Skip to main content

Tag: alberto adustini

Arab Strap @ Pesaro + Sexto ‘Nplugged

[vc_row css=”.vc_custom_1552435921124{margin-top: 20px !important;margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]

• Arab Strap •

Parco Miralfiore (Pesaro) // 29 Luglio 2022

Sexto ‘Nplugged (Sesto al Reghena) // 30 Luglio 2022

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]“Non me ne frega niente del passato, dei nostri gloriosi giorni passati”… è affidata a The Turning Of Our Bones, come prevedibile, l’inizio del live degli Arab Strap a Sexto ‘Nplugged, ancora ferito dalla improvvisa e imparabile defezione del giorno prima dell’accoppiata Agnes Obel + Timber Timbre.

Giunti alla soglia dei cinquant’anni e freschi di pubblicazione del recente e convincente As Days Get Dark, Aidan Moffat (bermuda in jeans con risvoltino, camicia blu e abbondante sudorazione sulla folta barba bianca) e Malcolm Middleton (cappellino d’ordinanza, t-shirt nera di qualche band che non sono riuscito a decifrare e pinocchietto… insomma ecco mi pareva doveroso sottolineare un outfit non indimenticabile, per quanto trascurabile, concordo) hanno riempito una già di suo affollata piazza Castello con un live di grande (sorprendente?) potenza e vigore.

Gli Arab Strap si presentano in formazione allargata a cinque, batteria, basso e tastiere oltre alla chitarra di Middleton e ai synth di Moffat, ed è quest’ultimo, ovviamente, a tenere il palco e le redini del discorso. Nonostante non sprechi preziose energie e tempo ad interagire col pubblico, giusto un paio di “grazie” e “thanks”, un “this is a song about a very bad hangover”, la sua presenza riempie il palco, la sua voce fa il resto e completa la magia. Metà scaletta proviene dall’ultimo lavoro, nel quale svetta sulle altre una versione magnifica di Fable Of The Urban Fox ed una Tears On Tour sensibilmente riarrangiata (e forse addirittura migliorata). I volumi si mantengono decisamente alti, i momenti più distorti sono decisamente apprezzati dal sottoscritto, anche quando vanno a sovrastare brutalmente la voce di Moffat; un live nel quale le contaminazioni post dei Nostri si apprezzano ancora più che da disco, un live nel quale, se ce ne fosse ancora bisogno, si  riesce a carpire e capire l’unicità di una band che ha saputo fondere in sé riferimenti musicali così diversi e rielaborali in un suono che alla fine è solo loro.

La chiusa è di quelle da strapparti il cuore dal petto e farne pezzetti, una The Shy Retirer in versione acustica, chitarra e voce, di abbacinante bellezza, nonostante le fioche luci che in quel momento illuminano Aidan a Malcolm.

Sleep is not an option tonight.

 

Alberto Adustini

foto di Francesca Garattoni e Massimiliano Mattiello

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”25390″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”25385″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”25393″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”25383″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”25392″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”25387″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”25384″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column width=”1/3″][vc_single_image image=”25388″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][vc_column width=”1/3″][vc_single_image image=”25391″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][vc_column width=”1/3″][vc_single_image image=”25386″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”25395″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1551661546735{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”25389″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”25394″ img_size=”full” alignment=”center”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a DNA Concerti e Astarte Agency[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Greg Puciato “Mirrorcell” (Federal Prisoner, 2022)

C’è stato un periodo nel quale mi divertivo a trovare ricorrenze, coincidenze, corrispondenze tra musica e numeri. Il 6, il 17, il 3. Se si inizia a scavare, a fare collegamenti, si costruiscono delle storie pazzesche.

Come quella volta nel 2017 quando sarei dovuto andare a vedere il concerto d’addio dei Dillinger Escape Plan a Bologna, live che saltò per un incidente occorso alla band in Polonia. La data venne poi recuperata cinque mesi dopo, l’1 luglio, ma senza di me, perchè il caso volle che fossi ad un matrimonio di amici, che si sarebbero poi separati nell’arco di poche settimane.

Ma questa è un’altra storia.

A cinque anni da quel, per me, nefasto giorno, esce a cercare di rimarginare una ferita ancora aperta, il nuovo disco di Greg Puciato, frontman di quella che, per esperienza personale, è stata la più grande live band che mi son fregiato di vedere dal vivo, i Dillinger Escape Plan.

Da quel tour d’addio Puciato si è dato molto da fare, tra un altro disco solista del 2020, i Black Queen, i Killer Be Killed, è diventato anche il chitarrista di Jerry Cantrell, esatto quello degli Alice In Chains.

E sapete una cosa? In questo Mirrorcell siamo decisamente più in zona grunge che in zona math-core e dintorni.

Già il riffone di Reality Spiral, Rainbows Underground, la batteria e le seconde voci di No More Lives To Go odorano di Seattle, anche se quando il nostro nel finale di quest’ultima decide di accelerare tornano a fare capolino reminiscenze di quindici e più anni con quell’arma di distruzione di massa altresì nota come DEP.

Never Wanted That potrebbe essere ascritta nel novero delle “ballad”, la successiva Lowered 1644 (che ospita la cantante dei Code Orange Reba Meyers) è quasi radiofonica, e non a caso è stata scelta come singolo di promozione del disco), mentre nella successiva We entra prepotente anche l’elettronica. 

