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Tag: francesca di salvatore

Achille Lauro “1990” (Elektra Records, 2020)

Cosa aspettarsi quando non si sa cosa aspettarsi 

 

Ho 21 anni. Sono nata nel 1999 e, come canta Fulminacci, anche io sono di fine millennio. Faccio parte quindi di quella generazione di confine a cavallo tra i veri ‘90s Kids, che gli anni ’90 e la loro musica li hanno vissuti davvero e non tramite serate revival nei locali, e la Generazione Z che si sta prendendo il proprio spazio nel mondo a suon di Tik Tok, mentre il mio primo pensiero quando sento questa parola continua ad essere l’iconico brano di Ke$ha del 2009. 

C’è qualcuno che meglio di me saprebbe parlare del significato, dell’impatto degli anni ’90? Sicuramente sì.

E in effetti qualcuno di recente l’ha fatto. 

Quel qualcuno è Achille Lauro.

Anticipato ad ottobre dall’omonimo singolo, che già aveva lasciato presagire un progetto irriverente e fuori da qualsiasi schema, 1990 è un album strano, ma in senso buono. Non è esattamente quello che ci si aspettava a giudicare dalla promozione sui social, ma d’altronde stiamo pur sempre parlando di quell’artista che a febbraio, sul palco dell’Ariston, ha fatto giocare tutto il pubblico al totoperformance. In effetti, qualsiasi tipo di aspettativa era superflua. Bisognava solo ascoltare e lasciarsi stupire o, eventualmente, restare delusi.

Ci era stato presentato come un disco di sette canzoni, sette hit che hanno fatto la storia della musica dance rivisitate in chiave “Lauro”, che ormai sta diventando un vero e proprio marchio di fabbrica. Si aggiunge la collaborazione con altri sette artisti che non potrebbero essere più diversi tra loro. Una commistione di pop, dance, rap e trap che va da Ghali a Capo Plaza, da Annalisa a Massimo Pericolo. 

Quello che più colpisce di 1990 è il modo in cui è stato impostato: non è una semplice raccolta di cover, come ad esempio è stato fatto l’anno scorso con Faber Nostrum, l’album che raccoglieva una serie di canzoni di Fabrizio De André reinterpretate da alcuni nomi della scena indie italiana. Qui, di fatto, si è verificato il contrario, unendo alle basi riarrangiate di alcuni grandi successi degli anni ’90 dei testi completamente diversi ma che nel complesso si adattano bene, ovviamente con pezzi meglio riusciti di altri, come accade in qualsiasi esperimento. 

Paradossalmente, le migliori uscite sono state proprio quelle più azzardate e meno scontate: Blu, che dell’originale ha giusto il titolo simile e vagamente la base, per poi essere stata trasformata in una ballad (tra tantissime virgolette) sullo stile malinconico di Zucchero e Sweet Dreams, in collaborazione con Annalisa che mai avrei immaginato in queste vesti. 

Insomma, una mossa intelligente da parte di Achille Lauro, perché così dribbla in modo intelligente e creativo l’annoso confronto con gli originali, proprio perché non c’è nemmeno l’intenzione mettersi a confronto, anzi, al massimo vuole omaggiarli, come dimostrano i featuring con Alexia in You and Me o con gli Eiffel 65 in Blu. 

Ma come per tutto ciò che fa Lauro, non si può parlare di questo album solo dal punto di vista musicale. 1990 è un vero e proprio racconto autobiografico, dove le canzoni sono inframezzate dalla narrazione di un passato che è tutto meno che roseo ma che lo stesso performer non ha mai nascosto al pubblico. “Questa è come una testimonianza”, dice con quella voce roca, un po’ da poeta maledetto, all’inizio di 3 Ore a Notte. 

Quella stessa voce da poeta maledetto che usa anche in Ave O Maria e che insieme alla (s)vestizione di San Francesco a Sanremo probabilmente costituirebbero gli estremi per una scomunica…

In definitiva, ci ritroveremo a ballare queste canzoni alle serate dance tra 20 o 25 anni, come effettivamente sta succedendo alle loro iconiche versioni-madre? Onestamente non credo, ma del resto non è con questo album che un personaggio come Achille Lauro mirerebbe all’immortalità.

Però, con la loro costante sovrapposizione tra passato e presente che strizza l’occhio prima ad una generazione e poi all’altra grazie a riferimenti anacronistici e decisamente poco ‘90s, sicuramente le balleremo adesso e ci divertiremo pure un sacco, come già ci aveva dimostrato tra una Rolls Royce e un Bam Bam Twist.

Ma soprattutto 1990 farà parlare di sé e del suo autore. 

Tanto, tantissimo, sia bene che male e a volte anche contemporaneamente. 

Proprio come per i poeti maledetti. 

