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Tag: album

España Circo Este “Ushuaia” (Garrincha Dischi, 2022)

Una vera boccata di allegria in un mondo che si prende troppo sul serio

In Lezioni Americane, Italo Calvino sosteneva che la vita andava presa con leggerezza “ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. In questa frase, troviamo così tanti significati che la mente corre alla ricerca di immagini da associare, concetti astratti da paragonare eppure basterebbe ascoltare Ushuaia, il nuovo progetto degli España Circo Este pubblicato da Garrincha Dischi. Il gruppo è formato Marcelo (voce e chitarra), Jimmy (batteria, percussioni, voce), Ponz (basso e voce) e Matteo (fisarmonica e violino) ed è un instancabile quartetto consolidato da un’intensa attività live e in studio. Si definiscono Tango-Punk, anche se le influenze del rock, del folk ma soprattutto del reggae sono molto chiare. 

Ushuaia è un lavoro composto da otto tracce allegre ed accattivanti che ti fanno ballare dalla prima nota all’ultimo accordo di chitarra. Tra ukulele e qualche distorsione, Amico è la voglia di trovare un complice con cui vivere la vita con leggerezza che è solo spianarsi la strada per la felicità, cercare di vedere il bello della vita, riuscire a confinare i problemi in un angolo, non farsi travolgere dalla “paura del futuro”. La voce di Marcelo prende a braccetto le note di ogni brano, gioca con il reggae di La Fine del Mondo Sei Te, per un viaggio che porta verso l’amore e l’arte, dove una canzone con tre semplici parole è tutto ciò che serve per dire quello che si ha dentro al cuore. E se la musica salva dalla timidezza, in La Mia Chitarra Ti Proteggerà, la sei corde da strumento musicale diventa uno scudo di protezione dal turbinio del mondo, ma non della musica perché il quartetto non risparmia ritmo ed energia in ogni nota. 

I testi che compongono i progetti sono semplici, diretti, quasi piccole storie fatte da ragazzi che non hanno voglia di complicare il pane, il sole e soprattutto il prosecco, ma senza per questo essere banali, né superficiali. Hanno solo fatta propria la lezione che la musica potrà non risolvere i problemi, ma può permetterti di ballarci sopra, e affrontarli senza dramma, anche se con la giusta serietà o la calibrata ironia che pervadono i loro brani. E questa lezione loro la trasformano in piena energia sonora che ti trascina con sé, senza chiedere permesso, perché la voglia di vivere non ha bisogno di bussare. 

Il lavoro degli España Circo Este non è un progetto di ampio respiro, è una vera e propria boccata di ossigeno e di allegria in un mondo, quello attuale, che spesso si prende troppo seriamente al limite della follia. Non vuole essere una raccolta di frasi da guru da citare sotto qualche foto ammiccante, è solo ciò che mostra di sé: un disco appassionato e appassionante con un sound ricercato ma talmente fresco che arriva a tutti. Un progetto che esprime un mood intenso e coinvolgente con un solo difetto: non basta mai, vorresti che continuassero a suonare, vorresti che fossero i tuoi pifferai di Hamelin per seguirli ovunque ti portino, basta fare il primo ascolto. 

 

España Circo Este 

Ushuaia

Garrincha Dischi

 

Alma Marlia

Casa del Vento “Alle Corde” (New Model Label, 2022)

La Casa del Vento nasce nella provincia di Arezzo negli anni ’90 da un’idea dei cugini Luca e Sauro Lanzi insieme all’amico Francesco “Fry”Moneti, violino anche dei Modena City Ramblers. Inizialmente, il gruppo si esibisce in concerti di musica Irish folk, ma con il passare degli anni le sonorità diventano più rock, e iniziano le collaborazioni con artisti nazionali e internazionali, tra cui Patti Smith, spesso con loro sul palco. La formazione negli anni si è ingrandita ed è oggi composta da Luca Lanzi, voce e corde, Sauro Lanzi, fiati, tastiere e fisarmonica, Massimiliano Gregorio ai bassi, Fabrizio Morganti alla batteria e alle percussioni e Francesco “Fry” Moneti, che cede l’archetto ad Andreas Petermann, per dedicarsi alle corde della chitarra elettrica, del mandolino, del banjo e del bouzouki.  Con il nuovo progetto Alle Corde, pubblicato da New Model Label, la Casa del Vento festeggia i trent’anni di carriera fatta di ben tredici pubblicazioni tra album, EP, raccolte live e di impegno sociale per dare voce a chi è spesso relegato ai margini dal destino o dalla società. 

Alle Corde è la title track che apre l’album composto da dieci tracce di suggestioni acustiche compenetrate da sonorità rock e richiami etnici, e che ha anticipato l’uscita del progetto stesso con un video girato a Livorno nella palestra Spes Fortitude di “Lefty” Lenny Bottai. Il brano si ispira al mondo della boxe, uno sport che dà una nuova possibilità a tutti quelli che vogliono prendersela, ma è bene ricordarsi che non si diventa campioni per caso. Non è un destino. È lavoro metodico fatto di sacrificio, privazioni e rinunce. Allenamenti fisici massacranti, sessioni di guanti estenuanti. Il ritmo forte e preciso riproduce il movimento del pugile sul ring, il pre-chorus evoca il conteggio dell’arbitro “one, two, three..”, parole che ti entrano in testa come un mantra mentre la chitarra elettrica incalza e la voce di Luca Lanzi con il featuring di Mike Rivkees dei The Rumjacks ti gridano di risollevarti, perché la vita, come la boxe, è uno sport meraviglioso, travolgente, epico, ma che non fa sconti, non è affatto indulgente. Non distrarti, perché sul ring come nella vita, i colpi arrivano e se vai al tappeto, rialzarti per continuare a lottare o abbandonare tutto dipende solo da te.

Il suono gentile della chitarra acustica è invece protagonista di Il pane e le spine, una ballata che Luca Lanzi dedica alla storia di sua madre bambina al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Lanzi trasforma in melodia lo sguardo di una bambina che si muove in una favola dolceamara ambientata in un tempo fatto di fame e paura, dove la sofferenza sembrava non finire mai perché “Per il pane che non hai, quante spine troverai”. Il violino di Petermann crea suggestioni sonore che nella mente evocano immagini di film in bianco e nero con qualche timida traccia di colore, perché in tutto questo dolore c’è la speranza che “la guerra finirà e tornerai a sognare”. In qualche modo la musica ti trascina lì, e vorresti accarezzarla quella bambina, portarla via, come vorresti portare via la piccola Anna Pardini, morta a soli venti giorni, rievocata in Girotondo a Sant’Anna, ispirata alla strage nazi-fascista a Sant’Anna di Stazzema, un piccolo paesino della provincia di Lucca, in Toscana, dove furono uccise 560 persone. In entrambi i brani, la voce di Lanzi è pulita, decisa, esprime il coinvolgimento per ciò che canta ma trasmette anche il senso di ineluttabilità del passato che si fonde con quella grinta di chi vuole essere ascoltato perché tutto ciò non accada più.