È la fase più compassata, contenuta, per certi versi srtaniante/spiazzante del disco, nel quale emerge forte il gran bel finale di I Eclipse.

Tuttavia è in fondo che il disco ci consegna il pezzone,nella conclusiva All Waves To Nothing, quasi nove minuti ora spettrali, ora incalzanti, ora emo (lo potevo dire?), il travolgente finale in coda.

Mirrorcell ci consegna una versione di Puciato meno estrema, spigolosa, anche rispetto al precedente Child Soldier: Creator of God, maggiormente rivolto alla forma canzone, alla melodia per certi versi, come se volesse mostrarci di sapere fare molto altro, oltre ad aver invaso i nostri peggiori incubi per molto tempo.

Ma noi questo lo sapevamo già.

 

Greg Puciato

Mirrorcell

Federal Prisoner

 

Alberto Adustini

Cat Power @ Sexto ‘Nplugged

Quella che segue sarà un’introduzione questionabile, opinabile, necessaria? Chi può dirlo, specie prima di averla letta. Ad ogni modo se a naso siete di questo avviso saltate al prossimo capoverso (grossomodo a “ieri”) e nessuno si farà male.

Dicevamo.

Il modo in cui il nostro – mio in questo caso – parere venga continuamente condizionato da giudizi esterni, estemporanei, spesso arbitrari e parziali è sintomatico di come oramai basti un nonnulla per minare certezze solide e apparentemente inscalfibili, in ambito musicale certo ma non solo. Un tweet, una recensione, un parere di qualcuno a noi vicino o caro e strack (non mi viene in mente l’onomatopea più adatta per esprimere il venir meno o il vacillare di un parere) crolla tutto. Cioè sto parlando per me ma credo che il ragionamento possa essere piuttosto trasversale e diffuso.

Un esempio (e contestuale fine introduzione).

Ieri sera (martedì 21 giugno per la precisione) mi stavo dirigendo verso la mia adorata Sesto al Reghena per la serata d’apertura dell’edizione 2022 di Sexto N’plugged, che senza timore di smentita, considerata location (non per niente il claim è “quando il luogo determina la musica”) e line up (Arab Strap, Black Midi, Agnes Obel, per dire), si posiziona se non al primo ma sul podio dei festival italiani, con buona pace dei “Capoluogodiregione rocks” sparsi qui e lì. 

Dicevo, in autostrada, al posto di essere impaziente e super eccitato per l’imminente concerto di sua maestà Cat Power, in me albergavano pensieri quali “auguriamoci sia in serata”, “chissà che abbia voglia”, “speriamo bene”. Voglio dire, stai per vedere quella che è probabilmente la più importante cantautrice americana – e non – degli ultimi trent’anni e dubiti. Valla a capire la psiche umana…

È comunque tempo di iniziare, si son fatte le nove da qualche minuto, e chitarra in spalla facciamo la conoscenza di Arsun, giovanissimo cantautore newyorkese che propone un folk/blues che deve tanto al primo Dylan e che come timbro, venendo ai contemporanei, ricorda qua e là The Tallest Man On Earth. La sua mezzora comunque si fa ascoltare, il pubblico applaude, lui ci tiene, sincero, ci fa persino lo spelling “se mi dovete cercare su Spotify”.

Il sole è da poco tramontato quando si fa buio sul palco e il terzetto che accompagna Chan Marshall, batteria (che brava Alianna Kalaba!), chitarra e tastiere prende posto. È un’introduzione delicata, quasi languida, le luci soffuse, le prime note di Say che accolgono l’artista di Atlanta, lungo vestito nero e calice di vino rosso in mano, un rapido saluto al pubblico già caldo e si parte per un’ora e mezza di pura estasi. 

Gli stolti dubbi della vigilia sono presto fugati, spazzati via da un’ondata di classe, raffinatezza e bellezza, Chan c’è, danza trasportata dalla musica, è dominante sulla scena, qualche brevissima pausa per sorseggiare il suo vino, un’asciugata veloce al viso, poco spazio alle parole, molto alla musica. La scaletta ovviamente verte principalmente sull’esecuzione delle tracce contenute nel recente Covers, anche se nella resa live quelle che già erano, appunto, cover, vengono riarrangiate, così ecco che A Pair Of Brown Eyes risulta meno “sospesa” al pari di una meravigliosa These Days. 

Gli arrangiamenti sono di livello allucinante, la band in più occasioni si cimenta in veri e propri medley, così fanno capolino per alcuni momenti delle quasi irriconoscibili Good Woman, Cross Bones Style o Nude As The News.

Che sia una serata speciale, fuori dall’ordinario, ne abbiamo definitiva prova quando verso il finire del concerto Chan invita tutti ad avvicinarsi sotto il palco “I think it’s legal” scherza, c’è ancora spazio per una mirabile The Greatest, anch’essa piuttosto lontana dalla forma/disco e una conclusione in crescendo con Rockets.

Non ci saranno bis, encore chiamateli come volete, nella penombra entro la quale è rimasta per tutto il tempo Cat Power abbandona il palco, sotto gli sguardi fissi di una platea adorante. Mi riaccomodo brevemente sul mio posto, soddisfatto, felice, e con un marginale ma non trascurabile senso di colpa e al pari di San Pietro mi aspetto da un momento all’altro che arrivi il Gesù della situazione ad ammonirmi “Uomo di poca fede, perchè hai dubitato!”, al che credo avrei risposto con Freak Antoni “È importante avere dubbi! Solo gli stupidi non ne hanno, e su questo non ho dubbi!”

