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Mese: Febbraio 2023

BAY FEST 2023: ANNUNCIATI I PRIMI NOMI DELLA LINE-UP

BAY FEST 2023
12-13-14 AGOSTO

BELLARIA-IGEA MARINA (RIMINI)

ANNUNCIATI I PRIMI NOMI:

PENNYWISE – H2O – ME FIRST AND THE GIMME GIMMES – GOOD RIDDANCE – PULLEY – THE VENOMOUS PINKS

Prende forma l’edizione 2023 del Bay Fest: il festival punk rock più importante d’Italia e ormai conosciuto in tutto il mondo, è divenuto l’evento clou per tutti gli amanti del genere.

La cornice in cui si svolge è unica nel suo genere: a pochi passi dal mare, è in grado di far vivere un weekend tra sole, mare e tanto punk rock.

 

Nella splendida cornice della località balneare di Bellaria Igea Marina, a pochi chilometri di distanza da Rimini, i prossimi 12-13-14 agosto sarà ancora il punk rock a farla da padrone. Tre giorni perfetti per godere di tutta la bellezza e le bontà culinarie che solo la Riviera Romagnola è in grado di offrire.

Tra le prime conferme del festival troviamo una garanzia del genere, i Pennywise; da oltre 25 anni sulle scene, la band di Los Angeles porta con sé un genere tutto suo, un mix di puro hardcore californiano e surf punk melodico, che danno vita ad un potente melodic hardcore punk, il loro marchio di fabbrica. I loro show sono sempre coinvolgenti, impossibile non cantare in coro sulle note di “Bro Hymn” o stare fermi su quelle di “Fuck Authority”: uno show dei Pennywise non fa mai tornare a casa scontenti.

Altro nome in tabellone sono i Me First & The Gimme Gimmes, la all-star-punk-rock-super-cover-band più famosa al mondo! Nel corso della loro carriera hanno preso parte al progetto Fat Mike dei NOFX, Fletcher Dragge dei Pennywise, Chris Shiflett dei Foo Fighters, Brian Baker dei Bad Religion, Joey Cape e Dave Raun dei Lagwagon. Nella loro discografia hanno affrontato in maniera sempre più ironica e vincente qualunque genere musicale, spaziando dal R’n’B ai classici degli anni ‘50/’60, passando per il country. I loro spettacoli live significano divertimento assicurato.

Si aggiungono alla line-up anche i Good Riddance: la band hardcore punk nata agli inizi degli anni ’90 a Santa Cruz, in California, ha sviluppato una fanbase sempre più ampia grazie ai loro continui tour mondiali e ai loro brani intrisi di impegno politico e sociale.

Dopo l’esibizione dello scorso anno al Punk In Drublic Festival, tornano in Italia i Pulley. Con “The Golden Life” (2022), la loro ultima uscita discografica, si sono confermati tra i migliori in fase di registrazione e composizione dei brani. Ascoltare dal vivo i Pulley significa andare letteralmente a “scuola di hardcore”.

Tra i nomi annunciati anche The Venomous Pinks, terzetto tutto al femminile che tiene in alto il vessillo del punk rock.  Drea Doll e socie sono fedeli ad un certo tipo di sound e passeranno dal Bay Fest dopo aver di recente terminato il tour in supporto ai Dead Kennedys.

 

Dopo il grandissimo successo della passata edizione, anche nel 2023 torna a grande richiesta il Pool Party!

La festa in piscina, che nel 2022 ha registrato un clamoroso sold-out, chiuderà il festival in grande stile: gli headliner già annunciati della giornata del 14 agosto al Mapo Club di Bellaria-Igea Marina (RN) saranno gli H2O, storica band della scena hardcore di New York nata nella prima metà degli anni ’90. Uno show più intimo per una festa pazzesca, tra live show e dj set.

 

Di seguito tutti i dettagli del festival.

 

BAY FEST

12-13-14 AGOSTO 2023

BELLARIA-IGEA MARINA – RIMINI

 

LINE-UP

PENNYWISE – H2O – ME FIRST & THE GIMME GIMMES – GOOD RIDDANCE – PULLEY – THE VENOMOUS PINKS plus many more to be announced!

 

Abbonamenti disponibili su Ticketmaster e TicketOne.

Pacchetti campeggio disponibili solo su Ticketmaster.