La canzone Mare di Mezzo, uscita come singolo nel 2020, è invece più legata all’attualità, perché ispirata all’omonima chitarra creata dal liutaio cortonese Giulio Carlo Vecchini, una bellezza di corde e colori vivi che appartengono alle assi dei legni dei barconi arrivati a Lampedusa, mezzi di fortuna dove si nascondono storie fatte di sfumature cupe. La Casa del Vento ha voluto darle voce raccontando di chi affronta un viaggio rischioso e disperato nel Mediterraneo, di chi ha perso e continua a perdere la vita. Il ritmo della canzone è lento, ma molto deciso, come il frangersi delle onde sulla prua di una barca, mentre la melodia accoglie le parole di un padre che cerca di rassicurare il proprio figlio prima di affrontare un viaggio fatto di immense speranze e altrettanti pericoli, un salto verso l’ignoto dove “Se perdo la tua mano, qualcuno ti troverà”. In quel vago “qualcuno” si racchiudono la paura e l’amarezza di chi ama ma è consapevole che non potrà proteggere per sempre ed è perciò costretto ad affidare ciò che ha di più caro al destino. Note e parole sono colpi allo stomaco, al cuore, alla testa. Fa male, ma proprio per questo il brano è bello, perché ti scuote, ti fa piangere, perché capisci che l’intento della Casa del Vento e di Mare di Mezzo è quello di suscitare riflessioni di umanità verso tutte le persone costrette a lasciare il proprio paese, e ci riescono, eccome se ci riescono. 

Alle Corde è un progetto curato dove si riconosce l’esperienza di chi la musica la vive da anni e la unisce all’impegno sociale per un connubio che ha fatto scaturire canzoni a volte dure, ma con la magia della poesia. In un panorama musicale diviso tra progressisti e conservatori, nostalgici e futuristi, nichilisti e decadenti, la Casa del Vento vuole andare avanti stando ben saldi in una posizione chiara, senza possibilità di fraintendimento. Suonano perché la musica è la casa che abitano, ma suonano soprattutto per essere ascoltati, per sconquassare le certezze e risvegliare dal torpore un mondo adagiato nel proprio orticello, anche a costo di diventare scomodi. Quando li ascolti, capisci che da quella posizione non si smuoveranno mai. Se ad altri non piace, saranno loro a farsi un po’ più in là.

 

Casa del Vento

Alle Corde

New Model Label

 

Alma Marlia

Ministri “Giuramenti” (Woodworm, 2022)

I Ministri – il gruppo rock di Davide “Divi” Autelitano, Federico Dragogna e Michele “Michelino” Esposito – sono tornati con il loro settimo album Giuramenti, a un anno dall’uscita dell’EP Cronaca Nera e Musica Leggera.
La band ha annunciato l’uscita su Instagram con una presa di posizione sociale e romantica: “Mentre il vinile sembra aver trovato un posto nella modernità (spesso su una mensola più che sul piatto di un giradischi, ma tant’è), nessuno sembra voler dare una seconda chance al povero CD – nonostante siano ancora tante le case e le auto predisposte per lui soltanto. Giuramenti, il nostro prossimo album, uscirà il 6 maggio anche in Compact Disc, e per giunta in una speciale edizione che includerà anche i quattro brani dell’EP Cronaca Nera e Musica Leggera uscito l’anno scorso.”

Quando i Ministri pubblicano qualcosa di nuovo io sono felice, ma ho anche paura, perché temo sempre che le nuove canzoni non mi piacciano come le precedenti: è come se mi ancorassi a uno stato di perfezione e volessi custodirlo, evitandogli un possibile confronto fatale. La musica, però, deve maturare, perché i Ministri sono una band politica ed è la loro necessità di raccontare le criticità sociali attuali a renderli meravigliosi. 

Partiamo con i primi due singoli estratti dalle nove tracce del disco: Numeri e Scatolette. Numeri è un invito a riprendersi la collettività in un mondo permeato dai dati, in cui sembra che le cifre stabiliscano cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Oggi più che mai “Scendi in strada a cercare qualcuno / Scendi in strada a cercare rumore”, perché non è troppo tardi per vivere liberamente. A proposito del secondo singolo, i Ministri affermano: “Scatolette, tra le ballate che abbiamo scritto, è una delle più amare, probabilmente perché parla della crisi di una delle cose che ci sono più care – la musica. Quella musica con cui abbiamo stretto un patto ancora ragazzi, quella musica che pareva un angolo di libertà e indipendenza in un mondo che si preoccupava solo di far cassa, quella musica che sembrava poterci salvare. Scatolette è anche una canzone su tutte le luci che si sono spente: biblioteche e discoteche per la prima volta unite in un lento declino di cui non riusciamo più a vedere l’inizio.” La voce di Divi canta il dolore di chi ama il proprio lavoro ed è costretto a fare sacrifici e farsi sfruttare per avere una piccola speranza: “Voi ci volete comprare / Noi ci vogliamo salvare / Ma ci volete davvero / Non ci farete del male”. Raccontando la crisi della cultura e dello spettacolo attraverso la loro esperienza, i Ministri confermano un dogma forse sottovalutato: il personale è politico.

Ma passiamo alle note dolenti, ovvero alle mie canzoni preferite dell’album: Vipere ed Esploratori. Probabilmente, vi chiederete che senso abbia definire “dolente” qualcosa che mi piace, ma credo che il tratto distintivo dei Ministri sia la loro capacità di farti male. È la sensazione che provi quando infili le cuffiette e ascolti un brano che senti tuo e ti vibra nella pancia, per poi espandersi e farti venire la pelle d’oca. Vipere si apre con il finto messaggio tranquillizzante “Non avrai più niente da temere / Tra le vipere del tuo cortile / Stanno dormendo / Sotto quel sasso” e racconta un sentimento di continua incertezza. Ci sono momenti di calma in cui ti prendi del tempo per respirare e goderti la vita che ti sembra normale, ma le vipere stanno solo dormendo, è una quiete apparente accompagnata da uno stato di allerta che non ti abbandona mai. Esploratori è una canzone che si adatta a tante persone, uno di quei brani dei Ministri che parlano di percorsi di vita e disillusione e che si modellano sulle nostre vite. “Ti volevi arrampicare / E trasformare il mondo insieme a lei / Ma il mondo finisce qui.”

