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Tag: francesca di salvatore

Pinguini Tattici Nucleari “AHIA!” (Sony, 2020)

Da una band che ha deciso di chiamarsi Pinguini Tattici Nucleari ci si aspetta sempre un po’ qualche colpo di genio. E stavolta la genialità si è palesata durante la conferenza stampa – o meglio videoconferenza stampa, “covid oblige”, come direbbero i francesi – per la presentazione della loro ultima fatica, l’EP AHIA!. La band ha infatti scelto come moderatore Valerio Lundini, comico romano diventato una vera e propria star televisiva e di internet grazie alla sua trasmissione Una Pezza Di Lundini.

Tutta la prima parte della conferenza si è svolto in questo clima surreale tipico delle interviste di Lundini, con un susseguirsi di domande che viaggiavano tra serietà ed ironia e risposte che reggevano il gioco. Il connubio tra la band e il comico funziona così bene da sperare di vederli come ospiti nel programma di Rai2. 

L’evento in realtà era una sorta di doppia promozione, dove da un lato si parlava del disco e dall’altro del romanzo di esordio di Riccardo Zanotti, sempre dal titolo AHIA! (decisamente appropriato per questo 2020), e che insieme vanno a comporre le due parte di un unico progetto artistico. Il libro e l’EP sono legati tra loro soprattutto da temi che si ritrovano sia in un uno che nell’altro, come il rapporto con la famiglia o il concetto di maschera, ha detto Zanotti.

La scelta di far uscire un EP, al contrario del solito LP, è stata invece ponderata: sette erano le canzoni pronte e rifinite e sette ne sono uscite. “Poche ma incisive” ha detto Elio Biffi, il tastierista della band, e ad ascoltare AHIA! non si può che dargli ragione. Si parte con Scooby Doo, il secondo singolo pubblicato dopo La Storia Infinita, che con la sua intro che strizza l’occhio alla trap è un po’ una dichiarazione d’intenti: questo sarà un lavoro di sperimentazione, definito più volte “pop art”, che mischierà vari stili in modo eterogeneo. 

Oltre alle sonorità trap, troviamo ad esempio Pastello Bianco, una ballad sulla fine di una relazione più classica e “sanremese”, anche se hanno assicurato che il ritorno all’Ariston non è previsto per il futuro prossimo, nonostante l’istituzione sia stata citata più volte nel corso della conferenza, oppure Ahia, il pezzo che chiude il disco e riprende le origini più folk della band. 

Il cambiamento, l’evoluzione e la ricerca di nuovi linguaggi — pur senza tradire ciò che si è e ciò che si vuole dire — diventano quindi una componente fondamentale di questo EP, ma in realtà, ad ascoltare anche i loro pezzi precedenti, sono sempre state delle costanti nella loro musica e i fan lo sanno bene. 

Ma AHIA! è soprattutto un lavoro pop e non nel senso di commerciale, che è una parola che fa piegare anche la musica alla logica di mercato: questo pop va inteso come popolare e di massa, frutto della consapevolezza — nata dopo il successo al Festival di Sanremo che li ha portati ad un’ulteriore consacrazione, questa volta a livello nazionalpopolare — di arrivare ad un pubblico molto più ampio, variegato e a volte anche più giovane di prima. Una bella sensazione, hanno raccontato, ma allo stesso tempo una responsabilità e una sfida stimolante, perché diventare mainstream — spogliando il termine di tutte le connotazioni negative — significa anche parlare a gente con cui prima si aveva meno a che fare.

Restano però tutti quei riferimenti culturali – dal DAMS al McFlurry alla parola “cringe” — che hanno reso la band bergamasca un punto saldo per la generazione di fine anni ’90: quella dei bambini che videro “quella puntata della Melevisione/Interrotta da torri/Che andarono in fiamme” e della “bambina che baciava Harry Styles in TV”, per citare Scrivile Scemo, probabilmente il pezzo più ballabile del disco.

Sono tutti temi concreti e quotidiani, quelli dell’EP ed in generale della loro discografia, ma sentir cantare di neo-convivenza, di tradimenti che sono più fraintendimenti che tradimenti, di solitudini e difficoltà con l’università in modo così scanzonato e diretto, a volte allegro e a volte meno, è in qualche modo di conforto. Ed è fantastico che questa concretezza e quotidianità siano state sdoganate nella musica, se non altro per sentirci meno soli, a maggior ragione in questo periodo di incertezza e aleatorietà.

Insomma, è un bene che AHIA! sia uscito, anche se per il momento non potrà essere vissuto a pieno come la musica richiede e cioè dal vivo, urlando sotto ad un palco insieme ad altre migliaia di persone. È un bene perché è un barlume di normalità – quella che ci manca anche se non è sempre un granché — in un momento in cui di normale non c’è niente o quasi. 

