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Deproducers “DNA” (Ala Bianca Records, 2019)

Dopo essersi avventurati tra le stelle con Planetario (2012) e aver fatto ritorno sulla terra, tra le meraviglie del mondo vegetale in Botanica (2016), i Deproducers firmano DNA, il nuovo capitolo del progetto Musica per Conferenze Scientifiche, in collaborazione con AIRC. Lo straordinario collettivo artistico formato da musicisti, cantautori, produttori del calibro di Vittorio Cosma, Riccardo Sinigallia, Gianni Maroccolo e Max Casacci accoglie come frontman d’eccezione il filosofo e bio-evoluzionista Telmo Pievani per raccontare la storia dell’antenato comune di tutte le forme viventi, il DNA. 

Nella comunicazione tra musica e scienza, nel loro scambio reciproco, si sviluppa la narrazione dei temi cardini dell’evoluzione, dalla formazione delle prime cellule, alla comparsa dell’Homo Sapiens, fino alle nuove conquiste della genetica e della ricerca oncologica, sottolineandone il valore culturale ed umano. 

Un’opera innovativa, ambiziosa ma allo stesso tempo accessibile, che permette di trasformare un convegno scientifico in uno spettacolo live coinvolgente, immersivo che punta sulla sinergia tra brani inediti, immagini suggestive e una scenografia costruita ad hoc (la data zero del tour è prevista per il 9 aprile al Teatro Grande di Brescia, la Prima andrà in scena l’11 aprile al Parco della Musica di Roma). 

In una alternanza tra concetti esposti da un cantato semplice, al limite del “parlato” nelle voci di Pievani e Sinigallia, e atmosfere delineate dalla sola musica, vagante tra ambient, acustica, neoclassica e rock, Abiogenesi dà il via a questo viaggio, elevandosi a colonna sonora introduttiva, come una nuova Così parlò Zarathustra in 2001 Odissea nello spazio. Storia compatta della vita introduce la figura di Carl Segan, astronomo che nel 1966 inventò il calendario cosmico: l’intera storia dell’universo, dal big bang ad oggi, comparata ad un anno solare. Miliardi di anni compresi tra il primo gennaio e la mezzanotte del 31 dicembre. Un crescendo musicale che va di pari passo e sfocia in una pura traccia elettronica, dominata da una voce computerizzata che elenca, tappa dopo tappa, le scoperte fondamentali nella storia dell’uomo, ricordando i Daft Punk in Harder Better Faster Stronger.

Sullo stesso impianto sonoro si snoda DNA, la title track, in una successione di bassi potenti, suoni taglienti e la ripetizione delle iniziali delle basi azotate che compongono la doppia elica: A per adenina, C per citosina, G per guanina, T per timina. Suite cellulare è l’opera lirica del disco. Divisa in quattro movimenti, accompagna le fasi evolutive con solennità. Dalla ritualità di un coro iniziale, il ritmo cambia, si riempie e si completa. Monofonia e polifonia che rappresentano, in musica, il passaggio dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari, giungendo al picco di massima intensità nella nascita del sesso. Quest’ultima, definita in termini evoluzionistici come prevenzione naturale che allontana dal pericolo dell’omologazione e dell’uniformazione, si colora di tinte romantiche e ammiccanti nella melodia lontana di un sassofono. L’energia e la vitalità di L.U.C.A. celebrano l’ultimo antenato comune universale (Last Universal Common Ancestor) e si contrappongono allo scenario inquieto di Cancro, in cui le percussioni cupe e il timbro tipico dell’organo riecheggiano la Cavalcata delle Valchirie di Wagner. La chiusura è affidata a Serendipità, termine coniato dall’inglese Horace Walpole nel 1754 per indicare la fortuna di fare scoperte casualmente, trovando qualcosa di inaspettato nella ricerca qualcos’altro.

Un riassunto di tutte le vibrazioni precedenti, un’aria melodica di apertura e progressione. Quello che prima era un coro serioso, quasi gregoriano, ora sono voci illuminate dallo stupore. La sintesi del percorso di riflessione che si intraprende, spesso, anche grazie alla musica e alle sue capacità di introspezione. Il potere di unire questo strumento essenziale con la ricerca scientifica, fonte inesauribile di domande e risposte, metafora del processo di miglioramento di se stessi e dell’umanità, attraverso la conoscenza.

 

Deproducers

DNA

Ala Bianca Records, 2019

 

Laura Faccenda

Lupo “To the Moon” (Riff Records/Grand Tree House Records, 2019)

Lupo è il progetto acoustic-folk di Enrico (Chicco) Bedogni, polistrumentista reggiano ex voce, chitarra e synth della band post-rock AmpRive (Fluttery Records, USA), da cui fu costretto ad allontanarsi per un problema all’udito. Inizia così per Chicco Bedogni un periodo di sofferta astinenza dalla musica che lo conduce proprio alla realizzazione di questo EP solista To the Moon. La paura di non poter più far parte del fascinoso mondo musicale si riflette in queste sei ballad songs, contorniate da un’aurea lenta e malinconica. Tra folk americano e bluesman meravigliosi e tormentati ci si ritrova coinvolti nello sfogo dell’autore, in un lamento disperato ad una luna distante ed assente. 

Il nome stesso del progetto riecheggia il concetto, coinvolgendo gli ascoltatori in questo ululare notturno, cupo ed inquieto, invocato da un’umanità impaurita e troppo sola. Gli individui si ritrovano abbandonati a se stessi in un mondo insensibile che non lascia scampo. L’unica via di fuga sembra essere la musica con il suo immenso potere di infondere la speranza di un riscatto. Un nuovo inizio per gli individui di cui narrano le canzoni e allegoria di una rinascita personale e professionale per l’artista. “La musica era il mio rifugio. Ho potuto strisciare nello spazio tra le note e dare la schiena alla solitudine” (Maya Angelou). 

