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Tag: album

Agnello “Il Minotauro” (Garrincha Dischi, 2019)

Per definizione l’agnello è la creatura più docile del regno animale. Agnello è anche il nome (nonché il cognome del cantante e fondatore del gruppo) di una band palermitana nata nel 2016 e, ascoltando l’album, risulta essere un appellativo appropriato per questa band carica di sensibilità, dolcezza e irrequietezza verso il mondo.

L’obiettivo primario del gruppo è una crescita costruttiva e la conseguente tutela del suo stile, una ricerca estetica musicale, linguistica e spirituale, per regalare all’ascoltatore un’esperienza totalmente nuova, il più possibile distante da quello che si può trovare sul mercato musicale attuale.

Il loro album d’esordio Il Minotauro, composto da singoli usciti tra il 2017 e il 2018, è traboccante di atmosfere romantiche e commoventi, scaturite da animi nobili che sembrano cozzare con la superficialità che ci circonda oggi.

Funamboli contemporanei alla ricerca di un equilibrio tra ritmi tipici della musica italiana anni ‘60, indie e surf, adottano testi delicati e nostalgici, grazie all’uso smodato del sax, che colora di tinte malinconiche tutto l’album.

La figura fragile e riflessiva de Il Minotauro primo brano e titolo dell’album, esplode in tutta la sua angoscia ed emarginazione, la quale sembra essere il mantra della band. Emblema della società evoluta, dove ci ritroviamo più spesso lontani gli uni dagli altri, chiusi nella nostra personale disperazione (come lo è il Minotauro del suo labirinto), alla ricerca di un/a compagno/a che divida con noi l’onere di questo massiccio fardello.

Altra questione che viene valutata è la paura nei suoi più intimi aspetti: paura dell’abbandono da parte della persona amata, come nel brano Marta, dalle sonorità morbide e armoniose, fino ad arrivare alla paura delle relazioni stesse. Il terrore di impegnarsi che impregna le generazioni moderne nel pezzo Casa Tua, dove ricorre la paura di imbarcarsi in una situazione troppo grande, troppo importante — come potrebbe essere salire a casa dell’amata — ipotizza la fine del sentimento, quasi per codardia, e il raggiungimento di qualcosa con l’ansia di non esserne poi all’altezza.

Il loro intento è dar spazio e voce alle emozioni, utilizzando un registro pop per analizzare la collettività come in Sulla sdraio nato dall’unione creativa con Nicolò Carnesi. Si servono delle classiche retoriche del cantautorato indie a tratti ripetitivo e circolare per esprimere l’insoddisfazione di una generazione mentalmente relegata su una sdraio, schiacciata dalla realtà che ci scorre dinanzi come un film, nella quale non possediamo potere decisionale ma siamo solo spettatori non paganti. 

Come ammette il gruppo stesso, “il brano è volutamente più monotono, per trasmettere una percezione di tempo perduto e del fatto che vivere in dipendenza dal mondo esterno ti condanna all’infelicità”.

La critica verso la società moderna è contestualizzata in Tutto questo penare, dall’intro fresco, estivo, estremamente pop, in forte contrasto con il testo amaro, improntato sulla solitudine e sulla discordanza degli schemi sociali (sposarsi, far figli, sistemarsi) in rapporto alla vera felicità. 

Come astronauti esploratori di un universo parallelo, questa band vuole parlare di amore, di solitudine ma soprattutto della paura di una generazione, il terrore nelle relazioni interpersonali e della gestione dell’emotività in un momento storico interamente incentrato sull’avere, più che sull’essere.

 

Agnello

Il Minotauro

Garrincha Dischi, 2019

 

Marta Annesi

La Tarma “Usignolo Meccanico” (LullaBit, 2019)

Parte il primo brano del nuovo disco de La TarmaUsignolo Meccanico, e si viene subito catapultati in una atmosfera da Battiato anni ’70, ricca di synths, bassi lasciati suonare in primo piano, drum machines, vocalizzi vocali retrò e testi onirici che raccontano esperienze sensoriali attraverso immagini poetiche.

Da un punto di vista della produzione musicale, il sound che viene fuori, seppur volutamente retrò, è interessante e particolare. Le sonorità che si delineano hanno uno stile ben definito, non scontato, che prende spunto, come già detto, dal Battiato anni ’70 fino ad arrivare ai contemporanei Baustelle, passando per certe sfumature che fanno ricordare le melodie di Alberto Camerini.

Le dieci canzoni scorrono tra temi esistenziali e d’amore che vengono cullati da una musicalità piuttosto intrigante e piacevolmente fuori moda. Il genere musicale potrebbe definirsi come cantautoriale per quanto riguarda i testi, e come elettropop per quanto riguarda il sound complessivo.

Tuttavia, l’intrigante sound ed i particolari testi (segnalo, tra i brani, Amsterdam) non sono sostenuti da un altrettanto efficace lavoro di mix e mastering, soprattutto per quanto riguarda la voce. La cantante ha indubbiamente una buona capacità vocale, un timbro particolare che può piacere o non piacere, vista l’impostazione molto retrò, ma che comunque rimane in testa. Purtroppo, però, la sua voce non viene valorizzata dalla fase del mixing: manca infatti un riverbero adeguato, una equalizzazione corretta e una correzione efficace in fase di editing delle imperfezioni (visti i molti vocalizzi della cantante, qualche volta le parole in coda alle frasi perdono la nota). L’impressione, quindi, è quella di trovarsi davanti ad una registrazione della voce un po’ amatoriale, quasi come se fosse stata registrata in cantina. 

Da un punto di vista della struttura delle canzoni, La Tarma dimostra buona capacità negli arrangiamenti e nella scelta degli strumenti, ma non eccelle nella costruzione dello sviluppo temporale  strofa-ritornello-variazione: difatti, talvolta, il ritornello arriva troppo tardi e le canzoni si dilungano troppo nelle strofe, perdendo in questo modo in orecchiabilità ed immediatezza all’ascolto.

Per concludere, siamo davanti ad un album con spunti interessanti, soprattutto per quanto riguarda la ricerca stilistica del sound e dei testi, questi ultimi mai banali e ricchi di belle immagini lessicali. Resta l’amaro in bocca per non godersi appieno questo discreto tentativo artistico, inficiato da una produzione musicale che non si può ancora definire del tutto professionale.

 

La Tarma

Usignolo Meccanico

LullaBit, 2019

 

Michele Mascis

The Winstons “Smith” (Tarmac\Sony, 2019)

“Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unica che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica vera preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’n’Roll. Altri semplicemente vita.”

Non è una frase di Bukowsky né di un qualche santone indiano, bensì di tre fratelli lombardi, The Winstons (Linnon, Rob e Enro, pseudonimi) i quali scagliano così la bomba del loro ultimo lavoro discografico, a distanza di tre anni da The Winstons (album d’esordio nel 2016).

Stiamo parlando di Smith (probabilmente da Winston Smith, protagonista di 1984, di George Orwell; ma anche un gioco di pronuncia con The Winston’s Myth band jazz/soul americana anni ‘60) uscito il 10 maggio per le piattaforme virtuali, oggi 31 maggio invece, in formato fisico.

