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Damon Albarn “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows” (Transgressive Records, 2021)

Era il 1818 quando Caspar David Friedrich dipinse il suo Der Wanderer über dem Nebelmeer, noto a noi come il Viandante sul mare di nebbia. Il quadro diventò presto un’icona del movimento Romantico tedesco, perché rappresentava una sintesi di tutti quelli che erano i concetti e i dogmi del nascente pensiero romantico.

Un uomo, controluce, contempla la natura che si manifesta davanti a lui. È un gioco di contrasti, di antitesi, tra razionale e mistico, tra definito e indefinito, tra chiaro e scuro, tra immanente e trascendente. Ma è anche un gioco di metafore e di ruoli, come quello dell’uomo e del suo rapporto con la natura. E il mare fatto di nebbia, spettacolo “meraviglioso, come a volte ciò che sembra non è”, ci porta dentro un labirinto di metafore e allegorie quasi senza fine.

Ascoltando l’ultimo album di Damon Albarn, il suo secondo lavoro solista, ho avuto la sensazione di essere davanti a un Viandante che la nebbia non l’ha solo descritta, ma è andato anche a cercarsela.

Aggiungiamo il tema del sogno, quello fatto da un Damon bambino, che sogna un volo sopra una spiaggia nera. Luogo che noterà in un documentario del National Geographic nel ’97, durante un tour con i Blur. Da allora sa che in Islanda esiste il luogo dei sogni.

Altro ingrediente è l’isolamento. Che finalmente possiamo trattare come una scelta personale, come un esperimento, e non più solo come una costrizione dettata da momenti storici poco felici. Ricorda Yann Tiersen e la sua isola col faro, ricorda mille altre storie di persone che nell’isolamento contemplativo hanno trovato la strada per cantare il loro personale mare di nebbia. Perché il signor Albarn ha comprato casa in quell’Islanda dalle spiagge nere, e si è rinchiuso in uno studio circondato dalla natura, nel tentativo di rendere i lockdown momenti positivi e produttivi.

Per realizzare The nearer the fountain, more pure the stream flows si è ispirato al lavoro del poeta ottocentesco John Claire, autore di Love and Memory. E i testi dell’album sono effettivamente centrati sui temi del ricordo, dell’amore, della malinconia, del lutto. E c’è la natura, ci sono colori, c’è il contrasto della sua isola, così fredda e piena di lava. E c’è acqua, tantissima acqua, dalle onde del mare fino al rumore delle gocce che cadono. È un disco acquatico, a volte subacqueo, capace di geyser e di ghiaccio.

I brani sono un patchwork delle ispirazioni di Albarn, dal quasi Blur(esque) di Royal Morning Blue, al folle e malinconico pezzo dedicato a un palazzo anni venti di Montevideo, The Tower of Montevideo appunto, dove l’altrove è un posto lontano, dove la malinconia diventa un genere. E poi synth sparsi, alternati al pianoforte, testi meravigliosi come quello di The Cormorant, colori (silver and blue) in Daft Wader, fino a Esja, una suite vichinga per pelli di narvalo e ansia.

Sono appunti sparsi dai confini del mondo, sulla fine del mondo. Una riflessione, una contemplazione sul mare di nebbia islandese, in cui la musica è lo strumento di analisi, ma è anche il prodotto, è sintesi e sintassi.

E infine è un viaggio o una tappa di un percorso. Perché Damon Albarn incarna perfettamente il ruolo di esploratore, di sperimentatore. Consapevole della meraviglia che un percorso simile comporta, affronta con uno spirito romantico il ruolo di artista. Un Ulisse, consapevole del carico di responsabilità, conscio dei rischi, ma entusiasta per la continua scoperta.

Se l’Islanda sarà la sua Itaca o l’ennesima tappa, lo sapremo solo quando si fermerà a contemplare un nuovo mare di nebbia.

 

Damon Albarn

The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows

Transgressive Records

 

Andrea Riscossa

Idles “Crawler” (Partisan Records, 2021)

“Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, è il cosiddetto moralista.” 

Così diceva Pasolini durante la sua ultima intervista nel 1975, riguardo al suo film Salò o Le 120 Giornate di Sodoma, e sembra che gli Idles abbiamo preso questa frase alla lettera.

Che i moralisti si tengano a debita distanza, dunque, perché loro intendono scandalizzarci portando la loro musica sempre al limite, sperimentando nuovi sound e fondendo il tutto con attacchi improvvisi di punk.

Se il 2020 è stato l’anno della rivelazione, il 2021 è quello della consacrazione grazie al loro ultimo lavoro, Crawler uscito dopo un anno da ULTRA MONO.

Sulla carta possono essere identificati come appartenenti al post punk all’inglese per via della particolarità del timbro vocale del cantante Joe Talbot, della rozzezza delle linee di basso, dei suoni distorti e delle tematiche trattate, ma il gruppo stesso (già dal precedente album) non accetta di essere categorizzato in una nicchia così ristretta e hanno solo voglia di dire le cose a modo loro. Divertendosi, nel frattempo. 

La loro voglia di sconvolgere è palese già con il primo singolo, The Beachland Ballroom, una ballata dall’intro delicato e romantico, lontanissima dalle corde della band. Eppure l’enorme talento e l’accorata interpretazione di Talbot rendono il pezzo inequivocabilmente malinconico e rabbioso.

Nonostante non vogliano dedicarsi solo al punk, provando ad inserire sempre elementi sonori innovativi per creare qualcosa di unico, la loro anima post punk esplode in When the Lights Come On, che risuona di chiare vibrazioni alla Joy Division.

Basso, batteria e le due chitarre (rispettivamente Adam Devonshire, Jon Beavis, Mark Bowen, Lee Kiernan) non si tirano indietro quando c’è da pestare seri, e in The New Sensation e Meds si fanno ben sentire.