 

Alberto Adustini

Foto di copertina: Massimiliano Mattiello

 

Grazie ad Astarte

Pulgasari, il festival mostro contro le angherie del potere (culturale)

Qualcosa si muove, lentamente e con tutta la prudenza del caso, ma è innegabile che all’orizzonte via sia un ritorno alla normalità. I grandi festival hanno annunciato da mesi le line up, i grandi nomi roboanti pian piano tornando ad animare i vari main stage, ma parallelamente anche le realtà minori (per una mera questione numerica – ed economica, OK) stanno tentando di rimettere la testa fuori.
Tra i vari annunci degli ultimi mesi ci ha fatto piacere ritrovare, dopo alcuni anni di stop forzato, Pulgasari, festival trevigiano organizzato da Three Blackbirds che abbraccia trasversalmente diverse discipline e che il prossimo 7 Maggio, all’interno del fidato CSO Django, proporrà un programma denso e di indubbia qualità.
Abbiamo raggiunto Stefano Pettenon, uno degli organizzatori, per farci raccontare qualcosa di più.Ciao Stefano, intanto bentrovato e partirei subito chiedendoti quando nasce Pulgasari.

“Pulgasari nasce nel 2018 con la prima edizione, che per inciso andò decisamente bene in quanto superammo abbondantemente, con molta sorpresa, i mille ingressi nella giornata, con l’intento di unire alcune realtà del territorio. All’interno del festival trovano spazio realtà e arti tra le più diverse. Per dire, continua la collaborazione con Treviso Comic Book Festival, che presenterà due novità, The Notorius B.I.G. – Il Cielo È il Limite e Ligabue – Sogni di Rock’n’Roll e proporrà un mercato dei fumetti e autoproduzioni. Quest’anno aggiungiamo o meglio dire ritorna il meeting delle etichette indipendenti, principalmente venete, con un un’unica eccezione che è i Dischi di Plastica, l’etichetta de I Camillas, perchè avremo gradito ospite Vittorio Ondedei de I Camillas che viene a presentare il libro I Camillas, che Storia, e si esibirà poi in concerto chitarra e voce.”

 

Visto che ne stiamo parlando quali saranno gli eventi live in programma?

“Allora, nel pomeriggio si esibiranno Bad Pritt, Vittorio Ondedei, poi Toni Bruna e in chiusura i Bachi da Pietra. Il programma comunque come dicevo è assolutamente trasversale: avremo un mercato del vino naturale, un mercatino del riuso, ci sarà poi uno spazio artistico, dove esibiranno la propria arte nomi come Eeviac, autore delle copertine di Iosonouncane, Zu, Xiu Xiu, Bologna Violenta per dirne alcuni, Antonio Motta che esporrà le sue maschere e Laura Marini, specializzata in cianotipie. La principale novità di quest’edizione comunque è il torneo di Risiko. In tutta sincerità confesso che non avevo la minima idea che la cosa fosse così estesa e partecipata. L’iscrizione è ovviamente aperta a tutti.”

 

Prima di chiudere te lo devo chiedere: perchè Pulgasari?

Pulgasari è il titolo di un film di un regista nel quale un mostro (una sorta di Godzilla presente nella cultura nord coreana) aiuta la popolazione a ribellarsi alle angherie del potere. La popolarità del film è dovuta principalmente alle vicende legate al regista ed alla moglie, fatti rapire dall’allora Ministro della Propaganda nord coreana (Kim Jong-Il, figlio di Kim II-Sung), per realizzare alcuni lungometraggi di propaganda, tra i quali proprio Pulgasari, ritenuto il capolavoro di Shin Sangok. Ci piaceva l’immagine di questo villaggio nel quale cultura e le arti intervengono a salvare il popolo da un periodo nefasto, culturalmente parlando.”

 

Beh, direi che l’immagine rende ampiamente l’idea. Ascolta, e come Three Blackbirds siete impegnati parallelamente anche in altro?

“Allora sì, stiamo riprendendo in mano Arezzo Wave, e ti dirò che siamo rimasti molto sorpresi perchè abbiamo avuto davvero molte iscrizioni, segno che si spera, dopo alcuni anni di flessione, non dovuta solo al COVID, i giovani stanno riprendendo in mano gli strumenti e sta tornando la voglia di suonare “in saletta”. Chissà che non siano anche questi nuovi piccoli segnali di ripresa. Questa volta definitiva.”

 

Alberto Adustini

Roy Bianco & Die Abbrunzati Boys “Mille Grazie” (Electrola Records, 2022)

Voi vi dovete fidare di me, mi dovete credere. 

Non sono impazzito a tal punto dal ritrovarmi ad ascoltare in cuffia “Eines weiß ich genau, meine Stadt liegt im Blau / Träum mit mir diesen Traum, denn mein Herz schlägt Azzurro / In Bella, Bella Napoli” alle 23.01 di un mercoledì sera di metà aprile senza un valido motivo. 

Io ce l’ho il motivo, anzi, ne ho tredici, quanti sono i capitoli che compongono l’ultimo disco di (o dei a seconda)  Roy Bianco & Die Abbrunzati Boys.

