale, che emerge in ogni nostro disco, è una città che ti lascia il segno nel bene e nel male e che ti porti sempre dietro ovunque tu vada.

 

 

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Un Concerto per Genova

RDS Stadium Genova, 2018

 

La vostra musica e i vostri testi sono raffinati e “alti” ma al tempo stesso immediati. Come nascono le vostre canzoni? 

Le nostre canzoni nascono piano piano, ci piace dare questa immagine: Hai presente i Lego? Montare e smontare una casetta, un castello, un intero paese. Ecco, per noi ogni canzone è un momento di gioco da una parte e un cantiere dall’altra. Come prima cosa io scrivo i pezzi, dopodiché mi riunisco con tutti gli altri componenti della band per rivederli tutti insieme e pensare alla musica da costruirci intorno. Ogni pezzo ha una sua storia, per alcuni pezzi ci basta un pomeriggio, altri invece li teniamo in un cassetto e dopo un po’ di tempo prendono forma, ma alle volte non come erano state concepite. Così capita che il ritornello di una canzone diventi il verso di un’altra. CI fa piacere che i nostri testi vengano percepiti come “immediati” quando in realtà c’è molto lavoro dietro.

 

Che ne pensate dell’uso e forse abuso che si fa della parola “indie” negli ultimi anni? Pensate che ci sia ridondanza e ripetizione a livello di temi e melodie oppure trovate che i recenti sviluppi abbiano favorito una certa dose di innovazione?

In generale sia io che gli altri componenti della band non amiamo molto le etichette, sulla parola ”indie” ti posso dire però , abuso o non abuso a parte, che è stata l’elemento chiave per portare una grande dose di innovazione nella musica italiana. Negli anni 2000 quando noi facevamo già questo genere, spesso le persone ci guardavano come degli alieni perché noi dicevamo di fare “pop” ma all’epoca il pop erano solo artisti come Eros, Giorgia e via dicendo. Da lì è nata la parola indie e siamo contenti che più di dieci anni dopo le carte in tavola siano cambiate, perché anche grazie a questo concetto, oggi sotto la parola “pop” possono essere incluse tante realtà musicali differenti. Non percepiamo una ripetizione a livello di temi e melodie anche perché, come ti ho detto prima, noi non vediamo artisti “indie”,”trap” o “rock” ma vediamo il panorama musicale italiano come un qualcosa di molto vasto e aperto a tanti generi diversi insieme.

 

 

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L’Indimenticabile Festival è al suo primo anno e l’attesa è tanta. Cosa vi aspettate da questo Festival e dal pubblico emiliano-romagnolo? 

Saliremo ancora più carichi del solito, con una gran voglia di divertirci e far divertire per il primo anno di questo bellissimo Festival. In più la l’Emilia-Romagna è tra le nostre regioni preferite, soprattutto per il cibo e la simpatia delle persone. Per questo ci aspettiamo dal pubblico emiliano-romagnolo un grandissimo affetto e tanta voglia di divertirsi tutti insieme! Aspettatevi anche qualche salto tra la folla! Noi siamo dei grandi sostenitori del contatto fisico: Andare in mezzo al pubblico, creare unione, sentire l’energia ci piace tantissimo.

 

Noi vi auguriamo il meglio e non vediamo l’ora di rivedervi!

 

Intervista di Sara Alice Ceccarelli

Foto di Alessio Bertelloni

 

Tarantino: l’arte di essere semplicemente sé stessi.

“Ciao Claudia sono Francesco Tarantino e il 5 marzo uscirà il mio primo singolo Una vita al var…”

Ecco come ho conosciuto Tarantino e la sua musica, era febbraio e mancavano pochi giorni all’uscita del suo primo singolo.

Da quel messaggio sono passati alcuni mesi e nel frattempo i singoli di questo giovane cantautore sono diventati due, visto che è da poco uscito Aurora con un bellissimo video (scritto e diretto dallo straordinario Duilio Scalici) che ha superato le 40.000 visualizzazioni in pochi giorni e che consiglio di guardare perché è un ottimo modo per dimenticare un attimo il modo in cui viviamo l’amore da adulti e tornare a vivere i sentimenti con quella spensieratezza infantile che crescendo abbandoniamo quasi automaticamente per fare spazio al calcolo dei rischi tentando di soffrire il meno possibile. Come se l’amore si basasse sulla matematica o la razionalità!

Nascono nuove canzoni ogni giorno e ogni giorno qualcuno decide di mettersi in gioco e tentare la strada della musica, poi c’è chi invece quella strada la percorre sin da quando era bambino perché con certe passioni probabilmente ci nasci, ma bisogna essere comunque bravi a tenerle vive e a non lasciare che la difficoltà e tutti gli ostacoli possibili lungo il cammino vadano ad intralciare un sogno, che per Tarantino è solo uno: fare musica, la sua musica.

Studio, sacrificio e dedizione ma soprattutto amore per quello che fa e per il modo in cui lo fa, rendono questo ragazzo uno degli emergenti di spicco dell’attuale scena musicale italiana. Lontano da ogni tipo di omologazione, Tarantino è semplicemente sé stesso ed è questa la sua chiave vincente.

Non c’è nessuno distacco tra la sua persona e il suo “personaggio”, non c’è un nome d’arte perché in realtà il suo nome racchiude tutto ciò che è, e non c’è nessun confine tra quello che sente e che poi decide di condividere attraverso le sue canzoni.

Non ha bisogno di inventare e inventarsi nulla. Oggi facciamo un salto a Palermo per conoscerlo meglio…

 

Tarantino: da chitarrista a compositore, da occupare un posto ai lati di un palco ad essere al centro della scena, da suonare a scrivere, qual è stato il momento in cui hai pensato di dare vita ad un tuo progetto personale?

Non ho mai avuto questo pensiero ero in un momento musicale della mia vita poco produttivo non suonavo con nessuno, il tutto è nato probabilmente per esigenza curativa, è stato un tentativo di auto salvataggio inconsapevole; non sapendo come reagire ad un determinato momento della vita, ho utilizzato la scrittura come sfogo personale. Ho iniziato buttando giù tutto quello che mi passava per la testa senza mai rileggere con attenzione quello che scrivevo come se non volessi guardare indietro; con il passare del tempo rileggevo e prendevo sempre più consapevolezza di non stare bene con me stesso. Allora decisi di prendere la chitarra e provare a cantare quelle frasi totalmente sconnesse tra loro che mi fecero ridere non poco, cosa che mi mancava da un po’…il foglio bianco mi ha fatto da compagna e mi ha tenuto lontano dalla persona di cui avrei avuto paura, guardandola allo specchio. Non mi sono mai soffermato a pensare come nasce una canzone (davvero) forse perché in parte può essere doloroso scoprire i punti deboli; con il tempo (poco tempo) la scrittura cambiava perché io cambiavo, a quel punto iniziai a prenderci gusto.

 

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Una vita al var” è stato il tuo singolo d’esordio e nel video ci sei anche tu nelle vesti di attore, il che fa pensare che tu sia una persona capace di mettersi in gioco in tutti i sensi, c’è un momento che ricordi particolarmente legato non solo alle riprese ma a tutta l’esperienza pre e post produzione del brano?