La loro misticità verbale è accompagnata da abiti bianchi, contrapposti ad uno spirito canterburiano, una voglia matta di mischiare le carte (musicali) in tavola e stravolgere così la concezione stessa di musica. 

Bassi graffianti e striduli, tastiere dal sound penetrante e batterie martellanti, accostati ad atmosfere classiche contraddistinguono questo disco del power trio più enigmatico della scena indie italiana.

Impossibile “etichettare” questa band, poiché il loro lavoro è un amalgamarsi di stili e di generi musicali.

Ci fanno salire su una DeLorean, catapultandoci direttamente negli iconici anni ‘60/’70: le nostre ossa scricchiolano per l’umidità del Kent e il nostro cuore è stravolto dal fango di Woodstock, in piena rivoluzione musicale.

La loro peculiarità risiede nella bravura di non scadere nella cover, o nel revival; piuttosto possiedono la capacità di modernizzare le origini del Rock, trasportandolo nel 2019. Lo stravolgono e lo fondono con generi lontani dal progressive rock, come può essere la musica classica o jazz, il tutto infarcito con del buon vecchio grunge di Seattle.

Mokumokuren, primo brano dell’album, in Giapponese identifica un fantasma casalingo che nasce dagli squarci nelle pareti di carta, tipiche delle abitazioni di questo paese. Gli occhi dello spettro appaiono dalle fenditure, spaventosi, i quali si limitano a esaminare l’interno della vostra abitazione. 

Ecco l’intento di questa band: attraverso l’intro psichedelico e in crescendo, crea pertugi nel tessuto della musica contemporanea dai quali noi possiamo spiare all’interno, regalandoci l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, fungendo da Ciceroni in questo viaggio psichedelico al di fuori della normalità a cui il mercato musicale è abituato.

Pezzi come The blue traffic light ci danno l’impressione che i Beatles si siano cimentati in un ménage a trois con i King Crimson e i Pink Floyd. E nella mischia si sia ritrovato invischiato anche Nicola Piovani.

L’album alterna pezzi melodici, dove vengono musicalmente chiamati in giudizio i Ragazzi di Liverpool come Blind o Not Dosh for Parking Lot, decisamente in stile beat anni ‘60, o Around the Boat dove abbandonano per 2 minuti e 9 secondi l’atmosfera psichedelica per regalarci una pausa malinconica, a pezzi più cazzuti come Tamarind Smile/Apple Pie, che presenta cambi di registri improvvisi e passaggi psichedelici non tradizionali.

Ci destabilizzano con l’uso di strumenti datati, poco pertinenti con lo stile rock della band come il sax in Soon Everyday, donando al brano un’atmosfera esoterica, e cori in pieno stile Ennio Morricone.

Il Canterbury Sound si palesa nella cooperazione con Richard Sinclar (bassista, chitarrista, compositore nonché fondatore dei Caravan) in Impotence, che combina il jazz rock, il pop al rock psichedelico, dando una connotazione surreale. 

Nic Cester (cantautore australiano frontman dei JET) firma Rocket Belt, impregnato di rock anni ‘60, con sprazzi vocali degni di Mick Jagger, tastiere impazzite sul finale,  pezzo allucinogeno e coinvolgente.

Imperdibile e stravagante, questo nuovo album è un ritorno al passato attraverso gli occhi (e le orecchie) di ragazzi che non hanno vissuto i mitici anni ‘60 dal vivo. Ci scaraventano in un universo di sonorità arcaiche, un calderone di spiritualità e trasgressione.

Una band completa, con uno stile forsennato, capaci di mischiare il Rock’n’Roll nella sua forma più pura ad un clima malinconico degno di Ennio Morricone.

 

The Winstons

Smith

Tarmac\Sony, 2019

 

Marta Annesi

Eels: rock indietronico e musica per freaks

C’è qualcosa di unico in quello che una sola canzone può trasmetterti.

Uno stupido, apparentemente casuale susseguirsi di accordi, in fondo… eppure quando ascolto un qualsiasi brano degli Eels, succede qualcosa di inaspettato: se sono triste, mi ritrovo felice e se sono felice acquieto la mia euforia, diventando riflessiva.

Mr. Oliver Everett ha fatto questa magia, fin dall’inizio: scrivere canzoni tristi sulla felicità e canzoni felici sulla tristezza.

Ho conosciuto gli Eels a 17 anni grazie al mio fidanzatino dell’epoca. Soltanto in un periodo più maturo li ho realmente apprezzati, potendo dire ora che per me esiste una musica adatta ad ogni mio stato d’animo.

Mi spiego: gli accordi e la musica di Mr. E. si appoggiano senza peso su ogni mio tipo di emozione, rendono impalpabili i guai, mi permettono di riderci su, di alleggerire la pressione o di lasciar correre… E penso che ad avere questo effetto siano le origini, la scossa da cui nascono testi e melodie di Oliver Everett. 

“C’è qualcosa in fondo all’Io, che è fatto per non scomparire mai del tutto” dice Everett, conscio della sua continua forza per rialzarsi da ogni duro colpo infertogli dalla vita. 

L’ispirazione del cantante nasce dalla lotta che lui stesso ha dovuto intraprendere contro le perdite, i lutti familiari e lo sconforto di non essere sempre artisticamente compreso.

La sua esistenza è stata complicata fin da subito. Gli Everett non erano dei genitori tradizionali e avevano deciso di non dare alcuna regola ai propri figli, lasciando che fosse l’esperienza ad insegnare loro come cavarsela: “Ho dovuto imparare tutto nella maniera più difficile: andando per tentativi ed errori”. 

roundcube

Forse è per questo che nelle parole di ogni brano sono descritte tragedie raccontate in maniera semplice e diretta. Disarmante.

Scorrere fra le righe dei suoi testi sarà ancora più piacevole per il profondo messaggio di speranza da apprezzare, scrutando da vicino la tenacia che a lui stesso è servita per rialzarsi da ogni dura sfida.

Mentre scrivo, con accanto un bicchiere di birra, ascolto in sottofondo i testi politicamente scorretti, gli arpeggi e la voce roca di Mr. E.: un perfetto mix di rock, pop, beat indietronico, blues cantato da una voce polverosa, degna di un Tom Waits moderno. 

La musica degli Eels è malinconicamente acustica, un manifesto indie degli anni Novanta. E lo è davvero.

Come risposta alle migliaia richieste e proposte di offrire la loro musica a scopi pubblicitari, infatti, Mr. E. risponde:  “Dipende da quanto le tue canzoni significhino per te. Quando ho scritto Last Stop: This Town, non ho pensato ad un profumo, ma alla morte di mia sorella”.

É con questa dose di dignità e coraggio che Mr. E. ha subito messo tutti al proprio posto.

Gli Eels hanno sintetizzato, inoltre, quel suono a metà fra Beck ed Elliott Smith, diventato il loro marchio di fabbrica.

Non è musica che vuole seguire le mode del momento, ma nemmeno una musica “difficile”. Non ha pretese rivoluzionarie, ma è un easy listening dalla freschezza inconfondibile.

Mr. E. è un compulsivo della creazione. Ha sempre tentato, con infinita e ossessiva costanza, di superare sé stesso.