 

Per informazioni www.bayfest.it e www.hubmusicfactory.com

Tre Domande a: Romeo & Drill

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto nasce nel 2019 dall’incontro tra Drill e Mr.Brux, il nostro produttore, inizialmente in occasioni remote ma creando poi con tutti e due una grande sintonia sia musicale che umana. Noi ci conosciamo da anni, viviamo nello stesso quartiere, prima di iniziare a collaborare abbiamo alle spalle entrambi una carriera da solisti ma Romeo, oltre ad essere autore, è anche musicista.
Il primo brano a cui abbiamo lavorato insieme, nell’autunno del 2019, è stato Chissenefrega e da quel momento in poi è stato un crescendo graduale fino ad oggi!

 

Se doveste riassumere la vostra musica con tre parole, quali scegliereste e perché?

La nostra musica la potremmo riassumere in queste tre parole: autentica, intima e motivante.
Usiamo questi tre aggettivi perché l’autenticità nasce dal momento in cui cerchiamo costantemente e continuamente di creare qualcosa di originale, che riconosca unicamente noi stessi; la dichiariamo intima perché cerchiamo di trasmettere intimità sia tra noi ed il brano sia nell’anima e nelle corde emotive di chi l’ascolta facendo in modo che chiunque possa sentirla propria; infine motivante per una questione passionale nei confronti della musica: vogliamo far capire a chiunque che una passione, qualunque essa sia, deve essere motivante a prescindere da come vanno le cose. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

A questa domanda non è facile rispondere, non abbiamo una canzone in particolare per far sì che ci conoscano meglio. Diciamo che ogni canzone è importante per conoscerci, ognuno sente emozioni e sensazioni diverse con canzoni diverse. Un brano può influenzare una persona come un altro brano può influenzarne un’altra in maniera diversa. Bisogna ascoltare ogni canzone per conoscerci bene e far in modo che ogni persona scelga il brano che reputa giusto per conoscerci. La soggettività è la parte più importante di ogni ascoltatore, troviamo chi si rispecchia di più in una canzone piuttosto che in un’altra e così via…
La bellezza di far musica è questa, farsi conoscere per ciò che le persone vogliono sentirsi dire.

Michael Bublé @ Mediolanum Forum

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• Michael Bublé •

 

Mediolanum Forum (Milano) // 05 Febbraio 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto di Oriano Previato
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I Gazebo Penguins e i loro dischi inevitabili quanto necessari

Dopo le quattro date evento per presentare il loro ultimo disco, Quanto, e in vista del prossimo tour in giro per tutta l’Italia, abbiamo intervistato i Gazebo Penguins, che si confermano una delle band più interessanti in Italia. E probabilmente la miglior live band che vi possa capitare di incontrare.
Ci ha risposto Capra.

 

Ciao ragazzi, grazie intanto per la vostra disponibilità e benvenuti su VEZ Magazine. A noi il disco è piaciuto davvero molto, per cui iniziamo col chiedervi quando avete iniziato a comporre le nuove canzoni e quanto tempo è stato necessario per avere le sette che sono poi finite nel disco.

“Allora, avevamo iniziato a buttare giù un po’ di bozze ancora prima del lockdown e successivamente abbiamo continuato a lavorarci anche durante i vari isolamenti forzati, ma onestamente pochissima della roba lavorata in quei periodi è finita nel disco, giusto un paio di giri. Quando si è potuto ricominciare a suonare da seduti abbiamo deciso di rimetterci in gioco, rivisitare le nostre canzoni e provare a dargli un senso un po’ deviato per il periodo deviato in cui ci si trovava a vivere.

Dopo quel tour, denso di sentimenti parecchio antitetici, è partito il lavoro più serrato verso il disco nuovo. Se dovessimo sommare tutti i mesi arriviamo tipo a contare quasi tre anni, ma in realtà i mesi più intensi e produttivi saranno stati otto.”

 

Si è trattato di un disco difficile da fare? E cos’è cambiato in voi rispetto al passato? Intendo soprattutto a livello compositivo, se negli anni è cambiato il modo di realizzare e registrare poi i brani. 

“È stato un disco nato e cresciuto in maniera molto diversa dagli altri.
Nel silenzio. Magari nemmeno tutti assieme. Le bozze dei pezzi crescevano settimana dopo settimana davanti allo schermo di un computer, senza fretta, cambiando e sostituendo parti se non ci convincevano più, riscrivendo fino a dieci finali diversi per la stessa canzone, a volumi bassi, senza amplificatori. E quando una prima scaletta del disco ci sembrava ok, abbiamo portato tutto il sala prove e alzato la manopola del gain.”

