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Naftalina “La Fine” (Self Released, 2020)

1999 – 2020 Odissea nel Pop Punk

 

Erano altri tempi. 

Quando prendevi il telecomando e bastava comporre dei numeri sulla tastiera per venir catapultata in un altro mondo. Avendo cugini più grandi (che ringrazio di cuore), il nostro canale preferito era MTV. Non quello che guardate ora. Era tutto diverso. A rotazione, carrellate di videoclip, programmi, live, una meraviglia. Poi il declino. Ma questa è un’altra storia.

Girava un post punk revival melodico, i Green Day, Sum 41, Blink 182, i Fall Out Boy e Jimmy Eat World, erano il nostro pane quotidiano. La sera tardi in programmazione potevi trovare roba più “acida” o “strana” , e noi italiani andavamo forte. Verdena,  Punkreas, Prozac+, Derozer, Porno Riviste e i Succo Marcio. Spaccavamo le classifiche. 

Anche in Italia era arrivato il contagio del pop punk, e per fortuna.

Mi ricordo, però, in particolare di una band, che adoravo, i Naftalina. Erano due ragazzi e una ragazza poco più grandi di me. Li passavano in radio, in tv. Io guardavo la ragazza, Klari (basso e voce) e sognavo di diventare così da grande. Il loro primo album Non Salti Come Me fu un vero successo. Balzarono subito nelle classifiche con il singolo Se, tra tour e ospitate in TV passò un anno, al termine del quale iniziarono a registrare il nuovo album, considerato troppo rock dalla major che nel gruppo ricercava sonorità più pop. Non si sono voluti piegare alla volontà dell’etichetta, quindi il gruppo si sciolse. Nel 2008 riapparirono in una nuova veste e scomparvero di nuovo.

Tornano definitivamente (?) insieme Peter (voce e chitarra) e Klari, nel 2018, e finalmente adesso riusciamo a sentire questo nuovo album La Fine, anticipato dal videoclip di Error 404, parodia di Bitter Sweet Simphony, dove troviamo uno splendido Auroro Borealo nei panni dell’incazzosissimo Richard Ashcroft, solo più sfigato.

Mantengono le loro radici, accordi semplici, chitarre distorte e ritornelli orecchiabili come in Labile, ma i testi sono più ricercati e adulti, per esempio in Distorta parlano delle donne moderne, regine di Instagram, fashion blogger e legate alla vita paradossalmente finta dei social.

La voce melodica di Klari si fonde con quella acida e particolare di Peter, sporcando i brani di un’aura punk e alternativa, ricordando i nostrani Prozac+ o gli internazionali Sonic Youth. Ma le melodie ricadono nel pop punk.

Non mi dirai, forse il pezzo più tosto dell’album, chitarre tiratissime e batterie picchiate ad arte.

La loro crescita si denota dagli argomenti che affrontano, come in Kalief Browder, dove raccontano a loro modo la storia di un ragazzo di colore americano suicidatosi per le violenze e le angherie subite all’interno del carcere (gli ultimi minuti della canzone sono un’intervista allo stesso).

Nel album è presente anche un brano più soft (ma solo a livello musicale), Sopra di me, che parla di perdita e solitudine, in un ambient più malinconico.

La voce di Peter, in Nostrand Avenue è quasi ingenua e innamorata, per scoppiare in chitarre aspre e batterie ritmate, la presenza della tastiera e delle trombe lo rende il pezzo più pop dell’album.

Dopo 20 anni tornano, con le stesse sonorità da garage band che li ha portati al successo, ma con testi più motivati e profondi.

Per tutti quelli che hanno visto la propria adolescenza in toni pop punk sarà un ritorno al passato con la coscienza da adulto.

Per quelli che non hanno vissuto questo periodo, sarà una bella scoperta.

E mentre ci godiamo La Fine, aspettiamo già il prossimo album.

 

Naftalina

La Fine

Self Released, 2020

 

Marta Annesi

The Warriors “Monomyth” (Pure Noise Records, 2019)

Chi non muore si rivede – in questo caso possiamo dire “si risente”. 

Nella nostra cultura letteraria, il monomito, cioè il viaggio dell’eroe, è uno schema comune di un’ampia categoria di storie che descrivono le avventure intraprese dal personaggio per vincere una sfida, che lo faranno tornare a casa trasformato. Questo modello narrativo è stato descritto da Joseph Campbell studioso americano di mitologia comparata e storia delle religioni, ed ha influenzato la nascita di Star Wars e Il Signore degli Anelli.  

Capendo l’eroe e il suo scopo capiremo il mito, e capendo il mito capiremo l’uomo. 

Il monomito rappresenta lo scorrere della vita. Tutti affrontiamo le nostre battaglie interiori per riuscire a sconfiggerle, e queste storie ci raccontano di eroi che riescono a vincere, infondendo speranza a chi sta ancora lottando.

Come asserisce il maestro YodaProvare no. Fai. O non fare. Non c’è provare”.

Questa concezione di racconto ha ispirato l’album Monomyth de The Warriors, che tornano dopo otto anni di silenzio. Band punk hardcore californiana, si sono sciolti nel 2011, ed ora eccoli, cresciuti, e decisi ad esporre il loro punto di vista sulla società attraverso un viaggio musicale in dodici tappe, che mantiene l’ambientazione punk hardcore con influenze rap metal, funk metal, alternative metal e nu metal.

Quattro album all’attivo in puro stile punk hardcore americano. Influenzati dai Rage Against the Machine e Snapcase, hanno riscosso molto successo nella prima decade degli anni 2000, finendo anche in serie tv (Netflix, Daredevil seconda stagione) e in videogiochi (Far Cry 5 e Steep) con il brano The Price of Punishment.

Questo nuovo album, composto da dodici canzoni, raffinato e progressivo, è il migliore del gruppo. Il talento è palpabile, l’esperienza pure. Una band in cui ogni componente sa quello che deve fare e porta a termine il suo compito in maniera precisa e coesa.