La genialità di questo gruppo risiede nel fatto che tutti i membri hanno una personalità e un talento allucinante, ed ogni strumento risuona chiaro e preciso. A testimoniare ciò è l’incalzante intro di The Wheel, che prosegue per tutto il brano con un ritmo convulso, e la linea di basso è sempre più profonda e scandita. Il brano parla di un rapporto problematico con la propria madre e il ritmo insistente riesce a trasmettere l’angoscia di quella relazione complicata.

La dimostrazione della loro versatilità invece la troviamo in Car Cash, iniziando il brano con del rap metal (alla Rage Against The Machine), per poi concludere il pezzo con qualcosa simile a The Smashing Pumpkins (solo per far capire le sonorità trattate).

Uno dei brani più peculiari è senza dubbio Progress, un qualcosa che assomiglia più ad un mantra. Un brano utilizzabile tranquillamente per la meditazione, l’ennesimo esperimento stilistico degli Idles. Subito dopo, Wizz: trenta secondi di grindcore puro. Dopo la calma benefica di una preghiera c’era bisogno di una botta di adrenalina, è un po’ come il sorbetto di limone per togliere il sapore del pesce.

Quattordici brani per un’esperienza fuori dal comune. Una band che racconta di traumi, relazioni difficili, abbandono e sofferenza, ma anche di ripresa e auto-realizzazione. 

Una band che possiede talento, cuore e personalità.

E voi, siete dei moralisti?

Nel caso la risposta sia “No”, andatevi ad ascoltare questo album e lasciatevi scandalizzare!

 

IDLES

Crawler

Partisan Records

 

Marta Annesi

 

PS: Per capire la grandezza degli Idles consiglio l’ascolto di The God That Failed contenuto in The Metallica Blacklist. L’identità musicale della band è talmente consolidata da stravolgere completamente il brano per farlo definitamente loro.

Springtime “Springtime” (Joyful Noise Recordings, 2021)

Vi siete mai sentiti inadatti, insufficienti, inadeguati, non-abbastanza-capaci-per, quasi inermi?

Avete mai provato quella sensazione di sconforto misto ad ammirazione che si tramuta poi in stupore e meraviglia tanto da farvi dimenticare lo sconforto iniziale?

Ad esempio io ricordo con molta nitidezza di aver avuto un’esperienza simile ad un concerto dei Sonic Youth, a Bolzano, in un’ex acciaieria (com’era quella questione del luogo che determina la musica ecc…); al tempo ancora suonavo (tentavo miseramente diciamo, e senza alcuna velleità per altro) e ricordo che quella sera ero in prima fila, proprio in transenna, e dopo meno di un giro di lancette di Lee Ranaldo che, con una bacchetta della batteria infilata tra le corde della chitarra, mi stava facendo sentire suoni, rumori, note, qualcosa che comunque non avevo mai sentito prima, mi girai verso un amico dicendo qualcosa del tipo “ma cosa suoniamo a fare se c’è chi lo fa così”. Poi questo passa, il concerto prosegue, accadono cose, si susseguono brani, e finisci per sentirti la persona più fortunata al mondo ad aver assistito a un tale evento e dimentichi lo scoramento di un paio d’ore prima.

Ecco, tutto sto preambolo per dire cosa? Che ascoltando Springtime, il nuovo primo fresco di stampa disco degli Springtime, ho avuto un’esperienza similare anche se con uno sviluppo opposto. Da un’iniziale stato di beatitudine durante l’ascolto si è fatto avanti un sentimento di inadeguatezza pensando al momento in cui mi sarei trovato di fronte ad un foglio per scriverne.

Allora mi son detto che la scelta migliore in queste occasioni è quella di rendere un servizio, una sorta di raccomandazione, un consiglio vivamente sentito: se vi fidate del sottoscritto e dei suoi gusti e del suo parere, fatevi un regalo enorme ed ascoltate allo sfinimento quello che potrebbe, a circa cinquanta giorni dalla fine di questo 2021, quindi candidatura molto forte e autorevole, il disco dell’anno.

Gli Springtime sono una band formata da poco, sono un trio, ma in realtà si tratta di una specie di dream team, tipo quando in qualche videogioco sportivo formi la tua squadra coi tuoi giocatori preferiti: quel genio mai abbastanza considerato di Gareth Liddiard dei The Drones, sua maestà Jim White, che mi rifiuto di dover presentare, e Chris Abrahams, pianista di lungo corso coi The Necks (e molto molto molto altro), terzetto avanguardistico sperimentale in qualche modo accostabile al jazz.

Il risultato va dal meraviglioso al clamoroso, e il giudizio si sposta dal primo al secondo termine a seconda di quanti ascolti siate al momento riusciti a dare a questi 46 minuti (io ho abbondantemente superato i dieci per dire, e non tende a stancarmi e a propormi sempre nuovi spunti e nuove chicche), e risulta almeno al sottoscritto davvero difficile trovare un momento che stacchi sul resto, sia in positivo che in negativo; c’è così tanta bellezza in questo Springtime, dall’iniziale Will To Power (che a me ricorda tanto un Nick Cave pre Skeleton Tree che canta coi The Black Heart Procession) alla pazzesca cover live di Will Oldham, all’epoca ancora Palace Music (West Palm Beach), all’improvvisazione di The Island, che da pochi accordi di hammond di Abraham cambia pelle più e più volte, sorprendendo di continuo.

Ci sarebbero così tante altre cose da dire, dai contributi ai testi del poeta Ian Duhig, alla dichiarazione d’amore verso il disco di David Yow, a questa sottotrama da Murder Ballads che si espande un po’ ovunque, che l’unica cosa a cui riesco a pensare al momento è “quanto potrebbe essere indimenticabile sentire The Killing of the Village Idiot dal vivo”?

 

Springtime

Springtime

Joyful Noise Recordings

 

Alberto Adustini

Frank Carter & The Rattlesnakes “Sticky” (International Death Cult, 2021)

Avevo pensato di creare la prima recensione “librogame” della mia vita. Per esempio, se sai cosa sia un libro game, salta a pagina ventisei, altrimenti continua a leggere l’entusiastica recensione di questo album!
A pagina ventisei avreste invece trovato una sana stroncatura per un album superficiale e dal vago sapore di plastica.
Poi sono passato agli Exercices de Style di Raymond Queneau, novantanove recensioni per lo stesso disco. Poi ho ridimensionato l’ego e le pretese. 