Nelle vesti di attore è stato in realtà proprio il “non recitare nessuna parte” che mi è venuto molto spontaneo, alla fine non ho fatto altro che esternare ciò che succede dentro le mura di casa e dentro la mia testa. Il momento più bello è stato a ridosso dell’uscita del primo singolo…tanta confusione mista a gioia ed ansia, insomma un altalena costante di pugni nello stomaco, sapevo che stavo per fare finalmente qualcosa che mi apparteneva ed esserci riuscito è tutt’ora una bellissima novità, di quelle novità di cui non bisogna mai abituarsi.

 

Dal tuo primo singolo al secondo appena uscito “Aurora” c’è una netta differenza per quanto riguarda i testi delle due canzoni. Con Aurora scopriamo un altro Tarantino, una sorta di versione “romantica” dettata da quel sentimento intorno al quale ruota praticamente tutto… l’amore. Com’è nata Aurora e com’è stato mettere nero su bianco pensieri così intimi?

Aurora è nata poco prima delle luci dell’alba in una delle notti passate a fumare e pensare a tutto tranne che trovare il modo di far riposare la mia testa, mi trovavo in un luogo per me molto intimo della Sicilia orientale vicino Modica, ricordo che non le prime “luci del mattino” (titolo che avevo inizialmente scelto) maturò dentro qualcosa; amare è una delle sfide più belle che possiamo avere ma accettarla non è ugualmente facile, ritornare bambini con l’innocenza negli occhi ed il cuore libero anche solo per qualche ora durante la giornata sia una magia che va sempre ricercata per poter amare anche se stessi. Era la prima volta che scrivevo un brano così intimo e sinceramente non pensavo di riuscirci, è stato come darsi uno schiaffo in faccia infatti non ero proprio felice mentre la scrivevo ma probabilmente mi ha aiutato a capire meglio cosa ho dentro e cosa mi manca.

 

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Stai lavorando all’uscita del tuo primo disco, ti immaginavi così a trent’anni o avevi altre aspirazioni/sogni da bambino?

Ho sempre rincorso la musica e lavorato facendo qualsiasi tipo di lavoro per alimentare e portare avanti questa passione che sin da piccolo avevo; a tre anni mi trovarono davanti la cassa dello stereo (alta quanto me allora) a tenere il tempo con il piede su un brano di Zucchero “Solo e una sana consapevole libidine, salva il giovane dallo stress e dall’azione cattolica”; uno dei sogni più vivi che avevo da piccolo legati all’amore verso la storia e il mondo degli Egizi era poter diventare Archeologo, amavo inventare storie avventurose e andare alla scoperta di qualcosa che ancora fosse sepolta.

 

Ultima domanda a proposito di sognare in grande, su quale palco ti piacerebbe suonare?

Devo dirti la verità, non ho mai pensato su quale palco mi piacerebbe trovarmi, ma tra il mio batterista e suo papà tempo fa nacque una sorta di scommessa: “Se riuscite a suonare a San Siro giuro che vengo a montare e smontare il palco”…adesso io non garantisco la stabilità dell’impianto nel caso accadesse, ma ci proveremo soltanto per vincere la scommessa.

 

Ognuno di noi possiede un dono e quello di Tarantino risiede semplicemente tra le pagine bianche che prendono vita attraverso la sua penna e la capacità di creare musica in maniera del tutto genuina e pura, tanto da arrivare in maniera delicata ma allo stesso tempo prepotente al cuore di chi ascolta.

E arrivare al cuore di chi ascolta non è da tutti, ma lui riesce benissimo.

Claudia Venuti

Luciano Ligabue, l’amore e il “tenere botta”

Oggi sono chiamata a raccontare, da brava VEZ, la storia del mio cantante del cuore e ho deciso di sentirmi libera di esprimere tutto quello che per me ha significato e se necessario, condividere anche parti di me che non tutti sanno.

È una catarsi e la voglio fare così, sulla testata che ho contribuito a fondare e della quale sono orgogliosa, come lo sono dei collaboratori che giorno dopo giorno regalano un pezzo del loro cuore a questa piccola ma tanto #LoVez realtà.

E se dovesse essere oltremodo necessario, utilizzerò anche quel gergo emiliano-romagnolo che CI appartiene. Appartiene a noi figli della pianura, della bassa, della riviera, della terra dei partigiani, che ancora non abbiamo perso la voglia di ridere e sorridere dei guai (grazie Vasco eh ndr).

È il 1990 e ho dieci anni. Anni ancora abbastanza semplici dove tutto si risolveva attorno alla scuola, il nuoto, i libri, il cinema, Freddy Mercury e Franco Battiato. In classe con me c’è la mia più grande amica d’infanzia, Susanna, che come nella maggior parte dei casi poi ho perso lungo il meraviglioso cammino che è la vita di un adolescente medio. Ha con sé una musicassetta bianca, non ricordo se originale o taroccata. Qualcuno ricorda il walkman della Sony con le cuffie tonde unite dal cerchietto di metallo?

Quel giorno ho fatto conoscenza con Luciano Ligabue. Lo Zio, come lo chiamo da quella volta, e l’album è l’omonimo Ligabue, bianco, con pezzi di testo e un sole azzurro disegnato sulla copertina.

 

 

LIGABUE

 

 

 

Per questo album ho deciso di appuntare sulla mia bacheca magica dei ricordi la canzone Marlon Brando è sempre lui perché <<quel fascio di luce che parte dal proiettore e dal maggiolone>> mi ha sempre fatto pensare ad una serata holliwoodiana dove sentirmi anche io un po’ una star.

Dal 1991 al 1994 vivo i miei felici anni delle medie. Fanno davvero cagare per tutti gli anni delle medie, dove puzzi, non si capisce talvolta se crescerai tendente al brutto, accettabile o addirittura un figo e dove l’abbigliamento è un mix di dubbio gusto tra un’infanzia in fase di abbandono e un’adolescenza non ancora ben interiorizzata. Ad ogni modo, sempre nerdissima e coerente, ho il mio nuoto, i miei libri e il mio cinema in supersconto grazie al DLF (figlia di un ferroviere, eh eh).

E ho la mia musica.

In questo periodo escono tre album dello Zio Lambrusco Rose Coltelli & Pop Corn, Sopravvissuti e Sopravviventi e A che ora è la fine del mondo?

Lo so che Urlando contro il Cielo è la preferita di molti, ma non voglio appuntare sull’immaginaria bacheca quell’energico brano e lascio spazio a Sarà un bel souvenir per il primo album, perché trovo che la frase <<peccato soltanto che ci sarà il tempo in cui dovremo dire adesso è meglio riposare>> riassuma perfettamente la paura della morte che ho da che ne ho memoria.

 

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Con Sopravvissuti e Sopravviventi invece arriva la prima vera canzone che mi ha fatto ridere: Lo zoo e qui. In questo album del 1993 di chicche ce ne sono diverse ma questa canzone rappresenta in strofe le domande esistenziali che già a undici anni mi pongo: perché sono qui? Perché si suppone che io mi debba vestire di rosa, pizzi e merletti? Perché devo giocare con le bambole? Perché devo andare in Chiesa?

Insomma, PERCHE?

Risale a questo momento infatti la decisione di staccarmi dalla Chiesa e di non frequentare il catechismo per la cresima. Ed è da questo momento che mi rendo conto che le persone hanno la necessità di etichettarti per riuscire a trovarti uno spazio nella loro vita e forma mentis.