E abbiamo decisamente bisogno di tornare a commuoverci o a ridere sulle cose normali.

 

Pinguini Tattici Nucleari

AHIA!

Sony

 

Francesca Di Salvatore

The Zen Circus “L’Ultima Casa Accogliente” (Polydor/Universal, 2020)

Negli ultimi mesi abbiamo sentito parecchio parlare di casa, forse troppo e forse nemmeno in modo così accomodante, ma piuttosto senza troppi fronzoli. Però, nel loro nuovo album L’Ultima Casa Accogliente, che arriva dopo un 2019 di festeggiamenti tra i vent’anni di carriera, i dieci del disco Andate Tutti Affanculo, l’omonimo romanzo e il Festival di Sanremo, gli Zen Circus reinseriscono questa parola in un altro paradigma, fuori dall’attualità: la casa diventa il nostro corpo – e prima ancora il corpo di nostra madre — con una marea di immagini che vi ruotano attorno. Un corpo che può essere prigione da cui volersi liberare, come in Catrame, o può essere rifugio e rassicurazione, specie se condiviso con qualcun altro. 

Certamente anche in questo disco si potrebbero trovare dei riferimenti a ciò che stiamo vivendo, ma ridurlo a questo pare un dispetto nei suoi confronti. Perché sì, è facile leggere un po’ di attualità in strofe come “Il cielo è un tetto sopra le case / quindi alla fine non usciamo mai” di Appesi Alla Luna oppure “quanto è difficile da immaginare / come una guerra dove non si muore /o una malattia che non ha sintomi e anche senza cura / non dà dolore” di Come Se Provassi Amore. Eppure, farlo sembra una cattiveria, quasi a togliere a queste canzoni quell’aura di poesia un po’ brutale che le rendono universali e non dovrebbero, quindi, perdere mai.

Già, perché se c’è una cosa che è da sempre parte integrante della discografia degli Zen Circus è la potenza che attribuiscono alle parole. Quella non cambia mai, forse è solo meno cattiva rispetto a dieci anni fa, quando cantavano Gente di Merda, ma resta comunque una forza brutalmente sincera nella sua poeticità.

Resta anche l’impegno, la volontà di far passare un messaggio che vada oltre e scuota un po’ le coscienze. Emblematica è la fine di 2050, che cerca di predire come sarà il mondo tra trent’anni piantando però il seme del dubbio: tutto quello che facciamo spinti dalla voglia di progresso servirà a qualcosa? “Abbiamo fatto tutto / abbiamo fatto niente” recita l’ultima strofa, alla fine di un climax che è un po’ anche il marchio distintivo dell’album. 

È raro infatti che queste canzoni seguano la struttura classica e ripetitiva di strofa e ritornello. Al contrario, e forse contro logica, è molto più facile trovare pezzi in cui tutto è un crescendo, dalla musica alla voce che si fa sempre più carica. C’è poco che si ripete, per lasciare invece spazio ad una sorta di tensione verso l’alto. Già si vedeva nel secondo singolo pubblicato, Catrame, dove le prime frasi sono addirittura cantate a cappella prima di lasciar spazio anche a chitarra e batteria, ma si sente ancora meglio in Non, che inizia con una base di pianoforte, per poi aggiungere gli altri strumenti uno alla volta. Anche la voce diventa sempre più forte, arrivando quasi ad urlare, per poi sfumare alla fine.

Insomma, un album più suonato che pensato, per citare la stessa band. Un racconto eterogeneo dove ogni pezzo ha la sua parte, ma alla fine tutti sono legati da un unico filo conduttore, da tante immagini comuni. 

E ascoltarlo, in qualche modo, lascia un po’ la sensazione di un ritorno a casa, ma una di quelle che si conoscono bene. In cui ci si sta volentieri. 

 

L’ultima casa accogliente

The Zen Circus

Polydor/Universal

 

Francesca Di Salvatore

Bring Me the Horizon “POST HUMAN: SURVIVAL HORROR” (Sony, 2020)

Ci ricorderemo la lezione?

 

C’è una cosa che da tempo ormai viene recriminata ai Bring Me The Horizon: di non essere “più gli stessi”, di non essere più quelli che cantavano Chelsea Smile, ormai dodici primavere fa. E si sa che il fan duro e puro difficilmente perdona, tanto che a questa simpatica categoria antropologica era anche stato dedicato il brano Heavy Metal, contenuto nello scorso album e che era stato la miccia che aveva fatto dilagare ulteriormente la polemica. 

