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Tag: alberto adustini

Gian Maria Accusani: Riparto da solo (solo per il momento)

Qualcosa si muove? Qualcosa si muove. Lentamente, a fatica, ma anche la macchina dei live in Italia sta tornando a muoversi, a far spostare le persone, a far riaccendere le luci sui palchi, a tentare di metterci alle spalle questo annus horribilis.

C’è da dire che, almeno in questo primo periodo, i concerti non somiglieranno molto a quelli che eravamo abituati a frequentare, in quanto toccherà convivere ancora per un po’ con mascherine, distanziamenti ed altre limitazioni che ormai fanno parte della nostra quotidianità. E qui per la maggior parte degli artisti sorge il dilemma: pur di suonare mi adeguo e modifico (snaturo?) le mie esibizioni oppure attendo ancora che arrivi questo benedetto “liberi tutti”?

C’è anche una terza via a dire il vero, ed è quella che ha scelto Gian Maria Accusani, che non dovrebbe aver bisogno di presentazioni ma parliamo del frontman negli anni ’90 nei mitici Prozac+ e dal 2007 nei Sick Tamburo, il quale ha deciso di proseguire da solo. Nessun allarme, niente panico, i Sick Tamburo sono vivi e vegeti e pronti a tornare, sia con un nuovo disco che dal vivo, ma Gian Maria nei prossimi mesi sarà in giro per l’Italia con un incrocio tra concerto e spettacolo, Da grande faccio il musicista, nel quale ripercorre la sua ormai ultradecennale carriera.

Lo abbiamo intervistato qualche giorno fa e ci ha raccontato di più di questa nuova avventura e di come sia nata l’idea. E molto altro.

 

Ciao Gian Maria, prima di parlare del tuo nuovo tour mi interessava chiederti come hai passato questi ultimi ormai 18 mesi “difficili” e soprattutto, quando ormai era chiaro che non si sarebbe suonato per un anno e più, come hai accolto la notizia e come hai deciso di agire, di conseguenza?

“Ciao Alberto, allora lo scorso anno non ha suonato praticamente quasi nessuno, e come Sick Tamburo abbiamo deciso di non suonare nemmeno quest’estate, perché con il pubblico distanziato, le mascherine, ecc, non ce la siamo sentita, onestamente. Io capisco i gruppi che accettano di esibirsi in questa situazione, sia chiaro, ci sta. A me personalmente il pensiero di suonare con la gente seduta, a meno che non si tratti dell’Arena di Verona, non fa impazzire, mi pare manchi almeno metà della mia idea di concerto, per cui sì, abbiamo deciso di aspettare ancora un po’.”

 

E l’idea di imbarcarsi in questa nuova avventura quindi è per così dire figlia della situazione, del periodo o si tratta di qualcosa che già ti frullava in testa da un po’. E già che ci siamo come mai questo titolo?

“L’idea sinceramente ce l’ho da tempo, ma in tutta onestà non avevo mai avuto il coraggio di metterla in piedi e anzi, probabilmente senza pandemia questo coraggio non lo avrei mai avuto. È anche vero che ancora adesso l’idea di me da solo sul palco non mi entusiasma, però poi ho iniziato a ragionarci un po’ su, ed è nato questo spettacolo nel quale racconto il mio sogno che si è realizzato – e da qui il titolo – in quanto ho iniziato a suonare a sette anni e da quel giorno quando qualcuno mi chiedeva “cosa farai da grande” la risposta era sempre “da grande faccio il musicista”. Quindi racconto il mio viaggio all’interno del mondo della musica, ripercorrendo episodi più o meno famosi, dal Great Complotto a quando a diciotto anni sono finito a Londra, da quando son tornato per fare il tour manager e lavorare con Ramones, Beastie Boys, Henry Rollins, e poi ovviamente i Prozac+ e Sick Tamburo, per arrivare al giorno in cui sarò sul palco. Il tutto farcito da canzoni che hanno attinenza a ciò che sto raccontando.”

 

Quindi parliamo di un vero e proprio spettacolo per così dire “strutturato”…

“Assolutamente sì, c’è uno scheletro ben preciso, anche perché se no il rischio sarebbe di andare per così dire fuori tempo, e trovarti dopo due ore ad essere ancora ai Prozac, per dirti di quante cose ci sarebbero da raccontare…”

 

E ti sei fatto aiutare da qualcuno per una sorta di regia?

“No, ho fatto tutto da me. Lo spettacolo dura quasi due ore, suono tredici, quattordici pezzi, e poi il resto è racconto. Ovviamente ci saranno delle variazioni, qualche aneddoto cambierà da spettacolo a spettacolo. C’ho lavorato su un bel po’, sarò seduto, come il pubblico, e vorrei che diventasse come se stessi raccontato qualcosa ad un amico.”

 

Mi pare di capire che quindi è la tua prima volta da solo. Dopo centinaia, migliaia di date, come la stai vivendo questa attesa?

“È la mia prima assoluta da solo e la verità è che sono molto in tensione, davvero. È anche vero che nonostante non sia proprio più un esordiente, ad ogni concerto prima di salire sul palco, lo dico come lo diciamo noi, mi cago sempre sotto, ancora adesso. È proprio la mia natura. Poi quando inizio passa tutto.”

 

Quindi mi par di capire che questa comunque sia da considerarsi una parentesi più o meno estemporanea, e che i Sick Tamburo siano ancora la tua priorità, il tuo presente. Sai perché te lo chiedo? Mi era venuto il dubbio vedendo la copertina del singolo Il fiore per te, dove ci sei tu in primo piano e due ombre di Sick Tamburo sullo sfondo…

“La copertina di cui parli l’ho scelta perché si tratta di un disegno che ha fatto un fan e che mi aveva regalato una sera dopo uno spettacolo, e mi aveva profondamente emozionato. Questa cosa che sto facendo non ha nulla a che fare coi ST, i quali sono e rimangono la cosa più importante che ho al momento, sono il mio presente e appena si potrà tornare un po’ alla normalità sicuramente, anzi non vedo l’ora, faremo uscire un disco.”

 

Accusani intervista

 

Domanda difficile adesso: considerato che lo spettacolo segue la tua carriera e volendo trovare quattro distinti momenti, ovvero Great Complotto, Prozac+, Sick Tamburo e il presente, mi dici quattro aggettivi, quattro parole, che individuino ciascuna parte?

“Allora ti dico quattro parole, che esprimo tutto il concetto di questo racconto: sogno, in quanto è il mio sogno che si è realizzato, mondo magico che è quello in cui mi sono trovato catapultato al tempo del Great Complotto, entusiasmo e ultima cosa, che è quella che unisce un po’ tutte le precedenti è l’amore, nel senso più esteso, l’amore per tutte le persone che ho incontrato in questo viaggio e che sono state l’energia per andare avanti.”