La voce altisonante di Marshall Lichtenwaldt , la batteria pistata come se non ci fosse un domani di Roger Camero, gli assoli e riff di chitarra da paura di Charlie Alvarez e Javier Zarate e il potentissimo basso di Joe Martin sono gli ingredienti fondamentali per cui il vostro culo salterà giù dalla sedia, questo Natale.

Sono stati assenti quasi un decennio, e ora eccoli riaffacciarsi alla musica con un album possente, eccitante, che inchioda l’ascoltatore di (buona) musica sin dalla prima nota. In questo periodo di assenza hanno visto il mondo cambiare, e non solo quello musicale.

Il singolo, Death Ritual, brano musicalmente metal, con schitarrate degne di nota e un growl pesante, parla della vita, di come migliorarci. Da quando ci alziamo, tutte le nostre azioni sono rituali, ogni giorno è uguale a quello precedente, e i colpi di scena (ove presenti), non sono mai positivi. Questo brano ci spinge a cambiare la nostra routine, a guardare le nostre scelte da fuori, come se non stessimo pensando alla nostra vita. Solo sacrificando quelle situazioni che compongono una routine possiamo sentirci liberi.

L’altro singolo, The Painful Trust, è la dimostrazione che non sono cambiati, padroneggiando un growl preciso e metodico, e una forte armonia tra gli strumenti.

Sperimentano un intro groove in Fountain of Euth per sorprenderci dopo 30 secondi in un’esplosione in uno scream profondo, su una base ritmata, che sembra l’unione civile dei Massive Attack e dei Bring Me The Horizon. 

Si buttano in un pezzo decisamente trip hop, Tavi Üüs Yukwenaak (The Sun Is Dying), per poi tornare nella loro identità punk hardcore in Burn From The Lion nel quale sono evidenti le influenze rap metal.

Il viaggio dell’eroe, dalla “chiamata” ad intraprendere un’avventura, passando per le varie prove da affrontare per portarla a termine, fino all’arrivo a casa, dove il nostro eroe tornerà nei suoi luoghi totalmente cambiato. Questo è il viaggio che ci propinano, sperimentando varie sonorità ma nel tempo stesso mantenendo la loro personalità. Il tutto unito da un sentimento negativo verso la società moderna, combinato ad un bisogno di combattere la sopravvalutazione dell’ego, e anche la svalutazione di esso, in un momento storico dove l’importante è apparire e non essere. 

La visione che ci regala è straordinariamente punk. “Se vogliamo parlare di hardcore, dobbiamo iniziare a pensare in termini di fare le cose effettivamente difficili. Essere gentili e compassionevoli con qualcuno che non se lo è guadagnato. Se riesci a farlo, provoca un effetto a catena che riverbera più lontano di quanto tu possa immaginare. Vivere per gli altri può essere la cosa più difficile da fare a volte. Una volta che lo fai, inizi a sentirti più soddisfatto.”

 

The Warriors

Monomyth

Pure Noise Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Nova Charisma “Exposition II” (Rude Records, 2019)

Dicembre. Le strade sono già invase da fastidiose luminarie, gli scaffali dei negozi da mesi sono infestati da panettoni e torroni. In TV le ipercolorate e strafelici famigliole delle pubblicità ci introducono il periodo dell’anno più noioso: il Natale.

La lotta al regalo più azzeccato forse è la parte più temibile di questa festività.

Cade a pennello quindi l’uscita di Exposition II, nuovo lavoro dei Nova Charisma, duo composto da Sergio Medina (chitarra in Stolas e Sianvar) e Donovan Melero (chitarra e batteria in Hail The Sun), due geni, oltre che profondamente amici.

Il loro è quel tipo di sperimentazione musicale che ci piace: spontanea e ben riuscita.

Artisti poliedrici e talentuosi, hanno deciso di unire le forze per combattere la musica di merda.
Agli inizi del 2019 il supergruppo di Medina si scioglie, e dopo appena quattro giorni è su un volo per Londra per iniziare questo nuovo progetto con Donovan.
Legati emotivamente, sono riusciti a trovare subito un’armonia, fondendo la voce melodica e camaleontica, quasi femminile di Melero e la strabiliante abilità di Medina con la chitarra. Escono dalla loro confort zone nel modo più spettacolare possibile: si mettono in gioco e vincono su tutti i fronti. 

L’album esce dopo quattro mesi dal precedente, Exposition I, molto apprezzato da critica e fans. Quattro minuti scarsi per quattro brani.  Ascoltando questa ultima parte di Exposition viene voglia di averne ancora. E ancora.

I quattro brani sono entità separate, pervase da un senso di disillusione e isolamento. Il filo conduttore di questo album è l’idea di inseguire qualcosa (un’idea, un amore, un sogno) e fallire.

Ci introduce l’album Diary (Don’t Speak), toni malinconici e inquietanti, sul tema della scoperta dei segreti, dopo la morte di qualcuno. k

Gemini è il primo singolo pubblicato dal duo, dove si può apprezzare in toto i loro talenti.

Ci dimostrano che sanno cambiare colore e umore in Hoxton, finalmente qualcosa di sperimentale e che riesce a portare aria nuova. Pezzo profondo, grazie alla voce del cantante, rapisce le orecchie e il cervello.

Il pezzo finale è quello di cui avevamo bisogno per chiudere in bellezza questa raccolta. Sonya presenta un intro che cambia rapidamente e ineluttabilmente, trasformando un pezzo docile e di facile riproduzione in qualcosa di veramente personale e che riporta alle loro radici post-hardcore e ci sbalordiscono grazie ai cambi di voce di Melero.

Questa unione artistica è quel regalo sotto l’albero che non ti aspetti, ma che si rivela quello migliore.

Grandi musicisti e amici, riescono nell’intento di soddisfare l’ascoltatore con qualcosa di valore, ben fatto e talentuoso.

