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Tag: album

Naftalina “Microgrammi di Dolore” (Supercharger Records, 2022)

Quando hai 20 anni credi di sapere tutto, dopo i 30 l’unica cosa che sai è di non sapere un benemerito cazzo.

Quello che era chiaro e limpido è spazzato via dall’uragano della vita. 

E noi a 20 anni eravamo dei cazzoni, convintissimi di avere la verità in pugno, ce ne fregavamo altamente dei consigli gentili e ci rintanavamo nelle nostre compagnie, gente come noi che cercava le risposte ad ogni domanda nella musica. 

Irriverenti, scontrosi, alle volte stronzi, il mondo non faceva paura, sentivamo di essere padroni di tutto, i dubbi erano la nostra forza. Ci chiudevamo in camera, e come bambini che afferrano le farfalle col retino acchiappavamo il significato della vita nei testi dei nostri artisti preferiti, ci sentivamo capiti da gente che non spesso non parlava neanche la nostra lingua, da persone così estranee ma al tempo stesso così vicine al nostro essere diversi. 

In questo strano modo non eravamo più soli, e non temevamo nulla.

Poi arriva la consapevolezza dell’età, il terrore del futuro, il dolore della perdita. Cresciamo quando le persone a noi care ci lasciano, che sia un familiare, un amico, un idolo della nostra infanzia, la fine di un amore.

I sogni si infrangono come le finestre che da piccoli spaccavamo col pallone, intenti a giocare nel vialetto di casa. Le grida dei vicini iracondi sono ricordi lontani, ora le urla (interiori) sono le nostre.

Centelliniamo il dolore per ricavarne lezioni di vita che siano d’aiuto a non ripetere sempre gli stessi sbagli; evitando di non perdere la cazzimma tipica dei 20 anni, andiamo avanti, più consapevoli di prima, ma più stanchi. 

Tutto questo e molto di più è racchiuso nel nuovo album dei Naftalina, pseudonimo del progetto solista di Peter Torelli, che ci regala Microgrammi Di Dolore, otto brani nei quali l’artista ci accompagna nei meandri della sua intimità emotiva più profonda.

Il gruppo ebbe molto successo nel ‘98 con l’album Non salti con me… T.V.T.B. e il singolo Se rimase al primo posto per otto settimane nella classifica di Radio Deejay.

Da qui la storia dei Naftalina si complica un poco, si sciolgono per poi tornare nel 2020 con l’album La Fine, che simboleggia il termine dell’epoca pop punk dei primi lavori, per entrare nella precarietà dell’età adulta. 

Il suo timbro graffiante ma estremamente dolce e malinconico si lascia alle spalle la frivolezza della gioventù. Il sound che pervade l’album è indiscutibilmente più cupo. Le schitarrate pop punk lasciano il posto a violini, pianoforti e synth.

Richiamando ambientazioni filo-Romantiche, Peter, come un moderno eroe Byroniano, non si accontenta più del mondo circostante, delle imposizioni della società e, in un gioco di introspezione e ribellione verso la standardizzazione del sé, si abbandona alla ricerca del suo infinito.

L’irrazionalità della giovinezza è soggiogata dalla consapevolezza delle cose, dalla riscoperta della sensibilità, dei sentimenti e della propria spiritualità.

Un album molto personale, dove Peter ci dona la sua anima e la sua fragilità più pura.

Sembra facile è il suo urlo sospeso nello spazio, il suo abbandonarsi ad un destino che non è semplice da accettare con la fierezza di chi ha capito che lottare contro i mulini a vento è controproducente.

L’intro elettronico di Ok Replay ci conduce nella parte più complessa del suo spirito, e del suo personalissimo modo di reagire all’avvilimento attraverso l’elaborazione della perdita di fiducia e sul coraggio di rialzarsi.

La malinconia dei tempi che furono è sintetizzata in Betta 96, tributo alla grandissima Elisabetta Imelio, bassista dei Prozac+ e Sick Tamburo scomparsa prematuramente nel 2020, alla sua forza sul palco e alla sua indole instancabile. Questo omaggio è il pezzo più significativo dell album, ci ricorda quanta importanza hanno avuto i Prozac+ per la scena musicale italiana e soprattutto per Peter. A rendere il brano ancora più splenico le viole, i violini e il violoncello del Quartetto d’archi dell’orchestra sinfonica di Parma.

La delicatezza pervade tutti i brani, ma è lancinante in Un Altro Sogno Che e in Ti Sto Ascoltando, mentre Un’Ora In Più è una canzone d’amore dal finale sorprendentemente punk.

Questo album è il figlio di Peter del suo talento e del suo impegno; musica, testi, arrangiamenti, piano, voce, chitarra, basso e synth è tutto lavoro suo, in collaborazione con David Sabiu alla batteria e Riccardo Faedi alla chitarra acustica, batteria in Sembra facile Giulia “Juliette Ant” Formica, voce e cori Clarissa “Klari” Moragas.

Peter abbatte la mascolinità tossica con il suo nuovo lavoro, vestendo i panni di un uomo che non teme la tenerezza del suo essere, e grazie alla sua leggiadria riesce ad aprirci le porte delle sua anima, come solo un gentiluomo può fare.

Microgrammi di dolore con le sue sonorità ombrose riesce a mostrarci il cuore pulsante dell’artista, lontane dagli sfarzi leggeri della giovinezza, con una ritrovata emotività, ponendo al primo posto il cambiamento che solo il dolore può portare.

Un album colmo di dolore sì, ma anche di rinnovamento spirituale.

 

Naftalina

Microgrammi di Dolore

Supercharger Records

 

Marta Annesi

Band of Horses “Things Are Great” (BMG, 2022)

I Band of Horses tornano dopo quasi sei anni con un album in studio, il sesto, dal titolo puntuale e adeso alla meravigliosa realtà in cui siamo immersi: Things Are Great. A difesa della combriccola capitanata da Ben Bridwell bisogna sottolineare il fatto che l’album fosse in realtà pronto prima della pandemia. Ha, durante la sua lunghissima genesi, portato a cambiamenti importanti all’interno del gruppo, con addii illustri e innesti (o promozioni) di due nuovi membri nella line-up.
I nostri hanno anche cambiato sede, muovendosi da Seattle alla Carolina del Sud, ed etichetta, passando a BMG.
La versione primigenia dell’album era, a detta del frontman, troppo distante dalla sua personale idea di cosa debbano essere i Band of Horses, e qui sta la causa della partenza di Tyler Ramsey e Bill Reynolds. Il nuovo lavoro ha dunque virato verso lidi più noti, verso un ritorno alle origini, meno “truccato” a livello di produzione e più semplice nell’approccio, sia musicale sia nel messaggio che porta.