 

Correggimi se sbaglio, visto che ne accennavamo prima, ma io ho sempre visto i tuoi progetti, specialmente i Prozac+ e i ST, fortemente caratterizzati dal punto di vista geografico, e questo sia chiaro è un enorme complimento. Mi spiego, ho sempre avvertito forte la presenza del Friuli, e di Pordenone in particolare, in quelle band. Oltre al Great Complotto e a quella situazione magica e presumo irripetibile, parliamo di una zona decentrata, lontana dalle grandi direttrici, dai grandi centri culturali come possono essere Bologna o Milano, mentre tu hai sempre fatto base a casa a Pordenone, giusto?

“Si, diciamo che pur avendone avuto anche la possibilità ho sempre sentito forte la necessità di tornare a prendere una boccata d’aria a casa, nei posti dove sono nato e dove ancora vivo…”

 

Quindi non credi sarebbe stato più semplice, meno tortuosa, la strada per arrivare ad un successo, che comunque hai avuto, se fossi stato altrove?

“Credo di no, credo che il fatto di aver vissuto in una piccola città di provincia in qualche modo, specialmente in epoca pre internet — dopo di che le distanze, anche geografiche, si sono ridotte a dismisura — sia stato uno sprone, una spinta a fare di più, a fare meglio, a spingersi a livelli che altrove non avresti raggiunto perché magari non ne avresti avvertito o sentito la necessità. Quello che arrivava o che sentivi a Milano non era quello che arrivava a Pordenone, certe cose non giungevano proprio fino a lì, per cui ce le inventavamo noi. È esattamente il contrario, Pordenone è stata proprio la spinta, la voglia di creare.”

 

Facciamo un attimo un passo indietro, poi prometto di liberarti; mi interessa sapere che idea, che pensiero ti sei fatto, come ti sei posto, da persona assolutamente dentro, da addetto ai lavori, in merito alla protesta dei bauli in piazza Duomo, ai ritardati quando non assenti contributi al comparto musica, che parrebbe essere stato il reparto meno aiutato o considerato dal governo durante questa pandemia… ricordo mesi piuttosto burrascosi e caldi…

“Allora, molto francamente il mio pensiero in merito a questa cosa qui è molto chiaro: semplicemente mi sono reso conto guardando quello che è successo e parlando anche con quelli che lavorano ai piani alti, che siamo stati i meno considerati per un semplice cosa, triste ma vera: il comparto musica muove zero soldi, cioè ne muove tanti ma rispetto ad altri settori è irrilevante, per dire il reparto musica non veniva nemmeno accettato ai tavoli di discussione, la verità è questa. Si parla tanto di cultura ma in Italia la verità è che la cultura viene considerata molto molto meno di quanto pensiamo, proprio perché non muove le cifre di altri, è sempre lì la questione. Ed è lì il male. Uno pensa a cultura e non dovrebbe in automatico pensare al rientro economico. Purtroppo, nel 2021, ancora oggi mi fermano e se mi chiedono che lavoro fai e rispondo il musicista mi chiedono “OK, ma di mestiere vero?”. È una questione proprio culturale, siamo un paese di artisti ma la struttura e l’organizzazione che c’è dietro è davvero arretrata, e ce ne siamo accorti durante questi mesi. E lo dico con profonda tristezza…”

 

Il ragionamento non fa una piega, però mi par di capire che non se ne esca, siamo in una sorta di circolo vizioso, in un loop…

“Beh, in molti paesi ci sono i sindacati dei musicisti, in Francia, in Germania, in Inghilterra, da noi invece non c’è niente. Lì chi fa questo mestiere è tutelato, qui ti devi inventare, per non parlare della burocrazia, che è una cosa obsoleta ed orrenda, anche se qui non è un problema solo della musica ovviamente.”

 

Chiaro. La speranza è che le cose prima o poi possano iniziare a cambiare… Nel frattempo ti ringrazio della chiacchierata.

Grazie a te!

 

E ci vediamo prossimamente sotto un palco, intanto seduti…

E speriamo presto in piedi!

 

 

Alberto Adustini

Spiderland fa 30 anni ed io mi rompo un piede. Una storia ricorsiva.

Fact: stamattina credo di essermi rotto mignolo (e forse anulare) del piede sinistro, cocciando violentemente contro il divano, il quale, poveretto si trova da svariato tempo in quella posizione del soggiorno ma che stamattina per un qualche remoto motivo ha deciso di frapporsi fra me e la mia destinazione;

Fact #2: due anni fa grossomodo mia mamma ha inopinatamente preso l’iniziativa di cestinare la maglietta degli Slint che avevo acquista al TPO di Bologna il 5 marzo 2005 ed è accaduto solamente perché per lavori in corso nella mia futura casa ero stato costretto ad un trasloco temporaneo, giusto per precisare;

Fact #3: molti anni prima del concerto di cui sopra, con ogni probabilità a ridosso dell’uscita del disco che oggi di anni ne fa 30, l’io bambinetto di quasi 10 anni, fuggendo dalle grinfie della sua (che sarebbe mia) mamma (la stessa di prima), con un improvviso cambio di direzione causò la frattura (o slogatura, ora non ricordo l’esito degli esami strumentali che vennero effettuati all’epoca) della di lei caviglia. Ricordo che col fiatone mi voltai a guardare il misfatto. E allora pensai “Ti sta bene, così siamo pari per quella volta, tra 20 anni circa, in cui deciderai di buttare la mia maglietta più preziosa (che aveva un minuscolo forellino sulla schiena, NdA). Aveva le date del tour sulla schiena. Davanti La Foto. Quella. Quella della copertina.

Era bellissima.

Non credo di averla ancora perdonata.

Ora.

Tutto sto preambolo per dire cosa?

Beh c’è senza dubbio una certa ricorsività in tutto ciò, perché esce Spiderland e mia mamma si azzoppa, Spiderland fa 30 anni e mi azzoppo io. Più o meno a metà quel concerto che resta uno (IL?) dei momenti più memorabili della mia vita. Perché dai, diciamocelo, gli Slint erano sciolti da tempi immemori, non era a memoria ancora partita sta corsa al tour evocativo che poi è stata una pratica iper abusata negli ultimi anni (sia chiaro, non sono affatto contrario a queste iniziative, anzi: c’ero per i Built To Spill, per i Black Heart Procession, per i Neutral Milk Hotel e molti altri), per cui quando credo sul retro di Rumore o di qualche rivista del genere lessi della notizia fu uno shock (sì, first reaction), perché accadeva qualcosa che al tempo non credevo sarebbe mai stata possibile (di fatti poi, al live dei June of 44 di qualche anno fa fui meno sorpreso e un po’ anzi ricordo che fuori dal Locomotiv mi atteggiavo e fingevo disinteresse perché avevo uno storico alle spalle, ma in realtà a Information and Belief stavo piangendo).