Davanti al computer, digitando le lettere per raccontarvi cosa penso di Giuramenti, ho realizzato quanto sia strano, da ascoltatrice, avere paura di un nuovo album: non è forse un sentimento che ci si aspetta dai musicisti? Si è creato un senso di reciprocità e credo che sia l’apice della musica. Inoltre, non è sempre corretto considerare ogni album come un’entità a sé stante: Giuramenti fa parte di un discorso più ampio che i Ministri portano avanti dal 2006, fatto di arte politica o, come piace definirla a me, lotta cantata. È come leggere un libro in cui ci sono svariati capitoli e alcuni possono essere migliori di altri, ma è il loro insieme a rendere completa la storia. Quindi, nessuna delusione: le nuove canzoni mi piacciono come le precedenti.

 

Ministri

Giuramenti

Woodworm

 

Marta Massardo

Simple Plan “Harder Than It Looks” (Self, 2022)

La musica, si sa, ha un potere magico grandissimo: riesce a farti viaggiare nel tempo. Non si può mica negare che, ascoltato l’album giusto, ci si immagina nel futuro, nei momenti che segneranno della nostra vita (io, a diciassette anni, immaginavo già il mio matrimonio con sottofondo Lovesong dei The Cure). Al contempo, una canzone può riportarti indietro nel tempo, magari nella tua adolescenza e spensieratezza. Ecco, il nuovo disco dei canadesi Simple Plan, mi ha fatto tornare immediatamente nel 2005, quando avevo tredici anni e portavo sempre una cintura con le borchie e un ciuffo di capelli che mi copriva metà volto. Quelli erano gli anni d’oro del pop punk, dove band come Blink 182, Green Day e Good Charlotte la facevano da padrone ed MTV era la bibbia di ogni adolescente.

Cavalcando l’onda nostalgica di noi trentenni, Harder Than It Looks esce in tempo proprio per festeggiare i 20 anni dal disco d’esordio dei nostri canadesi, No Pads, No Helmets… Just Balls, album che, tra l’altro, è recentemente tornato in testa alle classifiche grazie al singolo I’m Just a Kid, diventato protagonista di una challenge di TikTok dove i protagonisti si sfidano nel riprodurre foto di quando erano bambini.

Anticipato dai singoli The Antidote e Ruin My Life, il sound dell’album è quello tipico del pop punk, con chitarre più aggressive ma melodie che strizzano l’occhio al pop più mainstream. Le tematiche, però, sono decisamente maturate: più che confusione adolescenziale e cotte non corrisposte si parla di paura del futuro, incertezza, precarietà, status che caratterizzano tutta la nostra generazione. Ad esempio, il brano Best Day of my life ha un ritornello istantaneamente orecchiabile e un sacco di attitudine di strada, come ogni pezzo iconico del pop punk vuole. Il testo, però, è tutt’altro che scontato: dopo uno sguardo critico sugli errori e sui sensi di inadeguatezza passati, il cantante Pierre Bouvier, afferma, ha la maturità per capire che possiede già tutto quello che serve per essere felice. Anxiety è, invece, quasi una richiesta di aiuto: descrive quell’orribile sensazione di sentirsi così schiacciato dalle aspettative che gli altri ripongono su di noi da non riuscire più  a respirare. In Two si parla della difficoltà di crescere, di lasciare il nido di sicurezza di casa nostra per buttarci in un mondo nuovo e a tratti spaventoso.

I Simple Plan con questo disco vogliono dimostrare che sono tutt’altro che una band da buttare nel dimenticatoio e che hanno ancora molte cose da dire. Insomma, una vera chicca da gustare per i nuovi giovani fan o per chi è rimasto fedelmente ad aspettarli ed è cresciuto con loro. L’uscita di questo disco e il recupero del tour dei My Chemical Romance dopo due anni di attesa (io non sto più nella pelle!!) segnerà il ritorno di quella wave di pop punk-emo che mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza? Spero proprio di sì: it’s not a phase, mum!

 

Simple Plan

Harder Than It Looks

Self

 

Alessandra D’aloise

Alice Robber “Dancing Sadness” (Radar label & management, 2022)

Musica dance per esorcizzare paure e incertezze

Alice Robber, al secolo Pistoiese, è una giovane cantautrice classe 1997, nata a Roma, cresciuta tra set e teatri, ma sempre affascinata dal mondo della musica di cui ha deciso di essere non più spettatrice bensì protagonista. Il suo nome d’arte si ispira a Robbers, brano de The 1975, gruppo pop, new wave e alternative rock britannico e i suoi singoli spaziano dall’indie al pop, con chiari accenti dance. Date le premesse, il suo primo EP d’esordio non poteva altro che chiamarsi Dancing Sadness, pubblicato dalla RADAR label & management.

Anticipato dai singoli Addiction e Keep on Dancing, l’EP si compone di sei tracce cantate completamente in inglese, dove l’artista sprigiona una potenza vocale che tradisce i grandi occhi azzurri, il corpo esile e i colori colori pastello che escono dalle fotografie. Nonostante l’aspetto etereo e delicato, Alice Robber è una donna decisa che ha ben chiaro cosa fare;The Life We Could Live apre il progetto con un imperativo di prestare attenzione a ciò che verrà dopo perché la registrazione è stata fatta per chi ascolterà. A chi si rivolga esattamente non lo sappiamo, ci chiediamo se sia solo un espediente narrativo oppure se sia un monito per il pubblico, ma quello che è sicuro è che lei sa cosa vuole, e sa come ottenerlo, prendendo una rivincita generazionale su tutti quelli che nei giovani vedono menefreghismo ed incertezze. 