Apriamo una breve parentesi, direi necessaria. Non deve essere semplice essere Ben Bridwell. Al primo singolo del primo EP ti capita una The Funeral e la tua vita cambia per sempre. La tua canzone viene inserita in mille serie tv, da How I Met Your Mother fino alla recentissima Strappare Lungo i Bordi. Pazienza che ai primi tre accordi sai che sta per andarsene qualcuno di fondamentale e che stai per piangere, il fatto è che ti è proprio venuta la classica ciambella col buco, ciliegina e bacio accademico. Da quel momento inizia una lunga serie di variazioni sul tema, di declinazioni a volte pendenti più verso il folk, a volte più pop. Basta che sia riverberato. L’equazione finale risulterebbe, secondo studi recenti, come un neo-folk pop-post-shoegaze.

Parentesi a parte, il modesto pensiero è il seguente: ci sono band capaci di creare un’atmosfera, altre che di un’atmosfera hanno bisogno, altrimenti risultano fuori tempo, cacofoniche con il contesto. I Band of Horses con questo disco tornano a fuoco, nella dimensione a loro più consona, capaci di offrire una perfetta colonna sonora a quei momenti in cui ci starebbe proprio bene una canzone dei Band of Horses.
Spero di aver reso l’idea. 

E Things Are Great suona bene, pulito e snello, nella sua alternanza di brani più pop/soft-rock ad altri più intimi e intimisti. Si spingono fino a tematiche politiche e sociali, come nel pezzo che apre il disco, Warning Signs.
Si omaggiano i The Cure in Crutch, forse il pezzo migliore dell’album, dove la descrizione di una relazione tossica si gioca sull’ambiguo ritornello “I’ve got a crutch on you”. Sullo stesso tema scivola lento e sornione il blues di Hard Times, mentre si cambia registro nei pezzi successivi: in Aftermath si parla di sindrome post-traumatica e la struttura stessa della canzone ricalca l’inquietudine del testo, mentre in Lights, un rock leggero e degno di un’American Pie qualunque, è la cornice di un racconto fatto di adolescenti e forze dell’ordine.
Il finale torna più sentimentale e leggero con You Are Nice to Me e Coalinga, quasi elegiaco, un po’ Mumford un po’ Lumineers. 

Things Are Great è un buon album, che fa tornare i Band of Horses indietro di una decina di anni, cosa ottima e auspicabile, dato il livello del penultimo lavoro, Why Are You OK. Ritroverete tutti gli ingredienti di una ricetta nota e che funziona, dalle chitarre con super-riverbero ai crescendo a volontà, dalla voce iconica di Bridwell a quell’eco di fondo che ogni tanto riemerge, come un tema, come un déjà-vu, come una filigrana che certifica quello che sta uscendo dalle casse.

 

Band of Horses

Things Are Great

BMG

 

Andrea Riscossa

Basia Bulat “The Garden” (Secret City Records, 2022)

È cresciuta ascoltando una stazione radio da cui risuonavano vecchi classici. Nella stanza di Etobicoke, un sobborgo di Toronto, Basia Bulat imparava a memoria le canzoni di Sam Cooke, Stevie Nicks, Sandy Denny, Abner Jay, carpendo anche segreti e suggerimenti dalle lezioni di pianoforte e chitarra che la madre dava ai propri studenti. Nel 2005, il suo EP d’esordio – ancora acerbo ma dalla strabiliante personalità – arrivava alle orecchie degli addetti ai lavori della Rough Trade, pronti a spalancare alla giovane promessa le porte dello studio di registrazione Hotel2Tango a Montreal, culla delle opere più famose di Arcade Fire e Silver Mt.Zion.

Dopo innumerevoli paragoni superati con fierezza – il più ingombrante, forse, quello con Joni Mitchell – cinque album accolti con favore dalla critica e palchi internazionali condivisi con artisti del calibro di The National, Nick Cave, St.Vincent, Sufjan Stevens, Beirut, Basia Bulat ha conquistato, a ragione, una posizione autoriale tra le voci più interessanti della sua generazione.

Con l’ultimo album, The Garden, pubblicato per Secret City Records, la cantante raccoglie i brani più amati del suo repertorio, impreziosendoli di una nuova anima orchestrale, già sperimentata grazie alla collaborazione – soprattutto live – con esclusive ensemble da camera e con orchestre complete, tra cui l’Ottawa National Artist Center Orchestra e la Symphony Nova Scotia, per un’esperienza di ascolto che coniuga la sensibilità classica al folk-pop contemporaneo.

Gli arrangiamenti per quartetto d’archi di Owen PallettPaul Frith e Zou Zou Robidoux, uniti al songwriting fluido e sincero di Basia, rimandano, da una parte, a colonne sonore di stampo cinematografico e, dall’altra, a passaggi musicali idillici, quasi bucolici. Dimensione, questa, collegata direttamente al titolo del disco e alla title track, manifesto artistico dell’intero lavoro sia come struttura – nessuna delle tracce, tra apici ritmici e distensioni melodiche, si discosta da uno stile univoco – sia come “collettore” tematico. Con The Garden in qualità di primo singolo estratto, Basia Bulat esprime un’urgenza di evoluzione, seguendo un andamento spontaneo, proprio come quello della natura. 

È lei a scandire la propria necessità di rallentare, in termini personali e professionali, riflettendo sulle tappe fondamentali del suo percorso, sui ricordi, sulle radici. Risulta calzante, infatti, la metafora del giardino: uno spazio privilegiato e protetto dove niente rimane invariato. Piante e fiori nascono, crescono, appassiscono in un ciclo vitale di rigenerazione. Un ciclo che ritorna nel brano omonimo, come dichiarato dall’artista: “Quando ho scritto The Garden [nel 2016], ero in uno stato mentale distorto. È come se mi avesse preso per mano, suggerendomi di mantenere la calma. We won’t look back / And if we don’t we won’t be lost. Mi ha detto di respirare nel presente e guardare verso il futuro”.