(Se non sapete cosa regalare ad un’amante della musica, c’è anche le versione in vinile, più indicata per tutti gli indie)

 

Nova Charisma

Exposition II

Rude Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Yann Tiersen “Portrait” (Mute Records, 2019)

O no! It is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wand‘ring bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.

                                                                                W. Shakespeare

Sarà anche vero che siamo attratti dagli opposti, ma è ancora più vero che per creare, per vivere, per sentirci ispirati cerchiamo la metafora autoriferita, cerchiamo un luogo, un simbolo, un totem che ci garantisca che quello che vediamo, per come lo vediamo, sia per sempre in sintonia col nostro sentire. Una sorta di golem a protezione della nostra Musa, una trottola in Inception, un luogo sacro, pagano — sia chiaro —, che sia recinto per la vita.

Un faro, un’isola a ovest della Bretagna, l’estremo confine occidentale, per di più circondato dal mare, che diventa doppiamente finis terrae, uno di quei luoghi dove potevano vivere selkie e banshee, un luogo dove il grande faro sfida l’ Oceano Atlantico e si prende cura degli uomini in mare.

Sull’isola di Ouessant (o Ushant) un uomo ha deciso di vivere e di scrivere musica. A giudicare dalla sua storia, fatta di studi classici e di amore per il punk, e ancor più a giudicare dalla sua opera, viene da pensare che abbia, in realtà, deciso di mettere in note la terra che ha scelto. E i suoi cieli, le sue nebbie, i suoi verdi. Del resto ci sono incontri fortuiti che cambiano storie e destini. E chissà quale sarebbe potuta essere la storia di Yann Tiersen, se i suoi occhi non si fossero posati sul grande faro di Ushant. Un uomo che a tredici anni poteva già definirsi polistrumentista, che abbraccia la musica degli Stooges e dei Joy Division, che poi si perde e decide di fare da solo, in una stanza, con un registratore a otto tracce, sinth e drum machine.

E quello che ne nasce è ispirato al grande classico Freaks di Tod Browning del 1932 e ai fantasmi giapponesi di Aya no Tsuzumi. Suona cinquanta strumenti, il nostro protagonista, ma ha in testa un mare burrascoso, e trova la pace solo nel 1998, quando riesce a mettere su pentagramma il suo demone e lo ingabbia, lo esorcizza, lo chiama per nome. Un terzo album chiamato Le Phare, e una canzone, Monochrome che arriva alla cinquantesima posizione della classifica francese. Iniziano i tour, una collaborazione con i Noir Désire, il successo mondiale grazie a Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain nel 2001. Il resto è storia, nuove colonne sonore, nuovi tour con orchestra e mille collaborazioni.

Questo album, che andrebbe ascoltato solo nell’edizione in vinile (e vi spiegherò il perché), è la summa di questa strana storia e di questo fortunato incontro, tra un uomo e il suo faro.

Yann Tiersen sulla sua isola ha costruito uno studio di registrazione, battezzato The Eskal, in cui accoglie i numerosi artisti che hanno partecipato a questo suo ultimo progetto. Di fatto questo Portrait è un’antologia dei pezzi più noti e amati del compositore bretone. Ma Tiersen ha voluto rivisitare ogni traccia, e le ha reinterpretate tutte, ibridandole con idee nuove, lasciando che non ingiallissero col tempo. Ha così chiamato alcuni amici a lavorare con lui: Gruff Rhys dei Super Furry Animals, John Grant, Stephen O’Malley dei Sunn O))), Blonde Redhead.

È un’opera volta a riappropriarsi della musica nata dalla propria storia e immaginazione, che ha vissuto altre storie, che a volte è stata fraintesa. È una setlist rivisitata e che crea un nuovo contesto e una nuova chiave di lettura. Ma è ancora di più: l’intero album è registrato in presa diretta su nastro e inciso su vinile senza passaggi in digitale. Un vero album analogico, suonato con spirito da artigiani, da musicisti di strada, un po’ troubadour un po’ esploratori, sospesi tra minimalismo e malinconia. Del resto Tiersen in passato è stato accostato a Erik Satie e al Teatro dell’Assurdo.

Quest’opera, così definita a livello temporale, trova una sua dimensione anche spaziale, geografica: sembra la colonna sonora di un isola con faro, più che di una storia d’amore. È un lungo piano sequenza pieno di spiriti inquieti, di note che escono da pianoforti giocattolo, da strumenti improvvisati. E un suono antico e solo apparentemente semplice, in realtà è quasi sempre portatore di un lato nascosto e, spesso, oscuro.

E’ come il suo faro, Yann Tiersen. Calmo, osservatore, impassibile, testimone di eventi, di storie, di maree. E, come il faro di Shakespeare, sovrasta le tempeste e non vacilla mai.

 

Yann Tiersen

Portrait

Mute Records, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Subsonica, diciamoci la verità: c’era davvero bisogno di Microchip Temporale?

I latini dicevano “ubi maior, minor cessat”, una frase che dovremmo ricordare sempre e che potremmo tradurre con “laddove ci sono i grandi, lì cadono i piccoli”. Ecco, quando ho ascoltato per la prima volta Microchip Temporale, il rifacimento in featuring con i grandi nomi della nuova scena per l’anniversario dell’arcinoto Microchip Emozionale, dei Subsonica, quella è stata la prima frase a venirmi in mente. Non un grande inizio, insomma, ma andiamo per ordine.

Quando nel 1999 è uscito Microchip Emozionale io avevo due anni, quindi va di conseguenza che questo album io l’abbia scoperto più tardi, capendolo e assimilandolo in una luce diversa ed estratto completamente dalla sua contemporaneità. Eppure l’ho amato dal primo ascolto, imparando sin da subito quale fosse stato l’impatto che un progetto come Microchip Emozionale aveva avuto sulla musica di quel periodo, cambiandola radicalmente.

Ecco, potremmo dire che esistono dei momenti di trasformazione e che questi momenti, talvolta, vengono sanciti da album. Microchip Emozionale e i Subsonica stessi sono stati esattamente questo: una sorta di incoronazione, uno spartiacque nella musica italiana. 