La Robber non chiede sconti e non ne fa, eppure nella sua interpretazione, la voce è sempre vellutata e si fonde completamente con il basso e l’uso morbido del synth che caratterizza i brani, soprattutto Addiction, che parla di dipendenze affettive, la ricerca di costanti affermazioni per sentirsi abbastanza, della capacità di esistere solo se gli altri ti vedono. Nonostante l’approccio leggero, la canzone è tutt’altro che superficiale, perché un’esortazione a trovare la propria strada e credere in noi stessi ogni giorno che passa. Anche Keep on Dancing è un inno alla vita, dove il synth e il basso dominano per aumentare l’effetto loop del titolo ripetuto in maniera quasi ossessiva nel ritornello. La voce della Robber ci incita a non arrendersi quando la vita sembra non andare per il verso giusto, e anche se delle versioni di noi stessi non sempre scegliamo quella più adatta ad affrontare un momento difficile, non per questo dobbiamo gettare la spugna. Quello che conta è ballare, metafora del continuare ad andare avanti, per sconfiggere quei mostri dell’anima che possono avere anche il nostro volto. 

Non storcete il naso alla musica dance, perché il ballo è sempre stato compagno dell’uomo per esorcizzare paure e malattie, sciamanicamente usato per vedere oltre la realtà. Come un pifferaio magico, Alice Robber ci invita a seguirla prima con le note e poi con le parole, per liberarci da qualunque peso portiamo addosso, basta muoversi, uscire dalle inibizioni di un corpo e di un’anima chiusi al mondo. Lo fa con melodie non complicate, ma non sottovalutatela, perché non si tratta di un’artista arrivata che gira su se stessa per dire qualcosa che ci ha detto già. La Robber è un’artista che si evolve e ha davanti a sé un percorso fatto di stimoli e suggestioni da seguire, provare e condividere con il suo pubblico. Mentre attendiamo ciò che il futuro riserva a lei e a noi, non c’è niente di meglio che ingannare l’attesa ballando. 

 

Alice Robber

Dancing Sadness

RADAR label & management

 

Alma Marlia

Fontaines D.C. “Skinty Fia” (Partisan Records, 2022)

Basso. Una linea di basso. Un coro gaelico.
“Gone is the day, gone is the night, gone is the day”, per quattro. Poi arriva il cantato. Segue mantra di chitarra, ripetitiva, industriale, al galoppo. Di nuovo coro e poi una batteria che spiazza. Break-beat, nessun climax, nessun crescendo. Il canto è ripetitivo, viscerale, quasi sguaiato. Sale, si gonfia, si eleva, sa di etereo e di terra e di muschio e di mare che divide. È un’invocazione, un preludio che apre le porte del terzo lavoro in studio dei Fontaines D.C., Skinty Fia. 

In ár gCroíthe go deo è il pezzo di apertura. Sono sei minuti dedicati a una lapide negata dal governo inglese: una signora irlandese, morta a Coventry, voleva come epitaffio la suddetta frase in gaelico.
“Per sempre nei nostri cuori” è la traduzione, cosa che non piacque per niente alle autorità locali. Epitaffio negato, troppo politico. L’episodio non è avvenuto mentre le bombe dell’IRA esplodevano in UK, è successo due anni fa. 

L’intero album può essere letto come il viaggio di un irlandese in quel di Londra.
Alla terza canzone ti accorgi che le tensioni sono il secondo tema del disco. I dualismi, meglio ancora. Un disco su quello che accade in mezzo a due poli, su quello che succede dentro, mentre forze opposte si dedicano alla tua personale lacerazione. How Cold Love Is gioca coi topoi del tema affrontato, per finire col trattare di dipendenza, del prezzo dell’essere complementari e del compromesso. 

No, non è un disco solare. Non è un disco con soluzioni. È un’analisi, un’autoanalisi, di un esule. Metafora sempreverde dell’uomo, anche se qui la “patria perduta” ha un nome, una bandiera e una identità piuttosto definita. E curiosa risulta anche l’ombra perennemente presente di un Joyce citato e raccontato, e del suo Ulisse, altra metafora-ombra che ci segue da qualche secolo, come un paradigma beffardo e ineluttabile. 

I Fontaines sono in viaggio, i Fontaines sono (di) Dublino, i Fontaines creano una loro identità lontano dalla meta-casa, per differenza e per sottrazione. Succede così che nel disco, dopo aver attraversato punte altissime come Jackie Down the Line e Roman Holiday, ci si imbatta in The Couple Across the Way. Fisarmonica e cantato. Forse qualche tasto di pianoforte, ma di un Satie intimidito. La canzone nasce dalla vista, aldilà della strada, di una coppia anziana che passa le giornate litigando. Grian Chatten li osserva dalla finestra sul cortile e convive con la fidanzata e una lunga serie di metafore e similitudini. Specchi, speranze, tempo che scorre, che passa, che rende sempre più rari i bivi e le possibilità. L’identità è opposizione. L’identità è lontananza. L’identità vive e ti guarda aldilà della strada. 

Il peso di questo album si conta nei chilometri che separano la band dal suo baricentro culturale e identitario. È nello sforzo per recuperare un equilibrio che i Fontaines producono la loro musica. La Londra in cui vivono è ostile, la distanza e il tempo sono fattori che acuiscono il dolore dell’assenza e allora si raddoppia lo sforzo nel ricordo e nel fantasmatico. È un viaggio doppio, tangibile ed interiore, è visibile e solo intuibile, come la metafora della coppia di vecchietti aldilà della strada.

Skinty Fia arriva subito dopo l’elegia per fisarmonica (regalata dalla mamma di Chatten a Natale) e ci riporta nuovamente al tema del dualismo. Il significato è dubbio, ma sicuramente veniva usata dalla prozia del batterista come intercalare non proprio elegante, e riguarda una certa “maledizione del cervo”. Per i Fontaines diventa il frutto della diaspora irlandese.
È uno spirito in esilio, una saudade ungulata. 

Ma mentre l’identità è custodita nei testi del disco, la parte musicale subisce una trasformazione inaspettata. Alla solita lista infinita di fonti e ispirazioni (Cure, Smiths, Joy Division e via dicendo), nel nuovo album si aggiungono un discreto campionario di stilemi e richiami del drum and bass, del trip hop, dell’indie rock anni novanta. Le acque del Tamigi hanno inquinato la matrice irlandese, l’aria di Londra è penetrata nell’inconscio musicale del gruppo. Cantano la loro terra, ma come a Bristol nel ’96. Tutto l’album risulta più lento dei lavori precedenti, più cantato, più baritonale. Se Dogrel era un atto d’amore per la Dublino in cui la band aveva vissuto e A Hero’s Death era il diario di un viaggio, allora Skinty Fia è la prima vera analisi che il gruppo fa di sé, della strada percorsa e di quella futura. L’Irlanda è una terra di ricordi e luogo del sentimento, ma I Love You è una trappola: è la traccia più politica e critica che abbiano mai scritto. Insomma, c’è coscienza e consapevolezza anche nell’amore incondizionato. Come dice Chatten in una recente intervista: “There’s no hope without tragedy”.