E poi che altro. Non lo so, è difficile da dire. Utilizzo quella copertina per tutti i profili social attualmente in uso, ho un pseudo blog chiamato For Dinner, non sono mai stato a Louisville nel Kentucky e quei 39 minuti li conosco meglio di ogni altra cosa con la quale io abbia mai avuto a che fare. 

E anche oggi, e trent’anni dall’uscita, a diciamo 19, 20 dal primo ascolto, trasalgo spesso, e grossomodo negli stessi punti, che sono molti, e ne voglio scegliere uno per traccia:

su Breadcrumb Trail all’attacco di “Spinning ‘Round, my head begins to turn. I shouted, and searched the sky For a friend”. Perché quel motivo lo hai già sentito da poco, ne sei ancora rapito, poi c’è quel piccolo intermezzo recitato e poi di nuovo giù nell’abisso ed io sinceramente ancora oggi fatico a contenere tanta bellezza;

su Nosferatu Man quasi tutta la seconda parte, quel lungo intervallo solo strumentale, perché se lo ascolti in cuffia e ti concentri sul ritmo che imprime la batteria le chitarre ti danno un effetto così straniante che rischi di perdere il pieno possesso delle facoltà mentali;

su Don, Aman mi fa impazzire che sia una canzone che si regge su due sole chitarre, nient’altro. E il momento in cui attaccano le distorsioni al termine del crescendo di “Don left, And drove, And howled, And laughed, At himself. He felt he knew what that was”. I classici momenti epici e dove trovarli. Ah, per inciso le chitarre sono una di Pajo, eh vabbè, e l’altra è di Britt Walford, che nelle altre cinque sta dietro le pelli (e la foto che vedete, scattata da me medesimo, è proprio relativa a questo brano;

su Washer cosa dire… sarebbero così tanti i momenti da segnalare che dico che il passaggio “Wash yourself in your tears / And build your church / On the strength of your faith” è illegale sia stato partorito da un ventenne;

su For Dinner, che è la cosa più bella successa alla musica in ogni tempo (fino al 16/09/2005 e non dirò mai perché a meno che qualcuno non arrivi con la risposta) l’ipnotico finale, da 4:11 a 4:51 grossomodo (dio mio quanto adorò la serialità);

per la conclusiva Good Morning, Captain non dirò quel disperato “I miss you”, no. Troppo ovvio. Ciò che mi fa impazzire è quello che accade poco prima, dal minuto 6:01 fino al finale, il crescendo orchestrato dalla batteria di Walford, che per tre giri tiene le briglie corte agli altri tre, dosando i colpi, per poi mollare tutto al quarto e scatenare il pandemonio, ed il resto è storia.

Il finale non c’è perché devo fare ghiaccio perché qua se non migliora la situazione mi tocca andare a fare una visitina al Pronto Soccorso a fare un paio di radiografie.

 

Alberto Adustini

Julien Baker “Little Oblivions” (Matador Records, 2021)

“Chiedo perdono in anticipo per tutto ciò che manderò in frantumi in futuro”. 

Wow.

Si presenta così Julien Baker nella furiosa Hardline, apertura del suo nuovo Little Oblivions, terzo album della musicista americana.

Dopo un esordio magnifico con Sprained Ankle, ed un seguito letteralmente clamoroso di quattro anni fa, Turn Out The Lights, attendevo con grande, grandissima attesa questo terzo capitolo, non fosse altro perché in Julien Baker ho sempre visto la prosecuzione naturale di ciò che per me rappresenta Shannon Wright, ovvero musica viscerale, cruda senza essere rozza, diretta eppur elegante, al bisogno.

Little Oblivions fuga da subito un primo, possibile dubbio: Julien Baker è ancora ispirata, ha una facilità di scrittura disarmante; per dirla alla Keaton Henson “I still have art in me yet”, un disco che rimane con la giusta dose di tensione e lirismo per tutte e dodici le tracce, non si ha mai l’impressione di essere di fronte a riempitivi, o brani tappa buchi. Anzi. è compatto senza risultare piatto e il cui unico limite, se vogliamo trovarne per forza uno, è l’assenza di un acuto, inteso nell’accezione di brano totalmente superiore alla media, come potevano essere Appointments o Claws In Your Back nel precedente lavoro.

Probabilmente Little Oblivions è nella sostanza un concept album senza necessariamente esserlo nella forma, portando avanti temi centrali nella produzione bakeriana, quali dipendenza o depressione, “Until the I’ll split the difference / Between medicine and poison” in Hardline o nella successiva Heatwave, “I was on a long spiral down” lasciano pochi spazi d’interpretazione.

Faith Healer, con un arrangiamento molto meno banale di quanto un primo ascolto farebbe immaginare, contiene echi della Baker degli esordi, al contrario di Relative Fiction, più matura e per certi versi controllata, dalla quale emerge ancora con più forza la situazione di fragilità e contestuale consapevolezza della propria persona, capace di ammettere che “I won’t bother telling you I’m sorry / For something that I’m gonna do again”.

Torna a dispiegare molta della sua sconfinata potenza vocale nella tenebrosa Crying Wolf ma poi arriva Bloodshot, magnifica e martellante, quasi asfissiante nel suo incedere incalzante, con quel “There’s no one around / who can save me from myself” e il conclusivo, terribile “Drag me away in the dark / take me and tear me apart”.

Capita quando si ha a che fare con quelli bravi davvero di trovarsi di fronte a combinazioni di suoni, immagini e parole che mozzano il fiato per la potenza espressiva di cui sono capaci. E nel caso della Baker parliamo di una musicista che vanta collaborazioni con artisti di enorme valore, e le Boygenius (il trio del quale fanno parte anche Lucy Dacus e Phoebe Bridgers e delle quali la star, checché se ne dica, è Julien) sono solo una di queste; i Frightened Rabbit del compianto Scott Hutchison per dirne uno, o Matt Berninger dei National, o i Manchester Orchestra. 

Comunque si volge verso il finire del disco, con i cori di Ringside o la tambureggiante Favor, per giungere a Song in E, mia personale scelta tra tutte, per la sua durezza e quasi disperazione, per quegli accordi di tastiera, per quella fredda sincerità che mi riporta ai momenti più personali di Cat Power.

Sono gli incubi ricorrenti (che si entri in zona Lisa Germano?), o forse sono sogni, quelli che affollano Repeat, ed il travolgente finale di Highlight Reel fa da preambolo alla conclusiva Ziptie, quasi una preghiera, un’invocazione, “Good God / When you’re gonna call it off / Climb down off of the cross / And change your mind?”.

 

Julien Baker

Little Oblivions

Matador Records

 

Alberto Adustini

Tindersticks “Distractions” (City Slang, 2021)

Allora, chiariamo subito che partiamo male. Molto male.