Però, con POST HUMAN: SURVIVAL HORROR, anche il fan duro e puro ritrova le sue vecchie certezze e le ritrova fin dal principio. La prima traccia, Dear Diary, ricorda molto i primi lavori della band, ma non si tratta certo di una regressione fine a se stessa o del ripudio del cambiamento che stavano attraversando. Questo album, infatti, è un ottimo frutto del suo tempo. Non a caso, lo stesso cantante Oli Sykes aveva già ammesso in un’intervista che sarebbero ritornati alle origini perché nel fortunatissimo anno domini 2020 avevano di nuovo qualcosa per cui essere arrabbiati e un sound più crudo e violento non può che esserne la naturale conseguenza.

Però la ricerca e la sperimentazione fatte in questi anni non sono state completamente dimenticate e lo si sente soprattutto nelle collaborazioni. Abbiamo l’intro quasi angosciante di Parasite Eve, eseguito in bulgaro da un coro femminile, in grado di dare un’idea di cerimonia solenne e contemporaneamente di qualcosa di incomprensibile in arrivo. 

Anche il featuring con Amy Lee degli Evanescence in One Day the Only Butterflies Left Will Be in Your Chest as You March Towards Your Death è un esperimento riuscito alla grande. In quella che sembra a tutti gli effetti una ballad — e mai avrei pensato di accostare la parola ballad ai Bring Me The Horizon — le voci di questi due cantanti che hanno segnato un’intera generazione di adolescenti si sposano alla grande e danno vita a una canzone struggente quanto basta per concludere un album decisamente arrabbiato con una nota di malinconia. 

In nove canzoni, i Bring Me The Horizon hanno infatti raccontato uno scenario post-apocalittico (o post-umano se preferite), dove la tecnologia fa da padrona e sembra impossibile qualsiasi contatto umano autentico. La sensazione generale che si insinua più facilmente è quella di essere di fronte ad un’imminente fine del mondo, ma con abbastanza rabbia in corpo per provare a reagire. 

Resta comunque molto facile scorgerci sotto elementi di attualità. Si sprecano i riferimenti e i richiami alla pandemia e anche se spesso e volentieri le canzoni sono state scritte prima della diffusione del virus — il primo singolo Ludens è uscito quasi un anno fa — il collegamento che si fa ascoltando questi pezzi è ormai immediato. Da titoli come Itch for the Cure (When Will We Be Free?) fino ad intere strofe in altri pezzi, l’album è in grado di riassumere quello che bene o male tutti abbiamo vissuto e stiamo vivendo, anche se probabilmente l’intenzione in partenza non era questa. 

Una su tutte, parte del ritornello di Parasite Eve, suona abbastanza profetica: “When we forget the infection/Will we remember the lesson?”

Quando avremo dimenticato la malattia, ci ricorderemo la lezione?

Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto qualcuno…

 

Bring Me The Horizon

POST HUMAN: SURVIVAL HORROR

Sony

 

Francesca Di Salvatore

Vianney “N’Attendons Pas” (Tôt Ou Tard, 2020)

Il 5 Dicembre si scoprirà se sarà lui il cantante francofono dell’anno secondo i NRJ Music Award, i premi istituiti vent’anni fa dalla radio NRJ per celebrare il meglio della musica francofona e internazionale. Ma nel frattempo Vianney — al secolo Vianney Bureau, classe 1991 — ha appena pubblicato il suo nuovo album in studio dal titolo N’Attendons Pas. 

Arrivato a quattro anni di distanza dal suo ultimo acclamatissimo lavoro, che contava mezzo milione di copie vendute, questo è il terzo disco di uno degli artisti più apprezzati oltralpe, tanto da venire paragonato spesso e volentieri in patria ad Ed Sheeran. Un paragone che si regge in piedi senza troppi sforzi, soprattutto guardando i testi e le sonorità.

N’Attendons Pas infatti contiene undici tracce decisamente pop, fresche ed omogenee tra loro, ma mai banali, anche senza l’aiuto di qualche effetto speciale di troppo. Anzi, è proprio la genuinità a fare da padrona in questo disco, con un connubio di chitarra e voce che ogni tanto sfiora le esibizioni in acustico e a cui si aggiunge talvolta un pianoforte, talvolta degli archi. Niente esagerazioni, nessuna spettacolarizzazione non necessaria, ma solo la musica pura e semplice che va ad accompagnare dei testi altrettanto genuini.

Non a caso, l’ultimo lavoro di Vianney è un album pieno di buoni sentimenti e di un ottimismo forse un po’ estranei a buona parte del panorama musicale italiano di moda oggi (vedi l’indie, che con la tristezza ci va a nozze, oppure il rap, che ha molte qualità ma di sicuro pecca un po’ di dolcezza). 