Perché la verità è che questo disco ha avuto un primo assaggio assai travagliato, che è successivamente scivolato in una crisi legata all’età (la mia) e al gusto (il loro), e che infine ha portato a una sintesi quasi insperata, un momento catartico, come quando, in gita scolastica, i professori si ubriacano con gli studenti.
E così, mentre lanciavo invettive contro Frank Carter e i suoi The Rattlesnakes, come un novello anziano, braccia dietro la schiena, davanti a un cantiere pieno di giovini, il disco, diabolico e subdolo, lentamente si mostrava a fuoco.

Sia chiaro, non riesco a non pensare che sia non esattamente originale e che abbia preso a piene mani da generi e discografie affini, anche se oggi si usano verbi come “tributare” e “omaggiare”, mentre in tempi non troppo lontani si sarebbe potuto sintetizzare il tutto in modo più veloce (e brutale).

Mr. Carter però sa che prendere da chi stava dietro, da chi è ai lati, ma anche da chi ti sta davanti (e ivi rimarrà per sempre) può essere una strategia vincente.
E sì, avete appena letto una metafora.

Per rimanere in tema di figure retoriche, l’intero disco è un ossimoro di dimensioni pantagrueliche. È ignorante nei modi, ma profondo in alcuni scorci. È ammiccante nei riff, ma ha una sua personalità. È uno di quegli album che funziona sicuramente meglio uscito dalla sala di registrazione e portato su un palco.

Perché fin da subito, dall’inizio della title track, il tutto appare un po’ sopra le righe. Si ha l’effetto “pentola a pressione”, come se l’urgenza di mostrare le carte, tutte e subito, in qualche modo rovinasse la conoscenza. Ignorante, come dicevo prima, nel senso più genuino e onesto del termine. E sorprendente, perché a leggere i testi si rimane piacevolmente spiazzati. Sembrano domande esistenziali salite come rutti alle tre del mattino dopo il sesto cocktail: tolto il contesto, rimane uno spunto interessante.

E quindi, horribile dictu, in questo disco punk rock, quasi classico in certi pezzi, la differenza la fanno le sfumature. Perché se l’impatto sonoro è potente, ma a tratti scontato, sta nell’intenzione la parte buona dell’album. Risultato? Tutto funziona bene, a tratti benissimo. Sembra addirittura curato nella produzione, a tratti fin patinata.

Accade per esempio che in Rat Race si arrivi al sassofono, mentre Carter si lancia in invettive contro politicanti opportunisti. E i temi non sono banali, passando dal machismo all’alcolismo di Take It To The Brink, alla critica sociale e quasi pirandelliana di My Town, eseguita con la piacevole collaborazione di Joe Talbot degli IDLES.

Il disco si chiude con Original Sin, che sembra gettare lo sguardo ancora più nel passato, grazie a ritmiche meno sincopate e alla sempre carismatica presenza di Bobby Gillespie (The Jesus and Mary Chain, Primal Scream).

Insomma, sufficienza piena. Un po’ perché un paio di pezzi rimangono stampati in testa come il peggior reggaeton, senza però rovinarti la giornata, un po’ perché è un disco divertente, agitato, a volte ben pensato.

 

Frank Carter & The Rattlesnakes

Sticky

International Death Cult

 

Andrea Riscossa

 

Pagina ventisei.
Se negli anni novanta ascoltavi NOFX, Weezer, Bad Religion e sai chi siano Clash e Stoogies, beh, hai per le mani un buon disco di musica che già conosci. 

Ice Nine Kills “The Silver Scream 2: Welcome To Horrorwood” (Fearless Records, 2021)

Il quartiere dell’orrore

Abbiamo imparato bene a conoscere gli Ice Nine Kills, soprattutto negli ultimi anni e soprattutto dopo la pubblicazione di The Silver Scream, nel 2018, che li ha portati davvero in alto tra i gruppi appartenenti al panorama Post-Hardcore. La band di Boston, tre anni dopo, è pronta a deliziarci ancora con un nuovo album, che rappresenterebbe la seconda parte di The Silver Scream, intitolato Welcome To Horrorwood. Una sorta di sequel quindi, come da tradizione nel mondo delle opere horror, secondo quanto afferma il frontman Spencer Charnas.

È l’artwork della copertina, cupo e meraviglioso, ancora una volta realizzato magistralmente dall’artista Mike Cortada, l’elemento che ci trasmette le prime sensazioni. Anche questa volta, l’idea è quella di trasportare l’ascoltatore in un mondo abitato dagli assassini delle più famose opere, scritte o cinematografiche, del genere horror. Un esempio è il primo singolo pubblicato dai nostri, Hip To Be Scared, in cui vediamo la partecipazione di Jacoby Shaddix dei Papa Roach, che omaggia il celeberrimo film American Psycho, tratto dal romanzo di Bret Easton Ellis. Ricordiamo che gli Ice Nine Kills, già in The Silver Scream, omaggiarono infatti numerosi film dell’orrore, come Friday the 13th, It e Halloween, per ricordarne alcuni. 

Anche lo stile musicale non varia, e menomale. La maturazione artistica della band, comunque, col passare del tempo, si avverte. Il sound di base è quello tipico del Post-Hardcore e riprende band come We Came As Romans, Saosin, A Day To Remember e i primi Emarosa. Gli Ice Nine Kills, però, si dimostrano bravissimi nell’aggiunta di elementi che possano contraddistinguerli. Ciò che richiama subito l’attenzione dell’ascoltatore sono le veloci e impetuose cavalcate di batteria, unite a scream infernali e una piacevolissima componente gotica data dall’uso, in più casi, di violini e tastiere. Impressionanti alcuni passaggi in vero e proprio stile Deathcore presenti, ad esempio in Funeral Derangements, contornata da rapidi riff di chitarra e growl gutturali. 