E se non sei etichettabile, allora non esisti. Succede, sopra ogni cosa durante l’adolescenza.

Per me invece le aggregazioni obbligate e il “perché lo fanno tutti” non hanno senso e <<il cavallo da soma, la scimmia da spalla>> e la mandria di animali improbabili elencati da Ligabue rappresentano la società. Quasi come se non ci fosse bisogno di andare allo zoo per vederli, basta scendere in strada. Grazie Zio, e grazie a quei sopravviventi.

Nel 1994 capisco che effettivamente ai concerti di Ligabue avrei potuto spaccarmi ammerda e sudarmi anche le unghie dei piedi. Fremo dalla voglia di andare ad un concerto dello Zio e sono consapevole che imparare a memoria A che ora è la fine del mondo? mi avrebbe permesso di scannarmi alla transenna come un drago di Game of Thrones. Quindi lo faccio, imparo tutto a memoria e attendo quel giorno, che poi sarà a Pesaro solo due anni dopo.

Il 1995 è l’anno del botto di Ligabue con Buon Compleanno Elvis o almeno così dicono. In realtà per me non è così. Quel botto nel mio piccolo cuore di tredicenne l’aveva già fatto quando avevo ancora il grembiulino.

È Leggero a farmi sentire bene. È leggero che mi dice <<Leggero, nel vestito migliore, nella testa un po’ di sole ed in bocca una canzone>> e quindi si, va tutto bene. Un inno a quella leggerezza che è molto lontana dalla superficialità ma necessariamente vicina al cuore svuotato dopo una lunga battaglia e che decide di volersi riempire di nuovo delle piccole cose che portano felicità.

<<E ti attacchi alla vita che hai>> mentre alla fine di ogni concerto, lo Zio presenta la propria band sulle ultime note di questo meraviglioso inno alla vita.

Trascorrono 4 anni prima che Ligabue faccia uscire un nuovo attesissimo album dopo il clamoroso successo di Buon Compleanno Elvis, e c’è da chiedersi se non sia perché incapace di produrre un qualcosa di tale caratura o perché appunto per la qualità ci vuole tempo.

 

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Nel 1999 esce Miss Mondo e la critica si divide.

C’è chi lo considera un capolavoro denso di significato, chi lo distrugge come un’accozzaglia di insensatezza e chi lo ignora. Da questo momento nasce la spaccatura tra coloro che si definiscono “veri fan” e quelli come me, che invece abbracciano il cambiamento nella sonorità e si lasciano accompagnare da Luciano verso il nuovo millennio con la consapevolezza che il cambiamento in fondo è positivo.

Questa diattriba che ancora oggi procede ha in sé una religiosità che è facilmente accomunabile allo Scisma d’occidente tra ortodossi e cattolici, o tra gli sciiti e i sunniti dei paesi arabi. Da sempre indifferente a tutto questo, riassumo questo momento di velata crisi del fan club con un avete sdrinato tre quarti di palle.

Nel 1999 dicevamo esce Miss Mondo.

Nel 1999 ho 17 anni e muore una persona che assieme a mio padre, mia madre e ai miei nonni materni ha contribuito a crescermi. La perdita di mia zia paterna ha contribuito a scavare quel buco nero, divenuto ormai voragine, aperto da mio nonno quando avevo 5 anni e ampliato successivamente dalla scomparsa di mia nonna, solo 3 anni prima di mia zia.

Questo album lo temo e lo amo.

Apre ferite e poi le cicatrizza.

Solleva il velo della mia apparente durezza e mi si avvicina dolcemente con sei braccia che mi stringono. E mi sento sola e in compagnia. Vuota e piena.

Questo album rappresenta quello che ero, che sono e che tento di essere. Il riassunto di tutto l’album è quella meravigliosa Sulla mia strada che con umiltà ci sprona a vivere a modo nostro, nel bene e nel male. Ricordandoci di sorridere.

Decisamente la canzone di Ligabue che preferisco. Quella che ha scritto per quelli come me, i sopravvissuti.

Questo è il modo in cui Luciano Ligabue mi ha detto che non sarei mai più stata completamente sola ed è così che compare all’improvviso alla radio nel momento preciso del bisogno.

Ligabue c’era nel 2002 con Fuori come va? Il settimo album in studio nonché primo album del nuovo millennio dove in qualche modo tenta di tornare alle origini del proprio sound preparando così la strada al fatidico 2005 e all’uscita dell’album Nome e Cognome. Album che viene anticipato dalla data del 10 settembre al Campovolo, all’epoca primato europeo del numero di partecipanti per un concerto tenuto da un solo artista.

 

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Ligabue c’era appunto anche nel 2005 quando ho preso coscienza di avere necessità di un supporto psicologico per affrontare una realtà solitaria che per tanto tempo avevo tentato di nascondere a me stessa, raccontandomi costantemente che bastasse colmarla con tanta musica e concerti, libri, film e il mio amore per gli animali.

Realtà che però se tenti di nascondere torna a galla sempre più prepotente e quello che ti manca, le persone care che non ci sono più, devono servirti per costruire rapporti nuovi e solidi e non per vivere nel passato.

Realtà che, come dice lui <<è più forte di me, in questo gioco d’amore si può solo guardare come va a finire>> ed impegnarsi ogni giorno per migliorarla.

E se la critica mossagli dei tre accordi in croce che si ripetono è vera e lo dice lui per primo con il testo di In Pieno Rock’n’Roll <<gli accordi migliori sono sempre quei tre>>, Luciano Ligabue ha comunque la capacità di farti coraggio in mille modi differenti, con un infinito dizionario di emozioni e parole che sembrano inanellarsi senza ripetizioni.

Arrivederci, mostro! (2010), Mondovisione (2013), Made in Italy (2016) e Start (2019) sono gli ultimi album dell’artista, che oltre ai 12 lavori in studio dei quali fanno parte, vanno a comporre un più ampio spettro di attività che passa dal cinema alla scrittura, dalle raccolte agli album live.

Ligabue è stato un compagno di vita e continuerà ad esserlo.

E lo vorrò con me quando avrò di nuovo l’occasione di poter diventare madre.

 

Sono qui per l’amore, e per tutto il rumore che vuoi

E i brandelli di cielo che dipendono solo da noi,

per quel po’ di sollievo che ti strappano dall’ombelico,

per gli occhiali buttati, per l’orgoglio spedito,

con la sponda di ghiaia che alla prima alluvione va giù

ed un nome e cognome che comunque resiste di più.

Sono qui per l’amore per riempire col secchio il tuo mare,

con la barca di carta, che non vuole affondare.

 

 

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Testo di Sara Alice Ceccarelli

Foto di Luca Ortolani

 

End of A Century: ce ne parlano Raffaele e Alessandro

Dal 2017 VEZ Magazine occupa il proprio posticino online.

E da quella data ho iniziato a leggere sempre più attentamente le webzine e qualsiasi tipo di magazine ci fosse online.

La qualità del lavoro in molti casi è davvero alta ed avendo collaborato con molte di queste durante il mio lavoro di Ufficio Stampa ho notato anche una grande professionalità.

Per questo motivo noi di VEZ abbiamo deciso di dare a questi magazine un giusto spazio sulle nostre pagine, per raccontarsi e farci sentire ancora più partecipi di questo meraviglioso mondo che è la musica.