L’EP comincia proprio con Brother and I, che porta a riflettere su come la condivisione di un’origine e di una fine comuni non basti a rendere gli uomini fratelli. Rimaniamo uomini soli e impauriti, gettati in un mondo privo di compassione. La nostra inadeguatezza e debolezza di fronte alla perfetta immensità dell’universo viene ribadita in Slow Big Crunch. La voce potente dell’artista, accompagnata dalla chitarra e dal suono originale del banjo, si rivolge al cielo colmando un infinito imprevedibile e spaventoso. 

Allo stesso modo The Bluesman Blues toglie dal disincanto giovanile, peccatore ma ingenuo allo stesso tempo, svelando la verità di una vita futura piena di insidie. Il brano, duro e diretto, enfatizza l’essenza folk dell’EP grazie all’energia trasmessa dall’armonica.

Una critica verso la sterilità dell’animo umano prosegue in Whispers To The Wind, in cui si considera come l’altezzosità e l’orgoglio, perseguiti tanto spesso dagli individui, conducano solo a solitudine ed inquietudine. 

Uomini, sempre più distanti tra loro e distratti da una vita troppo frenetica e caotica, caratterizzano il mondo di oggi: emarginazione, superficialità e distacco vengono continuamente giustificati dalla convenienza e dalle circostanze portando ad una società in cui, sempre più, si perdono i veri valori umani. Proprio in questo modo, in Like a Picture, un padre egoista e assente si trasforma in un professionista impegnato e devoto, da rispettare e prendere a modello. Dove ci sta trasportando questa vita frenetica e imperturbabile? Che futuro avrà un’umanità così viziata ed instabile? Un sentimento di insoddisfazione si libra nell’aria, trasformandosi in un lamento cupo e straziante come il pianto di una bambina capricciosa raccontato in Blue Inside.

Le ballate, con grande forza e folklore, conducono l’ascoltatore ad una forzata presa di coscienza e una profonda riflessione sulla condizione umana, nelle sue debolezze e insicurezze. Un EP da ascoltare con una forma mentis aperta a nuovi orizzonti ed interpretazioni della realtà. Accettate la sfida?

 

Lupo

To the Moon

Riff Records/Grand Tree House Records, 2019

 

Martina Boselli

BIRØ e la scrittura: un artista fuori dagli schemi

BIRØ è un cantautore classe 1990 originario di Varese.

Il suo “Capitolo 1: La Notte” (Vetrodischi) è un progetto che mira a coniugare testi propri della tradizione cantautorale italiana con la musica elettronica per raccontare storie attraverso musica e parole. I suoi brani raccontano eventi legati tra loro e come le pagine di un libro seguono uno sviluppo cronologico.

“Capitolo 1: La Notte” è la storia di un uomo che analizza le sue ossessioni, le sue paure e i suoi vizi, ma anche le proprie gioie e fortune, il tutto grazie ad uno stile narrativo personale. Tutti i brani sono ambientati in un’unica notte e questo spazio temporale diventa il filo conduttore tra una canzone e l’altra: i toni crepuscolari dei testi di BIRØ trovano nella commistione tra cantautorato ed elettronica un compagno perfetto per questo viaggio che dura fino all’alba.

Dopo la pubblicazione di “Incipit”, il suo primo EP ufficiale, BIRØ si è fatto conoscere al grande pubblico con un fortunato tour che ha avuto appuntamenti importanti come il Mi Ami 2017 e il Collisioni Festival riscuotendo ottimi feedback di pubblico e critica, candidandosi di diritto quale nome su cui puntare per il futuro.

Biro ci racconta, attraverso tre racconti brevi e inediti, il significato delle sue canzoni in maniera più ampia.

Il racconto è come un’espansione dell’universo narrativo del personaggio protagonista del disco. Mentre nel disco vengono presi in dettaglio certi punti e aspetti, nel racconto questi dettagli vengono messi sotto la lente d’ingrandimento.

La necessità era quella di raccontare il punto di vista del protagonista a partire soprattutto dalla sua solitudine e dalle sue dipendenze. Il disco sicuramente fa ben capire questi aspetti e penso riesca a riportarne una chiara immagine, mi sembrava che però ci fosse l’esigenza di spiegare anche il perché lui si sia ritrovato, le cause e le circostanze. E magari quali potrebbero essere le sue prospettive.

 

Oggi pubblicheremo appunto il primo di questi.

Buona lettura e correte ad ascoltare il suo album!

 

1 EPISODIO

 

Esco dal bar ciondolando. Appallottolo la schedina persa e cerco di fare canestro in un cestino vicino. Inutile dirlo, la pallina di carta cade molto prima del cestino.
Faccio fatica a stare dritto figuriamoci riuscire a fare canestro.
Accendo una sigaretta e mi incammino verso la macchina.
Milano di notte mi sta simpatica. E’ come se improvvisamente ci fosse un filtro che lascia emergere un’atmosfera più vibrante, tranquilla eppure sempre sull’attenti, come se potesse sempre succedere qualcosa anche dove il silenzio regna sovrano.