In fondo, è il minimo che ci si possa aspettare dal figlio di uno scienziato che ha dedicato la propria (breve) vita alla ricerca di una teoria sugli universi paralleli. “Mio padre era un genio, io sono solo un gran lavoratore”. 

Mr. E. è un compulsivo della composizione: ” È una tortura: certe sere me ne sto a casa a guardare un film e dopo dieci minuti sento che devo scrivere una canzone e se provo ad ignorarla il pensiero che magari quella canzone sia sfuggita per sempre mi fa diventare matto”. 

La risposta, in un’affermazione, a come gli Eels abbiano totalizzato la bellezza di dodici dischi dal 1996 ai giorni nostri.

Alcuni sicuramente vincenti, altri meno convincenti, ma sempre tutti di gran carattere. E talmente personali che, nel mercato, sono stati considerati dei mezzi flop. 

Ma i fan degli Eels, quelli che li seguono da sempre, li prendono quasi come materiale istruttivo, felici che siano l’anteprima di un nuovo eccentrico ed entusiasmante live tour.

Perché per Mr. E. un concerto non è quella sorta di mortificante “gretaest hits con applausi”, ma è un’occasione sempre nuova per ridipingere i propri brani, riarrangiando e riadattando una canzone di anni prima al presente.

Serio, ma spassosissimo dal vivo, Mr. E. crea delle vere e proprie atmosfere da garage, come se stesse suonando, come se stesse improvvisando per pochi amici. 

Insomma, che tu sia un inguaribile romantico, un cinico indefesso o un nerd in cerca di musica che non hai mai ascoltato prima, la musica degli Eels ti farà vivere la tua dimensione.

Struggente, cruda, pazza, disorientante, geniale, silenziosa o con urla da licantropo. Può farti sentire come ti pare. Non ha limiti, non ha confini. 

Foto e testo di Valentina Bellini

Ponzio Pilates “Sukate” (Brutture Moderne, 2019)

“Una band di avventurieri dell’elettrosamba, improvvisatori carichi di effetti speciali” così si definiscono questi eterogenei e colorati filibustieri romagnoli dagli abiti sgargianti.

I Ponzio Pilates, parlando del loro nuovo album Sukate, pubblicato da Brutture Moderne grazie ad una campagna di crowdfunding su Musicraiser, dicono:

“Non c’è un genere in grado di definire tutto il disco Sukate, non c’è nemmeno una frase che possa dare un’idea che sia condivisa in ogni brano. Ogni brano è indissolubilmente legato agli altri, ma ha totalmente un’identità e forse anche un genere diverso, se vogliamo parlare di generi.

Quello che abbiamo fatto è riprodurre le nostre improvvisazioni furiose e istiganti alla danza ferina, ancora, ancora, e ancora fino a che non si sono plasmate in una forma più definita e concreta”.

Il disco è stato registrato in totale isolamento dal mondo moderno, in una villa sperduta nella campagna Romagnola (loro patria natia) durante l’autunno e l’inverno del 2017, di ritorno da un’estate “caliente” per lo sconvolgente “Pizza e Vongole tour” e per la partecipazione al Pflasterspektakel a Linz (Austria) dove hanno esportato la tipica sventatezza romagnola.

L’album, in totale 33 minuti e 15 secondi di sfrenatezza e goliardia, conferma nettamente la loro visione e interpretazione di musica che non si allontana molto da quello presente in “Abiduga”, loro primo disco uscito nel 2016 (un singolare crossover musicale sicuramente unico nel loro genere).

Mescolanza di stili (afrobeat/samba/elettronica), testi provocatori e irriverenti, ad un primo ascolto sembrano nonsense, scritte e pensate al solo scopo ludico. 

L’ecletticità di questa band, però, si percepisce anche per il suo intento involontario nell’abbattere i confini culturali e musicali, portando scompiglio e disagio, intervenendo nei processi di globalizzazione sociale, oltre che musicale.

Sprezzanti del comune senso del pudore, il disco contiene pezzi sarcastici, quasi beffardi, come L’Insalata: pungente attacco verso i vegetariani o critica contro l’abuso di carne nella società moderna?

Vogliono sconcertare, usando ogni mezzo in loro possesso, non solo con la melodia ma anche attraverso i nomi dei brani, come Disagio e Camagra (Kamagra, il noto farmaco generico del Viagra), il quale ha il solo scopo di raddrizzare la nostra voglia di ballare e liberare il nostro lato più primordiale.

Il loro traguardo è slegare la parte inconscia di ognuno di noi, e per fare ciò si servono di pezzi come Bagarre o Salomone, che presentano intro plagiate dall’elettropop, passando per il funk carioca con chiarissimi cenni alla mazurka romagnola.

L’album è impregnato di multiculturalità, dall’Africa al Giappone, passando per il Brasile e approdando nella Riviera Romagnola., quasi ad affermare che la diversità non riguarda la musica, che essa deve unirci e stringerci in un abbraccio materno e corale.

Un giro del mondo in 9 brani, destinato a far ballare tutti, dai grandi ai piccini, e non solo. Per chi possiede un’anima questo album rappresenta l’umanità e il bisogno di sentirci tutti appartenenti allo stesso Mondo.

 

Ponzio Pilates

Sukate

Brutture Moderne, 2019

 

Marta Annesi

The National “I am easy to find” (4AD, 2019)

Sono passati solamente due anni da Sleep well beast, un disco così bello che tutt’ora è fatica toglierlo dallo stereo, che The National sono pronti a dare al mondo il loro ottavo album I am easy to find.

Come ogni album de The National, il primo ascolto non è mai facile ma è quello che rivela al subconscio dell’ascoltatore le atmosfere e il contesto: se Sleep well beast era un album notturno, cupo, introspettivo, prodotto tra le quattro mura di casa, questo nuovo I am easy to find è un album fresco e femminile, la cui produzione abbraccia Europa e Stati Uniti.

Con gli ascolti successivi, si prende invece coscienza di qualcosa di diverso dai precedenti album e una domanda prende forma: com’è possibile che i National siano riusciti a fare un album così tanto tipicamente loro ma allo stesso tempo così non loro?

Che cos’è che definisce l’identità musicale del gruppo? Il timbro baritonale e sexy della voce di Matt Berninger o gli arrangiamenti e le melodie dei gemelli Aaron e Bryce Dessner?

Tante domande, ma tutte lecite dal momento che nella maggior parte dei brani la voce di Berninger è affiancata, se non del tutto sostituita, dai contributi vocali delle artiste che hanno partecipato alla realizzazione dell’album, tra cui Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle, Gail Ann Dorsey e Kate Stables, mentre le melodie si avvalgono degli strumenti di un numero cospicuo di musicisti e membri d’orchestra, incluso l’amico Justin Vernon.

Eppure, questa famiglia allargata non solo non ha messo a repentaglio l’identità musicale del gruppo nel risultato finale, ma l’ha esaltata. Togliere per dare valore: quando viene a meno la connessione immediata voce-di-Berninger = The National, allora l’orecchio cerca e trova in altri elementi l’identità del gruppo, ed ecco che emerge l’intro al pianoforte di Oblivions o il rullare di Rylan, elementi identificativi che farebbero riconoscere una canzone de The National anche ad un sordo.

