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Tag: intervista

Ragazzetto: un inguaribile anticonformista

L’attuale lista di cantanti emergenti è lunga e spesso “dispersiva” perché si ha come la sensazione di non riuscire a stare realmente al passo con tutta la musica che prende vita quotidianamente sulle piattaforme digitali. All’interno di quella lista però, c’è un nome che di per sé dice tutto ed è quello di Ragazzetto, nome d’arte di Federico Branca, uno di quei sani portatori di pazzia che amo, uno di quelli che così come è emerso dalla nostra chiacchierata, fa musica per amore vero verso questa parola, senza nessuna pretesa e con tutta l’umiltà del mondo, ma soprattutto con un carico emotivo importante, quasi fuori-tempo per questo tempo

Federico è uno di quelli che non ha paura di diffondere tutto ciò che sente e prova. Il 7 giugno è uscito il suo singolo di debutto Gli amici del mare per Cane Nero Dischi, una colonna sonora perfetta per questa estate, per tutti coloro che hanno il grande dono di focalizzarsi ancora sui piccoli istanti di felicità (spesso sottovalutati) e per tutti coloro che amano la bellezza della condivisione di quegli stessi istanti.

Ecco chi è davvero Ragazzetto…

Facciamo un passo indietro per scoprire e capire quando Federico ha deciso di cambiare qualcosa durante il suo percorso, scegliendo un nome d’arte che lo portasse poi a diventare Ragazzetto…

Avevo 18 anni e andai a suonare la batteria negli Enrico, loro erano tutti più grandi di me di circa 8/10 anni e mi chiamavano ragazzetto, perché in effetti mi comportavo abbastanza da pazzoide diciottenne. Nel giro musicale genovese hanno iniziato tutti a chiamarmi così per via della mia energia tipo pila Duracel e quando ho dovuto scegliere un nome d’arte è stato abbastanza immediato usare proprio quello.

Un ricordo in particolare, un momento in cui hai capito che avresti dato il via a questo tuo nuovo progetto, quali sono le persone che ne fanno parte e quali sono state le motivazioni che hanno fatto sì che tu ti mettessi in gioco in questa direzione?

Negli ultimi due anni un paio di progetti di cui facevo parte si sono un po’ arenati per l’ennesima volta, ho deciso a quel punto che avrei fatto da me perché la vita è una sola e io sono troppo curioso. Matteo il mio batterista è stato fondamentale e mi ha spronato molto adesso nella band c’è anche Samuel al basso e diciamo che noi 3 siamo lo zoccolo duro. Mi hanno fatto meglio 6 mesi come front-man che 10 anni di analisi…(ride)

Il 7 giugno è uscito il tuo primo singolo “Gli amici del mare” con un video diverso da quelli che siamo abituati a vedere perché d’impatto traspare la realtà non la finzione, amici veri e non attori e comparse… com’è nata la scelta di realizzare un videoclip del genere?

Io amo la realtà, la verità e la bellezza, che per inciso non ha quasi mai nulla a che vedere con la perfezione. Non mi interessa fare cose ragionate a tavolino, ma voglio che la mia arte, se così si può definire, sia genuina. In un’epoca dove tutto è costruito io voglio la verità, anche perché lo ammetto sono un inguaribile anticonformista. La canzone parla di persone vere alcune sono anche nel video e poi non avevo budget e quindi amici veri e cellulari (ride)

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Sempre parlando del tuo singolo di debutto e di amici veri, quanto conta e come vivi il valore dell’amicizia?

Sono sempre stato un persona solitaria, anche se non sempre per scelta, non ho mai avuto grandi compagnie e ho un carattere un po’ sopra le righe quindi diciamo che i pochi amici che ho e che mi sopportano cerco di tenermeli stretti (ride). Credo che a volte la società giri troppo intorno a dinamiche lavorative o sessuali riuscire per esempio ad avere amici sinceri del sesso opposto è una cosa che dovrebbero fare tutti per imparare a valutare le persone in modo più profondo e schietto. Senza alcuni cari amici non credo avrei fatto questo progetto e non sarei nemmeno uscito da periodi duri della mia vita.

Nei prossimi mesi uscirà il tuo disco? Quanto ci sarà di te nei brani che ascolteremo e cosa ti piacerebbe che la gente scoprisse- riscoprisse o cogliesse attraverso le tue canzoni?

Non uscirà un disco sarebbe anacronistico e inutile. Farò uscire altri due singoli uno in autunno dal titolo Fellini e l’altro in primavera dal titolo Percussioni latine. Nei miei brani c’è la mia vita, nel bene e nel male, c’è tutto di me nei miei brani anzi sono il momento ed il mezzo con il quale potete vedere il vero me stesso. Le serate gli amori gli amici che hai seppellito la famiglia la poesia il mare la mia vita insomma la mia visione del mondo e degli altri e di me stesso. Vorrei che le persone sentissero la malinconia e la bellezza di questa terra e la felicità che deriva da questa comprensione profonda del mondo, non so se ci riuscirò con la musica è ambizioso (ride) però ci provo, se anche solo una persona si sentirà ispirata e travolta mi basta già.