La resa, curata da Pallet, vivifica tali processi e si allunga in virtuosismi chiaroscurali di matrice orchestrale, lasciando immaginare delle correnti che trasportano petali, spine, germogli e foglie ormai secche, in un vento magico, di cambiamento verso un’altra stagione di fioritura. E benché il nome di Pallet, di recente, sia stato accostato anche al nome di Taylor Swift, la scelta di registrazione in studio “rinnovata” di Basia non è accostabile a quella della pop star. “Adesso canto queste canzoni in maniera diversa: è un dono del tempo. Nel disco ho avuto anche la possibilità di incanalare alcune influenze derivate dai musicisti che amo”. 

Da Marek Grechuta, con cui Basia Bulat condivide radici polacche, a Björk con la versione per quartetto d’archi di Hyperballad sino a Cat Power per il coraggio nella reinterpretazione delle cover, The Garden è uno scenario di suggestioni sempreverdi, illuminate da una scintilla creativa inequivocabile. Complice anche una sorprendente notizia: l’artista ha scoperto di aspettare una bambina durante le sessioni in studio: “È stata una gioia immensa. Ed una responsabilità nel percepire la sua crescita come qualcosa che sfugge al controllo, lo stesso che avviene con la natura. Lo dobbiamo accettare e, in fondo, si prova una sensazione liberatoria”. 

 

Basia Bulat

The Garden 

Secret City Records

 

Laura Faccenda 

Spoon “Lucifer on the Sofa” (Matador Records, 2022)

Ci sono le band da caratteri cubitali nei cartelloni dei festival e ci sono le band da seconda linea; ci sono gruppi che fanno tanto rumore per nulla quando escono con un nuovo album, magari privo di sostanza, e ci sono gruppi che senza fanfare fanno il loro sporco lavoro, creando piccoli gioielli astratti dallo spazio-tempo.

Gli Spoon fanno parte della seconda categoria.

Ormai alla soglia dei trent’anni di onorata carriera, la band di veterani dell’indie di Austin, TX, ha dato alle stampe il suo decimo album Lucifer on the Sofa, un disco degno di nota perché riporta nelle nostre orecchie quel sound tipico di Britt Daniel & Co.

Dopo un paio di uscite non particolarmente memorabili – l’ultima, Hot Thoughts del 2017, piacevole ma algida – gli Spoon tornano alle radici, tornano in studio nel loro Texas, ritrovano il loro sound e creano il loro disco più rock ad oggi. Lucifer on the Sofa è un disco che sa di deserto e polvere, di luce dorata e chitarra suonata stravaccati su un divano, è il suono confortevole di qualcosa che conosci e sai che ti fa stare bene ma allo stesso tempo ha un risvolto fresco, un piglio energico e meno cupo dei dischi che ci hanno fatto amare la band a metà degli anni 2000.

Fin dalle prime note di Held, traccia di apertura del disco, anche un sordo riconoscerebbe il timbro Spoon delle chitarre languide e della batteria un po’ laconica; la voce di Britt Daniel poi, un po’ nasale, un po’ rauca, spettinata come lui, entra da lontano, come al solito. Dilatata, un po’ pigra o annoiata, ma comunque una presenza piena, ben armonizzata con la musica a cui si accompagna. Ecco, tipica traccia Spoon, niente di nuovo.

E invece.

E invece qualcosa succede in The Hardest Cut, una spinta, un ritmo un po’ più blues, un’ambizione di voler fare una traccia alla Run Run Run de The Who, portano ad un pezzo che avvolge e coinvolge, che ti fa venire voglia di ballare con l’aspirapolvere mentre fai le pulizie di casa.

Questa energia non è un episodio isolato, ma si propaga come un’onda attraverso le tracce successive rendendole accattivanti, seducenti, intense come i temi trattati in Wild o My Babe. L’album scorre piacevolmente, tra accelerazioni e rallentamenti, tra una tastiera incalzante e una ballata a base di chitarra prima appena accennata, timida, che si va a nascondere dietro alla batteria e per poi tornare in un crescendo splendidamente, pienamente rock.

È da questa pienezza rock, questi suoni forti, corposi, che emerge come una ventata di freschezza Astral Jacket, una traccia che fin dal primo ascolto ti fa fermare, qualsiasi cosa tu stia facendo, perchè vuole la tua completa attenzione e tu non puoi che dargliela.

“In the blink of an eye / You can feel so fine / You can lose all track of time”

In un battito di palpebre, ti puoi sentire così bene. In un battito di palpebre, ti puoi perdere completamente, ed è esattamente così che ci si sente: inermi, si viene inghiottiti in una parentesi di pace e tranquillità, totalmente rapiti da backing vocals eterei, ma quella che sembra eternità in realtà svanisce nel tempo di un battito mancato del cuore.

Sta a Satellite, paradossalmente, riportarci sulla terra con la sua languida dichiarazione d’amore, mentre il congedo avviene con la title track Lucifer on the Sofa, la perfetta conclusione di un disco che ti entra dentro, ben pensato e ben eseguito, e che non sapevi di aver bisogno di ascoltare finchè, con un mezzo atto di fede o di abitudine, non premi play la prima volta.

E se per caso doveste incrociare la vostra strada con quella degli Spoon, che siano headliners ad un festival di quartiere o in un anonimo slot pomeridiano a qualche grande evento, fatevi un piacere: non perdeteveli, perchè vi sapranno dare rock, quel rock che forse avete dimenticato quanto vi manca.

 

Spoon

Lucifer on the Sofa

Matador Records

 

Francesca Garattoni

Eddie Vedder “Earthling” (Seattle Surf/Republic Records, 2022)

Mi prenderò un paio di libertà.
Divido le righe a me concesse su questo album in due parti. Nella prima, da bravo lettore di cartelle stampa e storie precotte, si presenta il tutto. Le sane, basilari 5W che ogni articolo dovrebbe raccontare. Così abbiamo i fatti. Anche se, dopo vari ascolti, una domanda su tutte ha preso il sopravvento.