Sto parlando di Distractions, il nuovo disco dei Tindersticks.

Siamo seri, dai, questa Man Alone (Can’t Stop Fading) è una canzone che, doveste un giorno trovarvi nella situazione di dover riempire una cristalliera di sole gemme della band di Stuart e compagni (e ce ne sono a dozzine), senza dubbio scartereste tra le prime. Che poi mi ricorda un sacco gli LCD Soundsystem, che piacciono a tutti voi, lo so, ma a me non sono mai andati giù, nemmeno quando facevate diventare This Is Happening uno dei dischi imprescindibili della storia della musica tutta.

Fine sfogo.

Comunque stiamo parlando dei Tindersticks, motivo per il quale anche fossero alle prese con una rivisitazione raggaeton di Tiny Tears o Until The Morning Comes ska non si skippa, non ci si allontana dalle casse, non ci si distrae, si sta pazientemente in attesa che passino questi 667 secondi (!), sperando che le cose cambino. Radicalmente possibilmente.

Presto (non tanto, invero) accontentati. I Imagine You ci riporta dove vogliamo stare. O dove io voglio stare. Il recitativo baritonale di Staples è quello di cui avevo bisogno, che meraviglia, con quell’attacco che pare preso in prestito dai Sigur Ros di (), poche note, qualche sussurro, non serve poi molto a creare la magia. 

Poi è la volta di A Man Needs A Maid. Toh, guarda, stesso titolo di quella di Neil Young. Ma ancora quella batteria elettronica dannazione. Ah ma è proprio quella di Neil Young! Ma sai che a dirla tutta non mi dispiace, anche se il paradosso è che sembra più vicina ai Tindersticks la versione del dio canadese rispetto a quella dei Tindersticks stessi.

Altro giro, altra cover, altra drum machine o qualche tipo di artificio. È la volta di Lady With The Braid, originale di Dory Previn del 1971. Mai sentita nominare. Nemmeno la canzone. Ma che testo magnifico! Poi in questa nuova veste viene totalmente dismesso il vestito folk cantautorale in vece di una più austera e composta, che siamo sempre i Tindersticks, ricordiamolo al mondo. 

You’ll Have To Scream Louder fa parte del versante soleggiato della band inglese, addirittura Stuart A. Staples te lo puoi immaginare farla dal vivo e ballarla col suo iconico (non è vero) passo col quale fa scivolare i piedi in un verso e nell’altro, su queste congas e queste chitarre funkeggianti.

Ma basta scherzare, Tue-Moi è il classico pugno nello stomaco che ti manda diritto al tappeto, un toccante, sofferto, sentito brano, piano e voce, in lingua francese, sull’attacco al Bataclan di qualche anno fa. 

Ma ahinoi è già tempo dei titoli di coda su questo tredicesimo capitolo in studio per la band di Nottingham, giunta ormai al trentesimo anno di vita. Ed è un meraviglioso finale, poche storie, questa The Bough Bends, coi suoi quasi dieci minuti di durata, è la perfetta nemesi dell’iniziale Man Alone (Can’t Stop Fading). 

E anche a sto giro, cari miei amori, fate un disco brutto la prossima volta.

 

Tindersticks

Distractions

City Slang

 

Alberto Adustini

Keaton Henson “Supernova OST” (Lakeshore Records, 2021)

Non ho mai recensito una colonna sonora. Non so come si faccia, né se si possa fare; o meglio, non sono sicuro si possa recensire una OST (Original Sound Track), senza aver visto il film per la quale è stata pensata, creata, arrangiata e realizzata. 

Non sono del resto nemmeno un grande cultore del genere, voglio dire conosco diverse persone che tra gli ascolti consueti hanno proprio le colonne sonore; ma io, un po’ per abitudine, un po’ forse per ignoranza, non mi sono mai mosso verso quei litorali, partendo da un assunto, certamente sbagliato, che non sia molto sensato scindere un film dalla sua musica, come se entrambi potessero aver vita solo se uniti, e che dividerli vorrebbe significare snaturarli e renderli altro. Il cinema muto del resto non è muto, sin dagli albori immagini e musica sono stati un connubio inscindibile e a dar maggior peso a questa considerazione piuttosto condivisibile ci sono anche le parole di Claudia Gordbman, che nel suo Unheard Melodies (una pubblicazione di diversi anni fa incentrata sulla musica nel cinema), sostiene che “change the score on the soundtrack and the image-track can be trasformed”.

Ad ogni modo non potevo lasciarmi sfuggire questo Supernova, esordio assoluto di Keaton Henson nel mondo del cinema. Il film in questione è uscito da appena qualche giorno negli Stati Uniti, è diretto da Harry Macqueen e vede come protagonisti, raffigurati anche in una splendida locandina, Colin Firth e Stanley Tucci. 

Non si tratta di un prime assoluto per l’artista inglese in ambito strumentale/orchestrale/sinfonico, avendo egli già dato alla luce un paio di anni fa lo splendido Six Lethargies, e questo nuovo lavoro continua ed espande quel clima di pathos e drama che sono da sempre presenze fisse ed imprescindibili della poetica del nostro. E credo sia proprio quello che cercava il regista, perché quando decidi di affidare la colonna sonora del tuo film ad un artista così particolare, che fa della malinconia e del rimpianto il suo terreno preferito, ti aspetti esattamente un lavoro come questo: i primi 40 secondi dell’iniziale The Night Sky sono otto, forse nove note di piano, lente, sotto le quali con un lungo crescendo si fanno strada gli archi, per sbocciare in una rapida sequenza che si esaurisce presto, per lasciar strada ad un intermezzo, Losing Tusker (Tusker è il nome del personaggio interpretato da Stanley Tucci, giusto per dare qualche riferimento in più). The Lake dona un minimo di apertura e respiro, con i violini che adagio s’incrociano in splendide volute, come nella successiva The Road To Lilly’s.

Un violoncello ed un contrabbasso compongono i quattro minuti abbondanti di A Silent Drive, dove ad una prima parte riflessiva seguono momenti incalzanti e sincopati, subito limati da un secondo passaggio più arioso ed orchestrale, Stargazing. Let Me Be With You è puro Keaton Henson, con quel pianoforte di una dolcezza abbagliante ed una coda d’archi dove non c’è molto spazio per la luce. La conclusiva Supernova è la composizione più articolata, che si manifesta in maniera quasi solenne, si sviluppa con una malinconica viola che sfocia in un finale tanto drammatico quanto magnifico.

La parola fine vien in realtà posta da Jeremy Young, un compositore ed improvvisatore, dedito principalmente alla musica concreta con registratori, tape e nastri (à la Basinski per intenderci) che ci regala un’interpretazione commovente del Salut D’Amour di Edward Elgar, qui lievemente rallentata per aumentarne, se possibile, la potenza evocativa.