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Qual è l’augurio che fai a te stesso?

Di non smettere mai di divertirmi facendo musica e di riuscire a farla sempre con umiltà e passione. Spero grazie alla musica di riuscire a diventare una persona migliore, viaggiare, esorcizzare la mia oscurità interiore ed imparare a stare con gli altri. Il giorno che inizierò a parlare di diventare famoso vi prego sparatemi (ride)

 

Ironia, sana follia ed un concentrato di positività rendono questo ragazzo davvero speciale. Non perdetelo di vista perché è grazie a persone come lui che la musica ritrova quel “che” di autentico, ultimamente quasi del tutto tralasciato. Lui quell’autenticità ce l’ha nel DNA.

Claudia Venuti

I Viito: anima e cuore.

Ci sono cose che nascono e svaniscono in fretta e cose che invece, dal momento in cui prendono vita, non fanno altro che crescere giorno dopo giorno senza nessuna pretesa e senza la fretta di raggiungere un risultato immediato.

Credo che il segreto per fare in modo che tutto ciò che desideriamo arrivi a noi, non sia solo la determinazione e la giusta dose di ambizione, ma penso sia fondamentale la cura, l’attenzione minuziosa nei confronti di ciò che amiamo fare e il modo in cui decidiamo di metterci in gioco e portare avanti quello in cui crediamo, il tutto senza mai tralasciare un aspetto fondamentale: l’umiltà.

Se dovessi pensare qualcuno in grado di viaggiare su questa linea in perfetto equilibrio, penserei sicuramente a Vito e Giuseppe che insieme formano i Viito con due i, due lettere identiche, vicine, ma soprattutto due basi solide ed è proprio da quelle basi che circa un anno e mezzo fa è nato un progetto musicale che ho amato sin dal primo istante.

Colpo di fulmine.

Dopo l’uscita del primo singolo Bella come Roma (gennaio 2018) ho aspettato l’uscita del secondo, poi del terzo e del quarto fino ad arrivare al primo attesissimo album Troppo forte, ricco di tutta quella vita che spesso viviamo ma non riusciamo a descrivere perché guardarsi dentro a volte è un duro lavoro, tra attimi di nostalgia e altri di speranza, tra malinconia ed entusiasmo, tra voglia di superare il passato e concentrarsi sul presente… Una cosa è certa: nelle canzoni dei Viito regna l’amore in ogni sua forma, tempo e declinazione. Regna la voglia di raccontare la verità che per quanto a tratti possa far male è sicuramente una delle cose che ricerchiamo e di cui abbiamo più bisogno e regna la voglia di riuscire a trovare sempre e comunque un lato positivo.

Lontani dagli schemi e dalla banalità nel raccontarsi, questi due ragazzi con la loro musica sono una boccata d’aria fresca, un bel punto vivo, un angolo a parte in questa nuova scena musicale italiana e una volta entrati in contatto con così tanta energia, quell’angolo diventa automaticamente uno dei posti preferiti in cui rifugiarsi, una volta schiacciato play e dato il via alla riproduzione dei loro brani, tutto sembra prendere forma e diventare possibile. E’ possibile sentirsi leggeri e allo stesso tempo imparare a dare il giusto peso a persone ed avvenimenti.

Dalla capitale a Bolo Centrale, è stato un piacere per me realizzare questa intervista…

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Torniamo un po’ indietro nel tempo, al principio di tutto quando eravate due studenti fuori sede che condividevano la stessa casa. Qual è stato il momento in cui avete deciso di unire le vostre passioni e diventare insieme i Viito? Un ricordo particolarmente bello di quel periodo? 

Inizialmente abbiamo cominciato a scrivere canzoni insieme per gioco. Pensavamo di poterle proporre a qualcuno anche solo come autori, non necessariamente cantarle e suonarle in prima persona. Il momento esatto in cui abbiamo deciso di essere i Viito è stato in una mattina di settembre 2016, quando Giuseppe ha proposto il nome del progetto a Vito. Pochi minuti dopo avevamo una pagina Facebook e un anno dopo un contratto discografico. Di quel periodo ricordiamo le nottate passate a curare le ferite di vecchie relazioni attraverso la musica; è stata un’autentica terapia.

Sembrate due persone caratterialmente all’opposto eppure traspare allo stesso tempo anche la vostra forte complicità, come se foste davvero fratelli. La cosa bella è che siete entrambi protagonisti di ciò che fate. Sempre. C’è stato un momento in cui avete pensato di mandare tutto all’aria e mollare la presa? E quant’è stato difficile credere fino in fondo in un progetto musicale come il vostro in questo panorama Indie-pop ormai ricco di nomi emergenti dove crearsi un proprio spazio non è poi così semplice. Lati positivi e negativi della vostra esperienza?!