Insomma, per riassumere, Microchip Emozionale è stato e tutt’ora è, per moltissimi, una sorta di testo sacro. E i testi sacri non si toccano. Mai. 

Microchip Temporale è stato pensato come una sorta di album di duetti in cui gli ospiti sono quelli che ancora ci ostiniamo a definire i “nuovi” nomi della scena musicale, e che invece ne sono protagonisti da un bel po’, sia rap che elettronica che nel nuovo cantautorato. Quelli, insomma, che fino a qualche anno fa avremmo definito indie rap e che ora sono quelli che riempiono i palazzetti. In ordine di comparsa e senza bisogno di grandi presentazioni troviamo: Willie Peyote, Nitro, ComaCose e Mamakass, Elisa, Motta, Lo Stato Sociale, Coez, Cosmo, Achille Lauro, Ensi, FASK, Myss Keta e Gemitaiz. Un ventaglio di possibilità che avrebbe potuto davvero rendere quello che è stato un album di culto per la scorsa generazione, un album di culto per quella nuova, che sta scoprendo la faccia di Samuel sui banchi della giuria di X-Factor.

Partendo con queste premesse, posso dire che l’attesa di un progetto come Microchip Temporale è stata più curiosa che scalpitante per me, ma ero pronta a far sì che il genio (perché di genio si tratta) della band rivoluzionasse tutte le mie aspettative; che ribaltasse il risultato, per dirla alla Borghese. Così è stato perché io ero pronta ad arrabbiarmi, infastidirmi, aggrottare le sopracciglia e innamorami ancora di più grazie all’apporto di alcuni tra gli artisti che popolano maggiormente le mie playlist. Invece l’unica cosa che ho fatto è stato rimanere impassibile, sopportare un solo ascolto, skipparne alcune al secondo. Per farla breve, il giorno dopo, per me, eccetto alcune rarissime eccezioni, Microchip Temporale non era mai esistito.

Perché il grande difetto di questo progetto è che strizza troppo l’occhio alle nuove generazioni, ma poi effettivamente non lo fa abbastanza. Gli ospiti del disco, invece di regalare qualcosa di nuovo e superarsi, danno la spintarella che non ti sposta granchè, non ti fa volare, una via di mezzo.

Certo le mie aspettative erano molto alte, tanto che il confronto con il precedente muore nel momento stesso in cui viene fatto. La mia apertura mentale in questo caso si riduce per affetto, ma la verità è che le aspettative dovevano essere troppo alte, il confronto doveva essere vincente e queste chiusure mentali dovevano essere distrutte e spalancate al primo ascolto. In questo progetto bisognava osare al massimo, usare la massima reverenza, esattamente come si fa nei confronti di un capolavoro, non utilizzare soltanto questo remake per rilanciare l’immaginario di una band sull’onda dell’attenzione televisiva. 

Ammetto che ci sono dei momenti di grande bellezza, in particolare grazie a Motta a cui viene affidata Tutti i Miei Sbagli, che riesce a rendere il manifesto di una generazione ancora più grande, ancora più bello. Inoltre, grazie a Cosmo, che si consacra ancora come il Dio indiscusso dell’elettro pop, Disco Labirinto rinasce completamente. Giusta Myss Keta che in Depre si trova nella sua comfort zone e che alla fine si porta a casa in scioltezza un brano adatto a lei e chapeau anche per i Fast Animals and Slow Kids su Albe Meccaniche, la voce di Aimone regala quel quid in più.

Grande delusione per Willie Peyote (il cui talento e la cui capacità espressiva non vengono qui messe in discussione) che, dopo un tour con la band, in Sonde rende molto meno delle aspettative. Per gli altri rapper ci si aggira intorno alla sufficienza, a volte risicata. Non fanno gol nemmeno i Coma Cose, Lo Stato Sociale e – per assurdo – Coez, nettamente surclassati dall’imponenza delle canzoni.

Microchip Temporale è un album da sufficienza, sufficienza che c’è tutta, non fraintendetemi. Certo che la sufficienza, quando viene presa dal più bravo della classe, alimenta più delusione di un due e alla fine quello che torna è che forse tutti avevano una paura reverenziale nei confronti di questo gigante, tanto che, stavolta, su Davide ha vinto Golia. Forse, ancora, ricordavamo troppo bene il capolavoro e questo rifacimento resta troppo abbozzato. Quello che sappiamo per certo è che se questo album doveva rubare il posto al suo genitore ovvio,  non ce l’ha fatta. Perché non toglie, certo, ma non da’ quanto dovrebbe. E noi, dai più bravi della classe, volevamo la lode.

 

Mariarita Colicchio

 

Cappadonia “Corpo Minore” (Brutture Moderne, 2019)

Una gemma rara

 

È arrivato il secondo atteso lavoro da solista di Cappadonia, musicista e cantautore che, dopo anni di tour con nomi importanti della scena alternativa del calibro di Pan del Diavolo e Sick Tamburo, ha deciso di esprimere la sua arte in un progetto solista in grado di dare libero sfogo al suo immaginario. Dopo il primo capitolo pubblicato nel 2016 e la parentesi del progetto Stella Maris, esce per Brutture Moderne il suo nuovo album, Corpo Minore. 