Sono stati giorni difficili, i giorni del Perché. Quindi la seconda parte, quella bisognosa di libertà, la chiameremo la parte del Perché.

Partiamo però dalle basi: Eddie Vedder esce con il suo terzo album solista, Earthling. Un album che di solista ha ben poco, in realtà, considerando che con lui ci sono l’amico di sempre Glen Hansard, il batterista dei Red Hot Chili Peppers, Chad Smith, Josh Klinghoffer, di recente reclutato anche dai Pearl Jam, l’ex Jane’s Addiction Chris Chaney, ed Andrew Watt, che il disco lo ha anche prodotto.
Siamo quindi molto lontani dal capolavoro del 2007, Into The Wild, o dallo sperimentale Ukulele Songs, datato 2011. Qui abbiamo una nuova band, un nuovo produttore (Watt ha nel suo curriculum nomi come Miley Cyrus, Justin Bieber e Post Malone) e tre collaborazioni con icone della musica contemporanea: Elton John, Stevie Wonder, Ringo Starr.
L’uscita del disco è stata anticipata da tre singoli: Long Way, The Haves e Brother the Cloud, mentre la band è già in tour negli USA per alcune date.
L’album è composto da tredici canzoni, ordinate come fossero eseguite live, con un Intro (Invincible) e una sorta di scaletta interna, che segue un climax che porta alle tracce conclusive con le collaborazioni citate poc’anzi e un ultimo brano in cui compare la voce del padre di Eddie Vedder e che porta al termine del disco-concerto.
Questi, più o meno, i fatti. Ora passerei volentieri a cosa è accaduto durante l’ascolto ossessivo e ripetuto del disco. Una serie di strane domande, di strani spettri e una affannosa ricerca di risposte.

Dentro di me da giorni convivono, discutono e si scontrano tre diversi e bizzarri personaggi. Sono fondamentalmente punti di vista, ma come in un Pirandello-bonsai hanno preso vita e quasi ci tengo a presentarveli.
Sono il sogno di una notte di mezzo inverno, figli della relazione che mi lega a Vedder. Anche se un po’ come negli amori dell’asilo, Lui, ancora, non lo sa. E forse andremo alle elementari e mai lo saprà, ma questa è un’altra storia.
Anzi, questa forse è proprio l’incipit della seconda parte di questo scritto.
La relazione che lega Lui a me, Vedder a chi lo ascolta, è sbilanciata e sbagliata. L’ho compreso nella mia ricerca di fonti che rispondessero ai tanti “perché” di questi giorni, e ho trovato spunti molto interessanti nell’intervista Vedder di David Marchese per il New York Times Magazine. Cito, in disordine sparso:

“Really all I can do is hope that other people appreciate the music that I like”.

“At least we’re not chasing anything”.

“A singer in a rock ’n’ roll band is not going to be able to reshape all the things that he’d like to”.

E chiudo con un tombale:
“Our job is not to make records that people like. Our job is to make the music that makes us feel proud”.

Ecco, il primo personaggio che mi saltella in testa è il Vedder cinquantenne. Una sua versione meno iconica, meno idealizzata, più onesta e forse con la pancetta. E ancora, mi permetto, in realtà quest’anno si va per i 58, ma pensare che il cantore della tua giovinezza va per i sessanta…. non sono pronto, davvero, chiedo scusa.
È nato leggendo e informandosi, cercando un nuovo sguardo per meglio comprendere un disco deludente ai primi ascolti, disperatamente cercando un fondo di oggettività.

Del secondo posso solo dirvi che l’oggettività non è il suo forte. Ha accolto Ukulele Songs come un’arditissima esplorazione etnomusicale, esulta qualunque cosa Vedder canti, fosse anche una cover dei Nickelback eseguita con una balalaica, l’ultimo concerto visto è sempre il migliore. Esiste, il personaggio intendo, solo per svolgere una funzione basilare: non riuscire ad ammettere una delusione. Perché Vedder, e così come lui qualunque cantante abbiamo mitizzato, sono diventati una funzione, un meccanismo pavloviano di piacere che se smontato, porta a una reazione da tossici.
“Se hai creato Into The Wild non puoi essere che un dio”. Errato, grazie per aver partecipato.

La nemesi di “numero due”, detto Eddie Pavlov, è il numero tre, che vanta un soprannome di tutto rispetto: l’ho chiamato Cristo si è fermato a Vitalogy (ma forse anche prima). Lui è quello che ha visto finire i Pearl Jam al terzo album. Tutto quello che è venuto dopo è figlio del Vedder-pensiero, è manierismo, è il fantasma della prima epifania divina del ’91. Stringo.

Numero tre pensa che Earthling sia un disco evitabile. Un lavoro inutile, un disco impacchettato da un produttore che non dovrebbe (potrebbe?) condividere un progetto con Vedder. Non riesce a credere di doversi ascoltare l’ assolo proto-punk dell’armonica di Stevie Wonder. Gli è sembrato addirittura di sentire un intro dei Prozac+ alla terza traccia. Si è divertito ad ascoltare The Dark mettendo in sincro il balletto di Springsteen di Dancing in The Dark. Andava a tempo anche Courteney Cox nonché il testo, un bignami della poetica springsteeniana.
In una moderna riedizione della Querelle des Anciens et des Modernes sarebbe partigiano della superiorità degli antichi, ma senza saper spiegare il perché.

Tra i tre è nata una dialettica. Un po’ come le fantomatiche liste dei pro e dei contro, con i radicali a duellare, mentre il Vedder-reale, quello che ha già risposto, attende sornione che la realtà prenda a sberle i fan del passato e gli yes-men.

Dipende da dove avete collocato la vostra asticella.
Da quanta fame avete e da quanto le vostre papille gustative si sono anestetizzate negli ultimi due anni.
Dipende dalla risposta onesta a una domanda onesta: tornerete ad ascoltarlo volentieri?

Ultimo pensiero. Questo è un disco di un Vedder che ha fatto pace col sé stesso di quarant’anni fa, che non ha più bisogno di distruggere il mondo, perché ha appreso il dialogo, e che ha trasformato Even Flow nella Vitalogy Foundation.
Calmato il proprio fanciullo interiore, ancora appeso a un traliccio del passato e registrati i confini della propria umanità, Eddie Vedder si è permesso il lusso di provare a realizzare un disco che piaccia innanzitutto a sé stesso.