 

Sbaglio se dico di sentire una sorta di continuità, un trait d’union, tra Nebbia e Quanto? Sia come tematiche che molto anche a livello di sonorità.

“Probabilmente sì. Alla fine la ricerca del suono per noi è forse la prima cosa che emerge quando ci mettiamo a scrivere un disco nuovo. E la ricerca del suono non parte da zero, fa sempre parte di un percorso che hai intavolato nel momento in cui hai cominciato a prendere la musica sul serio. Procede. E si sposta man mano.
Sulle tematiche non sarei invece così sicuro di darti ragione.
Però, se volessimo trovare un tratto di continuità, potrei dire che Nebbia partiva da una riflessione sulle relazioni collegate a una dimensione – uhm – meteorologica, mentre Quanto prende spunto da tanti concetti cari alla meccanica quantistica e alla fisica del novecento per provare a raccontare storie del mondo, quello in cui viviamo, quello in cui vorremmo vivere, quello che non vivremo mai. In entrambi i casi si parte da una dimensione molto terrena, che da un album all’altro opera come uno scavo in profondità, nei recessi della materia e del tempo.”

 

Com’è nata l’idea di inserire il sax? Credete che in futuro potrà esserci spazio per altre sperimentazioni, anche più presenti e impattanti?

“Magari! Sulla strumentale di Nubifragio ci sembrava perfetto il suono del sax, uno strumento a fiato, un suono fatto di aria, che creasse qualcosa di turbinoso, ipnotico, e le idee portate da Mallo (Manuel Caliumi) in studio sono state esattamente quello che speravamo.”

 

Un po’ in controtendenza con quanto accade ormai sempre più frequentemente nello showbiz, non siete dei grandi utilizzatori delle collaborazioni, salvo rare eccezioni. C’è una motivazione dietro a questa scelta? E qualora ne aveste la possibilità, con quale artista, presente o passato, vi piacerebbe collaborare?

“Abbiamo sempre fatto uscire un disco nuovo solamente per un motivo di necessità. Non abbiamo mai avuto pressioni, né interne né esterne: un disco arrivava quando era il momento, quando per noi diventava inevitabile, necessario. Siamo legati all’idea, forse anacronistica, che la musica nuova che arriva debba rappresentarci nel modo più trasparente possibile, che sia qualcosa di nostro, in una maniera integra, completa. E, senza voler peccare di supponenza, ci piace l’idea di poter suonare tutto quello che ci serve per realizzarlo.
Detto ciò, non abbiamo nulla contro le collaborazioni, specialmente se diventano qualcosa che riesce ad entrare un po’ più nel cuore della composizione, senza essere troppo di superficie.
Abbiamo iniziato a fare qualche chiacchiera con i Post Nebbia, per capire se sia possibile inventarsi qualcosa che vada proprio in questa direzione.”

 

Come sono andate le quattro date di presentazione di Quanto? Avete già capito quali potranno essere i brani che entreranno in pianta stabile nelle scalette? La risposta del pubblico – almeno per quanto visto a Bologna – era stata davvero travolgente, segno che Quanto funziona davvero!)

“Guarda, la presentazione di Quanto nella quattro date di dicembre è stato qualcosa di assurdo. L’idea precisa che avevamo, concordata assieme a Garrincha e ToLoseLaTrak, era quella di portare dal vivo, per la prima volta, il disco nuovo, senza la possibilità di ascoltarlo prima in streaming o altro. Suonarlo dal vivo, e comprarlo esclusivamente dal vivo. (Il fatto che, alla fine dei concerti, un sacco di persone abbia poi deciso di comprarsi il cd o il vinile di Quanto appena ascoltato per la prima volta è stato chiaramente per noi una sensazione incredibile, un senso chiaro di missione compiuta).
Ridare centralità al momento del live, riportare il concerto nel cuore dell’ascolto – che è un po’ la nostra visione della musica. E restituire al concerto dal vivo anche quell’aspetto di scoperta che un po’ si è perso negli ultimi anni: scoprire qualcosa di nuovo, che poi ti possa piacere o ti faccia cagare è uguale: sarà comunque qualcosa che prima non conoscevi. E fare in modo che un disco nuovo diventasse, alla fin fine, un momento per ritrovarsi, un incontro di persone, dal vivo, portate lì per sentire un concerto.
Per quanto riguarda le scalette, al momento, in questa prima parte del tour che è seguita alle date di anteprima, abbiamo deciso di rinnovarci ad ogni weekend, senza portare mai le stesse identiche canzoni da un posto all’altro in cui ci ritroviamo a suonare. Ce ne sarà una più punk, una più classica, una più dilatata, una più revival e via così.” 