Interamente prodotto e arrangiato dallo stesso Ugo Cappadonia, il disco è relativamente breve, nove tracce, ma questo è molto probabilmente un punto di forza. Infatti, una maggior compattezza sonora permette all’opera di essere estremamente incisiva, priva di riempitivi, ogni cosa è essenziale ai fini del racconto. La coerenza del sound si percepisce fin da subito, tutte le composizioni sono guidate dalle chitarre, siano esse acustiche o elettriche, che si stratificano in arrangiamenti curati nel dettaglio. Qua e là troviamo sprazzi di sonorità noise a colorare il tutto, basti pensare alla title track, dove compare come ospite Alessandro Alosi dei Pan del Diavolo, capace di donare al pezzo un’atmosfera decisamente particolare. Il suo sodale compagno di band, Emanuele Alosi, invece, compare in tutto il disco come batterista, e la cosa si fa sentire. Le rullate e i tocchi percussivi sono raffinati e potenti allo stesso tempo, ottimi per accompagnare il crescendo emotivo dei pezzi. Un ulteriore ospite illustre è Federico Poggipollini, storico chitarrista di Ligabue, presente in Sotto Tutto Questo Trucco con un assolo di chitarra immediatamente riconoscibile. Il pezzo è uno dei più rock e tirati del lotto, ha una vera carica esplosiva. In generale, Cappadonia è stato abile nel mantenere nella totalità dell’album un’atmosfera in bilico tra il cantautorato classico e un sound più prettamente rock, piacevolmente calibrato per alternare momenti riflessivi ad altri di maggiore forza e impatto. L’autore è un musicista a tutto tondo e non lesina sul sound design, estremamente a fuoco grazie ad inserti di synth, hammond e piano mai scontati. 

I testi sono piuttosto intimi e personali, riguardano principalmente esperienze di vita dell’artista ma con l’uso di immagini universali in cui è facile riconoscersi. È percepibile grande sincerità creativa, l’insieme tocca le corde emotive giuste fino a farsi quasi catartico. Ciò è possibile grazie alla potenza granitica conferita da Cappadonia ai brani, in un continuo gioco di rimandi fra passato cantautorale e contemporaneità sonora. 

Il lavoro sembra seguire un concept legato al mondo dell’universo e delle galassie, utilizzati come punti metaforici di partenza per descrivere esperienze puramente umane. Ogni elemento, nel suo complesso, è messo al punto giusto, dalle parole ai suoni. Dunque, nonostante il forte impeto, vi è anche una intelligente spazialità, che rende il progetto di totale gradevolezza per l’ascoltatore. A tal proposito, si passa dalle chitarre distorte e fuzz di Stelle Latenti alle dolcissime acustiche di Fango con grande facilità e coerenza. La canzone di chiusura, l’emblematica Siamo in Tempo, è senza dubbio la più originale, basandosi per gran parte della sua durata solo su un intreccio di chitarre elettriche e voce che esplode in un muro di suono finale, perfetta conclusione dell’opera. 

Insomma, Cappadonia si dimostra essere un artista completo, capace di raccontare se stesso e il mondo con estrema attualità e contemporaneità, inseguendo, però, sempre la sua visione sonora, libera da vincoli e barriere di mercato. Se già in passato la sua produzione ci aveva fatto ben sperare, Corpo Minore è l’ennesima conferma che siamo di fronte a un autore di grande talento, dall’attitudine coraggiosa e indipendente, una gemma rara nel panorama italiano.

 

Cappadonia

Corpo Minore

Brutture Moderne, 2019

 

Filippo Duò

La Gabbia “Madre Nostra” (You Can’t Records, 2019)

C’è un equilibrio perfetto tra rabbia e introspezione in Madre Nostra, primo LP de La Gabbia. Con otto pezzi che nell’insieme ricordano un giro sulle montagne russe, grazie all’alternanza tra un sound incendiario ed uno più tranquillo, la band bolognese riesce a scavare a fondo nella nostra natura e a metterci davanti agli occhi un’ampia gamma di sentimenti autentici, positivi o negativi che siano, ma tutti spaventosamente umani. 

Il giro di giostra inizia con Ilaria, dove è un risentimento senza filtri e quasi cattivo a fare da padrone. Il pezzo ricorda nello stile e nei suoni decisamente rock i due singoli pubblicati dalla band, Ho Bisogno e Violenza, dove troviamo anche una sorta di spiegazione a questi sentimenti più bassi e istintivi. “Violenza sei madre nostra, ma non ci hai mai riconosciuto”, ma, come con tutte le madri, arriva prima o poi la fase della ribellione nei suoi confronti.

Paradossalmente, in questo disco, la ribellione a “madre nostra” sembra proprio un abbandono a suoni più tranquilli e a testi che mantengono una certa tenerezza di fondo nonostante i ritmi ben scanditi delle chitarre o le esplosioni di batteria. È il caso di La Luna e i Falò, chiaro omaggio al romanzo di Cesare Pavese che ruota attorno alla necessità di mettere radici, oppure di Memorie di una Prostituta, il racconto molto sentito di una storia di dolore e riscatto. 

Più ci avviciniamo alla fine della corsa, più il disco fa emergere quella vulnerabilità che tendiamo a tenere nascosta. È un esempio Non Esisti, penultima traccia dell’album, che, inizialmente solo con voce e chitarra, ci racconta una storia d’amore tra due persone che si avvicinano senza raggiungersi mai. È quindi anche una storia di paure, di fughe e di rimorsi, perché la fine è inequivocabile: “non c’è più nessuno”, un grido triste che continua finché non sopraggiunge il silenzio. 

Quindi, dopo otto canzoni, cosa rimane alla fine di questo giro di giostra?

Forse la consapevolezza che non si può ridurre la natura umana ad un solo polo, solo al bianco o solo al nero. Non a caso, Madre Nostra è un melting pot, una scala di grigi.

Ma forse è un’altra consapevolezza che, soprattutto in questo periodo storico, vale la pena ribadire. La stessa espressa anche da Pavese quando nel suo romanzo scrive che “il sangue è rosso dappertutto”. 

Nel bene e nel male, facciamo tutti parte della stessa umanità.