Sembra banale dirlo ma il nostro rapporto è quanto più si avvicina a quello di due fratelli. Hai presente quando dici “ho un fratello che è l’opposto di me… ci rompiamo le palle a vicenda ma ci vorremo bene per la vita”? È così. In realtà abbiamo anche molte cose in comune, una su tutte: dare la massima priorità alla trasparenza e alla fiducia nei rapporti della vita, che siano personali o lavorativi. Insomma abbiamo una radice solida che ci tiene uniti, poi come in un albero i rami puntano in direzioni svariate, ma questo è un bene perché i frutti sono tanti e genuini. Non riusciremmo a smettere perché quello che facciamo nasce da una reale esigenza, anche per questo “non crederci” è sempre stata un’opzione che non esisteva.

Chi scrive tra i due?

Entrambi.

L’estate scorsa, proprio in questo periodo usciva “Compro Oro” uno dei singoli che ha anticipato l’uscita del vostro album d’esordio, quest’anno è arrivata “Bolo Centrale” seguita poco dopo da “Sistema solare” Qual è il bilancio di questi ultimi mesi? Quante e quali cose sono cambiate e in che modo siete cambiati voi?

Abbiamo cambiato città, abbiamo scritto tanto, per la prima volta abbiamo anche cancellato quello che avevamo scritto per riscriverlo da capo (è stata una novità per noi), abbiamo provato a migliorarci sotto ogni aspetto di questa passione-lavoro. E stato giustamente faticoso, ma anche bello. Siamo felici dei risultati e molto carichi per quello che verrà.

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Tornando a Bolo Centrale, brano che sembra anche un po’ omaggiare la città che vi ha recentemente adottato dopo Roma, com’è nata l’idea di girare il video catturando attimi “di passaggio” proprio all’interno della stazione di Bologna Centrale? E’ un video semplice eppure d’impatto, lo definirei speciale perché estremamente vero. Quale messaggio volevate trasmettere?

Pochi giorni dopo l’uscita de brano abbiamo incontrato Olmo Parenti che, insieme a Marco Zannoni e Arturo Vicario, ha realizzato il video. Quando Olmo ci ha raccontato la sua idea abbiamo subito capito che era quella giusta, quella che interpretava a pieno lo spirito della canzone. L’unico messaggio che volevamo mandare, se di messaggio si stratta, è “osserva e assapora le cose piccole e autentiche che ti sono attorno perché sono le più preziose”.

Da quando vi ho scoperti ad oggi, ho visto crescere a dismisura la vostra fan- base eppure non è mai cambiato il vostro modo di interagire col pubblico che vi segue. Come vivete l’aspetto “social”? 

Cerchiamo di essere spontanei, questa cosa dei social la stiamo digerendo a piccoli passi… è un mondo che ti fagocita e distorce quello che sei con molta facilità. Ma c’è una parte bellissima di tutto questo: il rapporto diretto che abbiamo con chi ci segue con interesse. Stiamo diventando una specie di famiglia e in privato cerchiamo di rispondere sempre a tutti.

Dai Festival ai sold out nei club e date extra fino al nuovo tour “Mi farei arrestare”. Da 4 singoli ad un album che è andato davvero -Troppoforte- cosa state provando in questo momento in cui state “raccogliendo” e vedendo i frutti del vostro lavoro e della vostra passione? E tra ormai direi centinaia di palchi vissuti, ce n’è uno che ricordate o vi ha emozionato in particolar modo?

 A volte guardiamo le foto e i video dei nostri scorsi concerti e ancora ci emozioniamo come quando eravamo lì sul palco. Altre volte siamo con la testa proiettata sul futuro: scriviamo, progettiamo, sogniamo. La musica per noi è così, non si ferma, non si celebra più di tanto, ma scorre… come linfa, come sangue, è una cosa viva. Ci ricordiamo tutti i palchi come ci si ricorda di tutte le notti passate con un nuovo amore. Questo amore, tra noi e il nostro pubblico, è giovane e noi crediamo (speriamo) che durerà nel tempo.

E’ questo il bello dei Viito, riescono sempre a rendere tutto più magico, riescono a toccare tante anime e cuori perché è tutto ciò che hanno e che mostrano ed inevitabilmente tutto ciò che arriva in maniera talmente pura e diretta da non poterne fare a meno per star bene.

Il grande potere della musica.

Il loro grande potere.

Claudia Venuti

Tarantino: l’arte di essere semplicemente sé stessi.

“Ciao Claudia sono Francesco Tarantino e il 5 marzo uscirà il mio primo singolo Una vita al var…”

Ecco come ho conosciuto Tarantino e la sua musica, era febbraio e mancavano pochi giorni all’uscita del suo primo singolo.

Da quel messaggio sono passati alcuni mesi e nel frattempo i singoli di questo giovane cantautore sono diventati due, visto che è da poco uscito Aurora con un bellissimo video (scritto e diretto dallo straordinario Duilio Scalici) che ha superato le 40.000 visualizzazioni in pochi giorni e che consiglio di guardare perché è un ottimo modo per dimenticare un attimo il modo in cui viviamo l’amore da adulti e tornare a vivere i sentimenti con quella spensieratezza infantile che crescendo abbandoniamo quasi automaticamente per fare spazio al calcolo dei rischi tentando di soffrire il meno possibile. Come se l’amore si basasse sulla matematica o la razionalità!