 

Dopo oltre quindici anni di onorata carriera continuate ad avere sempre lo stesso contagioso entusiasmo dell’inizio, i vostri live sono sempre una festa clamorosa e la cosa che più mi fa piacere è che accanto a noi, seguaci della prima ora ormai quarantenni, ci son sempre più giovani e giovanissimi che conoscono le canzoni parola per parola, dalle più vecchie alle più recenti. Non deve essere stato per niente facile per voi star lontano dai palchi per così tanto tempo. Cos’è significato ritornare in mezzo alla vostra gente senza impedimenti, come non fosse mai successo niente in questi due anni?

“Un grande, enorme . Quattro concerti che hanno spazzato via quella sensazione di sfaldamento e freddezza che, per un certo periodo, parevano inscalfibili. Ma che non hanno cancellato il senso di impotenza che ha scavato a fondo, su cui ancora ci si trova a inscurirsi e pensare. Cercheremo di suonare il più possibile, perché il tempo perso non esiste più, è irrecuperabile, ma riempire di musica il tempo a venire è ancora possibile. E via andare.”

 

Alberto Adustini

Pearl Jam “Yield” 25 anni dopo

“How cool to have a yield sign where there’s nothing to yield to”
Jeff Ament

È il tre di febbraio del 1998.
Un martedì.
È appena uscito il quinto album dei Pearl Jam, ma l’ho lasciato sul tavolo, incartato, intonso.
No Code mi aveva annoiato, i Soundgarden si erano sciolti, il Seattle Sound si era perso, pochi mesi prima era uscito un certo OK Computer.
Un aereo militare statunitense ha appena tranciato i cavi della funivia del Cermis. 

Era la fine del Secolo. Il Novecento, non un secolo qualunque.
La musica che amavo stava morendo (male), dopo un decennio di gloria e sovrabbondanza, di esplosione globale di fenomeni, correnti, movimenti. MTV era lo specchio deformante in cui la mia generazione trovava conforto, e io ero attaccato ai miei Pearl Jam come naufraghi sulla zattera della Medusa.
Vedder, l’uomo che ha cantato il proprio giovane Werther interno in almeno tre dischi stupendi, decide di fare otto passi indietro (Gossard ne fece solo due), e propose una terza via, in zona cesarini, per dare a me, a noi, a tutti i giovanicariniedissocupati del pianeta, una proposta diversa da quella di autocommiserarci e autoflagellarci tra millenium bug e mille non più mille parte II.
I Pearl Jam misero in musica la suddetta proposta, lasciando come unico segnale preventivo un cartello di precedenza, laddove, di cartelli, ma soprattutto di precedenze, non ve n’era bisogno. Ament sogghignava, sottolineando la meraviglia del paradosso in diverse interviste. Vedder la prendeva (ovviamente) più alta, ma lo vedremo più avanti.
Quello che sembra perfettamente centrato, quello che allora ha riallacciato il mio cordone ombelicale con loro, furono le domande e le risposte che questo disco portava con sé. È un inno alla fine del mondo, che contiene le istruzioni per sopravvivere, nonostante tutto, nonostante noi. 
Già.
A fine febbraio 1998 inizierà la guerra in Kosovo. A metà mese diverse nazioni si esprimeranno contro la clonazione umana. In marzo Pakistan e India giocano con le atomiche. E Titanic vince undici statuette, un costosissimo e edonistico naufragio, a simboleggiare il genius saeculi.