 

La Gabbia

Madre Nostra

You Can’t Records, 2019

 

Francesca Di Salvatore

William Patrick Corgan “Cotillions” (Reprise Records, 2019)

There’s something rotten in the (United) States of America

 

Nel 1978 William Trogdon, un professore universitario di origini native americane, perde il lavoro, la moglie e la voglia di vivere. Quale migliore inizio per una storia americana? Cambia nome, diventa William Least Heat-Moon, prende il furgone e inizia un viaggio alla ricerca di se stesso, lungo le blue highways, le strade provinciali americane. E’ un’immersione in una humanitas dimenticata, che salva l’uomo attraverso l’empatia e i chilometri, come se una dinamo fosse collegata a una batteria affamata di storie. Ne nascerà un libro, Blue Highways: A Journey into America, ormai diventato un classico. 

È un’attitudine tutta statunitense quella di partire alla ricerca delle radici, umane e culturali, in momenti di crisi. Un popolo ancorato ad un inspiegabile ottimismo, come se nello spostare continuamente la linea dell’orizzonte si potesse generare futuro.
Cosa può spingere un’icona del rock come William Patrick Corgan a prendere la prima palandrana nera, la sua altrettanto iconica chitarra e partire verso sud?
C’è una mitologia, lontana dalle nostre europee, che ancora vive nelle strade blu. C’è una sottile e quasi invisibile luce che segna le vie dei Canti inseguite da tanti artisti d’oltreoceano.

E questo di Corgan è il quarto album del 2019 che recensisco e che va a sciacquare i panni in Nashville, Tennessee.

Stati Uniti in crisi, sicuramente più morale e identitaria che economica, significa per molti avvertire la necessità di cercare “altro” che non siano i tweet di Trump e il gorgoglio di fondo della pancia del paese che offusca tutto il resto. L’esempio più lampante è il viaggio di Springsteen in Western Stars,  ma ci sono altri artisti che hanno iniziato una ricerca personale sulla musica delle radici, quasi che nella tradizione ci possa essere una chiave di lettura. O più semplicemente il country, il bluegrass, il genere Americana, sono statutari, tanto quanto la costituzione, sono colonne, sono la loro mitologia, utile in tempi di cambiamento poco gradito.

E così abbiamo per le mani un album davvero particolare, perché tutto avrei potuto pensare (soprattutto a metà anni novanta), tranne la possibilità che il frontman degli Smashing Pumpkins si dedicasse ad un’opera in cui violini e steel guitar la fan da padrone. “Un atto d’amore” lo ha definito lui stesso sui social. Di fatto è il prodotto di un viaggio verso Ovest, la frontiera per eccellenza, l’unico punto cardinale che è diventato genere. Thirty Days è il titolo del viaggio/documentario che ha visto la nascita di Cotillions, ultima fatica solista del nostro Billy.

Non è il Nebraska di Springsteen, né una radicalizzazione di una tendenza come può essere stato per altri in precedenza. Mi è parso un genuino gesto di assorbimento della cultura locale durante il viaggio, un utilizzo strumentale di un atteggiamento mentale che dovrebbe essere la quintessenza del viaggiatore. Un Chatwin con la chitarra, vestito di umiltà intellettuale, perché occorre sempre ricordarsi chi è Mr. Corgan. E così, tra esplorazione e filologia musicale, galleggiando tra Steinbeck e Woody Guthrie, il pianoforte che dominò i precedenti lavori solisti cede il passo a chitarra e archi, segnando un clamoroso cambio di genere. I testi rimangono densi, incredibilmente evocativi per immagini, bastano poche pennellate per definire bene i confini e i riferimenti.

E’ un album lungo, diciassette tracce e quasi un’ora di musica, che nelle prime otto canzoni presenta tutto quello che è l’essenza del disco. C’è la morte di To Scatter One’s Own, la crisi in Hard Times, la strada nel deserto della titletrack Cotillions. I generi si alternano, ma raramente sentiremo echi degli Smashing, se non in Fragile, The Spark, classica voce e chitarra, che pare rimasta incastrata tra i due cd di Mellon Collie.

La seconda parte dell’album è meno a fuoco. E credo sia dovuto al fatto che questo “atto d’amore” non abbia subito grandi revisioni e sia di fondo rimasto un atto genuino e viscerale. E forse è giusto così, perché in un lungo viaggio, iniziato per ritrovare un’essenza musicale e umana, dopo un po’ idee e chilometri si confondono. I pensieri si impolverano, scorrono via veloci, si mescolano al paesaggio che scorre a lato strada, si sovrappone al parallasse dell’orizzonte. E allora mi piace, davvero, che quest’album scivoli via nell’ultima parte, e se ne vada, lasciando il silenzio e i pensieri e una frontiera da esplorare, domani.

 

William Patrick Corgan

Cotillions

Reprise Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Senna “Sottomarini” (Roma 10, 2019)

Cos’è l’indie?

Questo genere musicale è rappresentato da artisti (emergenti, nella maggior parte dei casi), che sono l’anima della cultura underground, che autoproducono dischi o al massimo sono supportati da etichette discografiche minori che cercano di contrastare il dominio delle major.

In Italia, tendiamo ad appiccicare l’etichetta indie con facilità. Due accordini simpatici, testo di non facile interpretazione che per la maggiore trattano di nostalgia, avvilimento, e amarezza, et voilà! Il cantante/gruppo indie-del-momento è pronto per riempire palazzetti.

In questa mia visione musicalmente razzista verso ciò che la popolazione media indica come indie, molto spesso quando ascolto gruppi che si definiscono appartenenti a questo genere, arrivo al massimo alla seconda canzone, dopodiché il mio cervello e il timpano vanno in necrosi.

Ma ci sono sempre le eccezioni: gruppi a cui basta un nastro, un vecchio 8 piste salvato ad un mercatino dell’usato, una stanza e tanta emotività.

In questo caso è il gruppo Senna, formato da due fratelli (Carlo e Simone Senna) e un amico (Valerio Meloni) nati a Roma, i quali rappresentano il vero concetto di indie.

Prendere il nulla e creare un disco intimo, reale, sentimentale, artigianale.

La loro concezione di musica comunica purezza. Sentimenti liberamente esposti usando le loro doti canore, e la composizione della musica che entra dalle orecchie e arriva dritto al cuore (o fa scoprire di possederne uno).