C’è soprattutto l’amore, ma è un amore che presenta numerose sfaccettature: quello per chi non c’è più in Tout Nu Dans La Neige — delicata ballad simil-acustica dedicata al nonno — oppure quello per i figli, anche se non hanno il tuo stesso sangue, come in Beau-Papa, canzone decisamente più pop dedicata invece alla figlia acquisita. 

Un romanticismo quindi che continua a vivere e a spingere per tutto il disco, nonché delle storie che, nonostante siano ormai finite, non lasciano mai spazio al rancore o al risentimento, ma continuano ad essere ricordate con affetto e gratitudine, da Merci Pour Ça a La Fille du Sud.

Ma comunque non di solo romanticismo vive questo disco: brani come J’Ai Essayé, che diventa una sorta di apologia del “fallimento pur avendoci provato”, oppure N’Attendons Pas, un invito a non aspettare l’arrivo di chissà quale coincidenza per cominciare a vivere la vita che si desidera, fanno capire che il filo conduttore dell’album, più che l’amore, sia l’umanità vera e propria, nel senso di tutto ciò che ci rende umani.

E tra amare e fallire, non so quale delle due cose sia più umana. 

 

Vianney

N’attendons Pas

Tôt Ou Tard/Believe

 

Francesca Di Salvatore

Three Questions to: Dig Two Graves

How and when was this project born?

“We started in 2017 by Josh and Kenny – who have been friends for years – and quickly found Mike, who was very interested in the project. We hit up Jesse over Instagram and the rest is history! Josh had one song written when we first started which we practiced and worked on to start out. After working on it for a while, it ended up changing pretty drastically and we finally decided on a certain version of the song. This then became our first single Wick. The earliest demos of the song are almost completely unrecognizable to what it ended up being.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Nice, fresh and organic. We believe that our music stands out from the metalcore/djent type of genre which was one of our goals from the start. We wanted to create a project that had the heaviness of that style of metal but with some more of our own sauce. We ultimately ended up going in a more melodic direction and tried to utilize a variety of song structures to keep things fresh.” 

 

What about your future projects?

“We are currently working on our debut full length album and we’re very super stoked on how it’s turning out. Two songs are very close to completion, which will most likely be released as singles before the album. Nothing is definite, of course, but that is the current plan. We are working to have at least one single out in the near future, hopefully.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

Abbiamo cominciato nel 2017. Josh e Kenny erano amici già amici da anni, poi abbiamo subito trovato Mike, che era molto interessato al progetto. Abbiamo contattato Jesse su Instagram e il resto è storia! Josh aveva già scritto una canzone quando abbiamo iniziato e abbiamo provato e lavorato su quella per cominciare. Dopo averci lavorato su per un po’, la canzone era cambiata in modo abbastanza drastico e alla fine ci siamo decisi per una certa versione. Questa poi è diventata il nostro primo singolo Wick. I primi demo della canzone sono quasi completamente irriconoscibili dalla versione che poi è diventata. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sarebbero e perché?

Bella, fresca e naturale. Crediamo che la nostra musica si distingua dal genere metalcore/djent, che era il nostro obiettivo iniziale. Vogliamo creare un progetto che abbia lo stile “heavy” del metal ma aggiungerci qualcosa di più nostro. Alla fine abbiamo preso una strada più melodica e cercato di usare arrangiamenti diversi per mantenere un’idea di novità.

 

I vostri progetti futuri?

Al momento stiamo lavorando sul nostro primo album e siamo molto emozionati per come sta venendo fuori. Due canzoni sono quasi finite e molto probabilmente verranno rilasciate come singoli prima dell’uscita dell’album. Ovviamente non c’è niente di definitivo, ma questo è il piano attuale. Stiamo lavorando per far uscire almeno un singolo nell’immediato futuro, si spera. 

 

Francesca Di Salvatore

Three Questions to: Fatality

How and when was this project born?

Fatality was formed in 2016 by me (Josh Abbott, vocals), Gareth Brimley (guitar) and ex-drummer Chris Batson, with our first EP being released in the same year. We performed at Asylum, a legendary Chelmsford venue for the release and raised £200 for the SNAP charity from merch and CD sales. In 2017 we recruited bassist Matt Shynn and subsequently recorded our second EP, which we released in 2019. We did a small tour of the Prey EP in aid of MIND and raised over £500 this time. In November 2019 we parted ways with Chris, our drummer, and joined forces with Jordan Maze, who now completes our current line-up. Since his recruitment in late 2019 we’ve written and performed a new set of tracks with Jordan as well as some Fatality originals. We played our first show with Jordan on a live stream in Summer 2020.”