Il terzo disco dei Fontaines convince su più livelli. Ha un’anima e uno scopo, ha una traiettoria e una mappa interna. Ha dei testi splendidi fatti di pennellate e picconate. È un pastiche di generi, di echi e di epoche. E tuttavia la firma è chiara, i Fontaines sono un genere a sé, sono un Ulisse che risplende nel suo viaggio e nella sua tensione perenne tra il conosciuto e la scoperta. 

Buon viaggio, di nuovo.

 

Fontaines D.C.

Skinty Fia

Partisan Records

 

Andrea Riscossa

Patrick Watson “Better in the Shade” (Secret City Records, 2022)

La colonna sonora per esorcizzare chi siamo quando proviamo le nostre emozioni

Cosa hanno in comune Grey’s Anatomy, This is Us, The Walking Dead, The Blacklist, The F Word e American Teen? Sono serie tv, direte. Effettivamente è vero, ma non è solo questo che le accomuna: in vari episodi troviamo inserite alcune canzoni di Patrick Watson, cantautore canadese che alterna la creazione di album alla composizione di colonne sonore. Il suo sound è un abbraccio di indie folk e la musica classica, con una capacità di aprirsi a sonorità più elettroniche per coglierle e farle proprie. Già presente nel panorama discografico con sei album, esce con il nuovo progetto Better in the Shade per la Secret City Records, con la storica collaborazione di Mishka Stein, anticipato nei mesi precedenti dal singolo Height of the Feeling.

L’album si compone di sette tracce tra cui una title track in apertura con un pianoforte delicato che aumenta la sensazione di morbidezza della voce di Watson, racchiusa in un canto sussurrato a chi ha paura del buio, qualunque sia questa oscurità, che sia fuori o dentro di noi. Non dobbiamo essere coraggiosi a tutti i costi, ma non per questo siamo deboli: quando le nostre ombre e le nostre fragilità ci seguono, se ascoltiamo le voci intorno a noi, sapremo su chi contare. Un brano dolce, ma con una forte carica emotiva che colpisce senza aggressività, attraverso parole ben scelte e l’uso di un synth con sfumature sonore eteree che si muovono nella coscienza di un ascoltatore catturato in una bolla di un momento di speranza che non vorremmo mai interrompere. 

Better in the Shade parla all’ascoltatore allontanandone la corazza, per fargli volgere lo sguardo alle emozioni talmente belle da intimorirci. Tra queste, più grande fragilità umana è la paura dell’amore e Watson ce ne parla duettando con una voce femminile in Height of the Feeling. Il sentimento è un calore estremo al quale l’uomo cerca di opporsi allontanandolo con freddezza, negandolo chiudendo gli occhi, ma l’intimità non deve spaventare, perché è lo strumento con cui possiamo trovare il nostro posto in un mondo che ci disorienta. Le voci si levano sulla struttura sonora del synth per fondersi in un unisono dove ogni differenza si annulla, perché la paura di amare non ha colore né età, ma soprattutto non ha genere. Se guardiamo bene l’altro, percepiremo le nostre stesse incertezze che supereremo solo accogliendo ciò che proviamo e ciò che prova chi è di fronte a noi. 

Il pianoforte torna protagonista in Ode to Vivian, una traccia strumentale con un suono avvolgente per aprirci ad infinti orizzonti dove la mente fugge lontana per qualche istante, ma non troppo a lungo, solo quel tanto che basta per sgombrare la mente da ogni pensiero. La sequenza musicale è morbida e trascende le parole perché siano solo le note a parlarci, sedurci e cullarci fino a che non ci perdiamo completamente in noi stessi. La sensazione è quella che si ha quando si attraversa qualcosa a occhi chiusi, la nostra pelle percepisce una sensazione gradevole anche se non identifica cos’è, e ti chiedi se la musica si possa davvero attraversare così. Le domande che ti poni svaniscono piano piano quando le note di Star scivolano addosso e l’ampio uso dell’elettronica crea un’atmosfera surreale mentre un canto evocativo ci conduce in uno spazio siderale dove la mente lascia il posto alle sensazioni. 

Se volete brani che vi parlino del bianco e del nero del mondo con frasi da citare sui social, rivolgetevi ad altro. Better in the Shade non dà soluzioni perché preferisce le sfumature delle mille sensazioni che ci rendono così incerti e così umani. È la colonna sonora ideale per accogliere nelle sue note attimi di complicità con chi amate o semplicemente con voi stessi quando la musica è l’unica compagnia che desiderate. Patrick Watson non entrerà a gamba tesa nei vostri pensieri, né strapazzerà le vostre emozioni, ma vi colpirà comunque con intensità mentre guardate voi stessi in quegli specchi intangibili che abbiamo dentro, o solo mentre chiudiamo gli occhi un secondo per prendere una pausa dal mondo e volerci un po’ più bene per come siamo, fossimo pure dei notevoli disastri. 

 

Patrick Watson

Better in the Shade

Secret City Records

 

Alma Marlia

Rancore “Xenoverso” (Capitol / Universal, 2022)

Noi e l’altro

Parlare di questo album è complicato quasi quanto al liceo lo era parlare in modo improvvisato di cosa volesse dire Breton con le sue poesie surrealiste. Con Xenoverso, Rancore ha superato se stesso e qualsiasi aspettativa, già molto alte dopo il suo ultimo lavoro Musica per Bambini. Siamo di fronte a un viaggio difficile da decifrare, che ascolto dopo ascolto mostra nuove sfaccettature e nuove chiavi di lettura. Un diario di bordo che somiglia anche a un romanzo di formazione, una di quelle storie dove il giovane protagonista, lo stesso Tarek/Rancore a bordo della sua nave da cronosurfista, cerca di portare a compimento il suo percorso. 

C’è qualcosa di epico non solo nei testi dai toni concitati e quasi bellici ma anche nelle musiche, ancora più elaborate e curate dei lavori precedenti. Archi e tastiere si uniscono a elementi elettronici, perché d’altronde il futuro è già qui, tra viaggi nel tempo e tra le dimensioni. Tutto contribuisce a creare delle immagini così vivide da riuscire quasi a guardarle, ma allo stesso tempo veloci e difficili da decifrare, lasciando così solo atmosfere e sensazioni.