Oltre al featuring di Jacoby Shaddix di cui si è parlato prima, Welcome To Horrorwood ci regala la crudissima Take Your Pick, con nientemeno che Corpsegrinder dei Cannibal Corspe. A seguire, The Box, che vede la partecipazione di Brandon Saller degli Atreyu e Ryan Kirby dei Fit For A King, un’accoppiata assurdamente grandiosa. L’ultimo featuring è quello di Buddy Nielson dei Senses Fail in F.L.Y.

Traendo le somme, Welcome To Horrorwood si rivela un album pazzesco e dominante, pieno di sorprese e musicalmente variegato, parecchio oserei dire. Gli Ice Nine Kills ci regalano una vera chicca e non potevano farlo in un periodo migliore. Del resto, ottobre è il mese dell’orrore, no? Beh, ecco la colonna sonora per vivere al meglio questo periodo da paura!

 

Ice Nine Kills

The Silver Scream 2: Welcome To Horrorwood

Fearless Records

 

Nicola Picerno

Destroy Boys “Open Mouth, Open Heart” (Hopeless Records, 2021)

Carattere Californiano

Le Destroy Boys sono una band Punk Rock tutta al femminile, originaria della California, più precisamente di Sacramento, e diciamo che il loro nome è tutto un programma. Loro distruggono, ma tutto eh. Il loro sound non è così innovativo o speciale, ma vi assicuro che sa spiccare. Le ragazze californiane uniscono stili appartenenti a vari sottogeneri del Punk, rendendo così i loro album davvero dinamici, cangianti e mai noiosi. L’ultima fatica, intitolata Open Mouth, Open Heart, è una vera chicca. 

La prima traccia ci proietta immediatamente nel mondo delle Destroy Boys, parecchio influenzato da quella che, se vogliamo, è stata una delle maggiori correnti del Punk Rock, ovvero quella di scuola americana di fine anni Novanta e inizio Duemila. Nei brani dell’album c’è una nota malinconica che ricorda esattamente quei tempi, i fan del genere sicuramente la coglieranno. Ma c’è un’altra componente, assolutamente fondamentale, che caratterizza queste ragazze: l’aggressività californiana, unica nel suo genere. Se non avete ben chiaro di cosa sto parlando, beh, pensate ai Suicidal Tendencies. È un carattere innato, che dona ai brani quella grinta in più, riconoscibile soprattutto in Locker Room Bully, Te Llevo Conmigo, con strofe mid-tempo che la rendono fantasticamente poliedrica, e For What. Muzzle invece è una totale mazzata sui denti: riff molto Hardcore, ritmo veloce, circolare e volutamente ripetitivo che ti lascia senza fiato per tutto il minuto di durata del pezzo, anche questa una scelta tipica del genere. Se Sweet Tooth ricorda veramente tanto band come i Distillers, capitanati dalla fantastica Brody Dalle, ascoltando Escape non si può non pensare ai Blink-182. Una menzione d’onore va indubbiamente fatta a Lo Peor, dal sound latineggiante, e All This Love, due down-tempo meravigliose che fanno sognare un indimenticabile giro in moto al tramonto sulle grandi strade californiane. 

Insomma, le Destroy Boys sanno il fatto loro e ci regalano un full-length bellissimo. Open Mouth, Open Heart è un album ricco, sia di emozioni sia di stili musicali. L’ascoltatore compirà un viaggio attraverso il Punk e la cultura musicale californiana, al limite del dualismo, tra impetuosità e pacatezza.

 

Destroy Boys

Open Mouth, Open Heart

Hopeless Records

 

Nicola Picerno

Noah Gundersen “A Pillar of Salt” (Cooking Vinyl, 2021)

Spesso, gli incontri più significativi sono quelli che sfuggono ad ogni possibilità di previsione. Ero lì, assorta nel tentativo di fare ordine nella mia stanza o in qualche luogo interiore, tra battiti accelerati e lacrime nascoste. La porta? Credevo di averla chiusa. Invece no. Non ha bussato, è entrato con delicato fragore. Irrinunciabile, da lì in avanti. After All (White Noise, 2017) è stato il brano con cui si è presentato. Tra parentesi, in maiuscolo, apparivano anche altre quattro parole: (Everything All the Time), per un universo di senso. Ho voluto sapere chi fosse, da dove avesse ereditato quei tratti tanto decisi quanto fragili, da dove venisse. Sulla provenienza, molte delle fonti hanno sempre rimandato a Seattle, città sacra per coloro che sono cresciuti con il suono sinonimo degli anni Novanta, della rabbia che diventa urgenza espressiva, dell’imprinting del grunge. Ed è proprio dalla città di smeraldo che si snodano i fili di A Pillar Of Salt (Cooking Vinyl), il nuovo album di Noah Gundersen. 

Per presentare il singolo apripista, Sleepless in Seattle — suonato per la prima volta in un’insospettabile diretta nel marzo 2020, durante il lockdown, e riproposta in anteprima un anno dopo all’interno del format in streaming Songs & Conversation — l’artista ricorda il suo trasferimento nella metropoli, nel 2009. Un bagaglio carico di passione per quei luoghi, per le band che li hanno resi sacri, per lo spirito che animava un’intera scena. Un sogno da trasformare in realtà a qualunque costo, crescendo tra club e performance live, pubblicando sei dischi, stringendo amicizie, perdendo persone care. La bussola, però, sempre posizionata su un “nord” chiamato Space Needle che vegliava sulla possibilità di far sentire la propria voce. Dieci anni dopo, quella voce — accompagnata da una chitarra malinconica — racconta della fine di un capitolo, di una metamorfosi fredda e tecnologica, di passeggiate notturne esaurite in un vagare insonne, di bar in bar. Banconi ed ombre appoggiate ad essi che testimoniano i fasti passati — i “Glory Days” di matrice springsteeniana, come riporta un post su Instagram – senza cui certi uomini come Brian, protagonista dei versi, non sarebbero potuti essere chi sono, nella loro benedizione e maledizione. 