Le pozzanghere lungo la strada riflettono le insegne blu dei bar e le luci dei lampioni, sento qualcuno in sottofondo parlare della partita e all’improvviso penso che almeno su quello avrei potuto avere un po’ più di fortuna. Tre pali su quattro tiri. Un gol poteva scapparci, sbancavo un 200 euro che mi avrebbero fatto comodo

E in cosa li avresti spesi?

Magari avrei potuto organizzarle una cena.

Sii almeno onesto con te stesso.

Portarla fuori, non so cucinare.

Avresti comprato del vino.

Qualche bottiglia di vino per festeggiare.

Festeggiare cosa?

Ma festeggiare cosa? Cosa c’è da festeggiare? Anche riuscissi a parlarci sarebbe un gran successo e cosa farei per festeggiare?

Compreresti del vino.

Comprerei del vino. La causa di tutto.

Non ricordo quando ho cominciato a bere, non che esista veramente un punto preciso in cui si inizia, ma non riesco a ricostruire le circostanze per cui ho cominciato a bere così tanto. Non ci riesco, sono troppo ubriaco.

Metto le chiavi nella macchina e mi accorgo che l’ho lasciata aperta.
Sei veramente un coglione.

Un vero e proprio coglione. Ti accorgi anche tu che non è possibile? Si, per tante persone potrebbe essere una dimenticanza ma per te comincia a diventare un abitudine.

La moka.

L’altro giorno hai fuso una moka dimenticandoti il fornello accesso. Devi darti una regolata.
Ti serve una regolata.

La macchina è glaciale, dò un giro di chiave e dopo un lungo borbottio il motore parte.

Sei troppo ubriaco per guidare.

Devi stare calmo, tranquillo.

Prendi una cicca.

Cerco una cicca nel portaoggetti, c’è un pacchetto che sarà lì da chissà quanto ma lo prendo comunque. Sembra di masticare un sasso. Nel portaoggetti ci trovo anche un cd degli Smiths che non ricordavo assolutamente essere lì. E’ un “The Best Of”, quindi so esattamente a cosa vado incontro ma dò un’occhiata rapida alla tracklist.
Ti ricordi?

Era bello discuterne, a lei facevano schifo. Proprio schifo, non ne capivo la ragione ma lei diceva che la voce di Morrissey è una tortura. Schifo, usava proprio questa parola.

Apro la confezione e dentro trovo un piccolo biglietto che recita

Balli sopra un bacio tra le pieghe di un letto.

Che frase stupida, avrò avuto vent’anni quando l’ho scritta. Ecco, questa è una frase che fa schifo, ma allora ero tutto esaltato dallo scrivere e dallo studiare che mi sembrava una gran figata, mi sembrava di essere Morrissey.
Vuoi chiamarla.

Prendo il cellulare e scorro la rubrica.

Non farlo.

Squilla. Poi metto subito giù il telefono.

Non puoi averlo fatto veramente.

E invece si, cazzo, lancio il cellulare sul retro del sedile e tiro un pugno al volante della macchina. Mi sento un vero coglione. Lei magari adesso guarderà la chiamata e cosa penserà? Avrà paura?
Hai fatto una cazzata, fermati qui al semaforo, mastica la cicca e respira.

Si, mastica la cicca e respira.
Non ti manderà un’altra denuncia.

MASTICA LA CICCA E RESPIRA. Non c’è bisogno di agitarsi, adesso vai a casa e non succede nulla, bevi un goccio di birra, fumi una sigaretta e vai a letto e ti fai una bella dormita. Nulla di più semplice. Lei non ci farà caso, se ne starà col suo nuovo ragazzo e domani forse qualcosa cambierà.

Questa non è la strada giusta.

Forse, chissà. Le cose a volte non cambiano per niente, o se cambiano è in peggio.

Devi ritornare sulla circonvallazione per tornare a casa tua.

Ma io cosa ci posso fare? Mi sento in balia di tutto questo, degli eventi e di quello che lei ha scelto. Non capisco e non riesco ad uscire dalla convinzione che se valeva qualcosa allora valeva la pena anche lottare e non mi sembra giusto che mi sia rimasto così poco dopo tutto quello che ho dato.

Dai torna a casa, non ci pensare. Non fare cazzate, vuoi andare lì ubriaco come sei per fare cosa? Pensi che ti troverà cambiato?

Intanto parcheggio. Spengo il motore e all’improvviso è come se tutta la strada si fosse stata mutata. Il silenzio è ovunque. Riguardo l’ingresso di casa sua che per dieci anni è stata casa nostra. E’ una strana sensazione, vedere ciò che hai amato e che poi invece diviene qualcosa di estraneo. Inavvicinabile addirittura.
Sento dei passi, qualcuno sta chiacchierano. Una donna ride. I passi si fanno sempre più vicini, mi volto per guardarli.

E’ lei.

E’ lei.

Resta qui in macchina, aspetta che entrino e poi vattene. Nessuno ne se accorgerà.

Scendo dalla macchina, quando la portiera sbatte si voltano entrambi e se all’inizio sembrano non riconoscermi in breve capisco dalle loro espressioni che hanno capito benissimo chi sono.

Lei è spaventata, cerca le chiavi nella borsa compulsivamente, come se fosse la cosa più importante nel mondo e striscia contro il muro verso la porta.

Lui si avvicina a me con passo deciso. Cerco di spiegargli che va tutto bene, non voglio far niente, ma non appena alzo le mani in segno di resa le sue mi spingono forte sul petto buttandomi a terra. L’alcool amplifica la sensazione, mi gira la testa, se provo a rimettermi in piedi scivolo sul selciato.

Non faccio in tempo a rendermene conto che lui mi prende il bavero e mi assesta una centra sulla mandibola.