I am easy to find è un esercizio corale sapientemente diretto, una costellazione di brani come palloncini che fluttuano in cielo, legati al nucleo dei cinque membri del gruppo da nastri colorati.

Ogni singola traccia del disco ha un elemento di originalità al suo interno che non la fa assomigliare a nient’altro della produzione de The National, però allo stesso tempo, proprio quando l’originalità potrebbe far spaventare l’ascoltatore, arriva quell’elemento peculiare, unico e familiare, che conforta e dà sicurezza.

Questa dinamica di spingere un po’ più in là il confine di ciò che è la sonorità National e poi tornare in territori conosciuti, espansione e contrazione, non-aver-paura-ad-allontanarti-io-sono-qui, non è solo a livello dei singoli brani, ma anche proprio a livello dell’intero album.

La sensazione, ascoltando tutti i 63’ e 35’’, è che il disco respiri: la tripletta di brani di apertura — inspira — continua il discorso dove Sleep well beast l’aveva lasciato; Oblivions, The pull of you e Hey Rosey — espirasono diverse, tentano ognuna qualcosa di nuovo, e ci riescono con grazia; I am easy to find — inspira — riporta l’ascoltatore nella zona di comfort, per poi lasciare spazio ad altre due tracce — espira — che aprono a nuovi ritmi e nuove sonorità. Arriva e se ne va Not in Kansas — inspira — tipica ballata che dipinge paesaggi assolati da Midwest; altri due brani — espira — diversi, dagli altri e tra di loro: So far so fast è rarefatta e femminile, Dust swirls in strange light sembra quasi composta per una funzione religiosa. Hairpin turns e Rylan — inspira sono tutto quello che amiamo dei National; Underwater — espira — è un inframezzo strumentale che prepara alla commovente chiusura dell’album — inspira — con Light years.

Dopo vent’anni di carriera, possiamo dire che The National con questo loro lavoro abbiano tentato qualcosa di nuovo, in modo cauto forse, e ci siano riusciti con l’armonia e l’eleganza che li contraddistingue.

 

The National

I am easy to find

4AD, 2019

 

Francesca Garattoni

Redh “Torneremo EP” (Artist First, 2019)

Torneremo di Redh è un EP di sei brani che strizza l’occhio completamente al pop italiano indie. Sonoritá, riferimenti testuali, riverberi, tastiere: ogni elemento ci porta a pensare che l’obiettivo dichiarato sia finire sulla playlist Spotify “Indie Italia”, o quantomeno sulla playlist “Scuola indie”.

Già dall’apertura del primo brano Dormi veniamo proiettati in atmosfere da tastiere new-anni ’80 stile Thegiornalisti. Poi parte la voce, e ci togliamo ogni dubbio: molto riverbero, voce molto eterea alla Tommaso Paradiso.

Scorrono i brani e le caratteristiche di cui sopra si confermano passo dopo passo. Le canzoni scorrono tra sonorità orecchiabili, synth retro e testi che trattano di amori post adolescenziali-pre ingresso nei 30. 

Tutte e sei le canzoni infatti raccontano storie d’amore (spesso finite male o mal corrisposte) dal punto di un vista di un ragazzo giovane, presumibilmente universitario. I toni non sono mai però drammatici e i riferimenti linguistici che raccontano le sensazioni del cantante sono molto concreti e di facile comprensione.

Da un punto di vista strumentale, vengono elette come protagoniste le tastiere. La chitarra ha un ruolo marginale, usata quasi sempre per aggiungere colore piuttosto che per dettare la linea armonica, eccezione fatta per il malinconico brano Ci credi, in cui le chitarre escono fuori come protagoniste. La parte ritmica delle canzoni è dominata invece dalla scelta di utilizzare la drum machine elettronica al posto della batteria acustica. Scelta condivisibile che rende le sonorità dell’album complessivamente fresche e moderne.

Riguardo alla produzione musicale da un punto di vista tecnico, possiamo affermare, come detto sopra, che la scelta stilistica dei mix e dei master dei brani riflette anche in questo caso la tendenza a volere seguire le sonorità dell’indie italiano. E, quindi, si accentua molto l’utilizzo del riverbero sia nelle tastiere che nella voce, il basso non viene fatto uscire troppo nel mix e le chitarre lavorano molto sulle note singole spesso messe in delay. Ma, se nella parte strumentale questa scelta stilistica è premiante e rende il sound fresco e coerente con il mondo indie italico, nella voce il risultato non è altrettanto apprezzabile. Infatti, la voce risulta essere troppo appesantita da un eccesso di riverbero che le fa perdere un po’ di chiarezza, portandola a non amalgamarsi completamente nel mix complessivo dei brani e nascondendosi tra le frequenze dominati delle tastiere, anch’esse, come già detto, molto riverberate.

Per quanto riguarda la struttura delle canzoni — strofa, ritornello, variazioni — Redh mostra una buona consapevolezza e maturità compositiva: i brani scorrono tutti fluidi e arrivano alla fine con leggerezza, senza cadere in inutili barocchismi. Gli intro durano il giusto, le strofe conducono correttamente ai ritornelli, i quali entrano puntuali e assumono la giusta importanza nell’equilibrio dei brani. Anche da un punto di vista armonico, i ritornelli sono ben valorizzati e spesso risultano essere ben orecchiabili.

Per concludere, Redh ha creato sei brani leggeri, abbastanza maturi da un punto di vista della produzione — eccezione fatta, forse, per la scelta sbagliata nel missaggio della voce — e con un’apprezzabile capacità nel creare melodie orecchiabili e piacevoli accompagnate da un sound moderno ed azzeccato.

La parte debole dell’album sono, invece, i testi delle canzoni: da un lato troppo monotematici (si parla sempre e solo di storie d’amore) e dall’altro lato privi di spunti interessanti nella scelte stilistiche e lessicali. Mancano infatti quelle metafore, quelle parole giuste, quelle frasi apparentemente idiosincratiche che ti fanno dire “wow” mentre le ascolti. Forse, manca anche un po’ di ironia nel modo di raccontarle, queste storie d’amore.

 

Redh

Torneremo EP

Artist First, 2019

 

Michele Mascis

Mac DeMarco “Here Comes the Cowboy” (Mac’s Record Label, 2019)

Mac DeMarco è un tipo strano, altrimenti non si spiega perché mai un canadese dovrebbe realizzare un intero disco dedicandolo ai cowboy. Certo, cowboy bizzarri, come lui, fumettistici, ma pur sempre cowboy. Proprio lui, quello che di più lontano dall’immagine hollywoodiana del vaccaro con pistola, cappello a falda larga e speroni, possiamo immaginare. Probabilmente i cowboy che passano le giornate a bere nei saloon avrebbero voluto prederlo a calci nel sedere, uno come DeMarco: Mac è uno da t-shirt e cappello da baseball, da maglioni del nonno e da salopette. Non è un macho, non si prende sul serio e, soprattutto, non usa artiglieria pesante. Ma, cosa più importante, non salverà la situazione come ogni buon cowboy che si rispetti: la guarderà andare a rotoli e poi ci scherzerà su. Ed è per questo che lo amiamo così tanto. 