 

Achille Lauro

1990

Elektra Records

 

Francesca Di Salvatore

The Bustermoon “Mareena Roots” (Self Released, 2020)

Di feste e d’estate

 

Anticipato dal singolo Poppoporopporoppopoporopporoppopoporopporopo, definita dalla band stessa sui social una “all together song”, una canzone che il pubblico intona sempre all’unisono durante i loro concerti e che vede quello stesso pubblico come protagonista del video, la band genovese The Bustermoon pubblica il suo primo LP Mareena Roots, il cui titolo appunto si rifà alle loro radici ben piantate nel mare della loro città.

Il disco è l’evoluzione naturale e spontanea del loro primo lavoro, l’EP Going to Taumatawhakatangihangakoauauotamateaturipukakapikimaungahoronukupokaiwhenuakitanatahu pubblicato due anni fa. Il loro marchio di fabbrica, quello che chiamano “folk’n’roll”, è ben visibile anche in Mareena Roots, dove la chitarra acustica fa da padrona. Un mix particolare e diverso dal solito, che unisce il country al rock’n’roll e al folk. Un mix che sa di feste e d’estate e che invita chi ascolta a ballare sottopalco sulle note di tracce come Traveling Love o Sweet Mama quando sarà di nuovo possibile farlo. Insomma, un disco spensierato come difficilmente se ne trovano oggi. 

Non mancano di certo le canzoni un po’ più malinconiche, come può essere ad esempio Rancho Rd, ma anche loro non abbandonano mai del tutto un certo piglio di allegria, che resta nascosto dietro alla nostalgia che si prova mentre si pensa ad una cosa bella, a prova del fatto che si può sempre trarre qualcosa di positivo, anche dalla malinconia. 

Mareena Roots, con un genere tutto suo, è quindi uno degli album che più si discosta dalla scena musicale italiana di oggi, strizzando l’occhio decisamente più agli Stati Uniti. Forse l’esempio più eclatante si sente in As I Breathe, la nona traccia del disco, che termina con il ritornello cantato in modo da ricordare un coro gospel d’oltreoceano. 

Chiude il viaggio dei The Bustermoon una ghost track, Cherry Tree, singolo che la band aveva già pubblicato la scorsa estate in collaborazione con Early Vibes e che qui viene proposto in versione riarrangiata. Un ottimo modo per chiudere quest’album carico di spensieratezza: con un sempreverde ma necessario “it’s alright”.

 

The Bustermoon

Mareena Roots

Self Released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Il realismo positivo di Ghemon

È uno degli artisti più eclettici del panorama musicale italiano, in grado di unire il cantautorato al rap e al soul. A tre anni dall’uscita di Mezzanotte e con una partecipazione al Festival di Sanremo nel frattempo, Ghemon ha da poco pubblicato il suo ultimo lavoro, Scritto Nelle Stelle. 

Abbiamo fatto due chiacchiere al telefono per parlare dell’album, ma anche di concerti drive-in e stand-up comedy.

 

Ciao! Bentornato sul nostro magazine e grazie per averci concesso quest’intervista.

“Grazie a voi!”

 

Scritto nelle Stelle ha avuto un’uscita un po’ travagliata: prima il 20 marzo e poi il 24 aprile, sempre in periodo di lockdown. Com’è stato il lancio in questo momento così complicato?

“È stato particolare, sicuramente un lancio che non dimenticherò. Abbiamo preso la decisione di rimandare l’uscita del disco a inizio marzo, quando ancora il lockdown era parziale, ma già si sentivano umori piuttosto oscuri. Alla fine è uscito il 24 aprile, durante la fase discendente e quando si iniziava a percepire un po’ più di fiducia. Sono comunque fiero della scelta che abbiamo fatto, anche se va contro ogni logica commerciale, perché l’accoglienza è stata buona e ho ricevuto molti messaggi in cui le persone mi ringraziavano per averle aiutate con questo disco a trascorrere un po’ meglio la loro quarantena.” 

 

Si è parlato anche dell’ipotesi dei concerti stile drive-in per venire incontro al settore in crisi. Tu cosa ne pensi: meglio aspettare tempi migliori o provare a portare la musica in giro in questo modo?

“Penso che sia meglio aspettare. Non è per una questione di snobismo, ma perché è comunque difficile da organizzare: bisogna tenere conto degli spazi, della logistica e di eventuali assembramenti anche dentro le macchine. Però non credo che questa sia l’unica soluzione. Ad esempio, si è parlato di fare concerti sempre sullo stile drive-in, ma con le biciclette al posto delle macchine. Ad ogni modo, noi continuiamo a guardarci attorno e a cercare più alternative possibili.” 

 

Parlando del nuovo album, fin dalla citazione scritta sulla copertina si capisce che Scritto nelle Stelle è un album diverso, più sereno. Cos’è cambiato dal Ghemon di Mezzanotte?

“Sono io ad essere cambiato [ride]. Alla fine sono passati tre anni dall’uscita di Mezzanotte e per certe cose tre anni significano davvero un’era geologica. Sono cambiate le mie relazioni, il mio stato d’animo, il mio umore e ho fatto esperienze diverse, quindi avevo bisogno di raccontare questo posto nuovo in cui sono arrivato, di raccontare una sorta di nuova primavera, invece che rimanere ancorato alla nostalgia di una stagione passata.” 