Ricasco a terra. Ci rimango. Fischia tutto.

Mentre resti steso per terra e un il sangue comincia ad invaderti la bocca senti voci in lontananza: “Sta bene?” “Starà bene!”. La porta sbatte, a poco a poco riesci a rimetterti in piedi con non poca fatica. Passi le dita sul colpo e constati che sta uscendo un po’ di sangue. Probabilmente domani si gonfierà e sarà un livido. Risali in macchina, giri la chiave e il motore torna a disturbare il silenzio della via. Torna a casa.

 

 

Jack Savoretti “Singing to Strangers” (BMG, 2019)

«Ci ho preso gusto ad essere italiano. Quando vado in giro, saluto con “Ciao!” o “Buongiorno!” nemmeno fossi Roberto Benigni. Ho riscoperto la mia italianità.» – ha dichiarato Jack Savoretti, artista nato da padre italiano e madre tedesco-polacca, in merito alla sua vita nella campagna inglese, dove si è trasferito ormai da tempo con moglie e figli, lontano dalla caotica Londra. E questa italianità ritrovata contribuisce alla riuscita del suo sesto lavoro in studio, Singing to Strangers, pubblicato per BMG il 15 marzo e caratterizzato da un’atmosfera vestita di un doppio ed elegante abito: quello pop della nostra tradizione e quello soul anni ’50, tanto francese quanto d’oltreoceano. 

Registrato proprio a Roma al Forum Music Village, lo studio fondato da Ennio Morricone, Piero Piccioni, Armando Travajoli e Luis Bacalov, il disco, nella produzione di Cam Blackwood, si ispira ai preziosi arrangiamenti della forma-canzone del bel paese. L’impalcatura sonora si erge su una duplice struttura costituita dalla band e dall’orchestra. Linee di basso massicce si fondono con le dolci armonie degli archi e con la vocalità così intima e riconoscibile di Savoretti. Un timbro rauco e un graffiato dolceamaro che attingono da sorgenti emotive profonde e da una grande tecnica.

«L’idea di Singing to Strangers è nata da mia figlia. Mi ha detto: “Papà perché non parli del tuo lavoro?”. Cantare per sconosciuti, appunto. Il tutto è legato dal tema dell’amore che si sviluppa all’interno di una colonna sonora di un film immaginario. Dell’Italia ci sono anche il cinema e lo scenario di Roma». 

Candlelight, traccia d’apertura e primo singolo estratto, nelle inflessioni rhythm and blues ricorda le liriche dei primi film di James Bond, mentre con Dying for you love, nella chitarra vibrata dell’attacco, ci si ritrova seduti sul divanetto di un caffè retrò ad ascoltare il crooner che canta d’amore. Magari in una scena di una pellicola di Tarantino. What more can I do e Things I thought I’d never do si inseriscono, cronologicamente, in richiami anni ’70, la prima sulla scia di Marvin Gaye e la seconda su quella dei brani più famosi di Elton John dello stesso periodo. Di grande spessore è la titletrack: un monologo recitato sul sottofondo delle corde pizzicate. Una domanda identitaria, una confessione tra la consapevolezza e il grido interiore. Che dire poi di Touchy situation, tra i cui crediti si legge il nome di Bob Dylan, autore di questo dipinto al femminile scritto nella fase di Time out of mind, musicato e sapientemente personalizzato da Jack Savoretti. 

La chiusura dell’album è affidata al potente effetto “live” delle due bonus track registrate alla Fenice di Venezia. Music’s too sad without you, appassionato duetto con Kylie Minogue, potrebbe benissimo rappresentare il brano cardine di un musical romantico, di quelli dal lieto fine, che fanno sognare. Vedrai Vedrai di Luigi Tenco che sfuma in Oblivion di Astor Piazzolla è l’omaggio accorato e definitivo a tutto il panorama melodico e melodrammatico. Su queste note, è come se apparisse il frame di un film in bianco e nero. Film di cui siamo protagonisti o spettatori, in un vecchio cinema dalle poltroncine di legno. Ecco le vie di una Roma notturna, illuminata dalle file dei lampioni. Attraversata, vissuta, mano nella mano con qualcuno. O con un sorriso malinconico, nel suo ricordo.

 

Jack Savoretti

Singing to Strangers

BMG, 2019

 

Laura Faccenda

THO.MAS “Variations” (Macchiavelli Music, 2019)

A circa un anno di distanza dall’EP Fire, esce Variations, il primo album del giovane producer e dj THO.MAS, all’anagrafe Thomas Costantin, prodotto sotto la supervisione di Francesco Pistoi (Motel Connection) per Machiavelli Music.

Il titolo è un elegante riferimento alle Variazioni Goldberg di J. S. Bach, caposaldo tra le cose che Thomas Costantin ama più ascoltare. Variations conta quattordici tracce che nascono dal desiderio naturale di legare i suoi gusti sonori maturi e mostrarci quanto riescano a spaziare in generi differenti.

Il suo animo raffinato lo avvicina a diverse arti creative come si denota anche dal fatto che per la copertina di Variations abbia scelto un lavoro del pittore metafisico Gian Filippo Usellini.

La dedizione di Thomas alla consolle nasce dall’esigenza di voler ascoltare e ballare quello che a lui piace di più e di diventare, con questo fine ultimo, il protagonista degli eventi ai quali prende parte: dalle serate allo storico Plastic di Milano agli eventi di moda per cui gli stilisti lo scelgono per disegnare, insieme alle scenografie, lo sfondo musicale perfetto per le loro sfilate.

