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Tag: alberto adustini

Anna Calvi “Hunted” (Domino Recording Company, 2020)

Ma perché, mi chiedo io, perché? Hai fatto un disco pazzesco, uno dei miei preferiti del 2018, e decidi di riprenderlo in mano, riarrangiarlo, e pubblicarlo e nemmeno due anni di distanza…

Perché?

Vediamo, forse perché se ti chiami Anna Calvi ne verrà comunque fuori un gran disco. E se decidi di avere anche compagnia, beh, ancora meglio. 

Scrivere di questo Hunted, avendo nei mesi scorsi consumato il fratello maggiore Hunter mi fa strano, lo ammetto, e partivo un po’ prevenuto. Come spesso mi accade per le ristampe, edizioni deluxe, remasterd, unplugged e via discorrendo. Sono snob. O qualcosa di simile, lo so.

Poi però i fatti amano sorprenderti, anzi, sbatterti in faccia la realtà e dimostrarti una volta di più che certi preconcetti, certi giudizi avventati e aprioristici sarebbe la volta buona di lasciarseli alle spalle e pensare che non sono solo operazioni commerciali, o riempitivi, tappabuchi, uscite senza pretese in periodi di magra ispirazionale (non sono sicuro dell’esistenza di questo termine, avviso).

Prendiamo proprio Swimming Pool, la prima di queste sette rivisitazioni, che si presenta qui in versione scarnita, spoglia degli archi e degli altri orpelli rispetto alla versione originale, con un semplice arpeggio di chitarra che trova sostegno nel controcanto celestiale di Julia Holter, ora solo coro, ora intermezzo, ora seconda voce. Sono già brividi.

Lo aveva annunciato la Calvi stessa che uno dei motivi principali di questo Hunted era, nelle sue intenzioni, quello di riportare questi brani alla loro forma archetipale, un ritorno all’essenza per così dire.

Per una Swimming Pool resa celestiale dal duetto con la Holter, una Hunter nella quale Anna torna ad arrangiarsi, regalandoci una versione più disturbante e notturna ed una successiva Eden che, devo ammetterlo, preferisco qui che su Hunter; saranno i bisbigli di Charlotte Gainsbourg, sarà l’ipnotico finale, non lo so, ma questa è poesia. Alta. Punto.

Away è così ridotta all’essenziale che per lunghi tratti sembra quasi a cappella, con la voce riverberata, una chitarra acustica che compare, si allontana, torna a far capolino, per accompagnarci dolcemente, con garbo, lontano.

Se mi avessero chiesto prima “Abbiamo qui Courtney Barnett, che dici? Quale canzone potremmo farle fare in duetto con Anna?” avrei risposto senza indugio Don’t Beat The Girl Out Of My Boy. Ed infatti. Una chitarra, elettrica il giusto, per una versione che sarebbe stata bene addosso alla PJ Harvey del periodo Dry/To Bring You My Love, un po’ acida, un po’ sporca, un po’ cattiva. Brutta no.

Wish era invece quella che aveva attirato più della altre la mia curiosità, non foss’altro per la presenza, ingombrante, inutile negarlo, di Joe Talbot, voce degli Idles (per i quali confesso avere una grande simpatia. E profondo rispetto. Mi piacciono in parole povere). E nemmeno sta volta riesco a rimanere neppure un pizzico deluso. O indifferente. No. Parte quasi bofonchiando, Joe, ma neanche trenta secondi e ci pare di essere quasi in piena no wave newyorkese, con echi nemmeno troppo lontani di Alan Vega e dei suoi sbalzi umorali improvvisi, infatti d’un tratto ecco il dolce duetto, quasi sognante, ma dura poco, poi è di nuovo ossessivo il riff principale, dal quale emergono fendenti di chitarra che dai Suicide portano dritti ai Velvet Underground, giusto per non cambiare città. Poi torna la quiete, ci pensa Anna, a riportare la calma, a condurci dolcemente in fondo.

Il finale, gran finale, con Indies or Paradise, mi ha portato a fare un parallelismo istantaneo con un video che ho visto qualche tempo fa, con protagonista un’altra guitar hero, ovvero St. Vincent. In questo video parla dei suoi riff preferiti, quelli che avrebbe voluto scrivere, e via discorrendo. Ad un certo punto, verso la fine, inizia a suonare, chitarra e voce, Fort Six & 2 dei Tool. Recuperatelo e poi ascoltate appunto Indies or Paradise e ditemi se non parlano la stessa lingua. A ste latitudini i 4/4 non si sono mai visti, Anna ci propina un campionario di altissimo livello, sembra andare a braccio, ora canta, ora sussurra, poi bisbiglia, esplode, s’inarca e si accartoccia, fa un po’ quello che le pare. Ed è magnifico.

 

Anna Calvi

Hunted

Domino Recording Company

 

Alberto Adustini

Non Voglio Che Clara “Superspleen Vol. 1” (Dischi Sotterranei, 2020)

Attenzione, maneggiare con cura! Avete tra le mani, o nelle orecchie a seconda, un signor disco, tra i più belli sentiti in questo primo scorcio di 2020, a parer mio.

Superspleen Vol. 1 dei Non Voglio Che Clara è un disco malinconico il giusto, arreso ma non troppo, con picchi di scrittura immaginifici. E mi sto trattenendo. Prendete la conclusiva Altrove/Peugeot, intorno al minuto 2:20: quel cambio di registro, quella virata quasi agnelliana (nel senso di Manuel, non dell’animale), “è un dolore passeggero che si cura col veleno”, il finale che gli Slowdive direbbero well done guys! Da mozzare il fiato. La rimando in loop da settimane.