 

I tuoi testi sono sempre molto sinceri. C’è uno sforzo dietro o ti viene naturale?

“È una cosa naturale. O meglio, all’inizio c’era sicuramente uno sforzo maggiore dietro, ma con la forza dell’abitudine questa sincerità è diventata la normalità. Volevo abbandonare la divisa da supereroe per cercare di cantare canzoni che dicessero la verità e mi rendo conto che è stata una scelta che ha dato i suoi frutti.” 

 

C’è una canzone di Scritto nelle Stelle a cui ti senti particolarmente legato?

“Non è una domanda facile. Sono molto legato a tutto il disco perché dentro c’è tutta una serie di cose che volevo fare e dire e che non ero sicuro se dire proprio in questo modo o meno. Ci sono soprattutto riflessioni che prima non avevo mai avuto modo di esprimere, come in In Un Certo Qual Modo oppure in Un’Anima, che tra l’altro è la mia prima ballad con solo voce e pianoforte. In generale in quest’album c’è un realismo positivo in cui mi rispecchio molto, quindi, nonostante le novità, non direi che si è trattato un esperimento, anzi mi ci rivedo parecchio. Però non c’è una canzone a cui sono più legato di altre, voglio bene a tutte allo stesso modo.” 

 

Sui vari social, soprattutto su Twitter ma anche nei video promozionali su Instagram, sembra che tu abbia sempre la battuta pronta. Qual è il tuo rapporto con l’ironia?

“Credo faccia parte del mio DNA familiare, da parte di mio nonno e di mio padre. Mi piace quel tipo di ironia fatto di battute ghiacciate ma dette con la faccia da poker, come se non stessi davvero scherzando, ed è una bella sensazione quando gli altri ridono per una battuta che ho fatto. Sono un fan della stand-up comedy e qualche volta ho anche provato ad esibirmi. Nelle canzoni tendo a non essere ironico, quindi questo è un modo per esprimere un qualcosa, un altro lato che di solito non traspare quando canto.” 

 

Francesca Di Salvatore

Ghemon “Scritto Nelle Stelle” (Carosello Records/Artist First, 2020)

Ci sono artisti che è più facile inquadrare, attorno ai quali — volenti o nolenti — si creano determinate aspettative e quindi rischiano di sentirsi ripetere la solita solfa del “eh ma non è più quello di una volta” ad ogni tentativo di cambiare rotta. E poi ci sono quelli che sfuggono ad ogni classificazione tradizionale e dai quali non si sa mai cosa aspettarsi. Gianluca Picariello, in arte Ghemon, è sicuramente uno di loro e con il suo ultimo disco ne ha dato ulteriore conferma.

Uscito tre anni dopo il suo ultimo lavoro e anticipato dai singoli Questioni Di Principio, In Un Certo Qual Modo e Buona Stella, Scritto Nelle Stelle fa sentire tutta questa distanza temporale. È un album più sereno, più consapevole e, se la vita fosse un film, sarebbe il naturale sequel di Mezzanotte, quello in cui il protagonista riconosce l’importanza del passato, se lo lascia alle spalle e approda così alla serenità. 

Champagne, terza canzone del disco, parla proprio di come ormai siano stati regolati i conti con il passato e il ritornello recita “Stappo una boccia di champagne / Per il pericolo scampato / Chissà se non mi fossi fermato, dove sarei a quest’ora”. Anche in Inguaribile e Romantico si prende consapevolezza di ciò che si era e si è, ma c’è una persona importante accanto che capisce, sostiene e incoraggia quando sembra di non farcela.

I toni quindi sono più chiari rispetto al passato, ma non mancano la sincerità e la genuinità che contraddistinguono la sua discografia. Anche i momenti della quotidianità più banali, quelli che meno si prestano a diventare canzoni, vengono fissati in una traccia da 3 o 4 minuti. È questo che si vede ad esempio in Due Settimane, che inizia con “Spero che tu non abbia niente in programma stasera / Perché io appena metto il culo sul divano sverrò”. 

Non di soli eccessi vive la musica, evidentemente…

L’onestà dei testi si inserisce su musiche molto diverse tra loro, che vanno dal cantautorato al rap, dal soul all’hip hop, passando per sonorità quasi anni ’80 come in Io e Te oppure per il bellissimo connubio tra pianoforte e voce in Un’Anima, un pezzo incentrato sulla sindrome dell’impostore, quell’autosabotaggio a cui si tende quando non ci si sente all’altezza di una situazione. 

Sicuramente Scritto Nelle Stelle esce in un periodo non esattamente luminoso per nessuno, nemmeno per il mondo della musica. Però, in questi giorni più che mai, sono proprio la musica e l’arte in senso lato ad avere il privilegio – e forse anche un po’ l’onere – di farci sentire meno soli. 