La sua ricerca musicale guarda al futuro, imbattendosi di continuo nell’ascolto di sonorità originali e di artisti inediti, ma anche con scelte sensibili verso il passato, attraverso l’inserimento sapiente nelle sue creazioni di pezzi vintage e samples di vecchi film.

Variations è un viaggio elettrizzante su un treno d’epoca in cui ogni scompartimento racconta una storia dalla tappezzeria prima cupa, poi scintillante. La probabile direzione o il punto di partenza, come ci suggerisce il singolo che anticipa l’album, Trip to the moon, è la luna, da dove Thomas dichiara scherzosamente, in un’intervista, di provenire.

Dagli altoparlanti vengono trasmesse via via le tracce e l’incedere del treno sulle rotaie dà ritmo a questa avventura. 2930 rimanda ad uno spy theme hollywoodiano, nel quale gli eleganti passeggeri si scambiano occhiate furtive inseguendosi per i vagoni.

Procedendo nell’ascolto dei quattordici brani risulta impossibile non immaginare scenari maestosi e spettacolari: Waltz of the Cauliflower è incalzante, imponente, gli archi e le forti percussioni si alternano magnificamente come le mosse in un passo a due.

Per l’ultima fermata di questo affascinante viaggio, THO.MAS affida la conclusione dell’LP ad un featuring con uno degli artisti contemporanei che stima di più: Leo Hellden (Tristesse Contemporaine). Futuramour viene accompagnata da una voce femminile suadente e da una futuristica impronta elettronica Nord europea. 

Con Variations, THO.MAS coglie senza alcun dubbio l’obiettivo di trasportarci insieme a lui in un luogo dove l’estetica del “bello” è il tema centrale. Chiunque può attingervi e, finito l’ascolto, avere la sensazione di essere arricchito e attraversato da questa bellezza.

 

THO.MAS

Variations

Macchiavelli Music, 2019

 

Rachele Moro

Telekinesis “Effluxion” (Merge Records, 2019)

Dieci anni fa, nel 2009, un giovanotto di nome Michael Benjamin Lerner pubblicava un album intitolato Telekinesis! sotto lo pseudonimo, appunto, di Telekinesis. Era un album fresco, un indie pop interessante, fortemente influenzato dalle sonorità di quei Death Cab for Cutie di cui il suo mentore, amico e produttore Chris Walla faceva parte, ma che lasciava intravedere un potenziale notevole.

Dieci anni e altri tre album dopo, arriva Effluxion, quinta prova in studio della one man band Telekinesis, in cui Michael Lerner suona, balla e canta di tutto e di più, dalla sua amata batteria al trombone ai campanacci da mucca.

In questi anni abbiamo avuto il piacere di seguire l’evoluzione di questo talentuoso ragazzo dai modi gentili e l’abbiamo visto passare dagli esordi indie rock all’esplorazione e ricerca in uno spazio fatto di synth come nel penultimo lavoro Ad Infinitum del 2015. Con Effluxion invece, ritroviamo quelle sonorità pop familiari, riff di chitarra confortevoli, che suonano inequivocabilmente Telekinesis senza però risultare ripetitive.

 

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Telekinesis @ Sonic Boom Records – Seattle, WA (2011)

 

La prima metà dell’album ha dei rimandi fortemente beatlesiani: nella cadenza della traccia di apertura Effluxion così come nella ritmica di Like Nothing ritroviamo degli elementi di pop molto classico, ma emergono anche una maturità ed una pacatezza compositiva che rendono l’ascolto facile e contemporaneamente intrigante.

Queste sonorità piacevolmente senza tempo persistono in Running Like a River fino ad arrivare a Set a Course. Qui, a metà canzone, l’album ha una svolta: Michael sembra ricordarsi di essere anche e soprattutto un batterista ed ecco che potente e preciso arriva a mettere il suo marchio di fabbrica al resto dell’album, portandolo in quel territorio di power pop ed indie rock che rendono i suoi lavori così accattivanti.

Da How Did I Get Rid of Sunlight? fino a A Place in the Sun non potrete fare a meno di sbattere un piede o muovere la testa per tenere il ritmo: batteria e chitarra entrano nelle orecchie e vanno a stimolare il nostro sistema nervoso provocando questa reazione tanto involontaria quanto liberatoria e spensierata.

Out for Blood chiude l’album con un ulteriore cambio di atmosfera rispetto alle tracce che l’hanno preceduta, con le tastiere a scandire il ritmo e a dare una sferzata di ossessività che si sposa alla perfezione con l’urgenza del testo.

Effluxion si esaurisce in 31 minuti di piacere per le orecchie e di svago per la mente, avvincente nei suoi cambi di ritmo e così compatto da non poter fare a meno di ascoltarlo un’altra volta ancora.

 

Telekinesis

Effluxion

Merge Records, 2019

 

Testo e foto: Francesca Garattoni

Bring Me The Horizon “Amo” (RCA Records, 2019)

Quando pensiamo ai Bring Me The Horizon la prima cosa che viene in mente è un camaleonte. Si tratta di una band in grado di stupire e di cambiare per stare al passo con i tempi e non soccombere in un mondo, come quello della musica, in continua evoluzione.

La band dei cinque di Sheffield, formatasi nel 2004, ha iniziato la propria carriera influenzata dalle tendenze grindcore ed emo tipiche del periodo, successivamente sono passati al nu metal per poi approdare, con gli ultimi album, ad un alternative rock e ad un metal influenzato dal pop.