C’è talmente tanta roba in questo Grazie Mille che non so da dove iniziare… vi basti sapere che quello che spero già avete tra le mani o in cuffia è in cima ai dischi più ascoltati in Germania (anzi, è proprio il primo, davanti ai Red Hot Chili Peppers che vabbè già da Californication non hanno più molto senso di esistere ma non voglio far discussioni quindi fate finta che non abbia scritto niente anzi lo metto barrato così tagliamo la testa al toro). Ebbene sì, in quelle lande spopola l’Italo-Schlager, che altro non sarebbe  che quel pesudo pop che andava molto dalle nostre parti negli anni ’80 e ’90 (Tozzi, Ricchi e Poveri e compagnia), solamente che i testi sono in tedesco con degli arbitrari e non di rado insensati inserti in lingua italiana, che a mio avviso rendono l’ascolto assolutamente imprescindibile per chiunque abbia piacere a dilapidare parte del proprio tempo in artefatti di dubbio gusto.

Ho visto una mezza dozzina di volte Troppo Belli, conosco intere parti di Alex l’Ariete, mi sono commosso rivedendo Jo Donatello al porto nel magnifico Grazie Padre Pio, come avrei potuto resistere ad un disco che può annoverare un brano, Amore sul Mare, che evoca ricordi di amori estivi passati, “Amore sul mare / Senza problemi passati / Non cerchiamo più / Ci siamo perde nel blu”, probabilmente la risposta tedesca alla nostra Una Rotonda sul Mare.

Ma c’è molto di più, ci sono molte altre risposte, come quella ai Kratfwerk di Autobahn in Brennerautobahn, ai Popol Vuh di Hosianna Mantra con Sic Transit Gloria Mundi. Ce n’è anche per i nostri musicisti, che non crediate: se pensavate che gli Afterhours con il loro P***o C****o in apertura a 1.9.9.6. o i Nobraino che in Ballata Stocastica piazzano un P****o D** senza possibilità d’interpretazione avessero osato l’inosabile, preparatevi ad ascoltare nel bridge di in Giro un “Madonna velocità, oh bitte, bitte für mich”. E qui metteteci la gif del mic drop di Bryan Cranston. 

Sprizz ha tutta l’aria di essere un rivisitazione, quando non proprio una citazione in musica, del celeberrimo singolo di Lil Angel$ feat. Gioker & Ben.J, ovvero Estate, mentre Quanto Costa, ecco qui sono un po’ in difficoltà, cioè “Was kostet Amore? Quanto costa die Liebe zu dir?” (Quanto costa l’amore? Quanto costa amore per te?), mi sfugge un po’ il senso, il messaggio di fondo, per cui lascio il quesito aperto, che forse era anche il desiderio di Roy Bianco e i suoi sodali. Ai quali, banalmente ma nella maniera più sincera possibile, non posso che dire, con un chiasmo finale che almeno insomma faccio vedere che ho fatto il liceo per qualcosa, Grazie Mille.

 

Roy Bianco & Die Abbrunzati Boys

Mille Grazie

Electrola Records

 

 

Alberto Adustini

Marnero @ Teatro del Baraccano

[vc_row][vc_column][vc_column_text]

• Marnero •

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]

 

Teatro del Baraccano (Bologna) // 01 Febbraio 2022

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_empty_space][vc_column_text]Non giriamoci tanto intorno, via; le aspettative erano alte, l’hype attorno all’evento non trascurabile, anzi, biglietti bruciati in pochi minuti, teatro gremito in ogni ordine di posti, l’attesa per scoprire la scenografia e i visual, le indiscrezioni, gli ospiti a sorpresa, rumours che hanno animato queste settimane di avvicinamento a quello che, a conti fatti e senza timore di smentita, è stato il principale evento musicale accaduto, quantomeno in Italia (che la prudenza non è mai troppa) in questo freddo martedì di inizio febbraio: i Marnero in concerto a Bologna al Teatro del Baraccano.

I Marnero, il cui nome, coincidenza vuole abbia lo stesso numero di lettere e le vocali nella corretta sequenza di una nota cittadina costiera in provincia di Imperia, proporranno a poche decine di fortunati, selezionatissimi e soprattutto buongustai spettatori, l’esecuzione integrale di quello che è, a mio insindacabile giudizio, uno dei dischi usciti in Italia più importanti e belli degli ultimi, che ne so, facciamo venti, trent’anni? Un disco che io e il resto degli astanti, come mi sarebbe poi parso di capire dalle reazioni in sala, conosciamo a memoria, parola per parola, nota per nota; quei 31 minuti sono un sentiero, forse meglio un vortice, una spirale, nella quale smaniamo di addentrarci quanto prima. Un disco di mare, del tempo, non necessariamente atmosferico, di navi, di rotte, del perdersi; signore e signori, ecco a voi Il Sopravvissuto.

L’attacco del disco è una sberla in faccia, un pugno in pieno volto, un muro d’aria che ti sbalza a metri di distanza, l’impianto si satura subito, la voce dell’elegantissimo signor Raudo fatica a trovar spazio tra quel turbinio di distorsioni e fendenti di batteria, ma tanto stiamo già tutti urlando “Io sono il Sopravvissuto, son trino e non uno, son vuoto a metà e non mi aspetta nessuno” che a queste quisquilie diamo poca se non nulla importanza. 