È un disco dal peso specifico rilevante, è un disco non immediato seppur facilmente fruibile, frutto di un linguaggio ricercato, soppesato, ma non aulico. Per fare un parallelismo stareste leggendo un Erri de Luca, o un Culicchia, non Gesualdo Bufalino ecco. 

Canzoni che sono sguardi, spesso all’indietro, talvolta al presente, di rado al futuro, verbi quasi sempre coniugati al passato, pop d’alta classe, con aperture più radiofoniche, come ne La Croazia o San Lorenzo, o i tempi più dilatati di Ex-Factor, passaggi nei territori dell’indie contemporaneo di Epica Omerica, ma ci sono idee e linfa nuova lungo tutto questo disco, come quando si sdrammatizza ne Il Miracolo o si ammicca agli anni ’80 con La Streisand.

Probabilmente il passaggio focale del disco sta in Liquirizia, che mi piace pensare sia stata posizionata a metà disco proprio per questo, “e il gusto dolce amaro della liquirizia”, è il clima generale che si respira e che permea queste dieci riflessioni, queste dieci diapositive, appese al muro, che Fabio de Min e i suoi sodali, osservano, con il giusto distacco, senza sprofondare nei ricordi, senza lasciare il passo ai rimorsi, ma con una consapevolezza nuova, più fresca, più sincera.

Credo che questo Superspleen vol. 1 sia il classico caso di disco hic et nunc, per quanto mi riguarda, perché i Non Voglio Che Clara mi girano attorno da sempre, come satelliti, ma per questioni orbitali o altro non avevo mai inviato una stazione spaziale a studiarne la composizione (ok ok, la smetto). E sì che di occasioni, voglio dire: i loro primi dischi con l’Aiuola Dischi, quando per me quell’etichetta era quasi esclusivamente Babalot o Arte Molto Buffa, e la loro provenienza geografica, a pochi chilometri da casa mia, e quella scena indipendente con Valentina Dorme, i mitici Es e molte altre band oramai di culto, ma mai una volta che fosse scattato il fatidico colpo di fulmine.

Fino a qualche settimana fa. Ora Superspleen vol. 1 è entrato a pieno regime nelle rotazioni di queste settimane di smart working e forzata reclusione, “E di cantare chissà quando smetterò”, ci si domanda su Superspleen… Ecco, non a breve, per quanto mi riguarda, anche perché prima vorremmo il vol.2.

 

Non Voglio Che Clara

Superspleen Vol. 1

Dischi Sotterranei

 

Alberto Adustini

Califone “Echo Mine” (Jealous Butcher Records, 2020)

Un nuovo album dei Califone è sempre e comunque una splendida notizia.

Provenienti da Chicago e attivi dal 1997 (dopo la dipartita dei sensazionali Red Red Meat), per questo ottavo lavoro sulla lunga distanza, in formazione “a tre”, con Ben Massarella, Brian Deck ed ovviamente sua eminenza Temistocles Hugo Rutili (per gli amici Tim), i Califone ci consegnano un disco che ci ricorda, semmai in questi sette anni di quasi silenzio ci fosse venuto qualche dubbio, che siamo di fronte a dei fuoriclasse. Punto.

Vi basteranno poco più di 60 secondi per concordare con me, un’intro di chitarra, qualche manipolazione, e poi l’inconfondibile incedere califoniano (non manca una erre, sia chiaro), una spruzzatina di slide guitar, quel pseudo blues strascicato, e la voce di Rutili a trascinarsi (e trascinarci) da vent’anni e più. Siamo sempre nei territori cari ad Heron King Blues, ma si sconfina spesso, senza pudore e senza remore, già con il ritmo folle (per gli standard compassati dei nostri, s’intende) di Bandicoot, con sfuriate di Hammond e divagazioni decisamente colorite. 

La successiva, mirabile, Night Gallery/Projector, in maniera del tutto inaspettata ma perfettamente naturale, evolve in un finale quasi “kosmik”, per lasciare il passo alla strumentale Howard St & The Beach Nov 1988 After 11, dove è Ben Massarella e le sue percussioni a tenere la rotta prima di accompagnarsi all’organo verso il finale. Si sperimenta ancora, come in Carlton Says: Find it. It’s Still There con l’apparizione di una registrazione di una voce femminile, o nella minimale Flawed Gtr.

I quasi sette minuti di Echo Mine, il brano che dà il nome al disco, sono tra i più ispirati dell’intero disco, e costituiscono davvero la perfetta fotografia di quello che i Califone rappresentano, l’incedere lento, cadenzato, uno tappeto sonoro ora scarno, ora più intrecciato, la melodia incerta che si intreccia ad intromissioni rumoreggianti, e la voce di Tim a suggellare un piccolo miracolo.

I Califone hanno deciso di tenersi i botti alla fine, pare di capire; Snow Angel V1 è una gemma chitarra e voce, che in certi passaggi mi ricorda i 16 Horsepower di Sackcloth ‘n’ Ashes, con un coro a far capolino e a rendere tutto più struggente. By the Time the Starlight Reaches Our Eyes pare citare certi momenti del Tom Waits di Bone Machine, per poi espandersi e dilatarsi in un lungo crescendo strumentale.

I titoli di coda giungono con Snow Angel V2, versione “elettrica”, chitarra + basso + batteria di Snow Angel V1, che in questa veste diventa quasi una ballad in salsa Califone.

Gran bel disco questo Echo Mine che ci regala dei Califone ancora in piena fase creativa, a rimarcare che l’universo creato da Tim Rutili e compagnia, già sconfinato, è ancora in espansione.

 

Califone

Echo Mine

Jealous Butcher Records

 

Alberto Adustini