Ma nel 2019 hanno deciso di stupire tutti. Il 25 gennaio è uscito Amo il loro sesto album, un lavoro di difficile catalogazione perché al suo interno troviamo generi completamente diversi.

Nei suoi testi la band continua a trattare le tematiche che le stanno più a cuore come l’isolamento, la depressione e il nichilismo: tutte problematiche che caratterizzano la società moderna ma lo fa in un modo completamente nuovo.

Ascoltando le tredici tracce che compongono Amo ci ritroviamo quasi spiazzati dai continui cambi di genere.

Il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album è stato Mantra, una delle canzoni più hard rock del disco.

Mantra è una parola, o una frase, che secondo le filosofie orientali è in grado di migliorare la condizione dell’uomo, ma la canzone in realtà è una riflessione sull’amore e sulla religione, sul darsi completamente e sul fidarsi incondizionatamente di qualcuno.

La traccia seguente Nihilist Blues non ha nulla a che fare con il rock: è un pezzo puramente elettronico che però strizza l’occhio alla dance anni ’90.

Ma i Bring Me The Horizon non si sono fermati qui. Abbiamo il nu metal di Wonderful Life, l’alternative rock con un pizzico di blues di In The Dark, le influenze tecno di Ouch, qualcosa di punk in Sugar Honey Ice & Tea. In un album così sperimentale non poteva mancare una traccia influenzata dal genere più in voga in questo momento: la trap. Ebbene si i BMTH si sono lanciati anche in questo filone con Why You Gotta Kick Me When I’m Down? e il risultato è sorprendente. Rap, trap e rock si fondono in questa canzone che è una critica a tutti quelli che desiderano solo il peggio per gli altri.

Nella canzone Heavy Metal, a cui ha preso parte anche il beatboxer Rahzel, i Bring Me The Horizon rispondono in anticipo alle critiche che colpiranno l’album proprio a causa del loro cambio di genere: ma questo a loro non importa.

Ascoltando questo album ci saranno sicuramente due scuole di pensiero: da una parte ci saranno i difensori dei BMTH che sosterranno che con Amo hanno raggiunto una maturità artistica che permette loro di spaziare da un genere all’altro. Dall’altra parte della barricata invece troveremo gli haters che li accuseranno di essersi venduti per cavalcare la moda del momento.

Ma non basta avere dei bei vestiti per essere alla moda… bisogna anche saperli portare e ascoltando Amo ci siamo resi conto che i BMTH sono riusciti a sentirsi a loro agio con tutti i generi e gli stili con cui hanno deciso di sperimentare.

 

Bring Me The Horizon

Amo

RCA Records, 2019

 

Laura Losi

Le Butcherettes “bi/MENTAL” (Rise Records, 2019)

 

Le Butcherettes sono un gruppo punk rock al femminile fondato nel 2007 da Teri Gender Bender.

Il gruppo, originario del Messico, non sente tanto le influenze centroamericane ma bensì quelle del vicino Texas, attirando agli esordi l’attenzione di Omar Rodriguez-Lopez degli At The Drive In con un garage punk elettrizzante.

A distanza di quattro anni dall’ultimo A Raw Youth, Le Butcherettes tornano con un nuovo disco dal titolo bi/MENTAL. Prodotto per la prima volta senza Omar Rodriguez-Lopez a cui hanno preferito Jerry Harrison (Violent Femmes, Crash Test Dummies, Live, No Doubts), la band abbandona ulteriormente i suoni punk in favore di atmosfere più noisy.

La canzone di apertura Spider/WAVES si arricchisce nei cori della voce di Jello Biafra dei Dead Kennedys; nel disco partecipano anche la cantante e attrice cilena Mon Laferte e la punk rocker Alice Bag.

Le canzoni di Teri Gender Bender prendono l’ascoltatore e non lo lasciano più come succede con il brano Strong/ENOUGH, con il suo mix perfetto di pop e soul.

struggle/STRUGGLE è uno di quei brani che dimostra come la band sia cresciuta negli anni, da un classico e rude garage rock ad un rock più maturo e moderno, sperimentando anche con nuove sonorità come in Little/MOUSE.

Concettualmente, l’album può essere interpretato uno sfogo personale della cantante riguardo al difficile rapporto con la madre affetta da bipolarismo: l’esternazione di sentimenti a lungo repressi si sente in brani come in/THE END, che sottolinea come un difficile rapporto madre/figlia possa arrivare anche al punto di nascondersi dalla persona che ti ha donato la vita.

Mother/HOLDS è forse il momento più alto del disco, ma anche il più triste, con le urla strazianti della cantante che esprimono la sofferenza che l’ha accompagnata in tutti questi anni.

Nel brano /BREATH, chiusura del disco, si è così confusi dal bipolarismo di sentimenti che caratterizza l’intero album che si accarezza persino l’idea di liberarsi della propria esistenza seppellendosi nel mare.

Teri Gender Bender però è un animo battagliero, come si può vedere anche dalla copertina del disco: con questi tredici brani di bi/MENTAL non si arrende, lotta e ad ogni ascolto dell’album sconfigge i propri demoni. E noi con lei.

 

Le Butcherettes

bi/MENTAL

Rise Records, 2019

 

Carlo Vergani

Alice Merton “Mint” (Paper Planes, 2019)

Si intitola Mint il primo album dell’artista tedesca Alice Merton uscito il 18 Gennaio 2019 per Paper Planes, etichetta fondata dalla stessa artista e dal suo manager, nonché migliore amico, Paul Grauwinkel.