I quattro baldi bardi (?) mostrano, ancora una volta, un affiatamento ed un’alchimia commovente da quanto risulta naturale ed intrinseca, e rapito come sono da quanto avviene sul palco, nel mentre attaccano gli inconfondibili violini di Non Sono Più Il Ghepardo di Una Volta, lo sguardo sale di qualche metro sulle immagini (ah, i visual di cui tanto si vociferava!) che scorrono sul fondale – non marino – giusto in tempo per intravedere, da lì in avanti, un individuo malmenare un malcapitato volatile, scorgere delle navi naufragare od in alternativa andare a fuoco (che io debba quindi intuire che sia giunta l’ora, chiedo eh…), vergini in bianca veste dalla bocca grondante sangue, lupi (ah, quanti lupi! sono loro i veri protagonisti della serata sia chiaro) un Cristo crocifisso sulla spiaggia, cadaveri presumo reduci di qualche cruenta battaglia, ed altre simpaticissime immagini che potrete rivedere nei prossimi giorni su Rai Gulp o Cartoonito.

(Che Non Sono Mai Stato) ci porta verso uno dei momenti più alti della serata, ovvero quel Il Porto Delle Illusioni che ti fa un po’ maledire il dover star seduto a con una mascherina sul viso ma tant’è, come dice nuovamente Raudo, “Scalpitate interiormente” (anche se non son sicuro fosse scalpitare il verbo, ma è il pensiero che conta, qui come altrove).

C’è spazio anche per l’imprescindibile (per una kermesse che aspiri ad essere tale) ospite a sorpresa, quel Francesco Zocca già ospite del disco in questione e poi un altro paio di passaggi video di lupi, un riferimento che non colgo (e che ancora mi rode) a Daniele Bossari, una cravatta legata in fronte, ed è tempo di volgere all’epilogo, virare verso il porto, sotto con Zonguldak, e tutti all’unisono con tutto il fiato che c’è rimasto gridiamo “Sono qui, fermo seduto, sopravvissuto ma stanco morto. Guardo le navi ormai arrugginite nel porto”, mentre con la mano sul telecomando digitiamo in maniera compulsiva 01, il codice per votare i Marnero, vincitori morali del Festival di Niente.

 

Alberto Adustini

Foto: Massimiliano Mattiello
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1560685645808{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”21270″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1560685686606{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”21269″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”21266″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1560685686606{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”21268″ img_size=”full”][/vc_column][vc_column width=”1/2″][vc_single_image image=”21267″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1560685686606{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”21265″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1560685686606{margin-top: 10px !important;margin-bottom: 10px !important;}”][vc_column][vc_single_image image=”21271″ img_size=”full”][/vc_column][/vc_row]

Cat Power “Covers” (Domino, 2022)

Un dubbio mi attanaglia, una domanda sta segnando in maniera profonda questo primo spicchio di 2022: come ci si approccia ad un disco di cover? Con quale spirito lo si deve ascoltare? E dovendo scriverne, con quale metodo lo si deve “analizzare”?
Perchè la fate facile voi, vi vedo, premi play, lo ascolti, di qualche pezzo conosci l’originale, di molti altri no, però alla fine la voce è caratteristica, c’è il taglio personale, bla bla bla.

No, così no.

Questa volta, non so per quale motivo, mi pare necessario non dico rispondere ai quesiti di cui sopra, ma quantomeno por(me)li.

Ho da sempre un rapporto travagliato coi dischi di cover, quelli interamente di cover intendo, forse perchè gli ultimi che avevo ascoltato, a memoria, non mi avevano mai entusiasmato. E non dirò quali.

Alla soglia dei cinquant’anni Chan Marshall ha pubblicato il suo undicesimo disco, il terzo di cover, intitolato enigmaticamente Covers. 

I primi due episodi (posti all’interno di una discografia clamorosa per almeno i primi sei episodi, poi qualcosa è cambiato ma non divaghiamo) risalgono al 2000 e al 2008: The Covers Record è un disco splendido nel quale Cat Power era in piena modalità Re Mida, quando qualsiasi cosa facesse o toccasse diventava oro. Il successivo Jukebox mi aveva convinto e coinvolto di meno, probabilmente, anzi sicuramente perchè inserito nel periodo, inaugurato con The Greatest, che aveva portato l’artista di Atlanta dagli esordi indie rock e molto altro verso territori maggiormente soul-oriented.

E va da sé che questo Covers non si discosta di molto dalla strada intrapresa: arrangiamenti raffinati e misurati, scelte coraggiose e talvolta decisamente riuscite (una su tutte l’apertura con Frank Ocean e la sua Bad Religion) o la sospesa A Pair Of Brown Eyes dei Pogues. Meno centrata quando mette mano al Nick Cave di I Had a Dream, Joe o ancora a quel miracolo chiamato Nico e alla sua magnifica These Days, privata degli archi, leggermente rallentata, per un risultato che non rende onore né all’originale né a Cat stessa.

Per assurdo il disco funziona di più negli episodi che meno sembrerebbero avvicinarsi alle corde della nostra, come in Pa Pa Power o alla Lana Del Ray di White Mustang, quella che pare ormai essere la sua comfort zone.

Alla fine devo far pace con me stesso e autoconvincermi che è ingiusto e probabilmente altrettanto limitante sperare e augurarsi che qualcuno rimanga sempre fedele e uguale a se stesso. Questo è. 