 

Is there any specific artist you would like to collaborate with?

“For me personally it would be Jacoby Shaddix from Papa Roach. He’s someone that has hugely inspired me to do what I do and I am really influenced by his energy and stage craft. It would literally be the highest moment in my career if we got to work with him on a track or a project. If he’s reading this, then get in touch!” [laughs]

 

What about your future projects?

“Well, at the moment we’re unable to play unless there’s a completely reduced capacity which isn’t what we’re all about so the simple answer is no. As soon as we’re allowed to perform in indoor or outdoor venues or at festivals then we will be tirelessly booking and performing at shows again. However, we have new music in the works. We have a few tracks that are ready to be released and a load of new material that we’re constantly working on and refining. The Lesson, Indemnify and Eight will be released over the next few months with the idea that we will accumulate these and more tracks into a third project at the end of the year, ready for when live music is back.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

I Fatality si sono formati nel 2016 con me (Josh Abbott, voce), Gareth Brimley (chitarra) e l’ex batterista Chris Batson e in quello stesso anno è uscito il nostro primo EP. Per l’occasione ci siamo esibiti all’Asylum, una location pazzesca a Chelmsford, e abbiamo raccolto 200 sterline da devolvere in beneficenza dalla vendita dei CD e del merchandise. Nel 2017 abbiamo reclutato il bassista Matt Shynn e successivamente abbiamo registrato il nostro secondo EP, che abbiamo pubblicato nel 2019. Abbiamo fatto un piccolo tour per l’EP Prey, dove abbiamo raccolto più di 500 sterline a favore dell’associazione MIND, che si occupa di salute mentale. Nel novembre 2019 Chris e la band hanno preso strade diverse e abbiamo incontrato Jordan Maze, che adesso completa la formazione attuale. Da quando è entrato nella band a fine 2019, abbiamo scritto e suonato una serie di nuove canzoni con Jordan, ma anche alcuni nostri pezzi più vecchi. Il primo concerto con lui è stato un live in streaming quest’estate.

 

C’è qualche artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Parlando personalmente, sarebbe Jacoby Shaddix dei Papa Roach. È un artista che mi ha ispirato moltissimo nel fare quello che faccio e la sua energia, il suo modo di stare sul palco hanno una grande influenza su di me. Se riuscissimo a lavorare con lui per un pezzo o un progetto, sarebbe letteralmente il picco della mia carriera. Se sta leggendo questo, contattaci! [ride]

Progetti per il futuro?

Beh, al momento non possiamo suonare se non con capienze estremamente ridotte e non è quello che stiamo cercando, quindi la risposta più semplice è nulla. Non appena sarà permesso esibirsi all’aperto, al chiuso o ai festival, allora ci prenoteremo e faremo di nuovo concerti senza sosta. Ad ogni modo, siamo al lavoro su nuova musica. Alcuni pezzi sono pronti per essere rilasciati e c’è un sacco di nuovo materiale su cui stiamo costantemente lavorando e che stiamo rifinendo. The Lesson, Indemnify e Eight usciranno nei prossimi mesi e c’è l’idea di raccogliere questi ed altri pezzi in un terzo progetto per la fine dell’anno, che sia pronto per quando tornerà la musica dal vivo.

 

Francesca Di Salvatore

Three Questions to: Stone Sea

How and when was this project born?

Stone Sea was formed by Elvis Suhadolnik Bonesso around 2013 in São Paulo, in Brazil. After the release of the album Origins, Elvis moved to Ireland, where Stone Sea became a band with three members and released two EPs, Vaporizer and Mankind Maze. The latter also includes the track Dream Song, whose music video has been recently released.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Strenght, submission and time. I like to imagine our songs like sea waves hitting the shores. The sea and the stones are the same, but time defines the correlation between one and another.”

 

What would you like to inspire in those who listen to your songs?

“Inspiring people not to be afraid to be themselves and to accept changes, which are the only-known constant in our lives.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto? 

Intorno al 2013, gli Stone Sea sono stati fondati da Elvis Suhadolnik Bonesso a San Paolo, in Brasile. Dopo l’uscita dell’album Origins, Elvis si è trasferito in Irlanda, dove gli Stone Sea sono diventati una band di tre persone e abbiamo pubblicato due EP, Vaporizer e Mankind Maze. Quest’ultimo include anche la canzone Dream Song, di cui abbiamo recentemente fatto uscire il video. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Forza, sottomissione e tempo. Mi piace pensare alle nostre canzoni come le onde del mare che si infrangono sulla costa. Il mare e gli scogli restano gli stessi, ma è il tempo a definire il rapporto tra l’uno e l’altro.