 

Ghemon

Scritto nelle Stelle

Carosello Records/Artist First, 2020

 

Francesca Di Salvatore

THINKABOUTIT “Marea” (Totally Imported, 2020)

È un viaggio musicale, quello che ci propongono i THINKABOUTIT con Marea, il loro nuovo album uscito a quattro anni di distanza dal loro ultimo lavoro in studio. Tutto il tempo trascorso, tutta la fatica e la ricerca stilistica fatti dal collettivo sono tangibili in queste 16 tracce, che un po’ si discostano dalla loro musica precedente. 

Anticipato dai due singoli Arturo Gatti e I Fly High, che già lasciavano presagire il cambio di rotta da parte del collettivo barese, Marea si presenta come un disco decisamente eterogeneo, che passa dall’elettronica alle chitarre, con anche diversi richiami al jazz. 

Tornando alla metafora del viaggio, troviamo tracce come Tokyo o Adriatico che, a dispetto del nome, sembrano voler trasportare chi ascolta proprio in un locale jazz degli Stati Uniti, uno di quelli dove trombe e sassofoni dominano la scena. Al contrario, canzoni come 2008 ricreano un’ambientazione pittoresca del Sud Italia.

Sulla stessa scia troviamo anche Leave This Place, dove invece sono le parole a farci pensare al viaggio, o forse più a una fuga per inseguire i propri sogni. “Grab your dreams and drive away, put ‘em in your suitcase and never look back”, cantano all’inizio del pezzo. 

Il brano più particolare di tutti però è sicuramente Parlesia, realizzato in collaborazione con il pianista e compositore Mario Nappi. Il titolo si riferisce al gergo tipico dei musicisti napoletani e allora, su una base di pianoforte, ad una prima parte in inglese si accosta una seconda in napoletano, senza forzature o stranezze, come se fosse il proseguimento più naturale del mondo.

Un’atmosfera mediterranea si mischia dunque a sonorità internazionali, accentuate anche grazie al passaggio dall’italiano all’inglese nei testi. Una scelta azzardata forse, ma che nel complesso funziona e rende le canzoni quasi “cinematografiche”, nel senso che potrebbero funzionare bene come la colonna sonora di qualche film indipendente. 

Marea è quindi un album decisamente evocativo, che fin dal primo ascolto riesce a trasmettere immagini nitide attraverso parole e musica, che nella maggior parte dei brani tende a fare da padrona. 

Sono proprio queste immagini a funzionare da collante tra canzoni così diverse tra loro; il fil rouge che accompagna l’ascolto.

 

THINKABOUTIT

Marea

Totally Imported, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Elephant Brain “Niente di Speciale” (Libellula Music, 2020)

Dolore al microscopio

 

“Conta i lividi che servono per ritornare a scrivere”

È stata questa la frase con cui ho conosciuto gli Elephant Brain, per puro caso, con una canzone tra le tante consigliate dall’algoritmo di Spotify. È l’intro di Ci Ucciderà, brano pubblicato nell’estate del 2018 da questa rock band perugina e che dopo un anno e mezzo è rientrato a pieno titolo nel loro primo album Niente di Speciale. 

Mi aveva colpito parecchio, quella frase. Innanzitutto perché sottolinea quanto sia intimo il legame tra arte e dolore, ma soprattutto lascia intendere che anche attraverso qualcosa di negativo come il dolore può fiorire qualcosa di bello.

Forse è un concetto un po’ inflazionato, ma resta comunque un bel concetto…

Niente di Speciale raccoglie questo dolore, lo scompone pezzo per pezzo e lo passa impietosamente al microscopio, ma lo fa con una dichiarazione d’intenti ben precisa: la prima traccia, Quando Finirà, è un po’ un invito alla speranza, al lasciarsi il passato alle spalle per poter ricostruire da capo sulle macerie. 

C’è quindi la sofferenza in sé, ma non mancano tutti quei i metodi che tendiamo a usare come palliativi per negarla, dal fingere che vada tutto bene di Weekend alla voglia di fuggire davanti ai problemi di Scappare Sempre. 

Le nove tracce si susseguono con velocità, seguendo un ritmo incalzante, mentre la voce graffiante di Vincenzo Garofalo si sposa benissimo con un sound crudo ed esplosivo ma curato, a dimostrazione che dal loro primo, omonimo EP del 2015 c’è stata una maturazione stilistica non da poco. 

Il cerchio si chiude con la canzone che dà il nome al disco, Niente di Speciale, che è un po’ una presa di coscienza. È il momento in cui si smette di urlare e in qualche modo si cerca di fare pace con se stessi. Grande importanza è data alla parte strumentale, che va sfumando verso la fine, quasi a darci modo di riflettere su tutto quello che abbiamo appena ascoltato.

Niente di Speciale è un album onesto e che parla a tutti, senza distinzioni. 

È anche un album che deve essere ascoltato live il più possibile, gridato a squarciagola insieme a loro a mo’ di catarsi per renderci conto che sì, siamo solo umani e quindi “niente di speciale”, ma almeno non siamo da soli e ci sarà sempre qualcosa che varrà la pena salvare.  