Nascono nuove canzoni ogni giorno e ogni giorno qualcuno decide di mettersi in gioco e tentare la strada della musica, poi c’è chi invece quella strada la percorre sin da quando era bambino perché con certe passioni probabilmente ci nasci, ma bisogna essere comunque bravi a tenerle vive e a non lasciare che la difficoltà e tutti gli ostacoli possibili lungo il cammino vadano ad intralciare un sogno, che per Tarantino è solo uno: fare musica, la sua musica.

Studio, sacrificio e dedizione ma soprattutto amore per quello che fa e per il modo in cui lo fa, rendono questo ragazzo uno degli emergenti di spicco dell’attuale scena musicale italiana. Lontano da ogni tipo di omologazione, Tarantino è semplicemente sé stesso ed è questa la sua chiave vincente.

Non c’è nessuno distacco tra la sua persona e il suo “personaggio”, non c’è un nome d’arte perché in realtà il suo nome racchiude tutto ciò che è, e non c’è nessun confine tra quello che sente e che poi decide di condividere attraverso le sue canzoni.

Non ha bisogno di inventare e inventarsi nulla. Oggi facciamo un salto a Palermo per conoscerlo meglio…

 

Tarantino: da chitarrista a compositore, da occupare un posto ai lati di un palco ad essere al centro della scena, da suonare a scrivere, qual è stato il momento in cui hai pensato di dare vita ad un tuo progetto personale?

Non ho mai avuto questo pensiero ero in un momento musicale della mia vita poco produttivo non suonavo con nessuno, il tutto è nato probabilmente per esigenza curativa, è stato un tentativo di auto salvataggio inconsapevole; non sapendo come reagire ad un determinato momento della vita, ho utilizzato la scrittura come sfogo personale. Ho iniziato buttando giù tutto quello che mi passava per la testa senza mai rileggere con attenzione quello che scrivevo come se non volessi guardare indietro; con il passare del tempo rileggevo e prendevo sempre più consapevolezza di non stare bene con me stesso. Allora decisi di prendere la chitarra e provare a cantare quelle frasi totalmente sconnesse tra loro che mi fecero ridere non poco, cosa che mi mancava da un po’…il foglio bianco mi ha fatto da compagna e mi ha tenuto lontano dalla persona di cui avrei avuto paura, guardandola allo specchio. Non mi sono mai soffermato a pensare come nasce una canzone (davvero) forse perché in parte può essere doloroso scoprire i punti deboli; con il tempo (poco tempo) la scrittura cambiava perché io cambiavo, a quel punto iniziai a prenderci gusto.

 

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Una vita al var” è stato il tuo singolo d’esordio e nel video ci sei anche tu nelle vesti di attore, il che fa pensare che tu sia una persona capace di mettersi in gioco in tutti i sensi, c’è un momento che ricordi particolarmente legato non solo alle riprese ma a tutta l’esperienza pre e post produzione del brano?

Nelle vesti di attore è stato in realtà proprio il “non recitare nessuna parte” che mi è venuto molto spontaneo, alla fine non ho fatto altro che esternare ciò che succede dentro le mura di casa e dentro la mia testa. Il momento più bello è stato a ridosso dell’uscita del primo singolo…tanta confusione mista a gioia ed ansia, insomma un altalena costante di pugni nello stomaco, sapevo che stavo per fare finalmente qualcosa che mi apparteneva ed esserci riuscito è tutt’ora una bellissima novità, di quelle novità di cui non bisogna mai abituarsi.

 

Dal tuo primo singolo al secondo appena uscito “Aurora” c’è una netta differenza per quanto riguarda i testi delle due canzoni. Con Aurora scopriamo un altro Tarantino, una sorta di versione “romantica” dettata da quel sentimento intorno al quale ruota praticamente tutto… l’amore. Com’è nata Aurora e com’è stato mettere nero su bianco pensieri così intimi?

Aurora è nata poco prima delle luci dell’alba in una delle notti passate a fumare e pensare a tutto tranne che trovare il modo di far riposare la mia testa, mi trovavo in un luogo per me molto intimo della Sicilia orientale vicino Modica, ricordo che non le prime “luci del mattino” (titolo che avevo inizialmente scelto) maturò dentro qualcosa; amare è una delle sfide più belle che possiamo avere ma accettarla non è ugualmente facile, ritornare bambini con l’innocenza negli occhi ed il cuore libero anche solo per qualche ora durante la giornata sia una magia che va sempre ricercata per poter amare anche se stessi. Era la prima volta che scrivevo un brano così intimo e sinceramente non pensavo di riuscirci, è stato come darsi uno schiaffo in faccia infatti non ero proprio felice mentre la scrivevo ma probabilmente mi ha aiutato a capire meglio cosa ho dentro e cosa mi manca.

 

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Stai lavorando all’uscita del tuo primo disco, ti immaginavi così a trent’anni o avevi altre aspirazioni/sogni da bambino?