Questa colonna sonora è un lavoro che trasuda Henson in ogni brano, in ogni nota quasi, dai momenti più narrativi a quelli più cupi, per cui adesso è forte la curiosità di andarsi a vedere il film, per scoprire quanto di ciò che emerge dall’ascolto trova effettiva rispondenza nella pellicola.

 

Keaton Henson

Supernova OST

Lakeshore Records

 

Alberto Adustini

Leptons “La Ricerca della Quiete” (Beautiful Losers, 2021)

Uno splendido, variopinto mosaico

 

Non sempre l’azzardo paga.

Non sempre, ma sta volta sì. Decisamente.

Il nuovo lavoro di Leptons, cantautore veneziano che risponde al nome di Lorenzo Monni, intitolato quasi provocatoriamente La Ricerca della Quiete e pubblicato dalla Beautiful Losers, è in realtà una centrifuga di idee, suoni, voci, colori, un disco vulcanico, quasi smodato nella sua apparente assenza di organicità e misura. 

È un disco abbondante ma non sovrabbondante, pregno, denso, quasi mai però pacchiano o affettato. Il suo maggior pregio è l’essere credibile nella sua densità.

Ci sono infiniti rimandi, citazioni, ci sono momenti più folk, altri ai limiti della dance, si strizza l’occhio alla musica tribale e a quella popolare, c’è del cantautorato e trovate il più delle volte decisamente azzeccate.

L’iniziale Il Canto Di Lavoro rimanda neanche tanto lontanamente all’Iosonouncane di Stormi, c’è anche un cameo in inglese con Great Escape (anche se a onor del vero lo si preferisce e convince di gran lunga di più in italiano), stralunate evoluzioni vocali di pura naturalezza e istinto in Una Lunga Vacanza, intermezzi strumentali in puro fingerpicking ne Il Diario Di Un Vulcano o ne Il Lago delle Favole, la davvero splendida Così Lontani, che rappresenta una sorta di compendio di quanto Leptons abbia messo in questo disco, una summa quasi. La Trilli finale (cos’è? Una quadriglia? Un qualche brano folkloristico? Ma arrivati a questo punto importa davvero?), è forse la perfetta conclusione di un lavoro che ha molti più meriti e pregi che limiti, un disco fatto di azzardi, rischi, non sempre calcolati, talvolta forse nemmeno necessari, ma che ce lo fanno apprezzare ancora di più. 

Si criticano spesso certi artisti perchè fanno sempre lo stesso disco, beh in questo La Ricerca Della Quiete, Leptons non fa mai nemmeno la stessa canzone.

 

Leptons

La Ricerca della Quiete

Beautiful Losers

 

Alberto Adustini

VEZ5_2020: Alberto Adustini

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle”

Collettivo di Cleveland che ruota attorno alla figura di Ra Washington, i Mourning [A] BLKstar hanno sfornato con The Cycle un disco monumentale, imponente e coraggioso. Odora di funk, di hip hop, di trip hop, c’è la black music, il soul, il tutto amalgamato in oltre sessanta minuti di godurioso ascolto. Scelgo tra tutti questa Sense Of An Ending, che ben racchiude le varie anime di questo capolavoro.

Traccia da non perdere: Sense Of An Ending

 

Daniel Blumberg “On&On”

Che Daniel Blumberg sia un genio non lo scopro certo io ma parliamo di un dato di fatto, un assunto incontrovertibile. Vederlo dal vivo è un’esperienza extra ordinaria, così come approcciarsi ai suoi dischi. Se avete amato il precedente Minus adorerete questo On&On, dove tra vette di cantautorato intimo e scarno aleggia sempre quel sentore di spirito libero, di improvvisazione e necessaria irrinunciabile tendenza all’abbandonare il sentiero battuto verso direttrici inesplorate.

Traccia da non perdere: On & On

 

Protomartyr “Ultimate Success Today”

I Protomartyr sono una mia grande, relativamente recente infatuazione, esplosa con lo scorso Relatives In Descent e consolidatasi con questo Processed By The Boys. Un disco che non ha le vette clamorose di Half Sister o di Here Is The Thing, ma è molto più consistente, convincente e, a conti fatti, superiore al predecessore. La base è la stessa, quel post punk con chitarre taglienti ed una sezione ritmica spaventosa, che trova la perfetta quadra con la voce distaccata come no di Joe Casey, ma a spiccare è il maggior azzardo sia a livello di arrangiamenti (comparse di sax e altri fiati qui e lì) che di scrittura e consapevolezza. Discone davvero.

Traccia da non perdere: I Am You Know

 

Keaton Henson “Monument”

Nel 2016 con Kindly Now Keaton Henson era stato il mio disco dell’anno e da allora era diventato il mio spirito guida, il mio faro, per me amante della musica triste o tristissima. Questo Monument è dedicato al padre recentemente scomparso ed è una lenta, accorata personale narrazione familiare, dove noi ascoltatori siamo privilegiati testimoni e necessari interlocutori.

Traccia da non perdere: Self Portrait

 

Waxahatchee “Saint Cloud”

Una delle sorprese per me dell’anno. Un disco che ho ascoltato e riascoltato e che mi ha fatto compagnia nei primi mesi di lockdown. Lei è Katie Crutchfield, statunitense, al quinto disco a nome Waxahatchee. E a mio avviso il migliore. Sarà che gli ingredienti che lo compongono sono tutti a me graditi, con reminiscenze di Macy Gray, Abigail Washburn, addirittura i Postal Service. Il capolavoro tuttavia è alla fine, St. Cloud, chitarra e voce all’inizio, poi poco altro in più. C’è da chiudere gli occhi e lasciarsi cullare. (per altro la qui presente utilizza un lessico pazzesco, se vi piace anche capire quello che ascoltate e vi piacciono un po’ le lingue)

Traccia da non perdere: St. Cloud

 

Honorable mentions 

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” Il mio guilty pleasure del 2020.

Claver Gold & Murubutu Infernvm” Un disco che andrebbe fatto ascoltare in tutti i licei. Non scherzo.

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Viscerals Altresì detti quelli che spaccano i culi.

Non Voglio Che Clara Superspleen Vol. 1” La conclusiva Altrove/Peugeot è roba per pochissimi. 

Philip Parfitt Mental Home Recordings” In realtà è questo il disco dell’anno. Capolavoro senza senso.

 

Alberto Adustini

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” (Dead Oceans, 2020)

Non mi vergogno a dire di essere arrivato tardi. Capita.

In più sono anche particolarmente orgoglioso di aver superato la mia naturale ritrosia e sofisticatezza nei confronti dei nomi troppo mainstream e inflazionati, come in effetti quello di Phoebe Bridgers potrebbe sembrare.