 

Elephant Brain

Niente di Speciale

Libellula Music, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Il ritorno alle radici dei THINKABOUTIT

Sono nel bel mezzo di un cambio di rotta, i THINKABOUTIT, collettivo di musicisti nato a Bari. Con i due singoli Arturo Gatti e I Fly High hanno anticipato Marea, secondo lavoro in studio in uscita quest’inverno, che rappresenta una decisa innovazione nel loro stile, nonché un ritorno alle loro radici mediterranee. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Claudio, voce del collettivo.

 

La prima domanda volevo farla sul vostro nome, THINKABOUTIT. C’è qualcosa in particolare su cui volete far pensare?

Leggenda narra che, quando abbiamo iniziato il progetto nel 2014, esistesse un gruppo su Messenger che si chiamava “Dobbiamo pensarci”, proprio perché non avevamo idea di quale nome usare. Poi un giorno ci è venuto in mente di tradurlo in inglese, quindi appunto Think About It. Solamente con l’ultimo cambio di formazione — ci siamo sempre considerati più un collettivo che una band statica — abbiamo deciso di riorganizzare il nome in THINKABOUTIT.

 

Il 29 novembre uscirà il vostro nuovo singolo I Fly High. Come lo descrivereste?

È un pezzo molto diverso da Arturo Gatti, il singolo precedente. In un certo senso è più cattivo, perché nasce dalla rabbia e dalla frustrazione che si provano quando ci si rende conto che sono sempre esistiti due tipi di persone. C’è chi lavora e fa sacrifici per guadagnare ciò che ha e chi invece parte già con la tavola apparecchiata e quindi non deve compiere sacrifici. Ad ogni modo, chi segue una strada solo in discesa, non potrà mai godere della stessa vista che avrà invece chi ha dovuto camminare in salita per tutta la vita.

 

Il singolo anticipa Marea, vostro secondo LP. Cosa dobbiamo aspettarci da quest’album?

Marea è il frutto di una pausa di più di due anni in cui ci siamo interrogati molto su cosa siamo e cosa vogliamo comunicare. Ci siamo resi conto che il sound dei nostri lavori precedenti, Sulle Grate e In Secondo Piano, non ci rispecchiava più, quindi abbiamo deciso di iniziare un processo di ricerca sulle nostre radici mediterranee, sia a livello di suoni che di tematiche dei testi. La presenza di alcuni colori sonori, dalla scelta dei suoni alla ricerca di linee melodiche ‘’più nostre’’, sono stati il collante di tutta la ricerca. È un album comunque molto eterogeneo, che mischia l’elettronica alle chitarre, il pianoforte al moog, sonorità calde a fredde. Sappiamo che è un album importante, che può essere ascoltato su più livelli e analizzato sotto vari punti di vista, per questo pensiamo che siano necessari più ascolti per poterlo capire in pieno.

 

I due singoli che avete pubblicato, Arturo Gatti e I Fly High, sono in inglese a differenza degli altri vostri lavori. Come mai questa scelta?

In realtà l’intero album è in inglese, con alcune incursioni più “mediterranee” in alcuni pezzi. Sicuramente durante i due anni di pausa siamo cambiati e il passaggio dall’italiano all’inglese è legato a questo processo, ma è stata una scelta assolutamente naturale. Personalmente, ho sempre scritto e cantato in inglese, in quanto una buona parte della mia vita è stata sommersa da musica anglofona. Non è stata una scelta legata alla logica di mercato, secondo cui scrivere in inglese ti permette automaticamente di arrivare anche fuori i confini italiani, anche se ovviamente ci auguriamo di far arrivare il progetto e i messaggi contenuti nel disco a più persone possibile. 

 

Francesca Di Salvatore

 

La Gabbia “Madre Nostra” (You Can’t Records, 2019)

C’è un equilibrio perfetto tra rabbia e introspezione in Madre Nostra, primo LP de La Gabbia. Con otto pezzi che nell’insieme ricordano un giro sulle montagne russe, grazie all’alternanza tra un sound incendiario ed uno più tranquillo, la band bolognese riesce a scavare a fondo nella nostra natura e a metterci davanti agli occhi un’ampia gamma di sentimenti autentici, positivi o negativi che siano, ma tutti spaventosamente umani. 

Il giro di giostra inizia con Ilaria, dove è un risentimento senza filtri e quasi cattivo a fare da padrone. Il pezzo ricorda nello stile e nei suoni decisamente rock i due singoli pubblicati dalla band, Ho Bisogno e Violenza, dove troviamo anche una sorta di spiegazione a questi sentimenti più bassi e istintivi. “Violenza sei madre nostra, ma non ci hai mai riconosciuto”, ma, come con tutte le madri, arriva prima o poi la fase della ribellione nei suoi confronti.

Paradossalmente, in questo disco, la ribellione a “madre nostra” sembra proprio un abbandono a suoni più tranquilli e a testi che mantengono una certa tenerezza di fondo nonostante i ritmi ben scanditi delle chitarre o le esplosioni di batteria. È il caso di La Luna e i Falò, chiaro omaggio al romanzo di Cesare Pavese che ruota attorno alla necessità di mettere radici, oppure di Memorie di una Prostituta, il racconto molto sentito di una storia di dolore e riscatto. 