 

Cosa vorreste trasmettere a chi vi ascolta?

Ispirare le persone a non avere paura di essere loro stessi e ad accettare i cambiamenti, che sono l’unica costante conosciuta nelle nostre vite. 

 

Francesca Di Salvatore

An Early Bird “Echoes of Unspoken Words” (Artist First, 2020)

In punta di piedi

 

Un titolo che è un paradosso e undici tracce che, guidate da un’onnipresente chitarra e una voce calda, esplorano una terra di mezzo tra il folk, il pop e l’indie: così si presenta Echoes of Unspoken Words, il secondo album di An Early Bird, al secolo Stefano De Stefano. 

Le protagoniste sono quindi le parole non dette, quelle più intime e silenziose, ma che spesso e volentieri pesano più di tutte. Ad ogni modo, in questo disco trovano finalmente la forza di emergere grazie all’incontro armonioso e ben congegnato tra chitarre e sintetizzatori, tra acustico e non. 

Echoes of Unspoken Words è un susseguirsi di immagini e toni malinconici, nostalgici ma anche “cinematografici” — se così vogliamo dire — perché ogni canzone potrebbe tranquillamente essere inserita nei titoli di testa o di coda di un film di Greta Gerwig. Non a caso, anche i video che accompagnano i cinque singoli pubblicati dal cantautore in questi mesi, da State Of Play a One Kiss Broke The Promise, raccontano una storia ben studiata e sanno davvero tanto di cinema indie.

Ma, come già è stato detto, è proprio il paradosso, quello già anticipato dal titolo e declinato con varie sfaccettature, ad essere il filo conduttore tra i vari pezzi. 

Abbiamo il guardarsi un po’ masochisticamente da lontano ma senza cercarsi fisicamente in From Afar, la necessità unita alla difficoltà di stabilire una connessione con l’altro in Racing Hearts, il desiderio destinato a rimanere irrealizzato di poter cambiare il passato in Talk To Strangers, in collaborazione con Old Fashioned Lover Boy, o ancora un “heaven in hell”, un paradiso all’inferno in Stay, simbolo che anche nel male c’è qualcosa di buono. Tutte queste piccole, umane e spesso dolorose contraddizioni si dipanano sulle corde di una chitarra e colpiscono chi ascolta nel modo più delicato e dolce possibile. 

Echoes Of Unspoken Words è quindi sì un album onesto, ma che arriva in punta di piedi e ti rimane accanto. 

Ed è una fortuna che sia uscito proprio in questo periodo dell’anno: un’ottima colonna sonora per prendersi del tempo per riflettere su se stessi, magari in una giornata di pioggia autunnale.

Oppure, se preferite, per immaginarsi come i protagonisti di un indie movie di Greta Gerwig.

 

An Early Bird

Echoes Of Unspoken Words

Artist First

 

Francesca Di Salvatore

 

Three Questions to: Reaven

Interview to Romeo, lead singer-guitarist of Reaven

 

How have you been doing during these hard times for music in general?

“It’s been a very weird period. The worst part was cancelling all our tours in Europe and in the US, but, on the other hand, there were some good aspects. We’ve been recording a lot for our new album in studio. We’ve been filming a new homemade music video on our last single Escape, which was composed and recorded during the quarantine. But it’s true that we’ve been asking ourselves many questions about our future in the music industry…”

 

How and when was this project born?

“It’s a very long story of love. I decided to create the band when I was 14 years old in high school. Vince (drummer, back vocals) and I were in the same school and I remember I just asked him something like “what do you think of creating a new band?”. He just told me that it would be a great idea and right away the next week we were having rehearsals. We’ve always been playing together since then.”

 

What about your future projects?

“We are about to release quite soon our new album For Tomorrow. It’s gonna be a 15 tracks album and we are very excited about it. Also, we are trying to reschedule some shows in Europe for 2021 and I think there will be some new music videos out within the next months.”

 

 

Intervista con Romeo, cantante e chitarrista dei Reaven

 

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

È stato un periodo molto strano. La parte peggiore è stata dover cancellare tutti i nostri concerti in Europa e negli Stati Uniti, ma nonostante questo ci sono stati anche alcuni aspetti positivi. Abbiamo registrato un sacco per il nostro prossimo album in studio e abbiamo filmato un video “casalingo” per il nostro ultimo singolo Escape, che è stato scritto e registrato in quarantena. Ma è anche vero che ci siamo fatti molte domande riguardo al nostro futuro nell’industria musicale.

 

Come e quando è nato questo progetto?