Per tornare alle domande iniziali quindi, se prendiamo questo Covers come l’undicesimo disco di Cat Power possiamo tranquillamente inserirlo nel solco della continuità e del sentiero intrapreso, un disco che nulla toglie e nulla aggiunge ad una discografia che si mantiene ancora molto più che eccellente; spulciando invece un po’ più nel dettaglio, brano per brano, ci sono degli inciampi che si potevano evitare, che fanno da contraltare ad episodi che ci ricordano che siamo pur sempre al cospetto di una delle più grandi cantautrici degli ultimi trent’anni, qui alle prese con un disco che nulla toglie e nulla aggiunge ad una discografia che si mantiene ancora molto più che eccellente. 

Qualora il concetto non fosse ancora chiaro.

Intanto vado a mettermi su What Would The Community Think.

 

Cat Power

Covers

Domino

 

Alberto Adustini

VEZ5_2021: Alberto Adustini

Quando l’anno scorso avevamo pensato alle VEZ5, l’avevamo fatto perché ci sembrava un buon modo per tirare le nostre personali somme musicali dopo un anno particolare in cui la musica era stata contemporaneamente conforto e nostalgia. Per quanto non abbia raggiunto gli stessi livelli — anche se ci ha provato — il 2021 si è mantenuto un po’ sulla stessa scia del suo predecessore, quindi eccoci di nuovo qua, anche quest’anno, a tirare le nostre fila nella speranza di riuscire a tornare il prima possibile e in modo più normale possibile sotto un palco.

 

Springtime Springtime

Il mio disco del 2021 è uscito quasi sul suono della sirena. Un terzetto d’assi che ha sfornato una piccola gemma che spazia dal cantautorato all’improvvisazione, con tinte darkeggianti e infinite pennellate di genio.

Traccia da non perdere: Will to Power

 

Julien Baker Little Oblivions

Dare un seguito a quella meraviglia chiamata Turn Out The Lights non era affatto semplice, ma Julien Baker ha la stoffa delle grandissime. Provare per credere questo nuovo Little Oblivions.

Traccia da non perdere: Song in E

 

Black Country, New Road For the First Time

Ok potrebbero ricordare Spiderland, e allora? Che c’è di male nel prendere ispirazione dal miglior disco della storia del rock?

Traccia da non perdere: Opus

 

Godspeed You! Black Emperor G_d’s Pee AT STATE’S END!

Impossibile trovare un disco brutto nella discografia della band canadese, ma qui torniamo ai livelli di eccellenza che forse mancavano dai tempi di Lift.

Traccia da non perdere: First of the Last Glaciers

 

Dry Cleaning New Long Leg

La mia quota post punk per quest’anno è tutta loro. Disco spettacolare.

Traccia da non perdere: Unsmart Lady

 

Honorable mentions 

Little Simz Sometimes I Might Be Introvert – Infatuato della signorina Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo da quando rimasi folgorato da una sua versione di Venom, a sto giro alza vertiginosamente l’asticella. Disco monumentale.

Iosonouncane IRA – Pochi dischi suonano così, mi spiace dirlo. In cuffia Ira è un’esperienza sensazionale.

 

Alberto Adustini

Pan American @ Tipoteca Italiana

Tundra, Paesaggi Sonori Contemporanei
Cornuda (TV) // 19 Novembre 2021

 

Pan American: un viaggio ad occhi chiusi

Non credo sia ancora stato fatto, almeno non che io sappia, e sta di fatto che al momento non ho voglia di cercare e magari smentirmi, tuttavia credo che qualche giornalista, scrittore, critico musicale, dovrebbe prima o poi scrivere una sorta di apologia per “coloro che chiudono gli occhi durante i concerti (ma non stanno dormendo)”.

Ieri sera, circondata da una leggera nebbiolina padana, la Tipoteca di Cornuda (primo inciso, luogo che meriterebbe una visita, quando incidentalmente doveste passare da quelle parti) ha ospitato, grazie a quegli impavidi di Lynfa, la prima data del mini tour italiano di Pan American (l’indomani sarebbe stata la volta di Jerusalem in My Heart, e sfido chiunque a trovare una doppietta più azzeccata per un festival che s’intitola Tundra – Paesaggi Sonori Contemporanei), il progetto solista di Mark Nelson, già chitarra e voce dei Labradford, ai quali il sottoscritto sarà eternamente grato.

Ero già stato in Tipoteca, almeno un paio di volte, per Chris Brokaw e Julia Kent se non erro, e il piccolo auditorium va pian piano riempendosi quando poco dopo le 21.30 il nostro guadagna il centro del palco, un timido (ma timido timido davvero) saluto al microfono un po’ in italiano, un po’ in inglese, e imbracciata la chitarra le prime note iniziano a diffondersi nell’aria.

Ora, il cappello iniziale non era buttato lì a caso, ma era un pensiero che ho elaborato mentalmente durante buona parte dello svolgimento del primo brano in scaletta, che in realtà trattavasi più di una suite lunga quasi mezz’ora, fatta di synth e arpeggi di chitarra, dilatati, languidi, dove verso la metà fa capolino anche la magnifica Memphis Helena, tratta dall’ultimo disco a nome Pan American, A Son con un sussurrato “I′m away from home / I’m away from home in time / We left it all behind”.