Si percepisce come queste diciassette canzoni vadano a comporre una storia complessa e studiata nei minimi dettagli, intervallata da due interludi parlati dove la voce di Tarek aiuta a contestualizzare meglio. Vengono lasciati ulteriori indizi per comporre il puzzle, si introducono nuovi personaggi in questa epica storia che è Xenoverso e che non possono non ricordarci alcuni archetipi della narrazione, dall’Aiutante al papabile Mentore. Ed è proprio grazie all’interludio che riusciamo finalmente a collocare la trilogia di singoli – Lontano 2036, X Agosto 2048 e Arkano 2100 – pubblicata a Marzo. 

Le storie ambientate nel futuro mantengono un sentore di passato e presente, declinazione di un eterno ritorno che emerge ancora più chiaramente in Federico, alter ego di Frederich Nietzsche che affianca il nostro protagonista nella terza traccia dell’album, dove si dipinge un’invasione di filosofi zombie. La vena colta e le citazioni – cifra stilistica di Rancore – sono ancora ben presenti e salde anche in questo suo ultimo lavoro.

Altro fil rouge che si lega al tema della battaglia è quello della comunicazione: quella tra Universo e Xenoverso, tra noi e l’altro, tra le parole che, in una scintilla di vita propria, arrivano fino a noi. Comunicazione già affrontata nel singolo Equatore, dove la collaborazione con Margherita Vicario ha portato alla luce una delle tracce più particolari e diverse dell’intero disco. 

Insomma, forse la difficoltà non sta tanto nel parlare di quest’album, quanto nel capirlo leggendo tra le righe. Le idee arrivano a chi ascolta con un certo décalage o addirittura si fermano prima perché incomunicabili, ma d’altronde le cose belle raramente sono immediate.

 

Rancore

Xenoverso

Capitol / Universal

 

Francesca di Salvatore

Roy Bianco & Die Abbrunzati Boys “Mille Grazie” (Electrola Records, 2022)

Voi vi dovete fidare di me, mi dovete credere. 

Non sono impazzito a tal punto dal ritrovarmi ad ascoltare in cuffia “Eines weiß ich genau, meine Stadt liegt im Blau / Träum mit mir diesen Traum, denn mein Herz schlägt Azzurro / In Bella, Bella Napoli” alle 23.01 di un mercoledì sera di metà aprile senza un valido motivo. 

Io ce l’ho il motivo, anzi, ne ho tredici, quanti sono i capitoli che compongono l’ultimo disco di (o dei a seconda)  Roy Bianco & Die Abbrunzati Boys.

C’è talmente tanta roba in questo Grazie Mille che non so da dove iniziare… vi basti sapere che quello che spero già avete tra le mani o in cuffia è in cima ai dischi più ascoltati in Germania (anzi, è proprio il primo, davanti ai Red Hot Chili Peppers che vabbè già da Californication non hanno più molto senso di esistere ma non voglio far discussioni quindi fate finta che non abbia scritto niente anzi lo metto barrato così tagliamo la testa al toro). Ebbene sì, in quelle lande spopola l’Italo-Schlager, che altro non sarebbe  che quel pesudo pop che andava molto dalle nostre parti negli anni ’80 e ’90 (Tozzi, Ricchi e Poveri e compagnia), solamente che i testi sono in tedesco con degli arbitrari e non di rado insensati inserti in lingua italiana, che a mio avviso rendono l’ascolto assolutamente imprescindibile per chiunque abbia piacere a dilapidare parte del proprio tempo in artefatti di dubbio gusto.

Ho visto una mezza dozzina di volte Troppo Belli, conosco intere parti di Alex l’Ariete, mi sono commosso rivedendo Jo Donatello al porto nel magnifico Grazie Padre Pio, come avrei potuto resistere ad un disco che può annoverare un brano, Amore sul Mare, che evoca ricordi di amori estivi passati, “Amore sul mare / Senza problemi passati / Non cerchiamo più / Ci siamo perde nel blu”, probabilmente la risposta tedesca alla nostra Una Rotonda sul Mare.

Ma c’è molto di più, ci sono molte altre risposte, come quella ai Kratfwerk di Autobahn in Brennerautobahn, ai Popol Vuh di Hosianna Mantra con Sic Transit Gloria Mundi. Ce n’è anche per i nostri musicisti, che non crediate: se pensavate che gli Afterhours con il loro P***o C****o in apertura a 1.9.9.6. o i Nobraino che in Ballata Stocastica piazzano un P****o D** senza possibilità d’interpretazione avessero osato l’inosabile, preparatevi ad ascoltare nel bridge di in Giro un “Madonna velocità, oh bitte, bitte für mich”. E qui metteteci la gif del mic drop di Bryan Cranston. 

Sprizz ha tutta l’aria di essere un rivisitazione, quando non proprio una citazione in musica, del celeberrimo singolo di Lil Angel$ feat. Gioker & Ben.J, ovvero Estate, mentre Quanto Costa, ecco qui sono un po’ in difficoltà, cioè “Was kostet Amore? Quanto costa die Liebe zu dir?” (Quanto costa l’amore? Quanto costa amore per te?), mi sfugge un po’ il senso, il messaggio di fondo, per cui lascio il quesito aperto, che forse era anche il desiderio di Roy Bianco e i suoi sodali. Ai quali, banalmente ma nella maniera più sincera possibile, non posso che dire, con un chiasmo finale che almeno insomma faccio vedere che ho fatto il liceo per qualcosa, Grazie Mille.

 

Roy Bianco & Die Abbrunzati Boys

Mille Grazie

Electrola Records

 

 

Alberto Adustini

Wet Leg “Wet Leg” (Domino, 2022)

Se non ve ne foste accorti qualcosa ribolle nella scena musicale oltremanica.
C’è un numero considerevole di ottime band, la qualità non manca, quello che forse è ancora assente è un nome, un’etichetta, un titolo. Forse manca anche quel salto finale, un singolo o un intero disco, che apra la porta al mainstream.
Fuor di bolla è tutto tranquillo, a un qualunque festival inglese è bolgia vera. 

Le Wet Leg, ironia della sorte, nascono durante un giro su una ruota panoramica, durante l’esibizione degli IDLES, all’End Of The Road nel 2019. Ma facciamo un passo indietro. 