Ho sempre rincorso la musica e lavorato facendo qualsiasi tipo di lavoro per alimentare e portare avanti questa passione che sin da piccolo avevo; a tre anni mi trovarono davanti la cassa dello stereo (alta quanto me allora) a tenere il tempo con il piede su un brano di Zucchero “Solo e una sana consapevole libidine, salva il giovane dallo stress e dall’azione cattolica”; uno dei sogni più vivi che avevo da piccolo legati all’amore verso la storia e il mondo degli Egizi era poter diventare Archeologo, amavo inventare storie avventurose e andare alla scoperta di qualcosa che ancora fosse sepolta.

 

Ultima domanda a proposito di sognare in grande, su quale palco ti piacerebbe suonare?

Devo dirti la verità, non ho mai pensato su quale palco mi piacerebbe trovarmi, ma tra il mio batterista e suo papà tempo fa nacque una sorta di scommessa: “Se riuscite a suonare a San Siro giuro che vengo a montare e smontare il palco”…adesso io non garantisco la stabilità dell’impianto nel caso accadesse, ma ci proveremo soltanto per vincere la scommessa.

 

Ognuno di noi possiede un dono e quello di Tarantino risiede semplicemente tra le pagine bianche che prendono vita attraverso la sua penna e la capacità di creare musica in maniera del tutto genuina e pura, tanto da arrivare in maniera delicata ma allo stesso tempo prepotente al cuore di chi ascolta.

E arrivare al cuore di chi ascolta non è da tutti, ma lui riesce benissimo.

Claudia Venuti

End of A Century: ce ne parlano Raffaele e Alessandro

Dal 2017 VEZ Magazine occupa il proprio posticino online.

E da quella data ho iniziato a leggere sempre più attentamente le webzine e qualsiasi tipo di magazine ci fosse online.

La qualità del lavoro in molti casi è davvero alta ed avendo collaborato con molte di queste durante il mio lavoro di Ufficio Stampa ho notato anche una grande professionalità.

Per questo motivo noi di VEZ abbiamo deciso di dare a questi magazine un giusto spazio sulle nostre pagine, per raccontarsi e farci sentire ancora più partecipi di questo meraviglioso mondo che è la musica.

Oggi abbiamo incontrato Raffaele Rossi e Alessandro Gennari che ci hanno aperto le porte del bellissimo End of A Century.

Buona lettura!

 

1) Quando avete fondato End of a Century e da che idea è nata?

End of a Century è nato nel 2013, prima su piattaforma free e poi dal 2017 con un proprio dominio e un sito strutturato. Il nome è ispirato a una canzone dei Blur, “End of a Century” appunto – per la mia grande passione verso il Britpop e in particolare per Damon Albarn e Graham Coxon. L’idea iniziale era quella di far arrivare le nuove sonorità di USA e UK al pubblico italiano (rimane ancora oggi il focus di EOAC), come fanno webzine più settoriali come Indie For Bunnies oppure Indie-Rock.it. Poi ho deciso di ampliare il target trattando anche musica italiana e altri generi come metal, elettronica e rock in generale (ma anche rap e trap) riuscendo così a coinvolgere alcuni amici appassionati di musica.

 

2) In quanti siete nello Staff e da quale realtà provenite? Nel senso, qual è il vostro lavoro?

Nello staff ci sono io, Raffaele, che sono editore e redattore: gestisco le mail, i rapporti con il pubblico e con i promoter, curo i social, gli articoli e mi dedico alla musica live. Decido tutto ciò che va sopra End of a Century. Dopo aver lavorato tra uffici stampa e altre situazioni extra musicali, ho intrapreso per passione questo percorso che ormai è diventato il mio lavoro stabile. Alessandro dirige Pianeta Scherma e lavora in ambito giornalistico sportivo; Michele è un appassionato di musica italiana e lavora stabilmente in redazioni sportive; Edoardo commenta la Superbike su Sky e adora la musica pesante; Gianluca è doppiatore e bartender, grande esperto di sonorità oltreoceano; Renato è l’unico vero giornalista tra noi, milanista e di stanza ad Amsterdam per lavoro. Eccoci!

 

 

 

 

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3) Quali sono le cose che EOAC ti ha “regalato” in termini di  soddisfazione e gratificazione? Puoi raccontarmi qualche evento o  qualche grande opportunità che vi è stata proposta o qualche realtà alla  quale avete partecipato?

Parliamo di un evento fresco, quest’anno siamo finiti nel backstage del Concertone del Primo Maggio a Roma, il più grande evento gratuito d’Europa. Emozione tanta ma ancor di più la curiosità. Ci siamo mischiati così ai professionisti, quelli veri. Sempre quest’anno siamo media partner di due importanti festival, uno del nord e uno del sud Italia: il Sexto ‘Nplugged a Sesto Al Reghena, in Friuli (con un cast internazionale: Billy Corgan, Sharon Van Etten, Michael Kiwanuka e Ex:Re) e il Mish Mash in Sicilia con un cast completamente italiano (Nada, Pinguini Tattici Nucleari, Eugenio In Via Di Gioia, Nitro). Direi non male dai. La gratificazione arriva ogni giorno che un ufficio stampa o un promoter ci nota, ci ringrazia e ci dà fiducia con un accredito, vuol dire che stiamo facendo bene il nostro lavoro ma la strada da percorrere è sempre lunghissima!