Alice dice di lui: “Trovare il giusto produttore è come trovare un pezzo mancante di un puzzle: sai che c’è da qualche parte, ma trovarlo richiede molto tempo.” È chiaro che questa scelta aiuterà l’artista nel dare massima espressione ed indipendenza al suo lavoro.

Mint si ispira al tè alla menta che la cantante afferma di bere in questo periodo per calmare le sue paure e gli attacchi di panico, quella stessa menta che compare nell’immagine di copertina. È inoltre curioso il luogo in cui trova ispirazione per scrivere i suoi testi: tra gli scaffali dei supermercati.

L’album è composto da undici brani intimamente autobiografici tra cui i singoli No Roots, che ha raggiunto il disco di platino in sette nazioni, e Lash Out.

In 2 kids Alice Merton ripercorre l’amicizia con il suo manager, raccontando il loro rapporto attraverso gli occhi di due ragazzini meravigliati da quello che li travolge e delle paure vinte.

Nel brano funk-rock Learn to live, l’artista esprime la voglia di liberarsi da tormenti e preoccupazioni, per amare la vita e goderne appieno.

In Trouble in Paradise o Why so serious, invece, forti ritornelli e batterie incessanti invitano a vivere senza rimpianti. Perché prendersi troppo sul serio?

Questi ritmi si placano in Honeymoon heartbreak e nel blues Speak your mind.

La voce di Alice, inebriante, arriva al cuore della gente, invita a riflettere e lo comunica con un tono ribelle, con la grinta e la tenacia di una ragazza di 25 anni. I groove inarrestabili di basso donano un fremito a chi si presta ad ascoltare Mint. Per i 35 minuti di ascolto i problemi che toccano le nostre vite vengono accantonati lasciando libera la mente, e come il tè alla menta terapeutico alla cantante, il disco riesce perfettamente nel suo intento.

La parola chiave che emerge nei testi è la speranza: bisogna saper ascoltare oltre che assecondare le nostre sensazioni e queste doti che Alice Merton le esprime nei suoi brani con eleganza regalandoci un piacevole ascolto.

 

Alice Merton

Mint

Paper Planes

 

Silvia Consiglio

Le stagioni degli American Authors

Il 1 febbraio è uscito Seasons, il terzo album degli American Authors.

Con questo nuovo lavoro la band, capitanata da Zac Barnett, si discosta notevolmente dalle sue opere precedenti: eravamo abituati a canzoni ritmate dalle sonorità rock-folk, con banjo e mandolini di accompagnamento, ma questa volta i newyorkesi ci hanno spiazzato.

Ci presentano dieci canzoni che non solo sono un mix di stili diversi, ma la cosa che più colpisce sono i toni. Gli American Authors erano sinonimo di sonorità allegre e spesso ballabili, invece in Seasons ci troviamo ad ascoltare brani più riflessivi, a tratti cupi.

Si tratta di un cambio di rotta che era già balzato all’orecchio con i singoli che avevano anticipato l’uscita dell’album, canzoni come Deep Water, Say Amen e Neighborhood.

È come se la band stesse cercando un ritorno alla spiritualità e alla religiosità, una ricerca di valori più profondi. In Neighborhood, ad esempio, si sono avvalsi dell’aiuto di Bear Rinehart, cantante dei Needtobreathe, band dalla forte impronta cristiana; in Deep Water abbiamo l’Harlem Gospel Choir che sostiene Zac nel ritornello. 

Non mancano tuttavia le canzoni che ricordano la produzione precedente e che strizzano l’occhio ai brani che li hanno resi famosi: Can’t Stop Me Now, Bring It On Home, e soprattutto I Wanna Go Out sono quelli che più ricordano gli American Authors che ci hanno fatto cantare con brani come I’m Born To Run e Best Day of My Life. E’ qui che troviamo l’esplosione di energia e le melodie che ti catturano fin dalla prima nota, gli elementi che ci hanno fatto amare i primi due cd della band.

Ma la sperimentazione musicale dell’album non si ferma qui: abbiamo un brano quasi hip hop, Calm me down, che nonostante si discosti dal loro genere tradizionale, in Seasons trova il suo spazio ideale senza stonare o risultare fuori luogo.

Anche se personalmente non amo i brani eccessivamente cupi, credo che gli American Authors siano riusciti a trovare un equilibrio perfetto sperimentando nuovi generi e cambiando l’impronta delle loro canzoni, seppur rimanendo fedeli a se stessi: non si sono snaturati e questo è decisamente un punto a favore dell’album.

Le ultime due canzoni, Before I Go e soprattutto Real Place, sono forse due tra le più belle ballate che la band abbia mai scritto, soprattutto dal punto di vista dei testi.

Al primo ascolto forse Seasons potrebbe sembrare un po’ sotto tono rispetto ai lavori che lo hanno preceduto, ma credo che non ci si debba fermare qui. L’album è variegato, è vero, e di difficile catalogazione, ma la sperimentazione e i cambi di genere funzionano. Magari non ce ne si innamora al primo ascolto, come era successo con What We Live For, però queste canzoni riescono a catturarti e ad entrarti nel cuore.

 

American Authors

Seasons

Universal Island Records

 

Laura Losi

Kaos India “Wave” (Universal Records, 2019)

Vi sentite nostalgici?

Percepite quell’abbraccio freddo della malinconia che vi attanaglia il cuore?

Il miglior rimedio è ascoltare musica triste.

Viene in nostro aiuto Wave dei Kaos India, band modenese attiva dal 2011, etichettata come alternative rock. 