Here Comes The Cowboy è il suo quarto, ed insolito, album, che arriva cinque anni dopo Salad Days, il lavoro che lo consacrò a figura iconica della musica indie internazionale, e due anni dopo This Old Dog, dedicato alla relazione difficile con il padre. Questo lavoro è il primo prodotto dall’etichetta che lui stesso ha fondato, la Mac’s Record Label. Tutto fatto in casa, insomma, come confermato anche dalla scelta di suonare quasi tutti gli strumenti per conto proprio, ad eccezione delle tastiere affidate in certi casi ad Alan Meen, e avvalendosi soltanto dell’aiuto del fonico Joe Santarpia. Il fatto che DeMarco abbia deciso di auto-prodursi un album merita una riflessione: probabilmente dietro c’è il bisogno di avere maggiore libertà, la possibilità di essere veramente se stesso, di fare un po’ come vuole. Sacrosanto. E infatti Here Comes the Cowboy si spinge fino ai confini dell’iperuranio.

Solo per darvi la dimensione di quello che succede, la prima traccia, quella che dà il titolo all’album parte con una chitarra, che fa pensare al classico cazzeggio pre registrazione per scaldarsi un po’ le dita, ed è composta da un solo unico verso, ripetuto all’infinito: “Here comes the cowboy”. Eppure, nonostante queste premesse che potrebbero far presagire il peggio, il pezzo è caratterizzato da un perverso magnetismo. I suoi cowboys infatti non possono essere altro che personaggi strambi, niente di eroico, per carità, ma qualcosa che conforta in una società che ha sempre più difficoltà ad ammettere le proprie debolezze.

Quasi tutti i pezzi sono percorsi da una vena malinconica. Su questa atmosfera c’è Nobody, un pezzo laconico, tra i migliori del disco, una marmellata di suoni in stile californiano.

Preoccupied, invece, ci porta su un piano diverso, meno giocoso e meno dolce, più preoccupato, appunto. Non è difficile immaginarselo, Mac, mentre guarda pensoso, fuori dalla finestra. Tra le parti più interessanti del pezzo c’è la base con il cinguettio degli uccellini, che contribuiscono a dare consistenza al mondo surreale e sgangherato che DeMarco ci racconta; il testo è un blues disincantato, e sembra quasi criticare una cultura trumpiana in cui le menti sono “aperte” ma “piene di cazzate”.

Proprio l’aspetto dei testi è interessante in questo disco: molto più asciutti, a volte pervasi da un vero e proprio minimalismo linguistico, ma sempre con valutazioni sardoniche sul sogno americano. Come in All Of Our Yesterday, pezzo sarcastico che esplicita il concetto che molte delle cose migliori del nostro passato sono scomparse e non torneranno. Anche per questo motivo, è evidente che DeMarco è cresciuto. Questo è senza dubbio il suo disco più autentico e sporco. Se è vero, come aveva dichiarato in qualche intervista, che Salad Day era stato scritto in camera da letto, questo Here Comes The Cowboy è assolutamente stato composto in garage, o in una soffitta polverosa e invasa dalla luce del sole, che gli ha permesso di vedere meglio ogni singolo pulviscolo.

Quando arriva Choo Choo mi chiedo se sia uno scherzo. Forse sì. Su una base funk il fischio del treno fa da contraltare al falsetto di DeMarco, che ancora oggi si dimostra un artista accessibile e mai troppo serio, uno che fa musica – apparentemente – ingenua e che sembra immune dall’invadenza del mondo reale. È come se si fosse creato una bolla per proteggersi dalla tristezza di quello che succede. Forse, però, qualcosa sta cambiando. Su Little Dogs March, canta “spero che ti sia divertito, tutti quei giorni sono finiti ora”.

L’ultima traccia, Baby Bye Bye, è la più assurda di un disco abbastanza assurdo, ma è anche uno dei pezzi più memorabili. Non voglio rovinare la sorpresa a nessuno, quindi dirò solo che dentro ci si può trovare una chitarra slide, un treno che parte, una voce che parla giapponese e qualche sonorità funk.

Il bello di Mac è questo suo essere diventato oggetto di una sorta di strano culto, ovunque accolto come una grande star, un’icona insolita e sbilenca, e allo stesso tempo di fregarsene totalmente di quello che viene prodotto oggi nel mondo della musica. Quello che appare evidente da questo disco è che Mac DeMarco stia cambiando, forse sta diventando grande, chissà.

Here Comes The Cowboy sembra testimoniare il desiderio di trovare una nuova strada. Si tratta essenzialmente di un album più nudo rispetto ai precedenti, a partire dagli arrangiamenti, spesso composti da una chitarra, un piano e poco altro, fino ad arrivare ai testi.

Buono, ma a volte – ad eccezione di qualche pezzo – ci si ritrova a desiderare qualcosa di un po’ più divertente, un po’ più vivace, un po’ più DeMarco.

 

Mac DeMarco

Here Comes the Cowboy

Mac’s Record Label, 2019

 

Daniela Fabbri

Glen Hansard “This Wild Willing” (ANTI-, 2019)

Impressioni impressionistiche, tirar pennellate sull’argomento, risultato di una settimana di ascolto,
alla ricerca delle intenzioni, 
della trama e dei retrogusti, più che la disamina della grammatica del disco.
Correndo spesso ai taccuini per fermare un’idea, scrivendo dove capitava su quello che capitava. 

 

Notte. C’è un uomo che cammina per le strade di Parigi.
Quinto arrondissement, torna verso un letto, non verso casa sua.
Mani in tasca, collo incassato, la barba struscia sul bavero, alzato. 

Gli occhi sono puntati sulla strada bagnata, ma tradiscono l’altrove in cui si trovano i suoi pensieri. Sta portando a spasso per il quartiere idee e ispirazioni, con la chiara intenzione di contaminarli o, volgarmente, di concimarli.  Respira forte l’aria di una città che non è la sua, per trovare una inquadratura che non sia scontata, usurata o, semplicemente, la solita. 

La geografia di un pensiero è un atto inconscio, ma è figlio, almeno in questo caso, di un piano ben congegnato.
Prima che l’ordine del mondo venisse appaltato al monopolio delle religioni monoteiste esisteva una consapevolezza sana che delegava ai luoghi, al mondo, il ruolo di attore comprimario. Mentre le ninfe presiedevano alla sacralità della bellezza della natura, Il genius loci era l’antica divinità protettrice di un luogo, in genere di una casa, di una famiglia. Lentamente, nel corso dei secoli, il suo ruolo è mutato, estendendo, per sineddoche, il proprio ruolo di protezione e rappresentazione  a comunità più estese. La storia ha conservato l’idea del genius e l’estetica prima e l’architettura in un secondo momento l’hanno adottata, trasformandola in un approccio metodologico alla propria materia di studio. Rimane tuttavia una parola antica, carica di significati sovrapposti, stratificati, e nasce come un’entità viva, senziente e panica.
Il genius loci lo sta cercando un uomo che cammina per strada, a Parigi.
È irlandese, di Dublino, quarantotto anni.
Lui lo sa bene, certi uomini sono più propensi a farsi influenzare dai luoghi e dai loro demoni. Parigi traccia i confini del suo pensiero e del suo lavoro. Entra nei testi, nelle amicizie, nelle collaborazioni. L’humus della città fa fiorire le idee. E ci sono città che riescono in questo compito meglio di altre. Alcune, come Seattle, funzionano da catalizzatore. Altre vanno semplicemente cantate, come fece Bowie a Berlino.
Il nostro uomo camminava per altre strade, appena un anno prima, esattamente quelle di Chicago. Quello che nacque dall’altra parte dell’Atlantico è un’opera piena di genius locale. Quasi il portarsi fisicamente altrove funzioni come un atto volontario per sperimentare e contaminare, nonostante migrare, anche solo artisticamente, sia attuale, ma non di moda.
Parigi ha una biomassa estetica piuttosto elevata. Stratificazioni di secoli di vite, di arte, di artigiani, di storie. È impossibile camminare per quelle strade e non avere una vertigine. E no, non è labirintite, è una carezza di Stendhal.   