Tuttavia mi sa che siamo di fronte ad una versione femminile di re Mida, almeno attualmente, perché la ventiseienne californiana continua imperterrita a trasformare in oro tutto ciò che le passa per le mani, vi basti fare un salto su Youtube e cercare Phoebe + Bridgers + Radiohead (poi mi fate sapere).

Ebbene quasi a sorpresa qualche giorno fa la nostra esce con un EP, Copycat Killer, quattro brani, quattro estratti del suo ultimo album, Punisher, rivoltati e scarnificati e ridotti all’osso e poi rivestiti di archi e arrangiamenti che poco avevano da spartire dai precedenti ma che stanno di un bene che sembra siano nati assieme.

Prendi una Kyoto, che il suo incedere à la Belle and Sebastien diventa una dolce confessione su quel mirabile tappeto orchestrale fatto di viole e violini e molto altro, arrangiato dal prodigioso Rob Moose. Così la dolce Savior Complex e le sue chitarre folk e quel malinconico violino assumono toni quasi teatrali, con partiture ariose alternate a pizzicati saltellanti, come pure nella successiva Chinese Satellite. Punisher, scritta assieme al sempre caro Conor Oberst, a chiudere questo quartetto, in maniera molto più che degna questi 13 minuti che valgono tantissimo.

Qualche giorno appena ed ecco un altro EP, If We Make It Through December, altri quattro brani, tra cover e vecchie registrazioni, a tema Natale. Allora risparmiatevi (e risparmiamoci) stucchevoli polemiche o discussioni inutili su questo tipo di operazioni, ok? Me lo sono comprato su Bandcamp, l’ho pagato 5,13 € col cambio, non me ne pento, soprattutto perché è meraviglioso. E a me il Natale piace. E piace anche la buona musica.

Già l’omonima traccia d’apertura, incisa da sua maestà Merle Haggard nel 1973, regala, è proprio il caso di dirlo, emozioni sincere che se non vi si muove qualcosa ad altezza del cuore avete qualche problema mi sa, con la voce di Phoebe che mostra sfumature e colori che non avevo saputo vedere in passato, come quel flebile, talvolta impercettibile tremolo che si palesa, di tanto in tanto.

7 O’Clock News/Silent Night è invece un rifacimento del brano di Simon & Garfunkel (cioè il brano è Silent Night, quello famoso), cantato in coppia con Fiona Apple, con il contributo di Matt Berninger nelle vesti di anchorman a dare le notizie, che piano piano crescono fino a coprire il soave duetto femminile nel celebre motivo natalizio (con le cuffie l’effetto è molto migliore, parer mio). E sono brividi veri. Nuovamente.

Christmas Song mi ha ucciso, letteralmente. Un duetto con Jackson Browne (proprio lui) che ti scava dentro in maniera inesorabile. È una canzone di Natale, ma triste, con quel piano annacquato, “The sadness comes crashing like a brick through the window / And it’s Christmas so no one can fix it”, poi cresce, ma quando finisce continui a ricantarti in testa “You don’t have to be alone to be lonesome”. 

Have yourself a Merry Little Christmas torna nei binari della classicità, senza perdere quel tocco di phoebismo che ormai starete adorando quanto me e se guardate fuori e molto probabilmente, come me, non vedrete la neve, sarete comunque già in pieno clima natalizio. 

Questa è magia.

 

Phoebe Bridgers

Copycat Killer

If We Make It Through December

Dead Oceans

 

Alberto Adustini

Keaton Henson “Monument” (PIAS Recordings, 2020)

“Sono metà cantautore e metà uomo, e tuttavia la somma di queste due parti non fa un intero”. 

Riuscite ad immaginare un’immagine più forte di questa per descrivere la propria fragilità? Perché ho appena premuto play per ascoltare il nuovo disco di Keaton Henson, testè uscito per la PIAS Records e sono già steso sotto il consueto e sempre nuovo clima da soliloquio che lui, come pochi, pochissimi altri al mondo, sa creare.

Tra le prime pennellate di Ambulance e il dolce cadenzato arpeggio di Self Portrait ho poi ricevuto l’illuminazione: Keaton Henson è la trasposizione ai giorni nostri di ciò che era stata ed aveva rappresentato, nel diciannovesimo secolo, una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, e per certo la mia preferita: Emily Dickinson.

Zia Emily, come era solito appellarla il mio professore di inglese al liceo, ha scritto “Ad un cuore in pezzi / Nessuno s’avvicini / Senza l’alto privilegio / Di aver sofferto altrettanto”. 

Se dovessimo oggi cercare una persona capace di aver mostrato, attraverso la propria arte, la sofferenza, interiore certo ma mai nascosta o taciuta, tanto da renderla quasi universale, nella sua compostezza, quella è Keaton Henson. Nessun dubbio a riguardo. Il quale, già di per sé incline al mettere in musica ogni minimo dettaglio ed emozione del proprio animo tormentato e della propria tumultuosa, quando non misera, infelice, vita sentimentale, ha dovuto passare attraverso un’ulteriore prova, ancor più dura da accettare e sopportare, ovvero la recente scomparsa del padre.

E questo nuovo disco, Monument, si svela come un lungo, sentito percorso attraverso il dolore, per esorcizzarlo di certo, ma anche e soprattutto per scolpirlo, scavarlo nella roccia o nel legno, affinché il ricordo non finisca, come sempre accade sotto l’azione dello scorrere del tempo, per affievolirsi o peggio,  svanire.

In mezzo a questo clima, al solito sempre molto composto, fanno anche capolino un paio di episodi, While I Can ed Husk, che rappresentano due anomalie all’interno del corpus del nostro, in quanto sembrano quasi, specialmente per la presenza di una sezione ritmica ed una chitarra sonante, in ambiente pseudo pop.

Tuttavia questo Monument è un gran disco, come grande è il suo autore, che ancora una volta si mette a nudo, senza pudore e senza imbarazzi, e lungo queste undici tracce riporta i sentimenti più puri e sinceri al centro della scena, come lui e pochi altri sanno fare. Probabilmente mancano i picchi, più musicali che emotivi, che costellavano il precedente Kindly Now, ma quello che scatena interiormente l’ascolto di un brano come Self Portrait oppure The Grand Old Reason è cosa per pochi. E in questo lui è probabilmente l’unico.

 

Keaton Henson

Monument

PIAS Recordings

 

Alberto Adustini

Daniel Blumberg @ Anfiteatro del Venda

Una magnifica follia

Anfiteatro del Venda (Galzignano Terme) // 13 Settembre 2020

 

Praticamente c’è sto tizio, vestito in maniera leggermente eccentrica di scuro, cappellino da baseball calato sul viso a nascondere lo sguardo, che sta seduto al piano, e tamburella, giochicchia, insiste in maniera seriale, quasi ossessiva, su un paio di note gravi, le quali escono dall’impianto effettate e stridenti, completamente snaturate. 