È una storia d’amore molto lunga. Ho deciso di creare la band alle superiori, quando avevo 14 anni. Io e Vince (batteria, cori) andavamo a scuola insieme e mi ricordo di avergli semplicemente chiesto una cosa tipo “che ne pensi di creare una nuova band?”. Mi disse che era una grande idea e la settimana dopo stavamo già facendo le prove. Da allora, abbiamo sempre suonato insieme.

 

Per quanto riguarda i progetti futuri?

Tra non molto uscirà il nostro nuovo album For Tomorrow, che conterrà 15 tracce. Siamo molto emozionati al riguardo. Inoltre, stiamo cercando di riprogrammare alcuni dei concerti in Europa per il 2021 e credo che nei prossimi mesi uscirà anche qualche nuovo video.

 

Francesca Di Salvatore

Quiet Is the New Loud “Hidden Code” (Self Released, 2020)

Dieci tracce, sessanta minuti e un’unica storia che si srotola nell’arco di 46 anni, dal 1945 al 1991, ma è la parte centrale, ambientata nella San Francisco degli anni ’60 ad esserne il cuore pulsante. Così si presenta Hidden Code, il primo album della band triestina post-rock Quiet Is the New Loud. 

Un progetto rock strumentale decisamente interessante e fuori dagli schemi della discografia contemporanea, dove il singolo rapido tende a vincere sul disco e i concept album, che richiedono una certa attenzione e lentezza, sono sempre più rari. Al contrario, qui non c’è solo una storia da seguire – un vero e proprio noir che ruota attorno a quei cardini della vita che sono amore e morte – ma si potrebbe dire addirittura da ricostruire. L’ascoltatore deve così rimettere insieme i pezzi, prestando soprattutto attenzione ai numerosi salti temporali, e in questo modo diventa una parte attiva dell’album. Certo, nulla vieta di ascoltare Hidden Code come un semplice disco di rock strumentale, per rilassarsi o per caricarsi a seconda dei vostri gusti, ma così si rimarrebbe solo sulla superficie di questo lavoro. 

Ogni canzone infatti è collegata ad un pezzo del noir e queste didascalie sono leggibili sia sul sito Bandcamp sia presenti fisicamente nel packaging dell’album, che diventa quindi fondamentale per comprendere appieno la narrazione dietro a questo lavoro. O forse dietro non è la parola più esatta, dato che storia e musica si compenetrano, sono indissolubili e inscindibili l’una dall’altra: una vera e propria soundtrack che scandisce i vari avvenimenti nella vita dei due protagonisti. 

Ed è una soundtrack decisamente rock, che alterna momenti di quiete come l’inizio di Mistakes, Lights and Breaths ad altri che sono vere e proprie esplosioni di suoni, come il finale di Like A Daydream or a Fever, o ancora quel climax musicale che è Nemesys, che rappresenta un po’ un punto di svolta per il che questa band triestina ha voluto raccontare. 

Tensione, angoscia, amore, desiderio di vendetta: tutte queste sensazioni viaggiano, senza quasi mai proferire parola, tra chitarra, basso e batteria. Però, ad un ascolto più attento, prendono forma e diventano visibili come una fotografia, seppur mentale. Hidden Code si potrebbe così definire un album sinestetico, dove la musica non si esprime mai attraverso le parole, ma solo tramite i suoni e anche – o forse soprattutto – per immagini. 

Un lavoro difficile da realizzare, ma decisamente ben riuscito. 

 

Quiet is the new Loud

Hidden Code

Self released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Three Questions to: Random Ties

Hey everyone, it’s Youssef from Random Ties a heavy hitting, feel-good rock band. A big thanks to you for giving us a voice via your interview.

How have you been doing during these hard times for music in general?

“Our goal has always been to remain consistent, provide quality music to our audience and reach a wider fan base geographically. We’ve been very busy this year despite the pandemic. In June we released our EP Believe, which I had put on hold for many years, with a couple of music videos on our YouTube channel. We also had an East Coast summer tour that ended last month at the Goose Lake Festival 50th anniversary in Michigan and a couple of weeks ago we released our latest single, Thawra, inspired by the deadly explosion that happened in Lebanon and rocked the nation, leaving over 300,000 people displaced and thousands still missing or dead. We worked with the incredible Layal Jebran, who produced the video with the most authentic shots. We hope this song will shed light of what’s going on down there and all proceeds will go towards supporting the Lebanese Red Cross.”

What would you like to inspire in those who listen to your songs?

“Don’t be afraid to speak up against injustice or corruption. If you are oppressed, stand up to the bully and know that every day is a chance to turn things around.”

What about your future projects?