Sottomarini, il loro disco d’esordio è un viaggio nelle loro vite private, come camminare in casa di sconosciuti e aprire le porte chiuse. “Imperfetto e dolce come l’anima di chi l’ha scritto, come la vita. Racconta la storia, anzi le storie, di un anno difficile” – così il gruppo descrive il loro primo lavoro.

Parlano di perdite, di dolore procurato, e di quello inflitto. E lo fanno con delicatezza, perché sanno di toccare il punto G del cuore.

Aprono questo disco con (Punto e a Capo), intro musicale, che ha il sapore del gelato sciolto sotto l’ombrellone di un’affollatissima spiaggia italiana ad agosto.

Giulia, un tenero brano che ricorda le amicizie che nascono in estate, quelle che profumano di amore non corrisposto, di imminente distacco e ingenuità.

Subito dopo troviamo Agosto, il primo singolo, un brano che sembra parlare di questo mese come un periodo pieno di aspettative, di novità, di divertimento e di amori. Ma a ferragosto (quando è stato scritto), pioveva, quindi il pezzo possiede una malinconia che è poco consona con il titolo.

Il secondo singolo che è uscito è Italifornia, è un inno alla nostra penisola, un omaggio a una terra non perfetta ma piena di bellezza e vita.

L’ultimo singolo pubblicato è Le Cose a Metà: parla di tutte delle cose straordinarie che abbiamo intorno a noi, che trascuriamo per lanciarci nell’inseguimento di altre, irraggiungibili e che magari neanche esistono. 

Fiume, ballata con chitarra, violino e voce dolce e malinconica, conduce in uno stato d’animo di tristezza pura, fa pensare a tutti i tuoi disastri amorosi, e ti ritrovi a piangere per il bambino che ti ha tirato le trecce a sei anni.

Un album che fonde estate e inverno, in un’ambientazione indie che mescola rock e pop.

Questi ragazzi son da tenere sotto occhio, talento e sentimenti, trasmessi in modo eccezionale.

 

Senna

Sottomarini

Roma 10, 2019

 

Marta Annesi

 

Raised Fist “Anthems” (Epitaph Records, 2019)

(pugni punk alzati al cielo)

 

L’hardcore non è solo un genere musicale: è una filosofia di vita, con una storia ben nota e un’evoluzione ancora da portare a termine. Nato in America negli anni ‘80 ha contagiato tutto il mondo, e in ogni zona ha assunto una valenza e una sua personale identità.

Testi politici, questioni sociali e individuali usando una musica veloce, riff semplici e scream, sonorità distorte e aggressive. Vediamo la nascita dell’anarcho punk, lo straight edge (promuovere uno stile di vita sano, ambientalista, animalista, e vegetariano).
La musica diventa uno strumento per divulgare una filosofia, uno stile di vita libero, autonomo e rispettoso, molto spesso con una visione nichilista (street punk).
Se guardiamo alla Svezia, comunemente nota come la mamma dell’Ikea, per i veri intenditori del genere è la patria del crust punk e del D beat (i Disfear).

Uno dei più importanti gruppi svedesi anni ‘90, i Raised Fist, col passare del tempo cedono alla sperimentazione del sound, contaminando l’hardcore puro con sonorità melodiche, abbassando la velocità di esecuzione e lasciando lentamente da parte i problemi politici, finendo per essere etichettati come alternative metal e post hardcore.

Per elaborare e comporre questo album ci hanno impiegato ben quattro anni, ma l’attesa aumenta il desiderio, no?

Tornano con Anthems, contenente dieci brani, dove l’hardcore possente svedese si fonde con parti melodiche, testi stringati, ritmi incalzanti.

Dal primo pezzo, Venomous, sono chiari il mutamento e la crescita,  le particolari doti vocali di  Alexander “Alle” Hagman che passa dal growl a toni più pacati, per dimostrarci che l’hardcore non è morto, sta solo cercando una sua dimensione per sopravvivere al cambiamento dei tempi. La tematica è puramente punk, quel senso di disagio, di sentirsi gli ultimi ma con la fierezza di non far parte della società, e di quanto quest’ultima lavori per spingerci sempre più in fondo. (If you are big, they want you small/Constant negative waterfall, fuck).

Belle schitarrate compongono l’inizio di Seventh, e durante i tre minuti di durata del brano sembra di essere tornati negli anni ‘80. Scream e growl a non finire, ritmi serrati e batteria pistata a morte. Sul finire entra a far parte del brano un interludio melodico, che sembra voler stemperare l’ambiente, per poi riattaccare con il classico stile hardcore.

Anthems (dà il nome all’album) più che un brano è l’inno della loro evoluzione musicale, dove ci presentano il loro sound. Il testo non ha significato se non quello di evidenziare le doti canore del frontman e il progresso stilistico in questi quattro anni di silenzio. Il loro vero e proprio inno, un cavallo di battaglia usato per specificare il loro intento.

Il ritmo rimane invariato nel quarto brano, Murder, dove assistiamo ad un’esibizione totalmente hardcore. Chitarre indemoniate e batterie fumanti, con uno scream profondo. Nonostante il testo della canzone, la band non ha ucciso la sua identità, ma ha subito un’evoluzione che mantiene il suo stile di pensiero, modificando e annettendo altri sound.

Una nota punk nostalgica suona in Into This World, testimonianza della loro esperienza (sono insieme dal 1993) non solo in campo musicale ma soprattutto nella società moderna. Precursori di un genere da cui hanno perso vita tante correnti tutt’ora presenti sulla scena musicale, ricordano con malinconia i tempi che furono, con uno sguardo al futuro, incitando i figli (forse in senso lato, intendendo i loro fan), a vivere in fretta, non avere rimpianti. (We let the music intensify/We almost lasted a lifetime/But one more thing before we close our eyelids/We have to tell our kids, to live fast, no regrets, and no fucking grids)

Shadows, bel rullante iniziale, mantiene l’aria dell’hardcore compatto, Oblivious dove il basso e la chitarra la fanno da padroni con un ritmo incalzante che si rilassa nel ritornello.