Oltre a lui, altri due personaggi appaiono ad inaugurare la tracklist, muovendosi sullo stesso pattern, intimamente acustico, al piano. Laurel and Hardy (gli Stanlio e Olio italiani) vestono i panni di un amore distillato in opposizione e complementarietà: un valzer in cui il ticchettio di sospiri e dolci errori — “My favorite poison / My honey mistake” — sfuma in passi che si allontanano. Un allontanamento, già dalla traccia numero due, anche da un’impronta cantautoriale mai rinnegata ma arricchita e volutamente sviluppata dall’ultimo lavoro in studio, Lover (2019), in poi. Body si impone come inno generazionale: lo specchio di chi — tenendo per mano la giovinezza ed affacciandosi sulla responsabilità adulta — stringe la pace con un certo fatalismo attivo (“Whatever happens is probably gonna happen anyway”), pur non rinunciando alla confessione più profonda di rimpianti e rimorsi (“If I told you then, what you could have been / Would you have turned around? / Would you have even listened?”).

 

 

Intersezioni di tempo e di suono, livellato — quest’ultimo — su un’impostazione ibrida tra alt-rock ed elettro-pop. Una costruzione a più strati di arrangiamenti contemporanei e soluzioni melodiche nitide che attestano raffinatezza e ricercatezza. Se per The Coast a prevalere è una linea vocale empatica ed ineccepibile che dichiara tregua alle continue battaglie esistenziali per ristorarsi di fronte all’oceano con un cuore pronto a mettersi in gioco, in Blankets e Back To Me l’obiettivo è quello della destrutturazione, sia nella forma sia nel contenuto. Un’ispirazione che rimanda, da una parte, agli Editors più elettronici e, dall’altra, al Justin Vernon più iconico con le suggestioni dei Bon Iver. Il contesto perfetto in cui far dialogare memorie che svaniscono, realtà inedite da affrontare e la tentazione di ripiombare in meccanismi antichi ed ancestrali. Qui, le frequenze timbriche di Gundersen — talvolta campionate in effetti distorti, talvolta al limite del meccanico e robotico — lanciano messaggi di identificazione universale.

Tra brani di raccordo più classici come la radiofonica Exit Signs, Magic Trick e la denuncia al mondo patinato e ingannevole della comunicazione digitale e Bright Lost Things con il riverbero del clavicembalo e delle luci abbaglianti di Broadway, Atlantis si staglia in qualità di punta di diamante. Il featuring con Phoebe Bridgers, stella attualissima del firmamento musicale internazionale, rimarca un emozionante sodalizio (oltre che un’amicizia) andato in scena già nel 2017 con il video mashup di The Killer, perla dello strabiliante disco d’esordio dell’artista di Pasadena, Strangers in the Alps (2017), e The Sound, estratto da White Noise di Noah. La naturalezza e la fluidità che avevano già caratterizzato quella collaborazione si confermano in Atlantis, trasposizione in note e strofe poetiche ed ipotetiche della leggenda di Atlantide. Le due tonalità si fondono proprio come il mare con il perimetro dell’isola ed ondeggiano in una marea di risonanze lontane: sembra di udire il canto delle sirene o il sibilo intrappolato in conchiglie colorate.

A Pillar of Salt si chiude con quella che l’autore stesso elegge a sua canzone preferita. Always There è il compimento orchestrale che, su un dolce arpeggio, distende gli scenari per elevarli a potenza onirica. Il sapiente falsetto, assieme al trionfo di archi e alle sonorità eteree, racchiude la promessa di una nuova alba. La matura consapevolezza del proprio desiderio di amare, nonostante tutto, nonostante possa essere considerata una prova di coraggio anacronistica, rischiosa, al limite della patologia. È una delle frasi più impattanti riportate, durante il periodo di promo, all’interno del puzzle di citazioni pubblicato sui canali social ufficiali: “Love grows like a cancer”. Una condanna come quella che — nella tradizione biblica — colpì la moglie di Lot per essersi voltata a guardare Sodoma, subendo la trasformazione in una statua (o colonna) di sale. A Pillar of Salt, appunto. 

La cristallizzazione dal dolore e del dolore, la metabolizzazione e la scelta di andare oltre — apprendendo la lezione, alleviandola e non dimenticando — accendono il luccichio più chiaro e sfavillante del disco. Granello dopo granello, a sciogliere le riserve, ad infondere rinnovata fiducia può essere d’aiuto l’ascolto di un album di così pregiata bellezza ed autenticità. 

 

Noah Gundersen

A Pillar Of Salt

Cooking Vinyl

Laura Faccenda 

Nevermind compie trent’anni e io no

Si è preso il pomeriggio libero. E una bottiglia di buon vino.
Telefono spento, non capitava da secoli. Doccia, vestiti puliti, quasi fosse un appuntamento. Arrivando al mobile del giradischi ha un’esitazione. Prende in mano il disco, osserva la copertina a lungo. 

Due soli pensieri lo sfiorano: il primo riguarda la sua personale opinione del soggetto immortalato, dopo la richiesta di risarcimento. E pace, esiste il karma, ne è convinto. Il secondo è che quel pezzo di cartone, quel bambino che nuota è il suo personale ritratto di Dorian Gray. Anzi, che lui stesso è, per quel disco, il quadro che invecchia. Quel fottuto bambino rimarrà per sempre piccolo, nudo e con pistolino notevole. Quel disco rimarrà per sempre giovane. Per sempre meraviglioso. Per sempre adorato. Lui invece no, invecchierà, diventerà noioso, conservatore e malinconico. Il disco si nutrirà di lui, perché il patto è stato sancito nel 1991 e mai verrà spezzato. Non c’è un solo disco che lui abbia amato che di colpo sia invecchiato male. O che proprio sia invecchiato. 

È il dono che la musica porta con sé, è il modo che la musica ha per fregare il tempo. Perché ci sono tempi scanditi dalle estati, dai viaggi, dalle relazioni, tempi scanditi da olimpiadi, nascite, morti e successi. Ma sono tutti punti sulla linea temporale. 