Più ci avviciniamo alla fine della corsa, più il disco fa emergere quella vulnerabilità che tendiamo a tenere nascosta. È un esempio Non Esisti, penultima traccia dell’album, che, inizialmente solo con voce e chitarra, ci racconta una storia d’amore tra due persone che si avvicinano senza raggiungersi mai. È quindi anche una storia di paure, di fughe e di rimorsi, perché la fine è inequivocabile: “non c’è più nessuno”, un grido triste che continua finché non sopraggiunge il silenzio. 

Quindi, dopo otto canzoni, cosa rimane alla fine di questo giro di giostra?

Forse la consapevolezza che non si può ridurre la natura umana ad un solo polo, solo al bianco o solo al nero. Non a caso, Madre Nostra è un melting pot, una scala di grigi.

Ma forse è un’altra consapevolezza che, soprattutto in questo periodo storico, vale la pena ribadire. La stessa espressa anche da Pavese quando nel suo romanzo scrive che “il sangue è rosso dappertutto”. 

Nel bene e nel male, facciamo tutti parte della stessa umanità.

 

La Gabbia

Madre Nostra

You Can’t Records, 2019

 

Francesca Di Salvatore

I DEPRODUCERS in bilico tra musica e scienza

Stanno girando l’Italia, portando nei teatri il loro terzo spettacolo che segue il filone delle Musiche per Conferenze Scientifiche dal titolo DNA. I DEPRODUCERS sono Vittorio Cosma, Riccardo Sinigallia, Gianni Maroccolo e Max Casacci e da qualche anno stanno conducendo un progetto ambizioso: usare la musica per divulgare scienza.

Abbiamo fatto due chiacchiere con Vittorio prima della loro esibizione al Teatro della Tosse di Genova. 

 

Il vostro collettivo ha un secondo nome, Musiche per Conferenze Scientifiche. Quanto è forte secondo voi il potere divulgativo della musica?

In realtà adesso l’abbiamo accorciato ed è diventato Music for Science. Secondo noi la musica ha un potere divulgativo enorme, in quanto trascende barriere sia linguistiche che culturali. Ha una capacità di penetrazione, di attecchimento tale nelle menti di chi ascolta che ci è sembrata una buona idea utilizzarla per veicolare qualcosa di più razionale come la scienza. Se andiamo a vedere, scienza e musica hanno parecchio in comune, dal mistero alle parti più filosofiche, e possono essere viste come due modalità diverse, una più razionale e una più emotiva, di interpretare la realtà.

 

DNA è il terzo progetto che segue questo filone, dopo Planetario e Botanica. Come decidete il tema da affrontare e cosa vi ha spinto in questo caso a scegliere la vita e l’evoluzione, passando per la malattia?

Il nostro potrebbe essere definito come un viaggio poetico, come la versione teatrale del documentario degli anni sessanta Potenze di Dieci, che partiva dai confini dell’universo e arrivava fino agli atomi del corpo umano. Il primo capitolo, Planetario, è più astratto e lontano da noi, mentre il secondo, Botanica, ci ha messo davanti agli occhi qualcosa che vediamo tutti i giorni ma a cui forse non prestiamo molta attenzione, cioè le piante. Infine, abbiamo deciso di entrare in un universo microscopico, quello del DNA degli esseri viventi.

 

Sul palco siete affiancati dal professor Telmo Pievani, esperto di evoluzione. Come descrivereste questo connubio?

Telmo è il nostro frontman sul palco, nonché quello che porta avanti la parte scientifica. È una collaborazione già consolidata e che si è sempre dimostrata fruttuosa, perché da ciò che ci raccontiamo scaturisce sempre, consciamente o inconsciamente, un’ispirazione che ci permette di creare della musica nuova.

 

Com’è nata invece la collaborazione con AIRC, altro partner del progetto? 

Anche loro sono venuti a vedere i nostri precedenti spettacoli e hanno pensato che quello che facciamo sul palco fosse un buon modo per diffondere tra il pubblico una certa conoscenza anche su ciò di cui si occupano da ormai decenni.

 

Avete già in mente altre musiche per conferenze scientifiche o c’è qualche tema che vi piacerebbe affrontare in particolare?

Ne abbiamo già parlato un po’ tra di noi e saranno usciti un centinaio di possibili temi da affrontare. Dalla filosofia all’economia, passando per la robotica, la chimica oppure ancora la matematica pura. È bello poter approfondire discipline così diverse, veicolandole con un mezzo naturale come la musica. Ci piace pensare che, una volta uscito dalla sala, uno spettatore vada a casa avendo imparato che cos’è il genoma, ad esempio. Non è una cosa da poco…

 

Testo: Francesca Di Salvatore

Foto: Giulia Spinelli

Holy Swing “To the Burn and Turn of Time” (Self Released, 2019)

(Through the looking glass)

 

Uscito a novembre, To the Burn and Turn of Time rappresenta il nuovo inizio degli Holy Swing, band bergamasca fresca di numerosi cambiamenti — dalla formazione al nome, passando per il sound — nonostante le influenze post hardcore si sentano forte e chiaro anche in questo nuovo progetto.