“Starà facendo il sound check”, presumo sia stato il pensiero mio e dei (non moltissimi) presenti, comodamente sdraiati sul prato inclinato che circonda il palco del Venda, mentre il sole lentamente prosegue il suo tragitto verso ovest, tuttavia ancora troppo alto sull’orizzonte per lasciar spazio allo spuntare delle luci della pianura padana, fondale naturale per le esibizioni da queste parti.

Tra una chiacchiera, un bicchiere di vino ed un paio di risa poco alla volta tutti si convincono del fatto che quella figura longilinea e vagamente “strana”, china sul piano, deve essere lui, dai, il signor Daniel Blumberg, trentenne inglese che in questa domenica settembrina porta in Italia, unica data nella penisola, in una location con pochi eguali, il suo recente On&On….

Il di cui sopra musicista non pare dare molta importanza alla situazione che lo circonda, intento com’è a guardarsi intorno quasi smarrito, a stuzzicare la tastiera, bofonchiare qualcosa in un microfono, accennare un paio di note sull’armonica, veder correre senza sosta una biondissima bambina (che ancora non so se potesse essere sua figlia o comunque appartenente all’entourage), sorseggiare del vino, alzarsi a far nulla in particolare per poi risedersi al piano, sistemare un libretto sul leggio. 

In questo clima tra il bucolico dell’ambientazione, l’informale della domenica pomeriggio orario aperitivo, il surreale del vedere il motivo stesso del tuo pellegrinaggio in cima a queste colline intento a cazzeggiare in mezzo al palco che quasi per caso ti accorgi che gli ultimi due accordi di piano somigliano davvero molto a quelli di Madder, pezzo tratto da Minus, prima gemma regalata al mondo da Daniel Blumberg, risalente al 2018. Quando, diversi minuti dopo, si avvicina al microfono e con il suo timbro inconfondibile scandisce “It’s my morning answer” non ci sono più dubbi, è lei; semmai ti resta qualche perplessità per il semplice fatto che non sai ancora se sia effettivamente iniziato il concerto o meno, ma tant’è, inutile continuare a crucciarsi, meglio assumere una posizione più adatta e rispettosa verso quello che, e non lo dico solo io, è l’autore di uno dei migliori dischi del 2020 ed i cui concerti, e io non lo dico perché è la prima volta per il sottoscritto, sono sempre delle esperienze magnifiche.

Prendendo come assioma dunque che Madder sia stato il primo brano in scaletta, quello che emerge subito, senza troppi fronzoli, è la continua, incessante necessità, il bisogno che Blumberg sembra di avere di alterare, portandoli quasi fino al rumore vero e proprio, quasi fino alla cacofonia, i suoi brani; i quali, beninteso, sono dei capolavori, dei veri miracoli cantautoriali.

Daniel Blumberg ha una facilità e creatività espressiva e compositiva imbarazzante da quanto è sfacciata, brani come Minus, terzo brano in scaletta quest’oggi, o la title track On&On, che ha trovato spazio verso la fine del live, sono composizioni che la stragrande maggioranza dei cantautori al giorno d’oggi pagherebbe per riuscire a comporre, farebbe carte false per avere qualcosa di simile a Permanent in repertorio, credetemi. 

Un incrocio tra Mark Linkous e Keaton Henson ed un pizzico di Sufjan Stevens (con sfumature nella voce di Ben Sollee aggiungerei) sotto il quale scorre una vena rumorista di pura avanguardia, motivo per il quale più che a veri e propri concerti, quelli di Daniel Blumberg somigliano ad esibizioni  che potreste vedere in qualche MoMa o Guggenheim o in qualche galleria d’arte moderna, come quando in un momento di passaggio tra Family and On&On, unite da lenti, lentissimi tocchi di piano e vaneggi di armonica, ha passato svariati minuti a creare un fastidiosissimo rumore con un microfono, o come prima di Teethgritter, quando i minuti sono trascorsi nel guardarlo far cadere all’infinito nella coda del piano diversi oggetti metallici (monete forse?). 

È la struggente, severa carezza di The Bomb a chiudere quest’esperienza così trasversale, così vera; il sole ora sì è giunto a destinazione, dietro alle colline e al contempo le luci del mondo, mai così distanti, disegnano un tappeto intermittente alle spalle di quest’uomo, questo concentrato di creatività e stupore, di dolcezza e frastuono, che stranito, spaesato, si alza dal pianoforte, un abbozzo di inchino, non una parola, due passi a lasciare gli assi del palco del Venda, si siede poco lontano, “Minus the intent to feel, I’m here”.

 

Alberto Adustini

Efterklang @ Sexto ‘Nplugged

Un magnifico riverbero

Piazza Castello (Sesto al Reghena) // 9 Agosto 2020

 

Vengo regolarmente a Sesto al Reghena per il Sexto ‘Nplugged dal 2007, quando esordii in Piazza Castello di fronte a sua immensità Antony and the Johnsons. L’ultima mia volta a queste latitudini è una ferita ancora aperta, leggasi Sharon Van Etten, annullato per maltempo mentre parcheggiavo la macchina con il mio bel biglietto in mano. Il virus mi aveva precluso l’ennesima serata con il mio grande amore Chan, ma non può piovere per sempre, giusto? Ed ecco che i miracoli (perché di questo si tratta) a volte accadono e in piena emergenza pronte tre serate tre per palati fini, perché il pubblico di Sexto oramai ha aspettative che vanno dall’alto in su.

Stasera per me è una primizia, dopo un lungo inseguimento, perché finalmente vedrò il mio gruppo musicale danese preferito (e uno potrebbe dire “sai che concorrenza”, al che io risponderei “e gli Aqua dove li metti?”), ovvero gli Efterklang.

Premettiamo subito che parliamo di un concerto CLAMOROSO.

Cla – mo – ro – so, ve lo sillabo, qualora non fosse passato il messaggio.

In tutta sincerità confesso che mi aspettavo molto, per la caratura della band in primis, poi perché si presentava in formazione a sette, che ha sempre un suo fascino, e perché adoro la loro capacità di cambiarsi d’abito con una disinvoltura e naturalezza fuori dall’ordinario, propria delle grandi band.

Ecco, visto che si parla di abiti, vorrei mi fosse concessa una piccola digressione su Caspar Clausen, voce degli Efterklang e da stasera mio nuovo spirito guida. Si presenta sul palco con un calice di vino bianco, capelli biondi fuori taglio, come un frontman dei Bee Hive senza il doppio colore, una fronte enorme, un abbigliamento che meriterebbe un trattato a parte, total white, camicia abbondante nelle maniche, pantalone fuori moda alto in vita, sandalo forato di dubbissimo gusto (mise che sarebbe stata perfetta nelle commedie anni ’80, nelle scene all’interno delle discoteche, quando ci sono le comparse che ballano in maniera imbarazzante con le braccia lungo i fianchi, spero di aver reso l’idea). Semplicemente perfetto. Ciliegina sulla torta una sorta di bipolarità del nostro che sono riuscito a gestire solo dopo alcuni brani, in quanto mi soffermavo rapito a guardarlo passare in tempo zero dal trasporto del canto al fissare immobile persone a caso nelle prime file, e sorridere loro, con quell’espressione come dire, alla Mariano Giusti per capirsi, il personaggio lievemente eccentrico che Guzzanti interpretava in Boris. Se ce l’avete presente bene, altrimenti non è che posso fare tutto io.