Non c’è illuminazione sul palco, la poca luce che si diffonde sulla scena è data dalla proiezione di una serie di video (riprese dal treno o da un auto durante una pioggia, semafori, palazzoni, campi di girasole, riprese subacquee da una piscina pubblica e a parere dello scrivente non così centrali e funzionali alla narrazione, ma si tratta di certo di un mio limite), e Mark Nelson, escluse la rare volte nelle quali si affaccia dalle parti del microfono, è spesso chino o davanti al laptop o accucciato ad armeggiare con i multieffetti della pedaliera, ed è chiaro che il messaggio che mi sta rivolgendo è “non c’è niente da vedere qui, dirigi il tuo sguardo altrove”; però con tutto il rispetto, non siamo all’interno di una sala rinascimentale rivestita di affreschi e decorazioni, il pur confortevole auditorium offre bianche pareti e lucido legno moderno, è chiaro che il viaggio da fare è più astratto, spirituale direi, e quale modo migliore per farlo che chiudendo gli occhi e abbandonandovisi.

Ed è quello che faccio.

Per oltre un’ora mi lascio condurre e trasportare, il concerto scivola via sorprendentemente veloce, nonostante la musica di Pan American sia lenta, minimale, impercettibile a volte, sfuggevole, dall’andamento e dalla struttura spesso simile eppure mi trovo a pensare che sebbene io abbia l’impressione di ascoltare sempre lo stesso pezzo mi trovi ogni volta in posti diversi, ugualmente affascinanti.

Ed in effetti in vita mia non sono mai stato tanto a nord, la tundra per me è solo una reminiscenza scolastica “tundra, taiga, muschi e licheni” e mi avvio verso casa, la nebbia di prima è ancora lì ad aspettarmi, d’altronde mi pare si sposi bene col contesto generale. 

Am I away from home?

 

Alberto Adustini

Springtime “Springtime” (Joyful Noise Recordings, 2021)

Vi siete mai sentiti inadatti, insufficienti, inadeguati, non-abbastanza-capaci-per, quasi inermi?

Avete mai provato quella sensazione di sconforto misto ad ammirazione che si tramuta poi in stupore e meraviglia tanto da farvi dimenticare lo sconforto iniziale?

Ad esempio io ricordo con molta nitidezza di aver avuto un’esperienza simile ad un concerto dei Sonic Youth, a Bolzano, in un’ex acciaieria (com’era quella questione del luogo che determina la musica ecc…); al tempo ancora suonavo (tentavo miseramente diciamo, e senza alcuna velleità per altro) e ricordo che quella sera ero in prima fila, proprio in transenna, e dopo meno di un giro di lancette di Lee Ranaldo che, con una bacchetta della batteria infilata tra le corde della chitarra, mi stava facendo sentire suoni, rumori, note, qualcosa che comunque non avevo mai sentito prima, mi girai verso un amico dicendo qualcosa del tipo “ma cosa suoniamo a fare se c’è chi lo fa così”. Poi questo passa, il concerto prosegue, accadono cose, si susseguono brani, e finisci per sentirti la persona più fortunata al mondo ad aver assistito a un tale evento e dimentichi lo scoramento di un paio d’ore prima.

Ecco, tutto sto preambolo per dire cosa? Che ascoltando Springtime, il nuovo primo fresco di stampa disco degli Springtime, ho avuto un’esperienza similare anche se con uno sviluppo opposto. Da un’iniziale stato di beatitudine durante l’ascolto si è fatto avanti un sentimento di inadeguatezza pensando al momento in cui mi sarei trovato di fronte ad un foglio per scriverne.

Allora mi son detto che la scelta migliore in queste occasioni è quella di rendere un servizio, una sorta di raccomandazione, un consiglio vivamente sentito: se vi fidate del sottoscritto e dei suoi gusti e del suo parere, fatevi un regalo enorme ed ascoltate allo sfinimento quello che potrebbe, a circa cinquanta giorni dalla fine di questo 2021, quindi candidatura molto forte e autorevole, il disco dell’anno.

Gli Springtime sono una band formata da poco, sono un trio, ma in realtà si tratta di una specie di dream team, tipo quando in qualche videogioco sportivo formi la tua squadra coi tuoi giocatori preferiti: quel genio mai abbastanza considerato di Gareth Liddiard dei The Drones, sua maestà Jim White, che mi rifiuto di dover presentare, e Chris Abrahams, pianista di lungo corso coi The Necks (e molto molto molto altro), terzetto avanguardistico sperimentale in qualche modo accostabile al jazz.

Il risultato va dal meraviglioso al clamoroso, e il giudizio si sposta dal primo al secondo termine a seconda di quanti ascolti siate al momento riusciti a dare a questi 46 minuti (io ho abbondantemente superato i dieci per dire, e non tende a stancarmi e a propormi sempre nuovi spunti e nuove chicche), e risulta almeno al sottoscritto davvero difficile trovare un momento che stacchi sul resto, sia in positivo che in negativo; c’è così tanta bellezza in questo Springtime, dall’iniziale Will To Power (che a me ricorda tanto un Nick Cave pre Skeleton Tree che canta coi The Black Heart Procession) alla pazzesca cover live di Will Oldham, all’epoca ancora Palace Music (West Palm Beach), all’improvvisazione di The Island, che da pochi accordi di hammond di Abraham cambia pelle più e più volte, sorprendendo di continuo.