La musica invece ci segue, a volte ci insegue. La nostra relazione con i dischi che amiamo ha un inizio, raramente una fine, perché si impasta con la nostra vita, si intreccia nella storia, diventa colonna sonora, diventa compagna. A volte è un accento, a volte medicina. 

Lui aveva da poco fatto le analisi per colesterolo e tristezza, le principali candidate del suo malessere. Dieta e musica. Nessuno aveva contemplato il vino, ergo, fanculo. 

Andrea nevermind 30Nevermind compie trent’anni. E lui no. Lui ne ha compiuti di più. Però Nevermind e lui hanno compiuto trent’anni, quindi è il caso di festeggiare come si deve. 

Si siede per terra, si accende una sigaretta, il fruscio della sigaretta si confonde con quello della puntina. E allora cuffie su, il mondo resti fuori, questa è una cosa tra lui e i Nirvana.

Quattro accordi, che sono un portale per l’inizio di tutto. L’alfa degli anni novanta, il big bang, forse involontario o forse no, che cambiò le regole del gioco. Una overture che puzzava di icona generazionale dopo soli cinque secondi. Poi Novoselic riportava la calma, poco prima che Kurt chiamasse tutti alle armi. Letteralmente. 

“Venite siore e siori, venite grandi e piccini. Vi mostreremo come intrattenere tutti quanti per quasi quarantacinque minuti! Uno spettacolo di freaks da psicoanalisi, un trio di emarginati che mettono in versi, su un palco, il loro personal disagio! Rimarrete incantati da golosissimi riff e ritornelli orecchiabili, e nel mentre faremo passare testi pesantissimi, senza che nessuno sanguini dalle orecchie! Intanto caricate i fucili, si sa mai!”.

Benvenuti nella palestra più famosa della storia della musica. Potere di MTV, potere di una generazione pronta a smontare le permanenti di molte band. L’onda lunga degli anni ottanta sbatteva contro tre ragazzi armati di rabbia, intelligenza, sensibilità e una discreta dipendenza dagli oppioidi. 

La depressione, la disillusione, una geniale ironia a tratti macabra. Smell Like Teen Spirits era programmatico, era il manifesto di un disco, di un pensiero, di un inizio. 

(Scivola la puntina, scivola giù altro vino.)

Kurt gioca con Burroughs, e poi fa cantare tutti i fans dell’ultima ora, perfetti analfabeti funzionali, un ritornello che descrive la follia collettiva che li sta per investire. In Bloom. Sì, però. 

Però è la seconda canzone in cui si parla di armi, Kurt. 

Però questa non è solo ironia. Qua si parla di incomunicabilità. “I like beautiful melodies telling me terrible things”, diceva Tom Waits. Sembra la terza legge incisa a scalpello sulle tavole del grunge. 

Come as You Are continua sulla stessa ambiguità, sulle sfocature, in una canzone dove le parole scivolano una dentro l’altra, dove il nemico diventa memoria, dove aprirsi all’altro è una continua scommessa, dove essere disarmati è l’unica condizione per la conoscenza. 

(Vino. Serve vino.)

Paura, depressione, fuga di Breed. Si cade poi nel paradiso artificiale di Lithium, dove è bipolare la struttura della canzone, che diventa lei stessa messaggio, facendo per un attimo comparire McLuhan sopra la puntina. No, sarà il vino. Però la canzone-è-il-messaggio, poche storie. 

Polly rovescia i punti di vista, è come se a metà di una partita a scacchi vi scambiaste le parti. È un esercizio di stile, ma di nuovo è anche una domanda profonda sulla comprensione e sulla visione della realtà. Si passa a Heller, al Comma 22 , nelle terre tiratissime di Territorial Pissing, tre accordi in 2:22 per un crescendo di alienazione, di differenze, di urla disperate, mentre Grohl maltratta definitivamente la batteria e il “The Terminator”, il rullante comprato apposta per Nevermind dal suono quantomeno incisivo. 

Si passa ai sentimenti, all’amor scortese, quello per Tobi Veil, anche se Drain You fa un po’ di confusione tra infanzia, sesso e droga. Tra fluidi corporei e sostanze stupefacenti, tra dipendenze e interscambi. O forse è tutto voluto, sepolto solo da un velo di buoni accordi per celare il significato ai più?

Stay Away è un collage di frasi fatte, è inno alla superficialità. Il puzzle di Nevermind è quasi completo. Serve il non-sense di On a Plain, perché Kurt lo dirà, anni dopo: era pigro, spesso scriveva i testi all’ultimo e non sempre questi avevano un senso vero e proprio. “Impressionismo cazzaro”, fu definito da critico anonimo. A volte uscivano grandi cose, a volte materiale buono per la psicoanalisi, a volte solo parole.

(Sono veramente ubriaco)

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Something in The Way ha dentro l’essenza di Nevermind. In studio proprio non veniva. Butch Vig, che durante le registrazioni rubava i takes a Kurt con ogni mezzo possibile, si accorge che il cantante stava finalmente suonando da dio, ma era in sala di regia, con la chitarra scordata e senza qualcuno che gli desse il ritmo. Ma era buona, vera e unica. Prese Novoselic e scordò il basso. E seguì il violoncello.
Nevermind era questo. 

Kurt urla ancora per qualche minuto nella ghost track. 

Poi la puntina esce dal solco. 

Silenzio, un bicchiere vuoto, un sospiro. 

Nevermind è stato il primo che “ho lasciato entrare”. Il primo album che ho amato, studiato, giustificato, idolatrato, tradito.
Nevermind fu il primo bacio. Indimenticabile, umido, direbbe il signor Gump, inaspettato. Sperato.
È il mio Dorian Gray, sarà sempre lì, identico e monolitico nella sua grandezza. 