In Polarized, ammiccano al rapcore, ricordando a tratti i R.A.T.M., We Are Here è una fusione tra cantato growl e base più melodica, l’unico elemento hardocore punk è rappresentato dall’insistente batteria.

L’ultimo brano dell’album è Unsinkable II, che si presenta come circondato da un’aura di dolcezza, nonostante lo scream, sul finire il pezzo esplode. 

INAFFONDABILI, ecco come si può descrivere questa band. 

Hanno vissuto il periodo migliore per la scena hardcore, gli inizi, quando tutto era nuovo, quando tutto era ribellione e rivoluzione. Sono uomini ora, e subiscono i cambiamenti del tempo. In questo loro ultimo lavoro vogliono comunicarci che nonostante siano cresciuti, al loro interno la scintilla originaria è ancora ben viva.

Energia, doti canore e musicali, esperienza e voglia di creare un nuovo percorso.

Non è il “vecchio” che si adegua al “nuovo”, piuttosto una rivalutazione, e un’affermazione. 

Sono ancora qui, e direi per fortuna!!!

 

Raised Fist

Anthems

Epitaph Records

 

Marta Annesi

 

Holy Swing “To the Burn and Turn of Time” (Self Released, 2019)

(Through the looking glass)

 

Uscito a novembre, To the Burn and Turn of Time rappresenta il nuovo inizio degli Holy Swing, band bergamasca fresca di numerosi cambiamenti — dalla formazione al nome, passando per il sound — nonostante le influenze post hardcore si sentano forte e chiaro anche in questo nuovo progetto.

L’album spazia tra un’autoanalisi decisamente più spostata verso l’autocritica e il racconto delle relazioni con gli altri, a volte autentiche e altre meno, ma di cui alla fine abbiamo bisogno per uscire da quella bolla di incomunicabilità e ripiegamento su noi stessi dove a volte sembra tanto comodo rifugiarsi. Proprio a questo si riferisce in particolare Paper Kings, ultima traccia del disco. “In the end you’ll know that all you were was just a fraction of a cell” – siamo tutti parte di un qualcosa di più grande di noi.

Le immagini che emergono dalle nove canzoni sembrano tutt’altro che positive, a cominciare dal “plastic garden” in cui è difficile far crescere qualcosa di vero di Twin Primes, ma è quando si parla di se stessi che si scava nel fango. È su questo che sono incentrate, ad esempio, Flower Bed, raccontata dal punto di vista di chi riconosce di essere distruttivo, Parfit’s Glass e Your Dopamine, dove invece ci si rende conto delle proprie mancanze, ma si cerca di non trovare scuse per affrontarle. Ad accompagnare quest’indagine tanto intensa quanto sofferta, esplosioni di chitarre e batterie.

To the Burn and Turn of Time è dunque un’alternanza di pezzi incendiari e altri più dimessi, senza però mai perdere un animo profondamente rock e quella rabbia necessaria per urlare ciò che si pensa.

 

Holy Swing

To the Burn and Turn of Time

Self Released, 2019

 

Francesca Di Salvatore

 

Animatronic “REC” (La Tempesta Dischi, 2019)

E non sono pupazzi!

 

È uscito REC, il primo album degli Animatronic per La Tempesta Dischi. 

Luca Ferrari alla batteria, Nico Atzori al basso e Luca “Worm” Terzi alla chitarra, hanno registrato in presa diretta il loro primo lavoro, un disco composto da 15 tracce strumentali (sono pochissimi gli interventi vocali) con le sonorità del rock progressivo. Gli Animatronic ci coinvolgono in un mondo di intrecci musicali, di tempi dispari ma anche di melodie ambient e riprese grunge.

Teddy Red & Jenny Ride è la traccia che apre l’album e non poteva essere altrimenti. Frammenti prorompenti e frenetici si alternano a passaggi dalle contaminazioni jazz quasi a ricordarci “di come i Weather Report erano forti”.

Si prosegue con il singolo Fl1pper#, pezzo che incarna il gioco in ogni suo componente. Tu sei la biglia e gli Animatronic sono le alette del flipper: ti spingono su per la rampa di lancio e ti sbalzano ovunque, ti lasciano scivolare giù per poi farti rimbalzare sui bumper. Spingono talmente forte che finisci in TILT.

Le immagini continuano con In Cubo, fantastico gioco di parole che rappresenta a pieno la sensazione che trasmette la traccia. Ci si sente come rinchiusi in un posto buio, un cubo senza via di uscita. Lo strumentale angosciante e minaccioso è più lento rispetto al resto del disco e la chitarra conserva una nota insistente, che ti ossessiona come la voglia di uscire alla luce del sole. Improvvisamente ha inizio la lotta, le pareti si spaccano ma dalle crepe non entra nessun bagliore. Si esce dal cubo ma non dall’incubo.

Ghostreck è la nona traccia, la più romantica, nostalgica, forse anche struggente. Ma ogni pezzo non è ciò che sembra e cambia in continuazione pur mantenendo una circolarità interna. 

Questo accade in Zabran, dove esordisce una chitarra funky che si smentisce pochissimi secondi dopo, passando a fraseggi così rapidi tanto da proiettarti in un mondo riprodotto al doppio della velocità.

Fanki!? sorprende con voci sospirate, serpentesche, molto contemporanee che rendono il disco, registrato in presa diretta, ancora più vivo e se possibile ancora più live.

L’album, pur essendo quasi completamente strumentale, non annoia mai. La musica degli Animatronic nasce dal piacere e dalla voglia di suonare, quindi non c’è spazio per la monotonia, non c’è spazio per la noia. REC non è il disco “che meritavamo ma quello di cui avevamo bisogno”. 

 

Animatronic

REC

La Tempesta Dischi, 2019

 

Cecilia Guerra