Il Maestro e Margherita di Bulgakov forse è l’ultima nota che ci si aspetterebbe di trovare a piè di pagina in un disco dei Pearl Jam. Eppure.
Colpa fu di Jeff Ament, bassista del gruppo, che rimase folgorato dai capitoli del romanzo dedicati a Ponzio Pilato.
Nota: la storia raccontata nel romanzo non è esattamente fedele a quella dei Vangeli, e il Pilato rappresentato nella canzone è quello della parte finale del libro: stanco, solo e dimenticato dalla Storia, vive in una montagna con il suo cane, triste per le occasioni perdute e per la solitudine di cui è prigioniero. In Pilate Ament tratta di tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso, di come quel gomitolo di non-fatto possa trasformarsi in rimorso e follia.
I Pearl Jam – tutti i membri della band –  hanno raccontato in diverse interviste precedenti all’uscita del disco di quanto il gruppo fosse sfilacciato, esausto, disunito. I tour, la querelle con Ticketmaster, le frizioni interne, la precarietà esistenziale del ruolo del batterista della band, la difficoltà nel relazionarsi con un Vedder sempre più chiuso, tutti questi fattori avevano minato la stabilità della band.
C’è un cartello di precedenza, nella storia dei bivi che i Pearl Jam hanno preso. E sta lì per ricordare a tutti che esistono molte vie per ritrovare la strada e se stessi.
Una di queste è una sana chiacchierata con un gorilla senziente e di sconfinata cultura.
È ciò che Daniel Quinn racconta in Ishmael, un libro dei primi anni novanta, che si basa sulla relazione tra un gorilla e un uomo. Il primo, attraverso un dialogo filosofico, presenta al secondo una rilettura della storia dell’umanità, in particolare della civiltà del progresso e del suo destino, pare ineluttabile, fatto di autodistruzione. Il libro propone vie alternative, ma la parte più nera e critica del testo convoglia in quel capolavoro che sarà Do The Evolution, cui spetterà l’onore di diventare un video musicale di rara bellezza e forza comunicativa.
Ma l’Ishmael che rilegge la storia dell’uomo, la Bibbia e che illumina i finali possibili della Storia, è solo una parte dei molti riferimenti usati per tracciare la mappa disegnata dalla band.
Yield è un manuale con diversi capitoli, un po’ figlio di quel Vitalogy-pensiero di qualche anno prima, che ha l’enorme pregio di non prendersi troppo sul serio. Sarà la maturità, saranno le botte prese, quello che traspare è uno sguardo più lucido e sereno. E così la traccia iniziale Brain of J. ci pone subito nel mezzo della querelle tra noi e il mondo, mentre è la seconda canzone, Faithfull, a introdurre un elemento fondante del disco: un nuovo umanesimo, una nuova via ripulita da ciò che ha macchiato i secoli precedenti. E i nostri iniziano dalla religione, spazzata via in poco più di quattro minuti, liquidata come inutile illusione. L’unica entità cui dovremmo essere fedeli è seduta a fianco a noi, (ri)partiamo da qui.
Sfruttando questo primo assioma, Gossard riesce a far cantare a Vedder: 

‘Cause I’ll stop trying to make a difference
I’m not trying to make a difference
I’ll stop trying to make a difference
No way

No Way, terza traccia, è sintomatica del nuovo modo di lavorare della band: Yield è un disco corale, in cui tutti hanno portato un contributo, in cui tutti hanno il nome tra gli autori. L’io di Vedder diventa un noi, e l’amico Stone decide di farglielo giurare al microfono, ponendo le basi per la seconda legge di Yield: ammettere di aver bisogno dell’altro. Più umanità che umanesimo, ma siamo ancora alla casella di partenza.
Con un gioco di montaggio alla Tarantino, Given to Fly ci racconta qualcosa che potrebbe stare alla fine della nostra storia, non a metà album. La canzone ha dato vita a fiumi di interpretazioni, nonostante Vedder abbia dichiarato si tratti solo di una fiaba. Ma l’uomo che dall’onda spicca il volo e li libra in cielo è un’iconografia che potrebbe riempire libri di citazioni. Personalmente? Icaro, Prometeo q.b., ma soprattutto, a pelle, una “normale assurdità”, alla Mr.Vertigo, Paul Auster, 1994.
Sempre il duo McCready-Vedder firma la seguente Wishlist, la lettera d’amore scritta come avessimo ancora un Babbo Natale come musa, ma anche la lettera d’amore che vorremo ricevere domani stesso. Del resto, nel nuovo millennio, vorremo portarcelo, il nobile sentimento?
Di Pilate e del suo messaggio abbiamo già affrontato temi e radici, nonché di Do The Evolution, anche se meriterebbe menzione il riff di chitarra più goloso del disco.
MFC è la chiave dell’album. È la X sulla mappa. E di nuovo, per un gioco di montaggio, abbiamo la soluzione prima del dramma. Perché le canzoni seguenti, Low Light, In Hiding, Push Me/Pull Me, sono criptiche, sono oscure, parlano di cambiamento, di trasformazione, ma anche di chiusura al mondo ed eremitismo (pare suggerito da Sean Penn su pratiche apprese da Bukowski, ma è altra storia).
Saltelliamo su temi escatologici in Push Me/Pull Me fino al gran finale di Gossard, che nel nuovo millennio pare volesse portare soprattutto l’ironia e la sottile metafora. La ninnananna finale di All Those Yesterdays non serve a mettere a dormire i propri figli, come accadeva con il pargolo di Irons in No Code. Qui a nanna ci vanno i Pearl Jam, almeno nella loro versione adolescenziale, rabbiosa. Gossard stacca dal traliccio il Vedder-bambino, lo cala in un gruppo aperto al dialogo e mostra a tutti la strada, puntellandola qua e là, senza troppo senso, con segnali per rallentare la corsa.
Parere di pancia: Yield sfiora il concept album.
Anzi, compio un atto di coraggio e ammetto che più sprofondo nei testi, più mi perdo nei contenuti e più mi ritrovo tra le canzoni di The Wall, Pink Floyd, 1979. Lungi dal paragonare i due album, lungi ancor di più accostarli per peso specifico e importanza storica. Ma il lavoro di Waters è un viaggio (circolare) che inizia a esistere nel momento in cui il suo autore decide che il suo rapporto con il mondo, con il pubblico, con lo showbiz, deve cambiare. Il muro è isolamento, il muro è l’incertezza, è la paura. Il viaggio che Waters ci regala, fuori e dentro il suo muro, serve a mostrare a sé stesso e a noi che siamo liberi di isolarci, di perderci in atti creativi autoriferiti, liberi di goderci la nostra solitudine. Ma è soltanto uscendo dai nostri confini che otteniamo la completezza. Siamo umani solo attraverso una continua e consapevole condivisione.
Yield è un disco con una missione, almeno con un messaggio.
In MFC Vedder ci regala la classica metafora del viaggio in automobile. Ma tra le righe ci insegna a rimappare quello che ci sta intorno, a lavorare su come e cosa osserviamo. È un inside job, è un modo per ridistribuire le proprie risorse interne. Se in Rearviewmirror il futuro era nello specchietto retrovisore, nel lasciare il passato scappando, qui è il presente che viene modificato, con un atto creativo.
Libero arbitrio in libero incrocio.