Oggi abbiamo incontrato Raffaele Rossi e Alessandro Gennari che ci hanno aperto le porte del bellissimo End of A Century.

Buona lettura!

 

1) Quando avete fondato End of a Century e da che idea è nata?

End of a Century è nato nel 2013, prima su piattaforma free e poi dal 2017 con un proprio dominio e un sito strutturato. Il nome è ispirato a una canzone dei Blur, “End of a Century” appunto – per la mia grande passione verso il Britpop e in particolare per Damon Albarn e Graham Coxon. L’idea iniziale era quella di far arrivare le nuove sonorità di USA e UK al pubblico italiano (rimane ancora oggi il focus di EOAC), come fanno webzine più settoriali come Indie For Bunnies oppure Indie-Rock.it. Poi ho deciso di ampliare il target trattando anche musica italiana e altri generi come metal, elettronica e rock in generale (ma anche rap e trap) riuscendo così a coinvolgere alcuni amici appassionati di musica.

 

2) In quanti siete nello Staff e da quale realtà provenite? Nel senso, qual è il vostro lavoro?

Nello staff ci sono io, Raffaele, che sono editore e redattore: gestisco le mail, i rapporti con il pubblico e con i promoter, curo i social, gli articoli e mi dedico alla musica live. Decido tutto ciò che va sopra End of a Century. Dopo aver lavorato tra uffici stampa e altre situazioni extra musicali, ho intrapreso per passione questo percorso che ormai è diventato il mio lavoro stabile. Alessandro dirige Pianeta Scherma e lavora in ambito giornalistico sportivo; Michele è un appassionato di musica italiana e lavora stabilmente in redazioni sportive; Edoardo commenta la Superbike su Sky e adora la musica pesante; Gianluca è doppiatore e bartender, grande esperto di sonorità oltreoceano; Renato è l’unico vero giornalista tra noi, milanista e di stanza ad Amsterdam per lavoro. Eccoci!

 

 

 

 

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3) Quali sono le cose che EOAC ti ha “regalato” in termini di  soddisfazione e gratificazione? Puoi raccontarmi qualche evento o  qualche grande opportunità che vi è stata proposta o qualche realtà alla  quale avete partecipato?

Parliamo di un evento fresco, quest’anno siamo finiti nel backstage del Concertone del Primo Maggio a Roma, il più grande evento gratuito d’Europa. Emozione tanta ma ancor di più la curiosità. Ci siamo mischiati così ai professionisti, quelli veri. Sempre quest’anno siamo media partner di due importanti festival, uno del nord e uno del sud Italia: il Sexto ‘Nplugged a Sesto Al Reghena, in Friuli (con un cast internazionale: Billy Corgan, Sharon Van Etten, Michael Kiwanuka e Ex:Re) e il Mish Mash in Sicilia con un cast completamente italiano (Nada, Pinguini Tattici Nucleari, Eugenio In Via Di Gioia, Nitro). Direi non male dai. La gratificazione arriva ogni giorno che un ufficio stampa o un promoter ci nota, ci ringrazia e ci dà fiducia con un accredito, vuol dire che stiamo facendo bene il nostro lavoro ma la strada da percorrere è sempre lunghissima!

 

4) Da quando siete “su piazza” ci sono degli aneddoti divertenti che vi  sono successi? Se è si quali?

Un aneddoto divertente ricorrente rimane sempre quello di fare lo spelling del nome del sito ogni qual volta siamo a conferenze o presenziamo a concerti – End of a Century non è proprio un nome facilmente orecchiabile come Rolling Stone o Rockol. Molte volte arrivano messaggi privati sui social tipo “fate suonare questo brano a questo artista” e questa cosa ci fa sorridere e ci ricordiamo che alla fine questo lavoro si fa per il pubblico molte volte lasciato spaesato dai silenzi dei promoter.

 

5) Ci sono invece stati momenti un pochino bui durante questa attività?

Ci sono sempre momenti bui, dei periodi in cui sembra che nulla vada bene tra visite, pubblico e richieste non accettate. Poi passano e si risale pian piano. È anche il brivido di questo lavoro, fatto costantemente di alti e bassi. Poi ti ricordi che stai facendo tutto questo unicamente per la musica e vai avanti.

 

6) Com’è il rapporto con i tuoi colleghi giornalisti, con le webzine e  le testate?

Tranquillo e di stima, leggo tantissime webzine perché mi piacciono i vari approfondimenti che ognuno dei giornalisti e appassionati riesce a dare a uno specifico argomento. Penso che in ogni ambito, in particolare in quello musicale, ci sia sempre da imparare. Non è facile lavorare nella musica e ogni giorno bisogna andare a cercarsi la notizia, è un mondo molto molto settoriale, un po’ stantio e va aiutato come meglio si riesce.

 

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7) Che cosa ti auguri per il futuro?

Mi auguro che End of a Century diventi un punto di riferimento per chiunque si avvicini per la prima volta alla musica. Spero possa crescere ogni giorno di più e negli anni diventare un colosso senza mai perdere il brio e la voglia di far conoscere nuove sonorità al pubblico. Mi auguro nuove partnership per gli anni a venire per concerti e festival e che il nostro lavoro venga sempre più riconosciuto e valorizzato nella enorme giungla del web.

 

Testo: Sara Alice Ceccarelli

Foto: Silvia Consiglio

Non fate mai riflettere i Fast Animals and Slow Kids

<< Non era una di quelle persone di cui ti chiedi se è felice, quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c’entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto non contava >>

Novecento, Alessandro Baricco

Questa è un’intervista a cui tengo in modo particolare. I Fast Animals and Slow Kids sono una band che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere più approfonditamente un paio di anni fa, attraverso i loro dischi e qualche domanda che feci ad Aimone, Alessandro, Jacopo e Alessio durante il tour di Forse non è la felicità. È stato bello incontrarli, di nuovo, oggi, poco dopo la pubblicazione del loro quarto album, Animali notturni, uscito lo scorso 10 maggio. Tante curiosità ed esperienze da raccontare. Trasformazioni, come quelle che scorrono e si susseguono in Novecento, traccia che chiude il disco. Un numero che ho ricollegato, oltre al secolo, al libro omonimo di Alessandro Baricco, incentrato proprio sul profondo legame tra uomo e musica. Una ragione esistenziale, la luce inconfondibile che ho visto accendersi negli occhi di questi artisti. Li ringrazio, ancora una volta. E lascio che siano loro a dare il titolo alla nostra chiacchierata.

 

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Partiamo da Animali Notturni, il vostro ultimo album. Quali caratteristiche umane hanno questi animali? Chi sono?

Aimone: Si parla di Animali Notturni ma quello che intendiamo, chi intendiamo è la persona, l’uomo…e le caratteristiche umane principali sono due. Caratteristiche opposte ma che sono presenti, assieme, in ognuno di noi. Quindi capita che, nella stessa sera, puoi essere una persona estremamente superficiale, distaccato, che non riflette e non ragiona…anzi misragiona, cercando proprio di non utilizzare la testa e poco dopo…o il giorno dopo…una persona riflessiva, chiusa in se stessa e che non ferma mail il cervello. Alla base dell’album c’è questa idea dualistica dell’animale notturno inteso come quello che esce la sera e si spacca a merda, non ricordandosi come sia fatto…e il totale contrario…cioè quello che si ricorda bene come è fatto e anzi non si piace, si chiede cosa sta sbagliando e che cosa può migliorare.