 

4) Da quando siete “su piazza” ci sono degli aneddoti divertenti che vi  sono successi? Se è si quali?

Un aneddoto divertente ricorrente rimane sempre quello di fare lo spelling del nome del sito ogni qual volta siamo a conferenze o presenziamo a concerti – End of a Century non è proprio un nome facilmente orecchiabile come Rolling Stone o Rockol. Molte volte arrivano messaggi privati sui social tipo “fate suonare questo brano a questo artista” e questa cosa ci fa sorridere e ci ricordiamo che alla fine questo lavoro si fa per il pubblico molte volte lasciato spaesato dai silenzi dei promoter.

 

5) Ci sono invece stati momenti un pochino bui durante questa attività?

Ci sono sempre momenti bui, dei periodi in cui sembra che nulla vada bene tra visite, pubblico e richieste non accettate. Poi passano e si risale pian piano. È anche il brivido di questo lavoro, fatto costantemente di alti e bassi. Poi ti ricordi che stai facendo tutto questo unicamente per la musica e vai avanti.

 

6) Com’è il rapporto con i tuoi colleghi giornalisti, con le webzine e  le testate?

Tranquillo e di stima, leggo tantissime webzine perché mi piacciono i vari approfondimenti che ognuno dei giornalisti e appassionati riesce a dare a uno specifico argomento. Penso che in ogni ambito, in particolare in quello musicale, ci sia sempre da imparare. Non è facile lavorare nella musica e ogni giorno bisogna andare a cercarsi la notizia, è un mondo molto molto settoriale, un po’ stantio e va aiutato come meglio si riesce.

 

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7) Che cosa ti auguri per il futuro?

Mi auguro che End of a Century diventi un punto di riferimento per chiunque si avvicini per la prima volta alla musica. Spero possa crescere ogni giorno di più e negli anni diventare un colosso senza mai perdere il brio e la voglia di far conoscere nuove sonorità al pubblico. Mi auguro nuove partnership per gli anni a venire per concerti e festival e che il nostro lavoro venga sempre più riconosciuto e valorizzato nella enorme giungla del web.

 

Testo: Sara Alice Ceccarelli

Foto: Silvia Consiglio

Non fate mai riflettere i Fast Animals and Slow Kids

<< Non era una di quelle persone di cui ti chiedi se è felice, quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c’entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto non contava >>

Novecento, Alessandro Baricco

Questa è un’intervista a cui tengo in modo particolare. I Fast Animals and Slow Kids sono una band che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere più approfonditamente un paio di anni fa, attraverso i loro dischi e qualche domanda che feci ad Aimone, Alessandro, Jacopo e Alessio durante il tour di Forse non è la felicità. È stato bello incontrarli, di nuovo, oggi, poco dopo la pubblicazione del loro quarto album, Animali notturni, uscito lo scorso 10 maggio. Tante curiosità ed esperienze da raccontare. Trasformazioni, come quelle che scorrono e si susseguono in Novecento, traccia che chiude il disco. Un numero che ho ricollegato, oltre al secolo, al libro omonimo di Alessandro Baricco, incentrato proprio sul profondo legame tra uomo e musica. Una ragione esistenziale, la luce inconfondibile che ho visto accendersi negli occhi di questi artisti. Li ringrazio, ancora una volta. E lascio che siano loro a dare il titolo alla nostra chiacchierata.

 

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Partiamo da Animali Notturni, il vostro ultimo album. Quali caratteristiche umane hanno questi animali? Chi sono?

Aimone: Si parla di Animali Notturni ma quello che intendiamo, chi intendiamo è la persona, l’uomo…e le caratteristiche umane principali sono due. Caratteristiche opposte ma che sono presenti, assieme, in ognuno di noi. Quindi capita che, nella stessa sera, puoi essere una persona estremamente superficiale, distaccato, che non riflette e non ragiona…anzi misragiona, cercando proprio di non utilizzare la testa e poco dopo…o il giorno dopo…una persona riflessiva, chiusa in se stessa e che non ferma mail il cervello. Alla base dell’album c’è questa idea dualistica dell’animale notturno inteso come quello che esce la sera e si spacca a merda, non ricordandosi come sia fatto…e il totale contrario…cioè quello che si ricorda bene come è fatto e anzi non si piace, si chiede cosa sta sbagliando e che cosa può migliorare.

Sulla copertina appaiono insegne al neon, in contrasto con la notte. Quale edificio o locale potrebbero illuminare?