Poi, sia chiaro, può rimanere solo un lusso.

E non piacere a nessuno.

 

Eddie Vedder

Earthling

Seattle Surf/Republic Records

 

Andrea Riscossa

Black Country, New Road “Ants From Up There” (Ninja Tune, 2022)

Quand’ero piccolo mi perdevo ad osservare i raggi di luce filtrati dalle imposte. La polvere in sospensione che fluttuava davanti al mio naso erano mondi microscopici e fantastici, alcuni pieni di creature incredibili, altri erano universi paralleli, dove il tempo e lo spazio non avevano più regole.
È la prima immagine, il primo ricordo che il secondo album dei Black Country, New Road, Ants From Up There, mi ha evocato.
Perché loro sono sopra ad uno di quei granelli, prodotti da una incontrollata esplosione di fantasia fanciullesca. 

Sono in sette. Isaac Wood, voce e chitarra, Tyler Hide al basso (figlia del cantante degli Underworld), al sax Lewis Evans, Georgia Ellery al violino, chitarra per Luke Mark, May Hershaw al pianoforte e alla batteria Charlie Wayne. Vanno citati tutti perché sono sette personaggi, sette voci, sette punti di vista. Si definiscono collettivo e per una volta la parola rappresenta perfettamente il prodotto finale. 

Cresciuti e coccolati nel salotto culturale del Windmill Pub di Brixton, dopo il successo del loro primo disco, For The First Time, uscito esattamente un anno fa, hanno deciso di rinchiudersi in studio sull’Isola di Wright, con due angeli custodi: Sergio Maschetzko e David Granshaw a curare il suono e la produzione. Una storia di isolani che si isolano su un’isola più piccola per fare gruppo, concentrarsi sul lavoro e lasciare il mondo fuori.
Il collettivo trova la ricetta giusta e il giusto metodo di lavoro. Il prodotto finale è un qualcosa di nuovo, soprattutto qualcosa di diverso rispetto ai prodotti post-punk che provengono dalla scena britannica.

Sopra quel granello di polvere color oro, sospeso nella luce, si sente un gran bel caos.
È un klezmer jazzato minimalista post-qualcosa.
Un dialogo senza regole tra strumenti, che diventano attori di un racconto e che entrano in scena con urgenza, per mostrare un punto di vista, a costo di farlo fuori tempo.
Un Satie con la sindrome di Tourette.
Perché loro sono minimali e orchestrali. Sono emozioni a dimensione variabile. Sanno essere oscuri ed entusiasti, attraverso flussi disordinati esplodono in ubriacature di suoni, sanno essere solitari e sanno suonare “in grande”. È una stratificazione di livelli sonori e narrativi, che porta l’ascoltatore a cercare gli strumenti nella coralità, a individuare le frasi, i punti di vista, le dissonanze, le ripetizioni. È come un patchwork sonoro, con parti più assonanti, altre prodotte da antitesi.

Sono impressionisti e futuristi, sono in grado di evocare il minimalismo di Steve Reich e gli Arcade Fire in pochi minuti. C’è qualcosa degli Slint, ma anche di Michael Nyman. C’è un delizioso fil rouge che scorre sotterraneo lungo le canzoni dell’album: il tema introdotto nell’Intro viene ripreso in diversi momenti, a volte da singoli strumenti in diverse tracce, come un richiamo, una mappa.

Anche perché la strada la perdiamo già al secondo pezzo, Chaos Space Marine, una sorta di gioco musicale, di scherzo, realizzato però con cura e presentato come una sorta di overture di tempi passati. Si scivola poi nell’intimismo e nel crescendo di Concorde, per passare al flusso di coscienza di Bread Song, canzone di oltre sei minuti che a metà esatta si trasforma, trova una forma e la pace. L’album ci porta attraverso climax, sorprese, ballate, struggenti assoli di sax fino ai due pezzi finali, due perle in coda a Ants From Up There: Snow Globes, canzone da nove minuti in cui la batteria di Wayne dopo poco dissente, si imbizzarrisce e scalpita. Un lavoro a togliere, come il marmo, come il tempo. Chiudono con dodici minuti abbondanti di Basketball Shoes, una sorta di epica avventura finale.

Ho altre immagini evocate da questo lavoro straordinario dei BCNR, e sono tutte le legate a un film, The Secret Life of Walter Mitty, che è una celebrazione dell’incredibile meraviglia nascosta nell’ordinario, nella quotidianità. C’è un eroe in tutti, c’è l’avventura in ogni pensiero, c’è lo straordinario a due isolati di distanza, anche solo nei pensieri e nell’immaginazione. Questo album, come il film di Ben Stiller, è una iperbolica avventura che parte dal quotidiano e non ci pone un confine definito. 

Poi titoli di coda e il sipario. 

E rimane un occhio un po’ lucido, un sorriso ebete sul viso e un granello di polvere sul naso. 

 

Black Country, New Road

Ants From Up There

Ninja Tune

 

Andrea Riscossa

Korn “Requiem” (Lomo Vista Recordings, 2022)

Nu Metal Sentimentale

La credenza comune è che i metallari non piangano. La società ci giudica per il nostro modo di vestire, e soprattutto per la musica che ascoltiamo. Ci danno dei satanisti, solamente per i nostri abiti scuri, o l’aspetto funereo.
Ma anche noi metallari abbiamo emozioni.
Possiamo dire che il nostro stile comunicativo è un pochino sopra le righe, ma questo non esclude che anche noi sappiamo essere dolci, gentili e malinconici al tempo stesso.

E sono i Korn, con il loro quattordicesimo album Requiem, ad esporre questo lato quasi tenerello del nu metal.

Jonathan Davis, come un moderno Zio Tobia (Zio Tobia Picture Show era uno spettacolo televisivo horror su Italia1, NdA), ci introduce in un mondo spettrale ed emozionale.

La pandemia ha portato una dilatazione nel tempo di creazione del disco e questo ha permesso un lavoro più accurato sulla scrittura e più melodico, dando alla luce un album-viaggio dentro sé stessi che porta alla nascita di qualcosa di nuovo.