Sulla copertina appaiono insegne al neon, in contrasto con la notte. Quale edificio o locale potrebbero illuminare?

Aimone: Pensavamo più che altro agli hotel scrausi. Hotel che hanno caratterizzato dieci anni di concerti…da quando sono diventati hotel. All’inizio non c’era niente che avesse a che fare con un hotel o motel. Già il passaggio all’insegna è stata una tappa importante: scoprire che non fossero divani o furgoni. Al di là di questo, se c’è un immaginario a cui ricollegare le insegne è proprio quello della strada, del furgone, dell’unione rafforzata anche da queste esperienze. Esistono ormai poche band in Italia con un percorso così lungo di concerti. Sono un po’ animali estinti. Abbiamo intrapreso un cammino particolare che ci ha fatto sperimentare un contatto profondo con i chilometri, con posti assurdi, persi così tanto nel nulla che ti chiedi: << Siamo ancora in Italia? >>. Molta della nostra poetica è connessa ai chilometri, alcuni pezzi sono stati scritti in tour. E il nuovo disco è ampiamente influenzato dal driving rock americano. Quei pezzi che ascolti guidando lungo le strade deserte. Sei tu, la musica e il paesaggio intorno. E magari qualche insegna.

 

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Il disco ha un respiro più “aperto” rispetto ai precedenti…

Aimone: Più aperto significa “più pop”…? È il nuovo modo del 2019 per dire pop…? (ride)

No aspetta, mi spiego…Con “aperto”, intendo un disco in cui si contemplano addirittura le parole “cuore” e “amore”, impensabili nei precedenti. Ho notato, però, una tendenza a riscoprire un sentimento o una persona dopo averne sperimentato la perdita.

Aimone: Madonna! Sono pienamente d’accordo con te. Al 100%. Ma ci conoscevamo noi prima? (ride) Quindi posso farti una domanda io ora. Invertiamoci ti prego. Ok torniamo seri. È assolutamente così. Riguardo al discorso di aperto, chiuso…All’esterno è sembrata quasi una rivoluzione. In realtà, non è cambiato un cazzo. Abbiamo sempre continuato a raccontare la quotidianità, le nostre giornate. Il musicista non è solo musicista. È una persona e vive una sua emotività.

Alessio: Quotidianità ed emotività che cambiano per fortuna, di giorno in giorno!

Aimone: Esatto. Ci sono le due anime che dicevamo prima. Vissute, spezzate in mezzo, ma sicuramente autentiche. Proprio in funzione delle rivoluzioni che accadono in questi frangenti, abbiamo pensato di togliere ogni sorta di maschera, finzione…in senso buono. Abbiamo voluto che nella nostra musica fossero evidenti gli step degli ultimi anni. Lanciare la nostra vita nella nostra musica, come sempre. Dunque questo disco si è trovato a raccontare un nuovo mondo, anche lessicale, dialettico. E lo dici “cuore”, lo dici “amore”. Cazzo. Sono parole che utilizzi davvero. Tuttavia, nel momento in cui si va a creare “arte”, c’è sempre quella stupida, infondata paura di esprimersi, di essere male interpretati. Soprattutto oggi, con tutta la merda che gira…dici “cuore”, allora sei it pop. È un attimo che sei lì dentro…e tutti in crisi con questa cosa qua. Ma il modo peggiore per reagire a un contesto che non ti piace è autocensurarsi e mettersi nella posizione della non libertà. La nostra posizione è l’opposto. Anzi ci sentiamo ancora più liberi, ancora più puri. L’apertura è massima coscienza, ecco.

 

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E quali sono gli artisti che vi hanno maggiormente ispirato anche in questa concezione musicale. Il giorno dell’uscita dell’album, sulla foto che avete pubblicato, è apparsa una dedica ai Rem e Bruce Springsteen…

Aimone: Ecco, mi ricollego al discorso di poco fa. Uno può chiedere: << Quali sono le tue ispirazioni? >>. Risposta: << Rem e Bruce Springsteen >>. Allora, cazzo, fallo davvero! Suona in quel modo! Provaci! Con qualche anno di esperienza alle spalle, abbiamo anche imparato a conoscere il suono, a studiarlo, più scientificamente quasi… Abbiamo gli strumenti per avvicinarci a quello che sogniamo. Allora proviamoci. Per una volta, davvero. Artisticamente si tende sempre a fare un passo indietro. Ma perché? Chi dice che è troppo…Poi se non mi riesce, almeno ho tentato! È matematico, magari, che non ti riuscirà: sono i Rem e Bruce Springsteen…Do vai? Però tendi a quella cosa lì e ti impegni per avvicinarti il più possibile a quello che per te è il sogno musicale.

Alessandro: Soprattutto “Do vai?” è bellissimo, Aimo (ride).

La registrazione del disco a Milano è stata influenzata da questa ricerca sul suono? Vi è mancata la casa sul Lago Trasimeno che ha visto nascere i precedenti lavori?

La registrazione del disco a Milano è dipesa anche da una componente emozionale. Abbiamo scritto e registrato tre dischi nella stessa casa, nello stesso modo. Andarci una quarta volta avrebbe avuto senso? Oggi so benissimo come cucina Alessio. So benissimo come si riduce una casa tra persone che non puliscono mai. Ma abbiamo voluto cercare nuovi stimoli. Abbiamo fatto i musicisti per avere una vita incasinata, per essere sempre un po’ nella merda. Se ti crei un orticello e coltivi soltanto quello…prima o poi finisce la fiamma, finisce la voglia di arrivare e convincere qualcuno. E decadi. Questa è una cosa da evitare. Il musicista deve stare sull’orlo del baratro, sempre e comunque. Quindi ci siamo detti: << Ok ragazzi, ci piace fare dischi così? >>. << Si ci piace. Continueremo a pensare a quel posto come il posto della nostra vita…eppure…proviamo una cosa nuova! Usciamo! >>. Sullo stesso slancio, abbiamo provato cinque produttori e siamo finiti con Matteo Cantaluppi, il produttore dei Thegiornalisti ragà! Visto così può sembrare che essendo passati sotto Warner, la stessa Warner ha imposto il produttore.

Alessio: Invece no! Siamo arrivati da loro che avevamo già fatto tutte le scelte.

Aimone: Ammetto che, in termini comunicativi, abbiamo scatenato un po’ un casino con l’unione di FASK + WARNER + MATTEO CANTALUPPI. Che cazzo è successo? Cortocircuito completo.

Alessandro: La scelta fatta ha reso semplicemente giustizia alle canzoni, così come erano state pensate.