Aimone: Pensavamo più che altro agli hotel scrausi. Hotel che hanno caratterizzato dieci anni di concerti…da quando sono diventati hotel. All’inizio non c’era niente che avesse a che fare con un hotel o motel. Già il passaggio all’insegna è stata una tappa importante: scoprire che non fossero divani o furgoni. Al di là di questo, se c’è un immaginario a cui ricollegare le insegne è proprio quello della strada, del furgone, dell’unione rafforzata anche da queste esperienze. Esistono ormai poche band in Italia con un percorso così lungo di concerti. Sono un po’ animali estinti. Abbiamo intrapreso un cammino particolare che ci ha fatto sperimentare un contatto profondo con i chilometri, con posti assurdi, persi così tanto nel nulla che ti chiedi: << Siamo ancora in Italia? >>. Molta della nostra poetica è connessa ai chilometri, alcuni pezzi sono stati scritti in tour. E il nuovo disco è ampiamente influenzato dal driving rock americano. Quei pezzi che ascolti guidando lungo le strade deserte. Sei tu, la musica e il paesaggio intorno. E magari qualche insegna.

 

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Il disco ha un respiro più “aperto” rispetto ai precedenti…

Aimone: Più aperto significa “più pop”…? È il nuovo modo del 2019 per dire pop…? (ride)

No aspetta, mi spiego…Con “aperto”, intendo un disco in cui si contemplano addirittura le parole “cuore” e “amore”, impensabili nei precedenti. Ho notato, però, una tendenza a riscoprire un sentimento o una persona dopo averne sperimentato la perdita.

Aimone: Madonna! Sono pienamente d’accordo con te. Al 100%. Ma ci conoscevamo noi prima? (ride) Quindi posso farti una domanda io ora. Invertiamoci ti prego. Ok torniamo seri. È assolutamente così. Riguardo al discorso di aperto, chiuso…All’esterno è sembrata quasi una rivoluzione. In realtà, non è cambiato un cazzo. Abbiamo sempre continuato a raccontare la quotidianità, le nostre giornate. Il musicista non è solo musicista. È una persona e vive una sua emotività.

Alessio: Quotidianità ed emotività che cambiano per fortuna, di giorno in giorno!

Aimone: Esatto. Ci sono le due anime che dicevamo prima. Vissute, spezzate in mezzo, ma sicuramente autentiche. Proprio in funzione delle rivoluzioni che accadono in questi frangenti, abbiamo pensato di togliere ogni sorta di maschera, finzione…in senso buono. Abbiamo voluto che nella nostra musica fossero evidenti gli step degli ultimi anni. Lanciare la nostra vita nella nostra musica, come sempre. Dunque questo disco si è trovato a raccontare un nuovo mondo, anche lessicale, dialettico. E lo dici “cuore”, lo dici “amore”. Cazzo. Sono parole che utilizzi davvero. Tuttavia, nel momento in cui si va a creare “arte”, c’è sempre quella stupida, infondata paura di esprimersi, di essere male interpretati. Soprattutto oggi, con tutta la merda che gira…dici “cuore”, allora sei it pop. È un attimo che sei lì dentro…e tutti in crisi con questa cosa qua. Ma il modo peggiore per reagire a un contesto che non ti piace è autocensurarsi e mettersi nella posizione della non libertà. La nostra posizione è l’opposto. Anzi ci sentiamo ancora più liberi, ancora più puri. L’apertura è massima coscienza, ecco.

 

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E quali sono gli artisti che vi hanno maggiormente ispirato anche in questa concezione musicale. Il giorno dell’uscita dell’album, sulla foto che avete pubblicato, è apparsa una dedica ai Rem e Bruce Springsteen…

Aimone: Ecco, mi ricollego al discorso di poco fa. Uno può chiedere: << Quali sono le tue ispirazioni? >>. Risposta: << Rem e Bruce Springsteen >>. Allora, cazzo, fallo davvero! Suona in quel modo! Provaci! Con qualche anno di esperienza alle spalle, abbiamo anche imparato a conoscere il suono, a studiarlo, più scientificamente quasi… Abbiamo gli strumenti per avvicinarci a quello che sogniamo. Allora proviamoci. Per una volta, davvero. Artisticamente si tende sempre a fare un passo indietro. Ma perché? Chi dice che è troppo…Poi se non mi riesce, almeno ho tentato! È matematico, magari, che non ti riuscirà: sono i Rem e Bruce Springsteen…Do vai? Però tendi a quella cosa lì e ti impegni per avvicinarti il più possibile a quello che per te è il sogno musicale.

Alessandro: Soprattutto “Do vai?” è bellissimo, Aimo (ride).

La registrazione del disco a Milano è stata influenzata da questa ricerca sul suono? Vi è mancata la casa sul Lago Trasimeno che ha visto nascere i precedenti lavori?

La registrazione del disco a Milano è dipesa anche da una componente emozionale. Abbiamo scritto e registrato tre dischi nella stessa casa, nello stesso modo. Andarci una quarta volta avrebbe avuto senso? Oggi so benissimo come cucina Alessio. So benissimo come si riduce una casa tra persone che non puliscono mai. Ma abbiamo voluto cercare nuovi stimoli. Abbiamo fatto i musicisti per avere una vita incasinata, per essere sempre un po’ nella merda. Se ti crei un orticello e coltivi soltanto quello…prima o poi finisce la fiamma, finisce la voglia di arrivare e convincere qualcuno. E decadi. Questa è una cosa da evitare. Il musicista deve stare sull’orlo del baratro, sempre e comunque. Quindi ci siamo detti: << Ok ragazzi, ci piace fare dischi così? >>. << Si ci piace. Continueremo a pensare a quel posto come il posto della nostra vita…eppure…proviamo una cosa nuova! Usciamo! >>. Sullo stesso slancio, abbiamo provato cinque produttori e siamo finiti con Matteo Cantaluppi, il produttore dei Thegiornalisti ragà! Visto così può sembrare che essendo passati sotto Warner, la stessa Warner ha imposto il produttore.