Rhian Teasdale e Hester Chambers sono originarie dell’Isola di Wight, si sono conosciute al college e hanno sempre coltivato la loro passione per la musica. La vita le costringe a lavori diversi e band solo nel tempo libero. Accadde però che, dopo un’estate passata tra festival e backstage, decidono di provarci davvero.
Avevano scritto alcuni pezzi e uno in particolare avrebbe cambiato il loro destino: il 15 giugno 2021 usciva il loro primo singolo, Chaise Longue, che diventa virale in poco tempo.
In realtà il disco era pronto ad aprile dello stesso anno. La Domino aveva messo a loro disposizione Dan Carey alla produzione (colui che ha mixato e prodotto i Fontaines D.C. e gli Squid), e tra Londra e la loro isola il disco prendeva forma in modo piuttosto artigianale, grazie a GarageBand, software disponibile per qualunque prodotto Apple, un multitraccia entry level che le due usavano per costruire la struttura dei pezzi che poi prendevano forma in studio, nella capitale. Sono partite in tour, con quattro singoli all’attivo, tutti osannati dal pubblico che ha lentamente riempito le sale prima e i prati d’estate. Sono comparse nelle TV britanniche e statunitensi, hanno fatto crescere l’hype fino a generare un piccolo e nuovo fenomeno musicale. 

Dove troverete le Wet Leg nel vostro negozio di dischi preferito? Se frequentate un posto con poca fantasia puntate sull’indie, sull’alternative, al massimo pop-rock. Le influenze sono ampie e si passa dal post punk alla dance, dal dream pop a Bowie.
Sono labili i confini di genere. C’è piuttosto un approccio fluido alla musica ascoltata e prodotta, in cui più che il genere a fare da fil rouge è la scrittura e l’intenzione.

Questo è un disco di un movimento. È una declinazione di un gusto che sta prendendo forma nel Regno Unito e che con questo album potrebbe diventare argomento di discussione di massa.
Della nuova musica di lassù sono forse quelle più pop. Con ritornelli catchy e, nonostante un vocabolario non esattamente da educanda, il gruppo più proiettato verso un mercato più trasversale.
Qualcosa dentro mi urla che se l’MTV dei ’90 fosse ancora viva questo album sarebbe finito in heavy rotation e che le due Wet Leg, forti di un’immagine e di un’identità più che definite, avrebbero bucato le TV catodiche degli allora adolescenti.

L’album è un inno alla vita. All’empatia, alle sensazioni, anche fisiche, materiali. Spiazzano, perché le dolci pulzelle figlie dell’isola e del mare sono in realtà due soggetti dalle liriche taglienti e dalla mente aperta. Dal sexting indesiderato a gioiosi sfanculamenti, la maleducazione qui è un punto di vista, un umorismo quasi brutale è la loro firma. Però, al di là della forma, c’è un messaggio e c’è un’intelligenza che solletica, che evoca e che ammicca. 
Le canzoni sono un bestiario di personaggi improbabili e di situazioni assurde.
C’è qualcuno in mutande seduto su una Chaise Long (e che dovrebbe essere sdraiato, perdiana), altri dediti alla masturbazione in Wet Dream, con annessa leccata di parabrezza di un’auto, che neanche Freud, probabilmente, avrebbe saputo giustificare. Piece of Shit rende plasticamente l’idea del perché non sempre le relazioni finiscano bene, mentre il nostro duo si fa quasi serio quando, citando Bowie, si interroga sulla vita e parla quasi di bilanci in I Don’t Wanna Go Out. Quasi tristi e un po’ spleen in Convincing, ma sempre costruite con immagini che sono piccoli fotogrammi di mini-racconti su un argomento. È una scrittura veloce, che evoca e accosta, non spiega, non racconta.
E comunque dissacrare tutto è un’arte. Gli ex sono pezzi di merda cui rimane solo l’opzione se galleggiare o affondare, e ci dispiace per le loro mamme (Ur Mum), mentre con le loro nuove fidanzate possiamo solo sperare stiano soffocando (Loving You). Hanno riscritto la visione di topoi della musica odierna, aprendo i cancelli a un realismo e un cinismo che sa di libertà e nuovo umanesimo. 

È un disco che non porta le mutande.
Qualunque cosa contenessero in origine.
È un disco maleducato.
Così maleducato da risultare amabile, perché portatore di verità sussurrate e condite di insulti irripetibili.
È il nonno di Little Miss Sunshine, è l’incubo di un qualunque Pillon-alpha, è una medicina contro l’anacronismo e il perbenismo.
È un disco che contiene sentenze.
Sentenze sui denti.
Ciò non impedisce di sorridere coi buchi.

 

Wet Leg

Wet Leg

Domino

 

Andrea Riscossa

The Bastard Sons of Dioniso “Dove Sono Finiti Tutti?” (Fiabamusic, 2022)

Un rock onesto per chi ti dice in faccia ciò che pensa

L’espressione “è un rock onesto” mi ha incuriosita fin dalla prima volta in cui l’ho sentita, e mi sono spesso chiesta se, durante un ascolto, avrei potuto riconoscerlo. Negli anni, mi è capitato non solo di riconoscerlo, ma anche di apprezzarlo in ogni progetto in cui lo abbia trovato, e il nuovo album dei The Bastard Sons of Dioniso è tra questi. Con diciannove anni di attività alle spalle, sette album e un EP all’attivo, a cui si aggiunge un secondo posto a X Factor 2009, oltre a un’infinità di concerti in tutta Italia, la band composta da Jacopo Broseghini, Federico Sassudelli e Michele Vicentini esce con il nuovo progetto Dove Sono Finiti Tutti? per Fiabamusic già anticipato dai singoli Tali e Squali e Ribelli Altrove.

Dove Sono Finiti Tutti? è un lavoro ben strutturato di otto tracce il cui titolo è una domanda che mette all’angolo, perché riassume quella paura inconfessabile che ci accompagna da due anni: uscire da ogni emergenza per scoprire che non c’è più nessuno intorno a noi. Non sappiamo se le promesse di un mondo che chiedeva di tornare ad abbracciarsi, a vivere insieme, a condividere di nuovo un concerto diventeranno realtà: cosa potrebbe succedere se ci trovassimo soli alla fine di tutto questo? Il trio della Valsugana non propone soluzioni né cerca verità assolute, sempre che ce ne siano, ma di ciò che vedono attorno a loro ne fanno musica e parole. Ci sono brani che abbracciano metafore marine e altri che ritornano sulla terra mirando ad un uomo spaesato, e lo centrano in pieno. 