C’è un irlandese che cammina per le strade di Parigi. Le mani in tasca sono rosse  e doloranti.
La testa corre, pulsa, a dirla tutta fa anche un po’ male. Quello che nessuno racconta, nella costruzione della mitologia di un cantante è la fatica, fisica, del comporre. Lo si trova nei racconti degli amici e colleghi di Springsteen, ad esempio, quando ricordano l’incessante lavoro di cesello in sala di registrazione, il broncio perenne e l’insoddisfazione come condizione necessaria alla produzione artistica.
Il nostro irlandese, come Bruce, ha scelto un approccio artigianale alla propria arte. Se si vuole contestualizzare, per meglio rendere e far ballare (anche) le parole, possiamo definire tutto questo come approccio analogico alla creazione musicale. Ci dice il nostro:

“Sometimes when you take a small musical fragment and you care for it, follow it and build it up slowly, it can become a thing of wonder”.

È l’artigiano che sa individuare un frammento utile, anche solo dal punto di vista estetico e valorizzarlo. È un punto di partenza, ma già solo per individuarlo serve essere artigiani. E da lì inizia un lavoro analogico, fatto cioè di analogie, di similitudini, di vicinanze, fisiche e culturali.
Non c’è posto per il digitale nel pensiero del nostro uomo. Il digitale è uno o zero, è vero o falso. È campionatura, non citazione. L’essere o non essere digitale si dissolve nel pensiero analogico fatto di infinite sfumature, fossero anche solo di grigi.
L’analogico è un pensiero a cascata, anche per quello che si lega alla musica, ossia i testi delle canzoni. I temi sono quelli da lui già trattati, già cantati, ma se la materia è ben nota quello che cambia è il modo in cui viene trattata. Il fantomatico genius che va cercando gli servirà proprio a questo. Parigi gli regala testi vicini quasi alla tradizione del troubar clus medievale, citazioni bibliche, ma anche, e forse soprattutto, una multiculturalità che prende vita nelle collaborazioni del suo ultimo lavoro. Irlanda e Iran si intrecciano, inaspettatamente, in un disco di un busker di Dublino. È il pensiero analogico che permette a mondi così distanti di parlarsi, dando vita ad atmosfere veramente particolari e a colpi di scena musicali. E’, nelle intenzioni e nelle parole, una ricerca continua, di amore, di strade e di identità, un flusso di coscienza mormorato sui marciapiedi di Parigi.
Il nostro irlandese che cammina è figlio dell’Ulisse di Joyce, quantomeno della sua forma, così instabile e fragorosa e densa. E’ figlio dei cieli della sua isola e delle sue birre, della sua storia e della sua forza. Un centro stabile e coerente, portato volontariamente in terra straniera alla ricerca di nuove sfumature. Un piccolo demone parigino che gli sussurra nelle orecchie e un gruppo di amici dediti al particolare musicale.
Gli ingredienti ci sono tutti. 

C’è Glen Hansard che cammina verso l’Irish Cultural Centre, dove alloggia da un mese. Ha concluso il suo ultimo lavoro, This Wild Willing, da poche ore, grazie al suo amico David Odlum, con cui collabora da anni. Ha suonato e cantato con connazionali e con musicisti provenienti da mezzo mondo, ha lavorato duramente su piccoli frammenti musicali che tra le sue mani sono diventati grandi pezzi. Ha cantato piano, sottovoce, perché ha inciso un album che va ascoltato dedicandoci del tempo, senza strepiti, senza fretta, richiede merce rara, l’attenzione. Sette canzoni su dodici superano i cinque minuti.
Cammina l’Hansard musicista, consapevole di aver fatto un buon lavoro da artigiano e un ottimo lavoro come artista.
Cammina, Glen, verso un’altra città, verso un nuovo genius loci, verso nuovi amici con cui condividere una pinta di Guinness e qualche accordo, sia mai che ci scappa un altro gioiello come questo This Wild Willing.

 

Glen Hansard

This Wild Willing

ANTI-, 2019

 

Andrea Riscossa

Cage the Elephant “Social Cues” (RCA Records, 2019)

C’è una buona e una cattiva notizia sul ritorno dei Cage The Elephant. La buona notizia è che Social Cues è un bel disco. La seconda è che per qualche giorno, da quanto è orecchiabile, sarà impossibile ascoltare altro.

L’ultimo e quinto album della band del Kentucky è uscito il 19 Aprile 2019 per RCA Records. Ad averci messo le mani sopra, questa volta, il Re Mida della produzione: John Hill, già celebre per aver lavorato con Florence + The Machine e Santigold.

I Cage the Elephant hanno alle spalle una carriera decennale, ma sono diventati grandi senza mai farsi notare troppo. Nella loro produzione non esiste qualcosa di assolutamente eccezionale in termini di scrittura o audacia sonora, ma la loro formula è rimasta comunque fortemente caratteristica e piacevole.

Dal 2008 ad oggi hanno attraversato un’enormità di generi: dal blues al garage, passando per il funky con una punta di elettronica. Nelle tredici tracce che compongono Social Cues la metamorfosi sembra finalmente essersi compiuta: dal rock più sporco e viscerale degli esordi ad un suono più elegante e sofisticato, per un disco di certo meno rumoroso dei precedenti.

Broken Boy è l’urlo iniziale dell’album. Non poteva esserci apertura migliore. Un pezzo abrasivo, con una produzione lo-fi, che piacerà ai fan della prima ora. Tutto il disco sembra convergere sul tema dell’alto prezzo del successo, che spesso viene pagato dagli artisti in termini di ansia, esaurimento nervoso, senso di inadeguatezza e psicopatie varie.

Tutto questo unito a una buona dose di automedicazione messa in pratica da Matthew Shutlz, in seguito al recente divorzio dalla moglie. “Tell me why I’m forced to live in this skin, I’m an alien”, canta Matt. E preparatevi: è solo l’inizio.

Infatti, il testo della canzone successiva che porta il nome dell’album Social Cues recita “sarò nel retro, dimmi quando è finita”, con Shultz che canta “non so se posso interpretare questa parte molto più a lungo”.

Black Madonna, insieme a Ready to Let Go, è tra i pezzi più pop. Eccessivamente elaborata, ma allo stesso tempo più apatica rispetto al resto. Lo stesso vale per Love’s the Only Way e What I’m Becoming, che sembrano pezzi già sentiti altre volte dai Cage the Elephant. Quello che si avverte è un fastidioso senso di familiarità che contribuisce solo a renderli meno brillanti rispetto al resto dell’album.