Nevermind compie trent’anni. E io no. Loro sono diventati una pagina nera sul diario del liceo. Otto aprile, data dell’annuncio. Lasciarono un groviglio indistricabile di domande, un peso infinito nella testa di un adolescente. Fu un dolore fisico, che ricordo bene. La loro fine e la loro storia successiva sembrarono le risposte alle domande di Nevermind. Tre vie, tre possibili bivi da prendere, tre modi di affrontare la vita. Servono gli anni in più che ho per accettare il fatto che il lieto fine non è tanto rock. 

Ma questo album servì a iniziare qualcosa. Servì per aprirsi a una nuova musica, a nuovi anni, a trovare nei Pearl Jam il mio “bright side” del grunge e innamorarmi di nuovo, servì per i dischi, i concerti, la musica. 

Servì per parlare con nuove persone, con amici che resistono, servì a condividere, a ballarci su e a viaggiare cantando. Servì riascoltarlo dieci anni dopo, vent’anni dopo e vedere dove cazzo stavo andando. Serve riascoltarlo anche a distanza di trent’anni e sentire che gusto ha. 

Nevermind compie trent’anni. Io molti di più, ma stiamo ancora bene insieme. 

Senza arrossire, sono fortunato. 

Oh well, wathever, 

Nevermind. 

 

Andrea Riscossa

 

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Spiritbox “Eternal Blue” (Rise Records, 2021)

Melodia furiosa

Gli Spiritbox, band canadese originaria dell’isola di Vancouver, nella Columbia Britannica, attiva dal 2016, sono pronti a dare al pubblico il loro primo full length, intitolato Eternal Blue. Ormai si sa, nei sottogeneri del Metal più moderno, soprattutto nel MetalCore, è spesso difficile spiccare ed è abbastanza comune che varie band, anche se con background completamente diversi e luoghi di provenienza più vari, possano risultare simili tra loro e che, soprattutto nei ritornelli, ci comunichino qualcosa di “già sentito” rischiando di restare nell’anonimato. Per questo, gli Spiritbox hanno sempre cercato di farsi strada nell’originalità, provando a distinguersi attraverso quello che è diventato il loro punto di forza, ovvero l’alternanza di leggerezza e pesantezza nel sound. 

Questa dualità che caratterizza la band canadese è facilmente riconoscibile già nei primi due brani presenti nell’album, Sun Killer e Hurt You. Infatti, se la prima mostra un animo più sinfonico, magari ricordando a tratti anche band come gli Evanescence ma dal carattere più moderno, la seconda resta più ancorata ai canoni del MetalCore, con chitarre e bassi pesanti affiancati ad uno scream aggressivo alternato al ritornello melodico con voce pulita. La terza traccia, Yellowjacket, presenta una grande sorpresa per gli amanti del genere, ovvero un featuring con una delle voci più potenti e importanti nel panorama Core, quella di Sam Carter degli Architects. Un brano carico e incredibile, in cui il contributo dato da un artista come Carter è più che palpabile e dove a fare da padrone è proprio lo scream di quest’ultimo, arricchito dai cori emozionali tipici del MetalCore che ricordano molto band come i Parkway Drive.

La fantastica frontwoman Courtney LaPlante ci delizia per tutta la durata dell’album con la sua voce armoniosa e piacevole, il cui apice si manifesta nella meravigliosa Secret Garden e nel brano di chiusura, Constance, solenne e introspettiva. 

Cosa dovrebbe aspettarsi dunque l’ascoltatore da Eternal Blue? Sicuramente un album molto valido, assolutamente non scontato e sentimentale, a tratti commovente. Gli Spiritbox mostrano dunque una combo vincente che sono sicuramente in grado di gestire, dimostrandosi capaci e maturi nonostante questo sia il loro primo full-length. Una band, quindi, che avrà tanto da dire nel panorama MetalCore.

 

Spiritbox

Eternal Blue

Rise Records

 

Nicola Picerno

Onceweresixty “The Flood” (Beautiful Losers, 2021)

Ce l’avete presente l’espressione latina nomen omen, che tra le diverse accezioni ha pure quella, semplificando, di significare “di nome e di fatto”. 

Faccio un esempio, in ambito musicale, un gruppo come gli Obituary non mi aspetto facciano dream pop, o che le Lollipop facciano grind core. Vero che ci sono le eccezioni e i “false friend”, come quella volta che scoprii che morbid in inglese non significava morbido/soffice e che quindi i Morbid Angel non erano una band Christian Pop, però la prima volta che ho cliccato play per ascoltare il nuovo, primo disco dei vicentini Onceweresixty, tutto mi immaginavo tranne quello che in realtà poi avrei sentito.

Aggiungerei che è un nome che potrebbe anche sembrare uno di quei moniker che spesso gli artisti utilizzano, tipo Apparat, o Caribou, ma sta di fatto che questi Onceweresixty, terzetto di Vicenza come si diceva sopra, hanno sfornato una chicca niente male con questo The Flood. Nove tracce per mezz’ora scarsa che si sviluppa in un territorio non ben definito nè tantomeno definibile, e la meraviglia che si prova ogni tanto quando non si riesce in poco tempo a rispondere all’orribile domanda “che genere fanno?”.

Ci sono gli anni ’60 ovviamente, sia quelli dei Velvet Underground (la chitarra di All I Want sembra volerne rendere omaggio), sia l’immediatezza melodica dei Beach Boys, filtrata dalle fantasiose e strambe visioni di Panda Bear (Six Six Sixty), lo spleen di Summer e la tenebrosa Delivery Boy. The Flood è stato registrato praticamente in presa diretta, senza passare per post produzioni e questo aspetto rende questo lavoro ancora più autentico e vero (si prenda il finale della title track ad esempio, dove l’attitudine lo-fi si palesa con maggior forza) e anzi, aiuta i brani ad emergere nella loro purezza e genuinità. Il finale clamoroso/rumoroso di Antipopsong è la classica ciliegina, tre minuti (che se fossero stati anche di più non mi sarebbe dispiaciuto ma vabbè) che definire catartici è riduttivo e che mi lasciano la certezza di una delle uscite italiane più interessanti che abbia sentito negli ultimi tempi.