Ci sarebbero così tante altre cose da dire, dai contributi ai testi del poeta Ian Duhig, alla dichiarazione d’amore verso il disco di David Yow, a questa sottotrama da Murder Ballads che si espande un po’ ovunque, che l’unica cosa a cui riesco a pensare al momento è “quanto potrebbe essere indimenticabile sentire The Killing of the Village Idiot dal vivo”?

 

Springtime

Springtime

Joyful Noise Recordings

 

Alberto Adustini

Onceweresixty “The Flood” (Beautiful Losers, 2021)

Ce l’avete presente l’espressione latina nomen omen, che tra le diverse accezioni ha pure quella, semplificando, di significare “di nome e di fatto”. 

Faccio un esempio, in ambito musicale, un gruppo come gli Obituary non mi aspetto facciano dream pop, o che le Lollipop facciano grind core. Vero che ci sono le eccezioni e i “false friend”, come quella volta che scoprii che morbid in inglese non significava morbido/soffice e che quindi i Morbid Angel non erano una band Christian Pop, però la prima volta che ho cliccato play per ascoltare il nuovo, primo disco dei vicentini Onceweresixty, tutto mi immaginavo tranne quello che in realtà poi avrei sentito.

Aggiungerei che è un nome che potrebbe anche sembrare uno di quei moniker che spesso gli artisti utilizzano, tipo Apparat, o Caribou, ma sta di fatto che questi Onceweresixty, terzetto di Vicenza come si diceva sopra, hanno sfornato una chicca niente male con questo The Flood. Nove tracce per mezz’ora scarsa che si sviluppa in un territorio non ben definito nè tantomeno definibile, e la meraviglia che si prova ogni tanto quando non si riesce in poco tempo a rispondere all’orribile domanda “che genere fanno?”.

Ci sono gli anni ’60 ovviamente, sia quelli dei Velvet Underground (la chitarra di All I Want sembra volerne rendere omaggio), sia l’immediatezza melodica dei Beach Boys, filtrata dalle fantasiose e strambe visioni di Panda Bear (Six Six Sixty), lo spleen di Summer e la tenebrosa Delivery Boy. The Flood è stato registrato praticamente in presa diretta, senza passare per post produzioni e questo aspetto rende questo lavoro ancora più autentico e vero (si prenda il finale della title track ad esempio, dove l’attitudine lo-fi si palesa con maggior forza) e anzi, aiuta i brani ad emergere nella loro purezza e genuinità. Il finale clamoroso/rumoroso di Antipopsong è la classica ciliegina, tre minuti (che se fossero stati anche di più non mi sarebbe dispiaciuto ma vabbè) che definire catartici è riduttivo e che mi lasciano la certezza di una delle uscite italiane più interessanti che abbia sentito negli ultimi tempi.

 

Onceweresixty 

The Flood

Beautiful Losers/Uglydog Records 

 

Alberto Adustini

An Early Bird “Diviner” (Greywood Records, 2021)

Io soffro il caldo. Terribilmente.

Il mio grande maestro Bruno Martino nel 1960 mi toglieva le parole di bocca, “Odio l’estate / Tornerà un altro inverno“, perchè ricorrendo al classico sistema della colonna dei pro e dei contro, il risultato è sempre una vittoria in trasferta, con almeno un paio di gol di scarto. Forse, ma dico forse, in un altro periodo dell’anno meno ostile potrei persino, ma azzardo, ad arrivare a sopportare la sabbia tra le dita dei piedi.

Ebbene, in questo torrido giugno, di fronte al mio PC, a qualche giorno di distanza dalle vacanze, mentre vedo fuori dalla finestra i ciuffi d’erba del giardino che lentamente perdono il vigore ed il verde di qualche settimana fa in luogo di un assai meno invitante giallo paglierino – oddio mi sa che mi sono infilato in un cul de sac, tipo il monologo iniziale de Il Grande Lebowski – ebbene mi sento assolutamente beato e leggero. Vuoi perchè il condizionatore è acceso e le finestre chiuse, vuoi perchè ho in cuffia il nuovo disco di An Early Bird. Liberissimi di ritenere che il mio benessere sia in maggior parte dovuto al climatizzatore (non credo riuscirei a convicer(mi)vi del contrario, ma Diviner è un gran bel disco. 

Pubblicato  dalla berlinese Greywood Records, il progetto solista di Stefano De Stefano è probabilmente il suo lavoro migliore, per completezza, per gusto, un paio di brani meravigliosi (la conclusiva Angela e Fishes In The Ocean su tutti), arrangiamenti mirati, mai troppo invadenti o affettati a rispettare la leggerezza e la dolcezza del timbro vocale del cantautore napoletano.

Diviner, rabdomante in inglese, trasmette una serenità ed un piacere difficilmente descrivibili, come la già citata Fishes In The Ocean, che ammicca appena al Bon Iver di Holocene, o Iron & Wine che si palesa nel folk intimo di Prayers In A Temple. Queste sono alcune delle coordinate che si possono trovare lungo queste dieci tracce, che non risulta tuttavia scontato o (non userò il termine derivativo) derivativo, anzi. L’incedere innocente di Bad Timing, qualche incursione più pop (Holding Onto Hope, Go All Out, Mullholland Drive), e l’impressione nitida di essere di fronte ad un disco che cresce, ascolto dopo ascolto.

Caldamente (LOL) consigliato.

 

An Early Bird

Diviner

Greywood Records

 

Alberto Adustini