“Non siamo mai completamente formati ma sempre soggetti a una lenta evoluzione coscienziale” diceva Marcel Proust e così i Korn, (padri fondatori nel nu metal, attivi dal 1993) iniziano il loro viaggio alla scoperta di nuove sonorità.

Requiem è composto da nove brani, il cui cuore pulsante è il quinto, Disconnect, brano molto saturnino in cui traspare una certa vulnerabilità e, stranamente, dolcezza. 

Ma l’album si apre con tutt’altro che miele e parole soavi.

Primo nella tracklist troviamo Forgotten, con un’accattivante intro di basso che lascia il passo a frammenti melodici per poi esplodere nel ritornello e nel finale. L’epicità del brano successivo, Let The Dark Do The Rest risiede nell’energia che travolge dal primo secondo di ascolto, e procede in un alternarsi di cantato lento (le doti canore di zio Jonathan Davis sono sempre spropositate) e batterie pesanti e growl. 

Hopeless and Beaten e My Confession rappresentano l’anima nu metal del disco, mentre Lost in The Grandeur e Penance To Sorrow sono i pezzi più sperimentali per il sound del gruppo, un rollercoaster di armonia e caos.

L’album si chiude con un regalo per i nostalgici, Worst Is On Its Way, un ritorno alle origini pieno di scat (che ci mancavano tanto).

E per tutti quelli che dicevano che Korn erano finiti, erano morti… Beccatevi sto ritorno in grande stile!

 

Korn

Requiem

Lomo Vista Recordings

 

Marta Annesi

Balto “Forse È Giusto Così” (Pioggia Rossa Dischi/Schiuma Dischi, 2022)

Forse È Giusto Così è il primo album dei Balto, la band romagnola formata da Andrea Zanni, Manolo Liuzzi, Alberto Piccioni e Marco Villa.

Se, come me, appartieni alla fascia di età protagonista dell’album, le nove canzoni che lo compongono ti sembreranno raccontare la tua storia, l’incertezza e la paura del futuro che prova la nostra generazione e sono un invito ad accettare che non si può avere la vita completamente sotto controllo.

Il mondo è così frenetico, ci sentiamo in dovere di costruire il nostro futuro e non sempre sappiamo chi vogliamo diventare, quindi, ci scontriamo con il peso delle scelte successive ai nostri studi. Poi i primi anni di lavoro irrompono con le loro difficoltà e ci chiediamo quando scompariranno l’angoscia e il senso di inadeguatezza, sentimenti ai quali troviamo una risposta nella titletrack Forse È Giusto Così: si può avere paura del futuro e sentirsi in difetto perché le persone intorno a noi sembrano essere più produttive e performanti, ma non si può controllare ogni aspetto della propria vita. Ascoltando il brano, ci si sente autorizzati a calmarsi, perché nel resto del mondo ci sono persone che hanno compiuto, stanno compiendo o compiranno i nostri stessi passi e si può andare avanti.

E se ci si chiede che cosa accada quando si va avanti, interviene il primo singolo Quella Tua Voglia di Restare, che è una lettera dal futuro – più precisamente dal 2 aprile 2024 – scritta alla soglia dei trent’anni, alla fine del percorso emotivo contenuto nell’album. Il protagonista si rivolge al proprio padre e racconta che, nonostante il dolore provato per aver perso una persona cara, la vita è proseguita e ora ha trovato la sua stabilità emotiva. È come se i Balto volessero rassicurare se stessi e la generazione di cui parlano: la paura che proviamo oggi finirà e troveremo la tranquillità che cerchiamo.

Tornando al presente, I Tuoi 20 Anni è una confessione, un pugno allo stomaco per una generazione che vorrebbe spaccare il mondo, ma si sente fragile, confusa e cerca la propria identità vivendo continui sbalzi di umore. La canzone è un percorso di crescita perfettamente espresso nei tre diversi finali del ritornello: “E io con me stesso non ci so più stare / E io con me stesso non ci voglio parlare / E con me stesso adesso ci so stare”. 

Forse è giusto così è tutto questo, è un mix di sensazioni che speriamo di superare con l’avanzare dell’età e che forse ricorderemo con affetto e nostalgia, come accade oggi quando pensiamo all’adolescenza. Ma non pensate che l’album sia necessariamente triste: è confortante sentirsi in compagnia e lo proviamo con Le Giornate da Morire, in collaborazione con il gruppo rock bresciano Cara Calma. Il brano racconta le giornate malinconiche e noiose, nelle quali ci troviamo a riflettere sulla nostra vita e che si rivelano necessarie per scoprire noi stessi. Il mondo ci chiede di essere performanti e perseguire un preciso obiettivo e non avere tempo libero è diventato il nuovo status quo di cui vantarsi.
La canzone invita a non sottovalutare la noia e la tristezza e ad apprezzarle, perché sono necessarie per avere un dialogo con le nostre fragilità e per pensare alle giornate future trovando nuove ispirazioni. “Noi siamo il nostro tempo perso” è la frase del ritornello che riassume al meglio il significato di tutto il brano. La potenza della canzone sta nel suo essere condivisa con un’altra band, rafforzando l’idea che gli anni che stiamo vivendo siano un percorso collettivo e che sia inutile colpevolizzarsi. È bello sapere che ci siano più voci a dire “L’incertezza non è colpa mia”.

I nostri anni sono anche quelli degli amori, in cui non capiamo se siamo ancora troppo giovani o già abbastanza grandi per intraprendere una relazione “definitiva”, ma non sempre sappiamo se la vogliamo davvero. A entrare nel discorso è Niente di noi, un brano che racconta la fine di una storia d’amore, che è un’esperienza frequente tra i venti e i trent’anni. La canzone è un viaggio attraverso i momenti belli di una relazione e una volta giunti al termine del rapporto, bisogna accettare la nuova realtà e le scelte dell’altra persona, anche quando rimane un attaccamento affettivo. Lasciarsi non significa necessariamente cancellare, è giusto voler conservare il ricordo ed è un sentimento esplicitato nell’unica frase del ritornello: “E per non perderci niente di noi”.