Aimone: Ecco, l’unico obiettivo che ci siamo prefissati è la realizzazione dei nostri brani così come ce li avevamo in testa. Tendere a una pulizia sonora messa in conto già durante la scrittura del disco. Come è sempre avvenuto poi negli anni… solo che, andando avanti, i cambiamenti di etichette o di riferimento non sempre vengono compresi e non sempre si ha il tempo di spiegarli (in realtà non ce ne frega nemmeno niente di spiegarli…). A prescindere da ciò… io dico sempre che i Fask sono un po’ anomali in questo periodo storico e uno dei motivi di questa anomalia è che son dieci anni che fanno come cazzo vogliono. E con questa base è difficile spostare degli artisti dal loro punto di vista. Noi continuiamo a comporre in quattro, come a diciassette anni, alle superiori. Quindi oggi, qualsiasi interlocutore con cui ci confrontiamo trova una band molto coesa, molto granitica sia a livello di pensiero che di composizione. Tutti i passaggi e i vari step sono delle scelte che imputiamo a noi stessi, essendo molto coscienti di quello che accade e di come lo stiamo facendo accadere. Secondo la nostra prospettiva, non è cambiato mai nulla: andiamo a registrare nella maniera con cui vogliamo registrarlo, provando tanti suoni, ottenendo quello migliore e più vicino a quello che volevamo. È un processo lineare, dritto e in funzione dell’aspetto più importante: la musica.

 

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Mi ricollego alla musica… anche la musica è un po’ un animale notturno? Si sottolinea sempre un sentimento dicotomico di amore e odio rispetto ad essa. Vedi canzoni come Odio suonare o le “note che non sopporto più” di Un’altra ancora

Aimone: La musica rovina…. Aspetta, come la imposto questa. Allora… abbiamo trovato una via per definire noi stessi come persone, per sentirci meglio, per dare una risposta ai problemi esistenziali…e per crearcene una valanga dietro. La musica è qualcosa che ti prende come uno tsunami…e prende insieme a te tutto quello che hai intorno. Noi siamo diventati musica, parte di ferro del nostro furgone. In questo processo, viene coinvolto chiunque sia accanto a noi. Le relazioni, le amicizie, gli amori sono completamente devastati dallo tsunami musicale che ci ha mangiato dentro. Quindi, alcune mattine, ti alzi e pensi: << Stiamo sbagliando qualcosa? C’è davvero solo la musica e un concerto è più importante della tua stessa salute? >>. La risposta gira sempre attorno al fatto che la soddisfazione che ti dà la musica non arriverà mai da nient’altro…ma allo stesso tempo è impossibile non percepire l’energia che prosciuga. Nella musica dai te stesso, ti stai spiegando e stai anche cercando di convincere gli altri con le tue opinioni. È più vicino alla politica… un politico fallito che vuole trovare il suo spazio nel mondo…e urla e parla e canta e sgomita… C’è un sottofondo drammatico, ecco. E non molto normale…perché non è normale che un essere umano si metta lì a suonare, a farsi vedere, a farsi notare…. non è normale! C’è qualcosa che non funziona (ride). Per me, ogni concerto, è un po’ come chiedere a una ragazza: << Ti vuoi mettere con me? >>. Metti in campo tutto te stesso.

In Hybris cantavate Combattere per l’incertezza, in Alaska vi chiedevate Come reagire al presente, ora a chiudere il disco c’è Novecento con il suo sguardo fiducioso e con il suo brindisi al futuro. Quali sono state le tappe di questo cammino? O è stata più una svolta?

Aimone: Io credo che sia più una speranza, ragazzi (ride). Ci ho provato dai. Lasciatemi stare, fatemi sperare. Riflettiamo così tanto sulle nostre esistenze che forse, a un certo punto, anche una botta di ottimismo ci vuole. Quella canzone parla di cambiamenti coscienziosi, basati su una serie di ragionamenti precedenti. Non stravolgimenti. Trasformazioni in base all’età. Io ho trentuno anni…Ognuno di noi sta vivendo un passaggio da una vita musicale ad un’altra, dall’incoscienza alla coscienza di suonare solo per suonare. Sapere che non c’è futuro in questo, è una via senza futuro. Mia nonna diceva: << Se la cima è aguzza, il culo non ce lo posi >>. Io ci credo. Quindi, quel brano è un’esortazione a non vedere tutto questo come un qualcosa che svanirà e basta…ma come un arricchimento che porterà a un altro passaggio, a nuove fasi, diverse ma non per forza negative. Il brindisi al futuro è davvero un invito a continuare così, perché in termini emotivi stiamo facendo la cosa giusta, stiamo assecondando noi stessi e stiamo esaudendo il sogno che avevamo da bambini. Quella frase tipo: << Voglio fare l’astronauta >>. E poi lo fai.

Ultima domanda. Ad oggi, qual è il demone che vi fa più compagnia e qual è il demone che vi spaventa di più?

Aimone: Ah questa è personale…iniziate voi dai…

Alessio: Il demone del fallimento credo…

Aimone: Ma che demone è… quello lo devi accogliere…io ho già una stanza preparata per quello (ride)! Io, ad esempio, ho paura del demone di diventare un essere senz’anima. Di iniziare a vivere la musica come un lavoro, lontana da me stesso. Vale lo stesso per i rapporti…viverli in funzione di… di una posizione sociale, del potere, dei soldi. Questa è una paura che ho da sempre, di perdere l’umanità. Il mio vero demone è il timore di diventare io il demone senza cuore.

Alessio: Wow! Questa è pesante… Il demone Aimone!

Aimone: Ho una band scema!

Jacopo: L’altro giorno, mentre portavo mia figlia all’asilo, ho pensato alla morte. Mi è balenato in testa: << Se oggi morissi, mia figlia non mi ricorderebbe >>. La persona più importante della mia vita, non mi ricorderebbe. Questo mi fa davvero paura.

Aimone: La chiusura del cerchio con la morte. Evviva! Queste sono le riflessioni della nostra band. E la morale è: << NON FATE MAI RIFLETTERE I FASK >>. Deve essere questo il titolo dell’intervista. Più domande sul perché ci chiamiamo così. Per quanto riguarda le domande esistenziali…Beh lì, apri una porta verso l’inferno.

 

Intervista a cura di Laura Faccenda

Foto: Luca Ortolani

 

Grazie a Ma9 Promotion

 

 

IMGL5100

Vinci due biglietti per Salmo e Calcutta al Goa Boa Festival!

Quest’anno VEZ Magazine è media partner ufficiale del Goa Boa Festival 2019 che si terrà come sempre a Genova nella bellissima cornice del Porto Antico.

Assieme all’organizzazione del Goa Boa Festival abbiamo pensato a voi, mitici lettori di VEZ Magazine!

In palio ci sono due biglietti per due differenti serate del Festival!

Leggi qui di seguito e Buona fortuna!!!!

 

Calcutta Goa Boa

 

CONTEST NUMERO UNO

 

Vuoi vincere un biglietto per la data di

Calcutta+Mecna+Giovanni Truppi

del 5 luglio al Goa Boa Festival di Genova?

Quello che devi fare è semplice:

 

1) metti like alla nostra pagina facebook

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2) segui il nostro profilo Instagram

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3) rispondi a questa domanda su Calcutta

In quale centro cittadino Calcutta ha fatto una svastica per non litigare?

 

Inviaci la risposta e i tuoi dati all’indirizzo [email protected] entro il 3 luglio. 

 

Salmo Goa Boa

CONTEST NUMERO DUE

 

Vuoi vincere un biglietto per la data di

Salmo+Quentin40+Dani Faiv+Massimo Pericolo

del 20 luglio al Goa Boa Festival di Genova?

Quello che devi fare è semplice:

 

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3) rispondi a questa domanda su Salmo

Quando ti svegli e non pensi ai soldi vuole dire che…?

 

 

Inviaci la risposta e i tuoi dati all’indirizzo [email protected] entro il 3 luglio. 