Ad ogni modo un’ora e mezza circa farcita di bellezza, così tanta che si fatica a contenerla in un semplice live report, perché l’iniziale Monument, o Vi Er Uendelig (noi siamo eterni, come ci traduce Caspar), quasi una ninna nanna, piuttosto che The Colour Not Of Love erano state già capaci di irradiare e riempire di magia la piazza, tutta, compresi i vuoti dei distanziamenti, e abbracciare e abbracciarci, sotto la stessa luna, sotto lo stesso campanile che sovrasta il palco.

Una scaletta che attinge principalmente da Piramida e dall’ultimo Altid Sammen, che alterna brani in lingua inglese a brani in danese, e per quei strani, sovrannaturali, inspiegabili meccanismi che solo la musica dal vivo sa creare, sulle note Hold Mine Hænder, tutto il pubblico diventa d’incanto connazionale dei sette sul palco, e per alcuni dolci minuti un canone delicato e sognante tra palco e platea rende più di qualche occhio lucido (eccomi).

Sedna apre i numerosi encore, a cui fa seguito una Black Summer arricchita da una coda di sfacciata bellezza (Siv Øyunn Kjenstad, sappi che sei una meraviglia dietro a quella batteria, ed hai una voce celestiale, e meglio se mi fermo). A questo punto del concerto la famosa quarta parete è stata già abbattuta da tempo, sulle note di The Ghost, Caspar Clausen si siede a bordo palco, a due metri dalla platea, gli si affianca il basso (e il baffetto) di Rasmus Stolberg, il pubblico si alza in piedi e parte un convinto battimani a tempo, si avverte palpabile la sensazione che in condizioni “normali” tutto il pubblico sarebbe già da tempo sotto il palco, a ballare e a cantare, ma non si può, non ancora, per cui “se Maometto non va alla montagna…”, ecco che Alike mette i titoli di coda, con i sette che, uno strumento a testa (tra i quali i cucchiaini e una diamonica), totalmente in acustico, scendono dal palco, percorrono con molto rispetto il periplo di piazza Castello, e voglio pensare che non sia stato un caso che le ultime parole cantate in questa serata indimenticabile siano state queste:

The days are gone and the game was fun
The path was wrong, but it gave us hope
The more we found, the more we grew
Upon the truth, upon the truth
And it made us feel alike

 

Alberto Adustini

Protomartyr “Ultimate Success Today” (Domino Records, 2020)

Appena sotto resilienza/resiliente, nella speciale classifica di termini italiani che mi creano sentimenti poco amichevoli verso l’umanità tutta, si colloca divisivo.

Saltando a piè pari i contesti nei quali in tempi più o meno recenti mi è capitato di veder utilizzata la parola sopra citata, ho fatto questa scoperta sulla mia pelle: il fatto che una band abbia un cantante con una voce che ondeggia, barcolla meglio, tra il parlato che sovente diventa biascicato e il cantato che non di rado sconfina nello stonato, un’attitudine sul palco più adatta ad un netturbino in strada, alle 4 del mattino, in novembre, sotto la pioggia, aggiungiamoci una chitarra che mena fendenti acidi e nervosi senza sosta ed una sezione ritmica che strizza l’occhio diciamo ai Fall per dirne uno per tutti (insomma, tutte peculiarità che adoro e trovo quasi imprescindibili per poter ascrivere un gruppo alla mia cerchia di “band di culto”), ebbene, tutto questo ben di dio in un solo gruppo, e scopro che un sacco di gente non li apprezza. In alcuni casi arriva addirittura a detestarli proprio. Follia!

Si scherza ovviamente, ma la situazione sopra descritta si confà perfettamente al mio rapporto con i Protomartyr, quartetto di Detroit, giunti al quinto album in studio e che personalmente ho iniziato ad amare relativamente tardi, in occasione di quel Relatives in Descent, anno di grazia 2017, che è uno dei dischi che di rado mi stanco di ascoltare.

Amore dicevamo che però non si è affatto trasformato in un flirt estivo, al contrario, ma si è consolidato con l’EP Consolation (uscito in collaborazione con l’ex Breeders Kelley Deal) e che con quest’ultimo Ultimate Success Today è diventato una storia d’amore che non vedo come possa interrompersi.

Ora che ho scoperto da subito le carte e che non ho più spazio per bluff e doppi giochi, non ci giro attorno e direi che non sia sbagliato affermare che il succo, il nucleo di questo Ultimate Success Today non si discosti di molto dal suo predecessore, quantomeno nelle intenzioni, ampliandone però l’area di movimento, e non per una mera questione di incremento della strumentazione utilizzata; dopo nemmeno un minuto infatti dell’apertura affidata al singolo Day Without End compare un sax, ad aumentare il senso di tensione e sospensione di un brano di per sé già poco piantato a terra, che si spegne d’improvviso, quasi inatteso. 

I Am You Now ci riporta il Joe Casey (il cantante NdA) sermoneggiante di Here Is The Thing, mentre la chitarra di Gregg Ahee disegna incubi metropolitani su tappeti ritmici secchi e sincopati (vedasi anche la seguente The Aphorist) che risultano essere il vero marchio di fabbrica dei quattro.

Ascoltate Michigan Hammers per avere chiaro un compendio di come non si dovrebbe (pff…) cantare su di un disco, se siete di quelli che si trovano a proprio agio principalmente coi “poeti laureati”, io mi tengo stretto le esplosioni allucinate di Tranquilizer, il valzer drogato di Bridge & Crown, la dilatata coda, criptica e fatalista di Worm In Heaven (I exist, I did, I was here, I was, or never was recita il finale ), al quale si accompagna un video altrettanto allucinato, che merita 4.31 minuti del vostro tempo.

È un disco sconsigliato a quelli dal palato fino, a chi non ha ancora avuto il coraggio di affrontare i propri incubi peggiori, ai tecnofili (passatemelo come neologismo per piacere), a coloro alla ricerca di decorazioni, ornamenti e finiture di classe, ai canonici, agli amanti del reggaeton.

E se non rientrate in alcuna di queste categorie ed allo stesso tempo non vi siete innamorati di questo Ultimate Success Today, beh, de gustibus non est disputandum.

Divisivi si diceva…

 

Protomartyr

Ultimate Success Today

Domino Records

 

Alberto Adustini