Uno dei pezzi migliori è Night Running, con Beck. La canzone ha una vena reggae, sia nel suo backbeat che nella produzione, oscura e con effetti sonori simili a quelli della dub. Il suono è pieno e arioso, e anche il cantautorato richiama alla mente quello più tradizionale dei Cage the Elephant.

Skin and Bones è seducente e sembra perfetta per diventare un singolo radio.

La vera bomba a mano dell’album però è House of Glass, che al primo ascolto potrebbe essere un pezzo cantato da Tricky. Qui la progressione della chitarra di Brad Shultz, fratello del cantante, sembra abbracciare alla perfezione i testi di Matt sull’isolamento e la mutilazione, e sostenere i suoi continui tentativi di convincersi dell’esistenza dell’amore.

L’album termina con Goodbye, una delle canzoni più tristi e spettrali del disco. “Non piangerò, il Signore sa quanto ci abbiamo provato”, si tratta di una ballata accompagnata da un pianoforte echeggiante, in continuo crescendo.

“Tante cose che voglio dirti, così tante notti insonni ho pregato per te” recita il testo, ed è in questo preciso momento che i Cage the Elephant svelano il loro grande potenziale nel toccare le corde più fragili e commosse della nostra anima.

In Social Cues il suono è molto stratificato, complesso, ma compatto. Tutto ben amalgamato con la voce di Matthew Shultz. I testi sono più oscuri rispetto al passato, complice anche il recente divorzio del cantante, ma nel complesso i Cage the Elephant rimangono gli stessi ragazzoni spavaldi di sempre.

Non siamo di fronte ad un lavoro rivoluzionario o che passerà alla storia, ma allo stesso tempo, di certo, Social Cues non deluderà i fan. Questo album è da intendersi più come colorare fuori dalle righe, anziché inventarsi un disegno nuovo, ma bisogna ammettere che i Cage the Elephant hanno dimostrato di essere, una volta in più, una band tra le più ecclettiche e divertenti in circolazione.

 

Cage the Elephant

Social Cues

RCA Records, 2019

 

Daniela Fabbri

Frigo “Non Importa” (La Clinica Dischi, 2019)

Arriva da Firenze il nuovo progetto firmato FRIGO.

Dopo aver aperto una lunga serie di live di vari artisti della musica italiana come Lo Stato Sociale ed Elio e le storie tese, la band torna a farsi sentire, ma questa volta lo fa diventando la protagonista assoluta e facendosi largo nella scena pop con Non importa, il loro nuovo album pubblicato da La Clinica Dischi.

Le nove tracce che compongono il disco sono state prodotte da Pietro Paletti (Sugar, Woodworm) e da Francesco Felcini (Motta, Le Luci della Centrale elettrica, Giorgio Canali) tra Firenze, Sarzana e Brescia e sono un concentrato vero e proprio di vita, diviso e descritto in maniera impeccabile.

Ogni canzone lascia qualcosa addosso: sono tutti testi che offrono la possibilità di fare un passo indietro, di riflettere su ciò che è stato e di riportare l’attenzione sulle piccole cose che sembrano essere l’unica strada diretta alla felicità.

Quella felicità che sembra sempre inafferrabile e che magari è proprio accanto a noi, nelle nostre giornate, nella semplicità che a volte dimentichiamo di vedere e quindi di vivere.: forse è perché siamo talmente presi dal voler immaginare tutto in grande che spesso tralasciamo i dettagli. Cerchiamo di insabbiare il nostro passato senza avere il coraggio di guardarci dentro o semplicemente di guardarci allo specchio, che poi, a pensarci bene, sono gli unici due modi per camminare sereni nel nostro presente e andare incontro al futuro con un paio di scarpe nuove.

Non importa è una sorta di: “Fermati un secondo” perché importa eccome, perché ci sono cose che contano ed è giusto non dimenticarle.

Conta chi sei, cosa vuoi, cos’hai perso, cos’hai, cosa senti.

Conta di cosa sono fatti i tuoi ricordi e in cosa riponi le tue speranze.

Conta quanto ti soddisfa il tuo lavoro e se hai qualcuno a cui raccontare com’è andata la tua giornata o semplicemente conta avere un proprio equilibrio e conta persino la ricerca continua di quel buon vento capace di sistemare ciò che nel tempo si è spostato e ciò che è giusto lasciare andar via. Infatti siamo tutti un po’ quell’isola di cui si parla in Vento dei maiali, in balia di eventi che si susseguono e persone che s’incontrano. 

Siamo tutti un po’ parte di Quando tu non ci sei perché inevitabilmente abbiamo provato almeno una volta quella sensazione di nostalgia verso qualcuno che è andato via dalla nostra vita e quella solitudine che, a volte, per quanto possa esser desiderata, in realtà appare spesso come sinonimo di vuoto senza quel qualcuno accanto. 

Abbiamo camminato tutti almeno una volta per Via dei Bardi, dove riemergono ricordi, passioni svanite, voglia di tornare indietro e voglia di ritrovarsi, di ritrovare la strada giusta.

Siamo tutti un po’ sognatori come Pamela e vorremmo tutti liberarci da tante convinzioni e paure per fare spazio alla gioia, proprio come succede in La gioia e l’ansia.

La punta di diamante del disco è Leoni da cortile, brano vincitore del concorso “Mai in Silenzio” sulla violenza di genere, organizzato dalla Regione Toscana e Controradio, per la giornata sui diritti umani del 2018. La canzone racconta quel momento in cui ognuno di noi scopre una parte brutta di se stesso, quella parte che a volte per fortuna o sfortuna emerge, quei lati oscuri che vorremmo non vedere mai e che spesso condanniamo negli altri, ma che in realtà basta un niente per far sì che diventino anche nostri.

“Perdonami, se non ti ho detto che cos’ero e l’ho scoperto insieme a te”.

Forse è vero che non si smette mai di conoscere una persona, ma è anche vero che non smettiamo mai neanche di conoscere noi stessi, soprattutto grazie alle persone che incontriamo.

Questo disco aiuta molto in questo e in tanto altro.

Buon ascolto.

 

Frigo

Non Importa

La Clinica Dischi, 2019

 

Claudia Venuti

Limbrunire e l’innovazione nel cantautorato

Siamo nell’era dell’emulazione, del – tutti copiano tutti – con la convinzione che la stessa formula valga e funzioni a prescindere da quelli che siano i contenuti di ogni singolo individuo.

Siamo nell’era in cui la musica sembra un grosso contenitore, a tratti fin troppo piccolo, incapace di racchiudere così tante note e parole, ma la cosa più difficile è senza dubbio quella di distinguersi ed “emergere” facendo la differenza.

C’è un ragazzo che sa bene come fare, sa bene come farsi riconoscere senza che ci sia neanche lontanamente il rischio di non essere identificato e questo accade per due motivi: il primo riguarda i testi delle sue canzoni, tutti lontani dalla parola “banale” perché ha la straordinaria capacità di descrivere e raccontare in un modo tutto suo ciò che sente e lo fa con estrema cura nella scelta delle parole da usare e accostare l’una all’altra.