Musicalmente precisi, ci regalano un album studiato, impeccabile sotto il punto di vista musicale, con molta cura nei particolari. Le melodie trascinano in universi paralleli bloccati agli anni ‘80, chitarre determinate e cori ripetitivi la cui unica ambizione è quella di rimanere in testa.

Sembra di essere vivere in Footloose, capelli cotonati, sneakers e maglioni improbabili.

Hanno avuto a disposizione cinque anni per portare a termine il loro ultimo lavoro, dando il massimo, ed è evidente, complice anche la voce perfetta di Mattia Camurri, riescono nel loro intento di dimostrare la loro bravura come musicisti e la loro voglia di mescolare generi per creare qualcosa di personale.

In generale, i brani partono tutti benissimo nell’intro: chitarre e batterie rock, come in A Second e Burn Away, ma proseguono infarcite di questo sound anni ‘80, cori retrò e orecchiabili.

Il tema fondamentale di questo album è la perdita. In Half ci parlano di una rottura amorosa, di quella particolare situazione in cui ci sentiamo a metà, e lo specchio rimanda un’immagine distorta, opalescente, quando tutto intorno a noi si dissolve e anche i colori vengono spazzati via, lasciandoci  circondati da un alone giallastro.

Close esordisce con un’intro in crescendo, per poi spegnersi in questa ambientazione anni ‘80 che perdura in tutto l’album, ed è sulla stessa scia di demoralizzazione per un amore finito, “Change is never easy/If you can get out of the rain”, non si può guarire dalla desolazione se prima non riusciamo a rialzare la testa e gettare il passato alle spalle.

A metà album troviamo Don’t Stop, un brano che ci incita a non mollare mai, ad affrontare la vita come una scala a pioli, dove per arrivare al prossimo gradino si deve avere la forza di superare quello antecedente senza spegnersi mai, senza smettere di essere ciò che si è. “Don’t stop feeling/ Don’t stop breathing/ don’t stop thinking and wondering

Il loro lavoro è un viaggio nella tristezza. Si parte dalla disperazione per arrivare poi ad una rinascita.

Come le fenici bruciano divenendo cenere, per poi risorgere proprio da lì, l’ultimo brano Burn Away è la tappa finale di questa epopea nello sconforto. Ci vogliono comunicare che tutto nella vita è un processo di perdita/rinascita, e l’unico modo per rialzarci a testa alta è bruciare tra le fiamme di una rinnovata passione.

Nel complesso un buon album, soprattutto per la ricerca metodica e la costanza di questi ragazzi italiani. Da apprezzare sicuramente l’impegno, la precisione e la voglia di provare sonorità differenti, ma da un gruppo etichettato come “alternative” mi aspettavo più bassi distorti, assoli graffianti e batterie più incazzate. Poca innovazione, melodie già sentite, nonostante la bravura del gruppo nel riproporle. Possiamo dire che gli anni ‘80 sono finiti (e per fortuna!!), è tempo di sperimentare più duramente, uscendo anche dalla propria comfort zone, piuttosto che star a ripescare suoni da un passato che non ci rappresenta più. Meno Duran Duran, please. 

 

Kaos India

Wave

Universal Music, 2019

 

Marta Annesi

 

Ed Harcourt – Beyond the end (Point of Departure, 2018)

Per caso, quasi distrattamente, ho letto l’altro giorno che era uscito un nuovo album di Ed Harcourt e incuriosita dal fatto che fosse completamente strumentale, solo pianoforte e archi, me lo sono andata ad ascoltare di filata.

Niente voce, niente parole, solo melodie. E ne sono rimasta completamente rapita dal primo ascolto, rapita e con un gran nodo in gola.

Beyond the end sono quaranta minuti di pura bellezza, emozione in punta di dita e archetto, 12 pezzi che scivolano uno dopo l’altro, uno dentro l’altro, con la grazia che solo un compositore elegante come Harcourt può metterci.

Credo che ci sia qualcosa di primordialmente potente nelle melodie per pianoforte e violino, risvegliano emozioni profonde, e Harcourt in questo album va a toccare delle corde davvero sensibili nell’animo umano, tanto da far venire i brividi lungo la schiena al primo ascolto di Wolves change rivers.

La bellezza. L’unica cosa che riuscivo a pensare mentre venivo trasportata in questa dimensione onirica fatta di atmosfere sfocate ma intense: la bellezza. Ecco, la bellezza suona così.

Il suono è a tratti rovinato come se la musica provenisse da un grammofono polveroso, come in Faded photographs, ma è appunto il suono della polvere che rende magica la melodia: il suono sporco di un grammofono, titoli di chiusura di un film francese proiettato in un vecchio teatro stucchi e velluto consunto…

A chiudere gli occhi è in questi posti che va la mente accompagnata dalla musica di Beyond the end.

Questo album potrebbe essere etichettato come cinematic pop, forse perché ogni traccia inevitabilmente trasporta in una dimensione da film in bianco e nero, un po’ vintage e decadente, ma allo stesso tempo densa di emozioni ed espressività che solo l’assenza di parole riesce a convogliare.

Provate ad ascoltare Empress of the lake a mente sgombra: non vedete davanti ai vostri occhi per caso l’alba nascere riflessa in uno specchio d’acqua, non sentite l’umido della rugiada solleticarvi le caviglie?

E se vi lasciate andare a Whiskey held my sleep to ransom, vedete anche voi una stanza, un tavolo e una bottiglia su cui danza la luce fioca di una candela?

Beyond the end è un piccolo capolavoro di fine anno, che merita di essere assaporato dalla prima all’ultima nota.

Ed Harcourt
Beyond the end
Point of Departure

 

Francesca Garattoni