Nonostante il titolo, Sirene non è una traccia evocativa, bensì propone un ritmo incalzante e pulito per fare da struttura a un testo spietato dove “Cantano sirene immobili / …./ chiamano e abbocchi subito/ in fondo non vuoi dire no”. Abbiamo bisogno di riferimenti, ma scegliamo noi quelli sbagliati, assoluti non umani e distanti. Loro ci chiamano, è vero, ma siamo noi che li abbracciammo consapevoli di ciò che sono e di ciò che possono farci diventare. La nostra vita è una responsabilità che non possiamo scaricare ad altri, e Tali e Squali ce lo dice senza troppe moine perché “Siamo noi che facciamo scadere i miracoli”: le cose belle le lasciamo andare, forse marcire, non le prendiamo al momento che si presentano davanti a noi, tra le nostre mani. E le cose belle non durano per sempre. Un invito al carpe diem che parte da uno schiaffo che ci apre gli occhi sui danni che facciamo a noi stessi accompagnato però da un sound più soft e una coralità che trasmette la sensazione di una condizione fragile comune. Condizione che, però, non può durare per sempre, o rischiamo di perdere la nostra umanità. Restiamo Umani è un grido graffiante di chitarra elettrica, batteria e basso che aiutano la voce leader a richiamarci all’ordine in un mondo dominato dall’ansia di dimostrare di essere al sempre al top, anche se quando “Vogliamo vincere /mangiamo polvere”. Cos’altro possono dirci di più?

L’album non lo consiglio ai puristi del rock cantato in inglese, perché è interamente in italiano e capisco che possa lasciare titubante chi non la considera una lingua agile per questo stile musicale. Lo consiglio, però, a chi ha voglia di passare del tempo ad ascoltare un progetto gradevole, ben strutturato e soprattutto pulito nei suoni e nei testi. Adatto a chi non ama troppo i crossover tra generi musicali, né un rock oscuro o pieno di distorsioni manieristiche, né testi che rincorrano termini ricercati combinati in modo da risultare quasi incomprensibili. Dove Sono Finiti Tutti? è un album che non tenta di compiacere l’ascoltatore raccontandogli ciò che vorrebbe sentirsi dire, anzi, è diretto, colpisce e se ne infischia di piacere a tutti i costi, così come il rock comanda. 

 

The Bastard Sons of Dioniso

Dove Sono Finiti Tutti

Fiabamusic

 

Alma Marlia

Melancholia “Sleep Mode” (Radar Label & mgmt, 2022)

I Melancholia sono una band italiana che suona in inglese, ma con una energia che supera confini fisici ed emotivi. Dal 2016 la band inizia una collaborazione creativa con Diego Radicati presso Urban Records, che si occupa degli arrangiamenti. Vincitori mondiali dell’Emergenza Festival 2017/18, si fanno conoscere da un pubblico più ampio grazie alla partecipazione X Factor 2020, la prima edizione a porte chiuse a causa dell’emergenza pandemica. Eppure, la situazione non li ostacola, anzi emergono con particolare forza. Il loro nuovo EP Sleep Mode, pubblicato da RADAR label & Mgmt, eredita la carica dark ed emozionale del loro primo EP What Are You Afraid Of del 2020.

Anticipato dall’uscita del videoclip del singolo Hypnos, uscito il 18 marzo, il nuovo progetto, con le sue cinque tracce, passa da una domanda introspettiva dell’EP precedente a una condizione di sospensione nel sonno. Una modalità di risparmio energetico rispetto ai rumori del mondo per sprofondare nei nostri sogni, o incubi, che rivelano di noi più di quanto scopra la luce del sogno. La voce di Benedetta è il perno su cui si muovono abilmente la chitarra di Filippo Petruccioli e il synth di Fabio Azzarelli. In Hypnos la musica si compone di strutture e ricami in cui si fondono sonorità rap ed elettroniche, in un ritmo incessante e circolare come uno specchio di una seduzione paranoica che culmina nella ripetizione compulsiva di “What can I do? What you want me to do?”. Siamo nel buio dei pensieri che non ci lasciano, quella mente che vorremmo assopire e invece ci tormenta, con sensazioni, ricordi, con lo sguardo nella realtà. Ciò che sappiamo è che non abbiamo certezze, e non le vogliamo, perché quello che è necessario è il cambiamento.

La voce assume le forme più varie, è un perno mobile, che unisce ma si muove dal cantato al rap, infondendo nell’esecuzione vita, energia e, per la band, voglia di farsi sentire grazie alla propria musica. Questa energia sa sposarsi, però, con la dolcezza in A Raven Cries, dove la linea melodica crea un’atmosfera rarefatta di sottofondo a un canto che, a tratti, si evolve in un duo per rendere il brano più evocativo. Un passaggio dall’ignoranza alla consapevolezza di sé attraverso un momento catartico di unione spirituale con un corvo attraverso il canto dolce-amaro fatto di echi e profondità a cui si accompagna il verso stridulo come un grido dell’animale.

Eraser si apre con altrettanta delicatezza per poi svilupparsi in un crescendo di suoni e ritmo con l’aggiunta della chitarra e un uso del synth sempre più presente per un effetto più futuristico che torna, successivamente, a una dimensione rock alternato al rap, nuovamente presente e forte. Benedetta si muove tra le parole e la musica con l’abilità di un’acrobata, amplificando l’effetto di tridimensionalità trasmesso nelle tracce precedenti. Il brano si sviluppa con crescente forza e velocità per interrompersi bruscamente nel punto dove l’ascoltatore ha la sensazione che potrebbe continuare all’infinito. Si crea una frattura sonora che prende e funziona, come un risveglio dal proprio sonno, da uno sleep mode in cui siamo arrivati dentro al nostro io più nascosto, ma che non può durare per sempre e che è diviso dalla realtà da una semplice apertura degli occhi. Cosa ci sia in quella realtà, dopo aver viaggiato in noi stessi, solo noi possiamo saperlo e dobbiamo scoprirlo. 

Vorrei dirvi che i Melancholia con il loro nuovo progetto sono stati una sorpresa, ma non posso: la band ha semplicemente confermato il loro percorso fatto di voglia di esplorare ogni piega sonora, di esplodere in energia e trascinarci in un getto di suoni e parole che non può lasciare indifferenti. Sono la dimostrazione di come ci si possa muovere in un crossover di generi in modo sapiente tenendo vive la grinta e la curiosità di chi ancora è nel pieno del suo viaggio con tante tappe da condividere con il suo pubblico. 

 

Melancholia

Sleep Mode

RADAR Label & mgmt

 

Alma Marlia