Il secondo riguarda la sua persona, il modo in cui percorre la strada che ha scelto “lottando” a mani nude e con la sua chitarra creando musica vera, proteggendo e conservando la sua identità artistica che coincide perfettamente con la sua identità personale e umana.

Il ragazzo in questione si chiama Francesco Petacco, meglio conosciuto come Limbrunire un giovane talento proveniente dal levante ligure che ho scoperto qualche mese fa grazie al suo ultimo singolo “Ho – Oponopono” estratto dal suo primo disco: “La spensieratezza”  uscito a giugno del 2018.

La prima cosa che ho pensato ascoltando quella canzone dal titolo quasi impronunciabile è stata: “Che genio!” e la stessa esclamazione mi ha accompagnata durante l’ascolto di ognuna delle restanti tracce del disco che ho ascoltato e riascoltato fino a conoscerle a memoria.

Limbrunire ormai mi accompagna “all’imbrunire”di molte delle mie giornate, soprattutto durante i viaggi in macchina.

Con la sua musica è un po’ come fare un “viaggio nel viaggio” e ho aspettato prima di chiedergli un’intervista, perché volevo andare a fondo.

Volevo capire bene quali fossero i suoi messaggi e quale fosse la sua linea che si è rivelata ben presto una bellissima linea curva, proprio come la vita di ognuno di noi…

E’ solo che poi c’è qualcuno che ha una sorta di “dono” nel raccontarla e risulta quasi impossibile non rimanerne affascinati.

Ecco alcune delle mie curiosità….

 

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Facciamo subito un passo indietro prima di arrivare ad oggi e all’uscita del tuo primo album: La spensieratezza Chi era e quali erano i sogni di Francesco prima di diventare Limbrunire?

Francesco era ed è un ragazzo come tanti altri con una grande passione diventata nel tempo sostanza vitale e necessità primaria come la testa fuori dall’acqua dopo secondi d’apnea. I sogni di Francesco in realtà sono fiori di un prato che vengono annaffiati costantemente, a volte appassiscono ma poi rinascono più grandi e colorati di prima, alle volte vengono raccolti e regalati ad un sorriso come un battito di ciglia, di stupore. Francesco ha sempre creduto nelle possibilità di ogni individuo e come tale sente il bisogno di mettersi in gioco per lasciare un punto esclamativo su questo interrogativo passaggio! La condivisione per Francesco è un pasto fondamentale così come la curiosità di andare oltre i propri limiti, circoscrivere la temuta drammaticità del tempo a favore del qui ed ora, dell’essere presenti appieno, adesso!

 

L’uscita di un disco è il primo e vero confronto diretto con il grande pubblico, è il traguardo al quale si arriva attraversando vari step che vanno dalla stesura di un testo alla sua registrazione. A distanza di quasi un anno dal giorno di uscita del tuo debut-album e dopo aver avuto modo di portare in giro la tua musica con un bel tour in giro per l’Italia, qual è la parte che hai amato o che ami maggiormente di quello che hai avuto modo di vivere grazie a questa esperienza e in generale del tuo percorso musicale personale?

Chiudere i flight-case, preparare la valigia, salire in auto, fermarsi agli autogrill, le cazzate, i chilometri on the road, le domande, i dubbi, le tensioni, i gradini, il palco, il sound-check, il riscaldamento, il bicchiere di vino, l’ultimo briefing e l’abbraccio con la band, l’ok, 3..2..1, la sensazione d’infinito! Turbinio d’emozioni e lacrime trattenute a stento, nastri riavvolti.

 

C’è un tuo brano che amo in particolar modo e che ad ogni ascolto mi regala una riflessione in più perché riesco a cogliere sempre qualche dettaglio che la volta prima mi era sfuggito ed è Non è allarmante. Prendendo spunto proprio dal suo testo, per te di cos’è fatta quella bellezza (da tramandare) e come inganni le forze contrarie?

La bellezza da tramandare risiede dentro di noi, nella nostra anima, nella fratellanza e riconoscenza, nella mano allungata e non nel pugno in faccia, nei piccoli gesti e negli spazi grandi, negli abbracci sinceri, nella presenza! Il mondo è pregno di bellezza ma l’odio, la brutalità, la malvagità ahimè fanno più notizia, hanno maggiore appeal mediatico e catalizzano maggior interessi, e tutto ciò che si ripete ciclicamente se viene servito come unico pasto quotidiano alla fine diventa paradossalmente buono, l’alibi sul quale addossare un nemico. Io credo che l’impegno di ognuno possa risiedere nel tramandare i flussi positivi e non considerare quelli negativi, nell’ignorarli completamente. Martin Luther King affermava:

“L’odio genera l’odio, la violenza genera la violenza, un conflitto genera conflitti ancora più grandi”.

Io credo che la bellezza possa generare solo bellezza, la non violenza la pace, la gratitudine e riconoscenza solo un mondo migliore. Gli esempi sono fondamentali perché noi un giorno saremo gli antenati di coloro che verranno! La mia missione risiede in questo, nell’essere ricordato come “artista” ma ancor prima come persona.

 

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Seguendoti molto sui social, ho avuto modo di vedere che hai fatto da poco un viaggio a Praga e da lì hai pubblicato la foto di un foglio pieno di parole, ci sono nuovi progetti in cantiere? E a proposito di viaggi, se avessi la possibilità di teletrasportarti in questo istante da qualche parte, dove andresti e perché?

Ci sono sempre nuovi progetti in cantiere, vivo di progetti, mi aiutano ad essere intenso e costantemente stimolato, ad essere proiettato sempre sul prossimo step da compiere! Nell’immediato uscirà un nuovo singolo con relativo videoclip e dopo… Chissà. Se avessi la possibilità di teletrasportarmi adesso sarei in Islanda o in Nuova Zelanda, comunque sia agli antipodi di dove sono adesso, per immergermi totalmente nell’ambiente selvaggio, lasciarmi rapire da scenari unici e creare un tutt’uno con gli elementi per ridimensionare l’ego e riconsiderare me stesso.

 

Se dovessi descriverti con uno stato d’animo, quale sceglieresti e perché?

Nostalgico perché ho la sensazione che qualcosa ci sia sfuggito, che qualcosa ci manchi.

 

Ultima domanda: quali sono gli elementi fondamentali della tua felicità? Li hai tutti in questo momento o c’è qualcosa che ti manca?

Non so cosa sia realmente la felicità, ci sto lavorando. So cos’è l’altopiano della serenità, il benessere psico-fisico e quello che mi permette di essere allineato. Mi manca sempre e comunque una cosa ma non la dirò per scaramanzia, la sto cercando da anni!

 

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Ringrazio Francesco per aver condiviso un pezzettino del suo mondo raccontando qualcosa in più di sé stesso e vi consiglio di ascoltare il suo album (disponibile su tutte le piattaforme online) per intraprendere uno di quei viaggi di cui vi parlavo poco fa, in grado di far guardare tutto quello che ci circonda ogni giorno da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati.

Se a scuola durante l’ora di musica ci fosse la possibilità di studiare i testi delle canzoni, proporrei senza dubbio di analizzare alcune delle sue.

Chi mette attenzione in quello che fa, poi quella stessa attenzione la merita ed automaticamente l’attira.

Limbrunire in questo è un fuoriclasse.

 

Claudia Venuti