Forse è giusto così è un album intimo in cui ci riconosciamo ed è un ottimo inizio per i Balto, che hanno voluto realizzare una vera e propria presentazione. Non resta che augurare loro buona fortuna, sperando che l’introspezione resti sempre un tratto caratteristico della loro musica.

 

Balto

Forse È Giusto Così

Pioggia Rossa Dischi / Schiuma Dischi

 

Marta Massardo

Cat Power “Covers” (Domino, 2022)

Un dubbio mi attanaglia, una domanda sta segnando in maniera profonda questo primo spicchio di 2022: come ci si approccia ad un disco di cover? Con quale spirito lo si deve ascoltare? E dovendo scriverne, con quale metodo lo si deve “analizzare”?
Perchè la fate facile voi, vi vedo, premi play, lo ascolti, di qualche pezzo conosci l’originale, di molti altri no, però alla fine la voce è caratteristica, c’è il taglio personale, bla bla bla.

No, così no.

Questa volta, non so per quale motivo, mi pare necessario non dico rispondere ai quesiti di cui sopra, ma quantomeno por(me)li.

Ho da sempre un rapporto travagliato coi dischi di cover, quelli interamente di cover intendo, forse perchè gli ultimi che avevo ascoltato, a memoria, non mi avevano mai entusiasmato. E non dirò quali.

Alla soglia dei cinquant’anni Chan Marshall ha pubblicato il suo undicesimo disco, il terzo di cover, intitolato enigmaticamente Covers. 

I primi due episodi (posti all’interno di una discografia clamorosa per almeno i primi sei episodi, poi qualcosa è cambiato ma non divaghiamo) risalgono al 2000 e al 2008: The Covers Record è un disco splendido nel quale Cat Power era in piena modalità Re Mida, quando qualsiasi cosa facesse o toccasse diventava oro. Il successivo Jukebox mi aveva convinto e coinvolto di meno, probabilmente, anzi sicuramente perchè inserito nel periodo, inaugurato con The Greatest, che aveva portato l’artista di Atlanta dagli esordi indie rock e molto altro verso territori maggiormente soul-oriented.

E va da sé che questo Covers non si discosta di molto dalla strada intrapresa: arrangiamenti raffinati e misurati, scelte coraggiose e talvolta decisamente riuscite (una su tutte l’apertura con Frank Ocean e la sua Bad Religion) o la sospesa A Pair Of Brown Eyes dei Pogues. Meno centrata quando mette mano al Nick Cave di I Had a Dream, Joe o ancora a quel miracolo chiamato Nico e alla sua magnifica These Days, privata degli archi, leggermente rallentata, per un risultato che non rende onore né all’originale né a Cat stessa.

Per assurdo il disco funziona di più negli episodi che meno sembrerebbero avvicinarsi alle corde della nostra, come in Pa Pa Power o alla Lana Del Ray di White Mustang, quella che pare ormai essere la sua comfort zone.

Alla fine devo far pace con me stesso e autoconvincermi che è ingiusto e probabilmente altrettanto limitante sperare e augurarsi che qualcuno rimanga sempre fedele e uguale a se stesso. Questo è. 

Per tornare alle domande iniziali quindi, se prendiamo questo Covers come l’undicesimo disco di Cat Power possiamo tranquillamente inserirlo nel solco della continuità e del sentiero intrapreso, un disco che nulla toglie e nulla aggiunge ad una discografia che si mantiene ancora molto più che eccellente; spulciando invece un po’ più nel dettaglio, brano per brano, ci sono degli inciampi che si potevano evitare, che fanno da contraltare ad episodi che ci ricordano che siamo pur sempre al cospetto di una delle più grandi cantautrici degli ultimi trent’anni, qui alle prese con un disco che nulla toglie e nulla aggiunge ad una discografia che si mantiene ancora molto più che eccellente. 

Qualora il concetto non fosse ancora chiaro.

Intanto vado a mettermi su What Would The Community Think.

 

Cat Power

Covers

Domino

 

Alberto Adustini

Fickle Friends “Are We Gonna Be Alright?” (Cooking Vinyl, 2022)

Basta una scintilla

A quattro anni dall’album di debutto You Are Someone Else – finito subito nella TOP 10 dell’Official Albums Chart – e a poco più di un anno dai due EP della serie Weird Years, i Fickle Friends tornano con il nuovo Are We Gonna Be Alright? per Cooking Vinyl. Natassja Shiner (voce e tastiere), Harry Herrington (basso e voce), Sam Morris (batteria) e Jack Wilson (tastiere) creano un album super pop che raccoglie dodici pezzi dal groove unico. 

Protagonisti i sintetizzatori, le chitarre frenetiche, incisive e i ritmi serrati. L’album trasmette tutte le sensazioni che abbiamo vissuto e sperimentato sulle montagne russe di questi due anni di pandemia: amore, tristezza, voglia di leggerezza, disperazione, desiderio di tornare a vivere nella nostra realtà. 

Are We Gonna Be Alright? è lo specchio e allo stesso tempo la reazione a tutto ciò. È quello che fa la musica: ci aiuta a capire, a vedere con occhi diversi, a processare.

Il primo brano è una dichiarazione d’amore: Love You To Death. Un pezzo che, grazie alla sua semplicità, permette alla chitarra e alle voci di giocare incessantemente, trasportandoci, rendendo impossibile il distacco del corpo. La stessa voglia di ballare che trasmette Alone, un tormentone! Una di quelle canzoni che ti vien voglia di sentire a ripetizione. “Everybody, everyone, ain’t nobody going home, ‘cause I don’t wanna be alone”! Spensieratezza e divertimento genuino. I Fickle Friends ci ricordano che basta davvero poco per stare bene, basta la socialità. E proprio Glow è un incoraggiamento a non dare per scontate quelle persone che ci fanno felici, che ci rammentano quanto possiamo essere raggianti, brillanti. Vanno celebrate, vissute, ringraziate: “You’re not a therapist but I don’t care you’re much better than that”.

In tutto il lavoro dei Fickle Friends si alternano vibrazioni positive e propositive a emozioni malinconiche, angosciate. Yeah Yeah Yeah è il brano musicalmente più pesante dell’album, è una bomba electro rock. Un pezzo che manifesta la disperazione e la pazzia da cui veniamo catturati nelle giornate che sembrano senza fine e senza scopo. Il tempo è già passato e “what have I done?”. Una sensazione comune racchiusa nell’incredibile Not Okay, un manifesto di questo periodo, un brano che ci colpisce, ci inquieta, poi ci abbraccia e rassicura.