“September is suicide prevention and awareness month, so we decided to release on the 27th the video for our song Why, which talks about the struggle of losing someone close to you. We will also release our second EP in October, but we haven’t picked a title yet.”

 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Youssef dei Random Ties, una rock band emergente di Detroit.

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Il nostro obiettivo è sempre stato quello di rimanere costanti, garantire ai nostri ascoltatori musica di qualità ed estendere il nostro pubblico a livello geografico. Nonostante la pandemia, siamo stati parecchio impegnati: a giugno abbiamo pubblicato il nostro EP Believe, che avevo lasciato da parte per anni, insieme ad un paio di video musicali sul nostro canale YouTube. Quest’estate siamo anche stati in tour sulla East Coast e abbiamo concluso il mese scorso suonando al cinquantesimo anniversario del Goose Lake Festival, nel Michigan. Inoltre, qualche settimana è uscito il nostro ultimo singolo, Thawra, riguardo la terribile esplosione che ha scosso il Libano, lasciando più di 300.000 sfollati e migliaia di persone tra vittime e dispersi. Abbiamo lavorato con l’incredibile Layal Jebran, che ha realizzato il video usando filmati autentici. Speriamo che questa canzone faccia luce su cosa sta succedendo laggiù e tutti i proventi andranno alla Croce Rossa libanese.

Cosa vorreste trasmettere a chi vi ascolta?

Di non avere paura a farsi sentire per combattere le ingiustizie o la corruzione. Se vi sentite oppressi, alzatevi in piedi e sappiate che ogni giorno è un buon giorno per poter cambiare le cose. 

Per quanto riguarda progetti futuri?

Settembre è il mese della prevenzione del suicidio, quindi abbiamo deciso di rilasciare il 27 il video della nostra canzone Why, che parla proprio di quanto sia difficile perdere una persona cara. Ad ottobre uscirà anche il nostro secondo EP, ma non abbiamo ancora scelto il titolo. 

 

Francesca Di Salvatore

Movements “No Good Left to Give” (Fearless Records, 2020)

Il buio in mezzo al tunnel

 

Partiamo subito con una confessione: non appena questo gruppo californiano aveva annunciato l’uscita del loro secondo album, a distanza di tre anni dal loro primo LP Feel Something, la prima cosa a cui avevo pensato era stata che forse quest’anno sempre più simile al remake di Una Serie di Sfortunati Eventi avrebbe avuto una colonna sonora quanto meno appropriata.

Ovviamente in senso buono.

Già, perché se c’è una cosa che i Movements sanno fare bene – e lo avevano già dimostrato con il loro album di debutto – è parlare di tutti quegli argomenti decisamente poco piacevoli ma contro cui, volenti o nolenti, questo 2020 ha contribuito a farci scontrare e non sempre nel modo in cui eravamo abituati: la malattia, la perdita, la salute mentale, le difficoltà nelle relazioni. 

Lo fanno con un sound ruvido e dei ritmi quasi ossessivi, di matrice primi anni duemila e che ricordano band come i Mayday Parade o i Good Charlotte. 

No Good Left To Give inizia con In My Blood, canzone dai toni che sulle prime sembrano quasi sommessi, per poi esplodere verso la fine e lasciar intendere che anche questo album sarà crudo, graffiante e forse ancora più intenso del primo. In generale, il mood del disco può essere sintetizzato bene dalla quarta traccia, Tunnel Vision, una metafora visiva della depressione dove il cantante ammette di essere “angry and tired”, arrabbiato e stanco. 

Sono proprio loro le due sensazioni predominanti, rabbia e stanchezza. Sono loro che accompagnano l’ascoltatore lungo tutte le 12 canzoni, in un tentativo di mettere su traccia audio cosa significa e cosa si prova quando si ha a che fare direttamente o indirettamente con problemi di salute mentale. 

Non a caso, il singolo Don’t Give Up Your Ghost capovolge il punto di vista: chi canta è già passato attraverso il tunnel delle tendenze suicida e cerca di mostrare supporto e comprensione a chi invece ci sta passando in quel momento. “But there’s a beauty I believe you can find/Under the grief, under the compromise”, canta Patrick Miranda in una strofa. È forse uno dei pochi momenti di luce in un album che invece non ha paura di attraversare posti parecchio bui, ma forse questo si poteva capire già dal titolo. 

No Good Left To Give. Non è rimasto niente di buono da dare. 

Però forse non del tutto vero. 

È rimasta la musica e quella, per fortuna per noi che ascoltiamo, è ancora decisamente qualcosa di buono. 

 

Movements

No Good Left To Give

Fearless Records

 

Francesca Di Salvatore