Alla fine del contest tra quelli che hanno risposto correttamente verrà sorteggiato un vincitore.

Cosa Aspetti? Partecipa!

Diario di una Band – Capitolo Sei

“Quando domani ci accorgeremo che non ritorna mai più niente, ma finalmente

accetteremo il fatto come una vittoria”

 

Francesco De Gregori

 

 

Bisogna saper lasciare andare, lasciarsi andare nel momento in cui il freno del dubbio inizia a fare presa. E’ una fatica bestiale lo so, e sembra facile scriverlo nero su bianco, come se poi chi scriva un articolo o un libro abbia tutte le risposte in tasca e riesca a catalizzare in pratica le parole che gli passano per la mente. Lasciamo questa convinzione alla pari della leggenda del Bigfoot o del mostro di Lockness.

Vero un cazzo, ammetto, è proprio una fatica bestiale, arriva spesso e non volentieri. Scrivere è un messaggio verso se stessi, il messaggio è quello dello sfogo, dallo sfogo poi ne scaturisce tutto il mondo conseguenziale, che ognuno interpreta in base alle proprie esigenze e al periodo.

Diciamo che scrivere è una radura dove esercitare le proprie inquietudini, le proprie paure. Le paure formano uomini e storie, costruiscono fantasmi e valorizzano la luce quando ritorna dopo un buio che sembrava non dovesse finire mai. La paura ha creato canzoni e speranze, ha distrutto vite e ha regolamentato guerre.

La paura va lasciata andare, va affrontata e addomesticata se possibile, bisogna imparare a conviverci e si deve per rispetto non trasportarla sulle spalle di chi si ha vicino. Invero la paura va condivisa come parte di un legame, di un collante aggiuntivo a un sentimento già forte e consolidato, ma non va scaricato come si scarica una vagonata di ghiaia su di un prato verde o come si fa con l’iva o le spese mediche ecco, non è un tornaconto e l’uomo non è nato per indole e spirito ad essere ilpungiball di qualcun’altro.

Si perché le persone non si legano solo nel bene, capita che le relazioni o i rapporti indissolubili nascano dopo un crash, dopo una mancanza di aria e ossigeno che quasi finisce per ammazzarti, se non fuori, sicuramente dentro.

Quindi? Devo stare a guardare che le paure prendano decisioni al posto mio o che il timore di stare bene faccia capolino? Devo preoccuparmi oggi perchè ho il terrore di non essere sereno domani? Ma oggi non sono sereno, e quindi pretendo di esserlo domani? No, per carità no, non voglio diventare un cane che si morde la coda all’infinito. Il rischio è grosso ma non posso permettermelo, nei confronti di me stesso e delle paure stesse.

Quindi devo agire, devo andare a prendermelo io il crash tanto agoniato e temuto, le devo provare a cambiare io le cose prima che loro cambino me e tutto quello che orbita intorno alla mia esistenza. Quel mondo costruito con sacrificio e una passione smisurata deve essere figlio della mia sconfitta o del mio riuscire, ma deve essere una mia fase, non ci possono essere elementi alienanti in questa guerra silenziosa.

Lo stress ha dato modo ai mostri sacri della musica di realizzare i capolavori che li hanno resi tali, la depressione ha fatto le fortune dell’ascoltatore, mai dell’artista. E’ bene idolatrare e santificare la genialità di un individuo, è giusto riconoscergli il valore artistico, compositivo e carismatico.

Proviamo però ad addentrarci nella paura interiore, a vedere sotto un’altra ottica la creazione di una canzone. Inseriamoci nella lotta quotidiana, nella speranza che come una fievole candela giornalmente si spegne per l’artista chiamato in causa, nella sua stessa causa. Il disagio come croce, una dote che non ci si può godere appieno come delizia.

E cosi il sapore dolce del talento si inasprisce di tormento, retrogusto di capolinea, come una spugna gettata troppo presto intrisa di troppo poco sudore perché la partita per quanto avvincente è durata davvero troppo poco.

Il talento a volte non basta, i soldi non bastano, la fama, la celebrità, la copertina, la Macchina, il sistema, le luci e i riflettori…non può essere tutto li, infatti la storia dimostra che non lo è. Come dice la frase di una band di Roma, i miei cari amici del Branco citano cosi: “avere ciò che vuoi non vuol dire che si avverano i sogni”. Sacrosanto.

E quindi cosa è meglio? Cosa devo cercare dentro a una paura? Cercare di arredare la facciata e rischiare di morire di freddo, nell’ombra dell’insoddisfazione e della “possibilità” come scopo unico e primario? Oppure arredare una stanza, magari più piccola, comoda, sigillare una quiete senza pressioni, mantenere un equilibrio che può avere le sembianze di un compromesso?

Non mi sono mai piaciuti i compromessi e la pago da una vita questa condizione.

Quindi magari resta solo scrivere, produrre pensieri e propositi, combattere i fantasmi giorno dopo giorno, senza fretta, sulle macerie, sulle risate e sulle favole che sempre troppo hanno giocato un ruolo increscioso per quanto allettante, ma è bene mantenerlo un contatto diretto con con le favole perché è un bene invisibile atto allo sviluppo delle percezioni in un costante ricircolo con l’obbligo del sopravivvere.

La paura di crescere e perdere di vista il bivio di una famiglia, scoprire i vizi troppo tardi e non sapere reggere il confronto con le assuefazioni, lo sgarro morale e lo sgretolarsi delle certezze. Abbiamo paura di crederci in sti maledetti e benedetti sogni ogni giorno che spunta un capello bianco contornato da una piccola ruga in più, quasi a sancire una piccola sentenza quotidiana che punzecchia ma non ferisce ma che alla lunga lascia lividi e impercettibili gocce di sangue.

Ai giovani posso solo consigliare di fare tesoro delle paure, rendendoli sensibili al fatto che  in questi tempi storici infausti diviene un privilegio raro avere delle percezioni sensoriali acute e interessanti.

Anna Antoniazzi, scrittrice che cura il folklore Romagnolo in tutte le sue sfaccettature cita una grande verità:

“Abbandonare le storie tradizionali e le fiabe, al contrario, significa privarsi della palestra per esercitare le proprie inquietudini e i propri timori e, spesso, ancora più drammaticamente, abbandondare le armi e procedere a mani nude verso l’ignoro”.

Abbiate nella paura di scoprire un alleato, diffidate dalle paure che limitano la necessità di scoprire, voi stessi e il mondo intorno a voi, altrimenti si resta fermi sul posto.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

Pixies, una monografia personale

Era il 1986, i Nirvana e l’intera ondata grunge non erano ancora apparsi sulla scena, ma l’avrebbero fatto da lì a breve in tutta la loro devastante potenza deflagratoria e con il migliore arsenale sonoro a disposizione.

Erano gli anni del cosiddetto college rock, da una parte c’erano i REM di Michael Stipe, belli e di sani principi, dall’altra i Pixies, capitanati da uno strano tizio che si faceva chiamare Black Francis, con una voce isterica e qualche chilo di troppo.

Facciamo però un passo indietro. Stava finendo il secolo e io avevo iniziato il liceo. Ai tempi ero una silenziosa e insicura ragazzina di provincia. E chi non è mai stata “la reginetta del ballo” lo sa quanto sia difficile essere adolescenti timidi e abitare in provincia.