 

Onceweresixty 

The Flood

Beautiful Losers/Uglydog Records 

 

Alberto Adustini

The Raven Age “Exile” (EX1 Records, 2021)

Corvi d’Autunno

È in arrivo l’autunno (finalmente, aggiungerei) e le giornate calde e soleggiate iniziano a lasciare spazio al cielo grigio e piovoso. Ora ditemi, cosa c’è di meglio, con questo meteo, che rilassarsi sul divano, bere un caffè caldo ascoltando musica rilassante? Beh, The Raven Age ci hanno proprio preso in pieno. Quest’ultima loro fatica infatti consiste in una raccolta di brani acustici, tra cui due nuovi pezzi inediti, cinque tracce scelte da Conspiracy, album del 2019, riarrangiate in chiave acustica appunto, e quattro live registrati in Cile, Canada, Regno Unito e Stati Uniti.

Ad introdurre Exile c’è la meravigliosa No Man’s Land, uno dei due pezzi inediti, in cui il vocalist Matt James ci delizia con la sua voce graffiante attraverso una power ballad molto anni ’80, ma allo stesso tempo originale e moderna, dal ritornello catchy ed emozionante. A seguire, troviamo già il secondo inedito, Wait For Me, che sembra essere scritto per calzare perfettamente in un live: ritornello diretto, struggente, chitarre imponenti ma melodiche. Un brano davvero affascinante. Ed ecco che arriviamo alle tracce scelte da Conspiracy, un album parecchio amato dai fan della band londinese. A quanto pare infatti, si tratterebbe di brani fan-favorite, chiaramente in versione acustica. Per la precisione, troviamo Fireflies, As the World Stood Still, A Look Behind the Mask, Dying Embers e Hold High the Fleur De Lis. Si sa, quando una canzone Metal viene riarrangiata in chiave acustica è sempre un’emozione che, certo, spesso può essere negativa, perché c’è sempre quella paura che si rovini qualcosa, ma poi va a finire che quella canzone che ami tanto diventa ancora più emozionante e ti entra ancora di più nel cuore. Questi riarrangiamenti sono davvero benfatti e funzionano, c’è poco da dire. Sicuramente accompagneranno l’autunno e, successivamente, il lungo inverno di molte persone, che non vedranno l’ora di poterle cantare anche dal vivo. 

Concludendo, The Raven Age si dimostrano una band ormai capace e matura, che non solo sa creare ballad incantevoli e originali, ma sa anche trasformare brani che ormai sono un must nelle loro scalette live in incredibili chicche acustiche. La band, inoltre, indovina il periodo dell’anno più azzeccato per una release del genere e questo darà sicuramente ad Exile un sapore ancora più intenso.

 

The Raven Age

Exile

Explore1 Music Group/EX1 Records

 

Nicola Picerno

Fast Animals and Slow Kids “È Già Domani” (Woodworm/Believe, 2021)

Che dovessimo guardare oltre i tempi di Hybris e Alaska, i Fast Animals and Slow Kids ce l’avevano detto già con Animali Notturni: “Ma oggi / Ho trent’anni / Vorrei soltanto dire quello che mi va / Lo so, ti parrà strano / Ma in fondo questa è la mia nuova libertà”. E questa nuova libertà se la sono presa tutta anche nel loro ultimo album, dal titolo È Già Domani, e anticipato dai singoli Come un animale, Cosa ci direbbe (in collaborazione con il rapper torinese Willie Peyote) e Senza Deluderti. 

Continua quindi la svolta cominciata due anni fa sia nei suoni, non solo più leggeri ma anche più sperimentali, che nei testi. C’è meno rabbia e quello spazio è stato riempito da una vasta gamma di sentimenti diversi, a tratti anche contrastanti: da Stupida Canzone con la necessità di trovare il proprio posto nel mondo a Fratello mio che è un inno all’empatia e alla compassione (quelli che Milan Kundera definiva i “sentimenti più pesanti di tutti”) passando per Senza Deluderti, dove si mischiano le diverse sensazioni che si provano alla fine di una relazione. La profondità dei testi rimane quindi sempre la stessa e si riconferma il marchio di fabbrica della band perugina. 

Dodici tracce che sembrano quasi delle fotografie, delle istantanee di tanti momenti e quindi piuttosto diverse tra loro. Sono canzoni che non solo si ascoltano, ma in qualche modo si guardano (passatemi la sinestesia): un esempio su tutti è Lago ad alta quota, che sembra sia stata scritta guardando esattamente le immagini che descrive, come la cena in solitudine, il lago di montagna o la persona che si arrovella davanti a uno specchio. 

È dunque un album concreto, dove tutto è visibile – a volte anche le metafore — e di conseguenza risulta piuttosto facile immedesimarsi in questo o quel verso, sia che si parli di calzini spaiati collezionati nel letto che più ampiamente e genericamente di insoddisfazione. Però non manca la poesia, nemmeno quella con la P maiuscola, quella di Pavese o di De André che fa capolino in Senza Deluderti e in Rave.

Non mancano poi i riferimenti al tempo, che è un po’ una costante della loro discografia, soprattutto al fatto di non averne e cercarne sempre di più, in continuazione. Riferimenti che si potevano scorgere fin dal titolo del disco nonché della prima traccia È Già Domani, una canzone quasi acustica che guarda prima un po’ indietro per poi prepararsi a guardare avanti e che crea una sorta di cerchio con la coda dell’album, È già domani ora.

Insomma, l’ultima fatica dei FASK è un disco che ricorda vagamente un quadro impressionista (continuo con le sinestesie), con tante immagini diverse, a volte un po’ fumose e poco nette, che vanno a creare un quadro che bisogna guardare da lontano per capire e incastrare bene i pezzi. 

Fuor di metafora, bisogna dargli più tempo di un solo ascolto prima di poter esprimere giudizi. Lasciatelo sedimentare per bene, in qualche modo troverà un’immagine con cui parlarvi.

 

Fast Animals and Slow Kids

È Già Domani

Woodworm/Believe

 

Francesca Di Salvatore