Il disco si conclude con una tormentata Are We Gonna Be Alright? Il brano grida la paura che tutto ciò che stiamo vivendo sia impossibile da superare, che questa esperienza non ci riconduca a una vita sociale. Are We Gonna Be Alright? urla il terrore che la lontananza spenga il nostro fuoco.

Ed è vero, la pandemia ci ha soffocato, ci ha negato l’arte e la sua espressione dal vivo ma non ha estinto la fiamma degli artisti e di chi ama la musica. 

Quindi vale la pena ricordare un fondamento: basta una scintilla per farci ardere di nuovo!

 

Fickle Friends

Are We Gonna Be Alright?

Cooking Vinyl

 

Cecilia Guerra

Cara Calma “GOSSIP!” (Piuma Dischi, 2022)

Quando i Cara Calma hanno annunciato sui canali social il titolo del loro nuovo album, GOSSIP!, ricordo di aver pensato con una buona dose di pregiudizi: “ma cosa c’entrano i gossip con il rock”?

Ma la realtà è che il terzo lavoro in studio della band bresciana sembra quasi una lettera di confessione messa in musica, una confessione che non si ha paura a fare ad alta voce. Infatti, l’idea che emerge da queste dieci tracce è proprio una necessità di liberarsi di alcuni pensieri che invece prima venivano celati e vissuti come un peso. 

Un fil rouge che parte dal “ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi” di Altalene – primo singolo pubblicato ad aprile 2021 – e che prosegue con continuità, sintetizzandosi bene nel “Ci apriremo e sarà come la prima volta / come se spostassimo l’oceano sulla terra” di Figli senza nome.  La stessa immagine che si delinea dal titolo della prima canzone, Balla sui tetti, evoca proprio una sensazione di libertà, di peso da lasciare andare. 

L’ascoltatore diventa quindi un confidente, un amico che si siede accanto a te e accoglie la tua rabbia e la tua stanchezza, frutto talvolta della cultura del dover essere qualcuno di importante a tutti i costi, anche a scapito di alcuni, agognati e liberatori, attimi di mediocrità e sconfitta, come quelli protagonisti soprattutto di Una Festa.

Lo stile invece resta lo stesso con cui abbiamo imparato a conoscere e apprezzare la band e che li inserisce a pieno titolo nella scena rock contemporanea nostrana, anche se è sempre piacevole scoprire come siano in grado di uscire dalla “comfort zone” dei chitarroni. Non è la prima volta infatti che i Cara Calma si lanciano in pezzi anche musicalmente più introspettivi: lo avevano già fatto con Qualcosa di importante (ft. Ambramarie) nel loro album d’esordio Sulle punte per sembrare grandi e già allora era chiaro che sapevano caricarci ed emozionarci contemporaneamente. 

Questa volta l’introspezione è affidata a Kernel – termine che indica il nucleo di un sistema operativo e a mio avviso è anche un po’ il cuore dell’intero disco (nonché probabilmente il suo pezzo forte). È un brano che si discosta parecchio dai precedenti, dove il pianoforte si prende il suo spazio e accompagna una voce a tratti supplichevole e bisognosa di aiuto. La parte strumentale, con il suo climax, si adatta alla perfezione a questa che è, tra le altre cose, forse la traccia più buia del disco. 

“The darkest before the dawn” direbbero gli inglesi, e non a caso è la penultima canzone dell’album. Compare proprio prima della coda, che s’intitola Dedica – necessaria alla fine di ogni lettera che si rispetti – ed è invece un ringraziamento non solo a noi, gli ascoltatori di questa confessione, ma anche alla musica, che allo stesso diventa tempo croce e salvezza.

 

Cara Calma

GOSSIP!

Piuma Dischi

 

Francesca Di Salvatore

The Darkness “Motorheart” (Cooking Vinyl, 2021)

Rock stravagante

Easter Is Cancelled, pubblicato nel 2019, è diventato il quarto disco nella Top 10 della band inglese, ottenendo ottime reazioni da fan e critica musicale; due anni dopo, The Darkness tornano in scena con Motorheart. Possiamo notare, già osservando la coloratissima copertina, come la stravaganza sia ormai una peculiarità, un marchio di fabbrica dei nostri. Ma riusciranno anche stavolta ad unire in modo equilibrato stravaganza e qualità musicale?

Il primo brano della tracklist, Welcome Tae Glasgae, è parecchio carico. È chiaro, nulla di innovativo, le solite cavalcate di chitarra affiancate da acuti incredibili in puro stile Rock anni ’70, certo, ma questo mix funziona sempre, almeno con The Darkness. E in realtà l’intero album non rivelerà chicche o soprese, ma manterrà un tiro piuttosto costante. Alcuni brani sembrano essere perfetti per essere riprodotti durante un viaggio in auto, magari soprattutto in questo periodo autunnale, altri invece una sana carica preallenamento, come ad esempio la title track, con il suo riff di chitarra che ricorda le sonorità tipiche mediorientali, e Nobody Can See Me Cry. Molto suggestiva la mid-tempo Sticky Situations, che spezza l’album prima degli ultimi brani. Eastbound si rivela il pezzo dal timbro più classico, dal ritmo preciso e adrenalinico. Difficile non notare in alcune parti i tratti distintivi dei più grandi pezzi Rock di fine anni ’70 e inizio anni ‘80, in particolar modo quelli degli Asia. Più variegata e ispirata è Speed Of The Nite Time, che chiude il disco in bellezza.

Tirando le somme, Motorheart è il tipico album Glam Rock senza fronzoli che ci si può aspettare da una band come The Darkness. Una band che ormai sa il fatto suo e soprattutto sa cosa cercano i propri fan. Qui troviamo infatti belle atmosfere, chitarre pesanti, voci che più pulite e acute non si può, ma anche stravaganza e divertimento. Un album che senza dubbio non deluderà, ma che non raggiunge minimamente i livelli del precedente e sembra essere parecchio sottotono.

 

The Darkness

Motorheart

Cooking Vinyl

 

Nicola Picerno