Yield è un disco sulla fine del mondo.
E degli anni novanta.
E di un’umanità che deve cambiare.
Loro non potevano saperlo, ma da lì a un anno sarebbe arrivata la tragedia di Roskilde. Un anno dopo sarebbe cambiato per sempre il mondo, dopo gli attentati dell’11 settembre. E io ringrazio di aver ricevuto la mappa che Yield contiene prima che i Pearl Jam, come tutti noi, dovessero fronteggiare le difficoltà dei primi anni del nuovo secolo.
È stato un disco importante, perché ha un peso specifico enorme, ed è stato un regalo averlo nel 1998.
Il mondo andava a rotoli, come adesso.
Ma ero innamorato. Avevo amici, avevo ventuno anni.
E uno Yield in più a proteggermi.  

…All that’s sacred comes from youth…

 

Andrea Riscossa

Tre Domande a: Nebbia

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

È sempre una buona domanda questa, a cui non so bene rispondere perché sono consapevole di quanto la musica cambi a seconda di chi l’ascolta. Mi piacerebbe mostrare un mondo interiore che spero sia condiviso da molti, e spero di far entrare chi ascolta in questo mondo, farlo sedere con me in cima a una vetta come in Cime, oppure in un giapponese all you can eat in Texas Ravioli. Insomma credo molto nella musica come dialogo, per questo quello che voglio fare ora è suonare molto dal vivo per trasmettere in maniera diretta alle persone tutto questo.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Dal mio EP Altrove sceglierei forse Vortex per rappresentare un certo mio modo di fare musica: un po’ dark, anni ottanta, new wave, ma anche cantautorale e rappresentativo del mio mondo interiore. Dentro quella canzone c’è molto di me ed è forse quella più vecchia che ho scritto di questo EP. Mi piace pensare di creare un’atmosfera coerente con il mio nome, Nebbia, e con quello che avevo nella testa quando l’ho scritta.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Il fatto che sia un modo di essere, più simile al respirare che ad una attività conscia. Il fatto che non mi faccia mai stancare di farlo, e che debba sempre trovare nuovi modi per saziare questo meraviglioso Leviatano. E il piacere nel vedere quando tutto questo arriva agli altri, quando vedo che ci si riconoscono e che lo amano.

The Kooks @ Magazzini Generali

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• The Kooks •

 

Magazzini Generali (Milano) // 01 Febbraio 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto di Federica Mulinacci
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