L’album spazia tra un’autoanalisi decisamente più spostata verso l’autocritica e il racconto delle relazioni con gli altri, a volte autentiche e altre meno, ma di cui alla fine abbiamo bisogno per uscire da quella bolla di incomunicabilità e ripiegamento su noi stessi dove a volte sembra tanto comodo rifugiarsi. Proprio a questo si riferisce in particolare Paper Kings, ultima traccia del disco. “In the end you’ll know that all you were was just a fraction of a cell” – siamo tutti parte di un qualcosa di più grande di noi.

Le immagini che emergono dalle nove canzoni sembrano tutt’altro che positive, a cominciare dal “plastic garden” in cui è difficile far crescere qualcosa di vero di Twin Primes, ma è quando si parla di se stessi che si scava nel fango. È su questo che sono incentrate, ad esempio, Flower Bed, raccontata dal punto di vista di chi riconosce di essere distruttivo, Parfit’s Glass e Your Dopamine, dove invece ci si rende conto delle proprie mancanze, ma si cerca di non trovare scuse per affrontarle. Ad accompagnare quest’indagine tanto intensa quanto sofferta, esplosioni di chitarre e batterie.

To the Burn and Turn of Time è dunque un’alternanza di pezzi incendiari e altri più dimessi, senza però mai perdere un animo profondamente rock e quella rabbia necessaria per urlare ciò che si pensa.

 

Holy Swing

To the Burn and Turn of Time

Self Released, 2019

 

Francesca Di Salvatore

 

L’ultimodeimieicani “Ti Voglio Urlare” (Pioggia Rossa Dischi, 2019)

Ballare sul pessimismo

 

Ti Voglio Urlare de L’ultimodeimieicani è un album strano, ovviamente in senso buono. 

È uno di quegli album che sembra voglia lanciarti addosso pessimismo un tanto al kg, ma lo fa con un sound che al tempo stesso ti fa venire voglia di ballare in modo casuale e senza riflettere. È questa la sensazione che si ha quando si ascolta Everest, ad esempio: un ritmo energico e incalzante su cui la voce canta “ogni volta che ti guardi allo specchio, ti senti un minuto più vecchio”. 

È anche un album onesto, che non edulcora niente, quindi è normale che dopo averlo ascoltato ti rimanga nelle ossa una sensazione di spossatezza, proprio come quando di colpo smetti di ballare e inizi a pensare.

Questo è il primo LP della band genovese, uscito sempre per Pioggia Rossa Dischi a quasi 3 anni di distanza dal loro EP di esordio, In Moto Senza Casco, e anticipato da ben cinque singoli. Il primo, Pensione a 20 Anni, è uscito l’8 marzo scorso e per l’occasione le strade della loro città sono state ricoperte di tanti volantini gialli. La provocazione dietro alla canzone è inequivocabile: esiste un rischio fondato di scegliere a vent’anni un percorso che non è quello giusto per noi, ritrovandosi così imprigionati in una vita monotona e che non sentiamo nostra. Da qui l’idea di iniziare a lavorare solo più avanti, forse con le idee più chiare e una testa più matura.

Pensione a 20 anni è stato seguito poi da Sirene, Gelato — singolo che conta anche la partecipazione del giovane rapper genovese Canca — e Ciao. Quest’ultimo vuole raccontare la fine di una relazione nascosta dietro a un saluto così banale, “quel momento in cui vorresti dire tante cose, ma ti escono solo quelle quattro lettere”, come scrive la stessa band su Instagram. Chiude la fila Cosa vuoi cambiare, uscito due settimane prima dell’album.

Particolare attenzione è data anche il rapporto con le proprie città, spesso definite provinciali e, sembra, a tratti soffocanti. È un rapporto di amore-odio, come quello che si sente in Sirene oppure Provincialismo, perché alla fine sono proprio loro, le nostre città, nonostante un certo disprezzo, che contribuiscono a renderci quelli che siamo.

Ti Voglio Urlare è quindi il ritratto di chi si ritrova fermo immobile in un presente insoddisfacente, di chi si sente “come macchine ferme a guardare i semafori verdi”, di chi desidera un cambiamento che spezzi la monotonia e che invece, purtroppo, pare non arrivare mai.

Ma forse riconoscere l’immobilità è già un primo passo per iniziare a muoversi.

 

L’ultimodeimieicani

Ti Voglio Urlare

Pioggia Rossa Dischi, 2019

 

Francesca Di Salvatore

L’ultimodeimieicani tra chitarre prese male e provocazioni

Hanno uno dei nomi più geniali del panorama musicale italiano. L’ultimodeimieicani sono Lorenzo Olcese, Pietro Bonuzzi, Beniamino Parodi, Rachid Bouchabla e Stefano Pulcini e stanno cercando, sia con la loro musica che con il collettivo Pioggia Rossa Dischi, di far capire che la scena genovese è tutt’altro che spenta. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Lorenzo, Pietro e Beniamino, rispettivamente voce, chitarra e basso della band.