Per fortuna, proprio per le persone come me, esiste il rock, con il suo enorme potere consolatorio. Così, visto che oltre ad essere timida e insicura, ero pure incazzata e un po’ stramba, avvicinarsi al grunge fu facilissimo.

Finalmente non ero più sola, eravamo in tanti a sentirci inadeguati, strani e completamente fuori posto. Per tutti noi c’erano loro: i Pixies. Gli alieni della scena garage. Estranei al grunge, pur essendone i padri fondatori.

Oggi, nell’era dell’apparenza, una band come i Pixies non sopravviverebbe un giorno. Troppo originali, troppo menefreghisti, troppo caustici, troppo – apparentemente – normali. Per fortuna però, il loro esordio risale al 1986 e, forse, si badava meno a tutte queste cose.

I Pixies sono una delle cose migliori successe al mondo del Rock, e non sorprende che perfino i Nirvana abbiano cercato ispirazione proprio nella loro musica, alla fine degli anni Ottanta.

Kurt Cobain ammise infatti di essersi ispirato a loro, o come disse lui stesso “di averli derubati” per scrivere Smell Like Teen Spirits. Kurt voleva essere come i Pixies, suonare con loro, o almeno essere in una loro cover band. Ascoltando la musica dei Nirvana si trova la stessa identica onda anomala presente nella musica dei Pixies.

Si parte morbidi, quasi innocui, fino a salire, sempre più rumorosi e duri. Impossibile non essere d’accordo con quello che disse Manuel Agnelli quando affermò che ”i Pixies erano i Nirvana qualche anno prima. Ma più bassi e brutti”.

La storia dei Pixies, come dicevo, inizia nel 1986, quando il cantante Black Francis, all’anagrafe Charles Thompson, incontra il chitarrista Joey Santiago, a Porto Rico. Come nelle migliori storie del rock, i due mettono un annuncio su un giornale: “Cercasi bassista appassionato di Husker Du e Peter Paul & Mary“. Ed è qui che entra in gioco l’affascinante Kim Deal, che porta con sé l’amico batterista, David Lovering. Kim è la regina nera dei Pixies che con la sua personalità ha letteralmente rubato la scena e il ruolo di leader al non convenzionale Francis.

Ma andiamo con ordine: il loro primo album Come On Pilgrim, è un lavoro sicuramente acerbo, ma che dimostra già un enorme potenziale della band di Boston. E’ sufficiente leggere i testi per capire di cosa sto parlando. Sono surreali. Francis Black e i suoi hanno inventato un nuovo linguaggio, lo spanglish. Metà inglese, metà spagnolo. “Non lo facciamo per accattivarci il pubblico latino-americano”, ha spiegato in un’intervista Kim Deal, “è che talvolta lo spagnolo suona più percussivo e riesce a definire meglio quello che cerchiamo di dire”.

Tra il 1987 e il 1992 i Pixies incidono due album incredibili: Surfer Rosa e Doolittle. Ascoltarli, ancora oggi, mi crea un curioso solletico alla corteccia cerebrale. Surfer Rosa viene osannato da critica e pubblico. In tanti lo definiscono l’ultimo capolavoro “post-punk”. Tra i tanti pezzi dissonanti e ossessivi che si possono trovare al suo interno ci sono anche Gigantic e Where is my Mind, che è diventato uno dei loro brani più conosciuti anche grazie a film come Fight Club. La chiusura del disco è la psichedelica Caribou. Si tratta di un lavoro sorprendente che, come un diamante, cambia aspetto ad ogni ascolto.

La loro è musica abrasiva, isterica e, in qualche modo, grottescamente pop. Le canzoni sono corte, in perfetto stile Ramones per capirsi. “Difficile sopportare quei riff cattivi per più di due minuti” dirà una volta Kim.

 

 

 

 

Doolittle invece è un disco che ho letteralmente consumato. Una cavalcata di 12 pezzi, che parte con Debaser e termina con There goes my gun. In mezzo c’è il meglio che la musica abbia prodotto in quegli anni: Here Comes Your Man, Wave Of Mutilation, Monkey Gone To Heaven, Gouge Away e La La Love You, il brano che non ti aspetti, uno dei più assurdi di sempre, che con fischietti, cori femminili e schitarrate ironizza sul concetto di storia d’amore. L’intro di Debaser è indimenticabile: “I am un chien, anda-luuu-sia!”, che fa riferimento al cane andaluso del film di Buñuel, pronunciato in un francese stentato e ridicolo. E non solo, basti pensare al “Rock me, Joe” di Monkey Gone To Heaven. I testi di Debaser parlano di suicidio, di nevrosi, di depressione, di droga, di prostituzione e di disastri ecologici. Siete un po’ smarriti? Pensate a come si sarà sentito chi l’ha ascoltato nel 1989.

Purtroppo però, niente dura per sempre, e anche la verve creativa dei Pixies è destinata all’inesorabile tramonto. Nel 1990 esce Bossanova, l’anno successivo Trompe Le Monde. Due lavori confusi, lontani dai precedenti. Anche a causa di continue tensioni tra Kim Deal e Black Francis, nel 1992 i Pixies si sciolgono. La storia però non finisce qui.

Di solito quando un grande gruppo del passato decide di riunirsi, lo fa partendo da qualche concerto, per poi tornare in studio e produrre materiale nuovo. I Pixies no. Dal 2004 al 2012 hanno fatto concerti, per otto lunghi anni, senza mai entrare in sala di registrazione. Nessun inedito, niente di niente. Il motivo è semplice, quasi lapalissiano, a raccontarlo è Joey Santiago: “suonando molto dal vivo non avevamo tempo di entrare in studio”.

Black Francis aveva bisogno di tempo per scrivere brani adatti al nuovo suono. Nel 2013 arrivano EP1, EP2 ed EP3, con quattro pezzi ciascuno, e infine il tanto atteso Indie Cindy, che unisce al suo interno i brani dei tre EP, senza ulteriori aggiunte. A Giugno 2013 Kim Deal abbandona la band e da quel momento in poi al basso la sostituisce Paz Lenchantin.

Tralasciando gli ultimi lavori, non troppo degni di nota, quello dei Pixies è un universo bizzarro e sconclusionato. All’interno dei loro album si può trovare tutta la psicopatia del mondo del Rock: le nevrosi dei Pere Ubu, l’acidità lisergica dei Velvet Underground, l’isteria dei Violent Femmes. Hanno shakerato tutto insieme e l’hanno servito in un bel bicchiere con l’ombrellino.

Senza i Pixies, con grande probabilità, oggi non esisterebbe quello che viene chiamato “indie”. La loro influenza è stata indelebile. Anche sui miei gusti musicali.

Il linguaggio dei Pixies, il loro modo di scrivere canzoni, ha fortemente influenzato la maggior parte dei gruppi o dei musicisti che ho amato: i Nirvana, Pj Harvey, i Radiohead, per nominarne solo alcuni.

I Pixies per me sono stati un incontro fortuito, quello che quando accade cambia tutto. Fino a quel momento ero una ragazzina timida che guardava film in bianco e nero e passava un sacco di tempo a leggere libri. E’ stato come conoscere per la prima volta qualcuno come me, sfigato e altrettanto perso: “è fatta” mi sono detta, “allora non sono sola”.

 

Daniela Fabbri