 

Sono passati quasi tre anni dal vostro primo EP, In moto senza casco. Vi sentite cambiati in quest’arco di tempo, sia a livello musicale che personale?

Beniamino: “Direi di si da entrambi i punti di vista. Sicuramente a livello personale siamo cresciuti e le nostre storie sono cambiate. Pensa che quando è uscito In Moto Senza Casco nessuno di noi, tranne Pietro, viveva ancora da solo. Adesso invece siamo tutti più indipendenti.”

Lorenzo: “Per quanto riguarda la musica, invece, il nostro primo lavoro non era stato troppo ritoccato. Mattia Cominotto, che l’ha registrato e prodotto, segue una filosofia per cui l’album d’esordio di una band non deve essere toccato da nessuno e quindi ci aveva fatto registrare le canzoni così come le avevamo preparate, senza metterci mano. Ti Voglio Urlare invece è il risultato di uno studio e di un lavoro molto intenso, che è durato circa 40 giorni in studio, quindi c’è per forza una maggiore cura per il dettaglio sia sui testi che sulla musica. Non abbiamo lasciato nulla al caso.”

Doveste riassumere il nuovo album in 3 parole, quali scegliereste?

Pietro: “Sicuramente il titolo, ‘Ti Voglio Urlare, è già un buon riassunto di quello che è effettivamente il disco.”

Beniamino: “Se ‘chitarra elettrica’ vale come una sola parola, io sceglierei innanzitutto quella.”

Lorenzo: “Io direi anche ‘vero’. Ho sempre pensato che questo lavoro, parlando di noi e delle nostre esperienze, fosse molto realistico, autentico. E poi aggiungerei ‘tristezza’, che non ce la facciamo mai mancare.”

Pietro: “Potremmo quasi dire ‘chitarre prese male’.” [ridono]

C’è qualche artista in particolare a cui vi siete ispirati nel creare il sound del disco?

Lorenzo: “Ispirati direttamente no, ma che ci sono delle influenze che arrivano soprattutto da quello che ci piace ascoltare di solito. Tame Impala, Strokes, Phoenix, Radiohead, solo per citarne alcuni…”

Beniamino: “Per quanto riguarda i gruppi italiani, ci piacciono molto i Verdena.”


Com’è nata l’idea dietro al primo singolo Pensione a 20 Anni?

Lorenzo: “Nasce da una provocazione abbastanza palese e cioè di dare a tutti nel momento della formazione le stesse possibilità, una pensione appunto, per poi entrare nel mondo del lavoro con le competenze che abbiamo liberamente scelto di acquisire. Un giorno, mentre stavamo decidendo come promuoverlo per bene, essendo il primo singolo, ci è venuto in mente di trasformarla in una petizione su Change.org e solo dopo la gente ha scoperto che si trattava di una canzone.”

Pietro: “Quando abbiamo iniziato a pensarci era il periodo in cui si sentiva parlare spesso della questione del reddito di cittadinanza, quindi ci piaceva l’idea di presentarla come un’istanza politica reale.”

Beniamino: “Tra l’altro, la petizione ha anche ricevuto una certa attenzione e consenso su internet, anche se era nata come provocazione. Avere la pensione a vent’anni è forse uno dei più grandi paradossi a cui si possa pensare, ma comunque ha dato modo di riflettere a parecchie persone.”


Dato che nel disco parlate molto delle vostre città, che rapporto avete in generale con Genova e con la scena musicale genovese?

Beniamino: “Diciamo che, per quanto mi riguarda, non è dei migliori [ride]. Il nostro rapporto con Genova è sintetizzato bene dalle prime parole di Sirene, anche se in realtà è stata scritta da Lorenzo per Treviso. “Tu che ti presenti così bella, io che vivo così male”, ma in un certo senso anche “che ti vivo così male”, perché c’è un certo distacco tra quello che è Genova, quello che chiede e propone e quello che invece siamo noi. Sicuramente il progetto di Pioggia Rossa Dischi è stato un modo per dar forza a noi e ad altre realtà emergenti locali che purtroppo qui non trovano troppe opportunità per affermarsi. Essendo comunque abbastanza grande, secondo noi Genova dovrebbe avere un posto di rilievo nel panorama musicale, perché c’è tantissimo movimento, ma bisogna trovare dei canali per farlo uscire e Pioggia Rossa vuole fare un po’ questo.”

Lorenzo: “In giro ci sono davvero tanti progetti molto validi, quindi abbiamo deciso di collaborare con i LENIN! [altro gruppo genovese] per creare una serie di occasioni e dare così voce a tutti quelli che riteniamo più interessanti. Oltre a varie serate che organizziamo durante l’anno, insieme ad altre realtà locali abbiamo tirato su il Balena Festival qui in Porto Antico. È un evento ancora giovane, ma sta funzionando bene.”

 

Francesca Di Salvatore