Alessio: Invece no! Siamo arrivati da loro che avevamo già fatto tutte le scelte.

Aimone: Ammetto che, in termini comunicativi, abbiamo scatenato un po’ un casino con l’unione di FASK + WARNER + MATTEO CANTALUPPI. Che cazzo è successo? Cortocircuito completo.

Alessandro: La scelta fatta ha reso semplicemente giustizia alle canzoni, così come erano state pensate.

Aimone: Ecco, l’unico obiettivo che ci siamo prefissati è la realizzazione dei nostri brani così come ce li avevamo in testa. Tendere a una pulizia sonora messa in conto già durante la scrittura del disco. Come è sempre avvenuto poi negli anni… solo che, andando avanti, i cambiamenti di etichette o di riferimento non sempre vengono compresi e non sempre si ha il tempo di spiegarli (in realtà non ce ne frega nemmeno niente di spiegarli…). A prescindere da ciò… io dico sempre che i Fask sono un po’ anomali in questo periodo storico e uno dei motivi di questa anomalia è che son dieci anni che fanno come cazzo vogliono. E con questa base è difficile spostare degli artisti dal loro punto di vista. Noi continuiamo a comporre in quattro, come a diciassette anni, alle superiori. Quindi oggi, qualsiasi interlocutore con cui ci confrontiamo trova una band molto coesa, molto granitica sia a livello di pensiero che di composizione. Tutti i passaggi e i vari step sono delle scelte che imputiamo a noi stessi, essendo molto coscienti di quello che accade e di come lo stiamo facendo accadere. Secondo la nostra prospettiva, non è cambiato mai nulla: andiamo a registrare nella maniera con cui vogliamo registrarlo, provando tanti suoni, ottenendo quello migliore e più vicino a quello che volevamo. È un processo lineare, dritto e in funzione dell’aspetto più importante: la musica.

 

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Mi ricollego alla musica… anche la musica è un po’ un animale notturno? Si sottolinea sempre un sentimento dicotomico di amore e odio rispetto ad essa. Vedi canzoni come Odio suonare o le “note che non sopporto più” di Un’altra ancora

Aimone: La musica rovina…. Aspetta, come la imposto questa. Allora… abbiamo trovato una via per definire noi stessi come persone, per sentirci meglio, per dare una risposta ai problemi esistenziali…e per crearcene una valanga dietro. La musica è qualcosa che ti prende come uno tsunami…e prende insieme a te tutto quello che hai intorno. Noi siamo diventati musica, parte di ferro del nostro furgone. In questo processo, viene coinvolto chiunque sia accanto a noi. Le relazioni, le amicizie, gli amori sono completamente devastati dallo tsunami musicale che ci ha mangiato dentro. Quindi, alcune mattine, ti alzi e pensi: << Stiamo sbagliando qualcosa? C’è davvero solo la musica e un concerto è più importante della tua stessa salute? >>. La risposta gira sempre attorno al fatto che la soddisfazione che ti dà la musica non arriverà mai da nient’altro…ma allo stesso tempo è impossibile non percepire l’energia che prosciuga. Nella musica dai te stesso, ti stai spiegando e stai anche cercando di convincere gli altri con le tue opinioni. È più vicino alla politica… un politico fallito che vuole trovare il suo spazio nel mondo…e urla e parla e canta e sgomita… C’è un sottofondo drammatico, ecco. E non molto normale…perché non è normale che un essere umano si metta lì a suonare, a farsi vedere, a farsi notare…. non è normale! C’è qualcosa che non funziona (ride). Per me, ogni concerto, è un po’ come chiedere a una ragazza: << Ti vuoi mettere con me? >>. Metti in campo tutto te stesso.

In Hybris cantavate Combattere per l’incertezza, in Alaska vi chiedevate Come reagire al presente, ora a chiudere il disco c’è Novecento con il suo sguardo fiducioso e con il suo brindisi al futuro. Quali sono state le tappe di questo cammino? O è stata più una svolta?

Aimone: Io credo che sia più una speranza, ragazzi (ride). Ci ho provato dai. Lasciatemi stare, fatemi sperare. Riflettiamo così tanto sulle nostre esistenze che forse, a un certo punto, anche una botta di ottimismo ci vuole. Quella canzone parla di cambiamenti coscienziosi, basati su una serie di ragionamenti precedenti. Non stravolgimenti. Trasformazioni in base all’età. Io ho trentuno anni…Ognuno di noi sta vivendo un passaggio da una vita musicale ad un’altra, dall’incoscienza alla coscienza di suonare solo per suonare. Sapere che non c’è futuro in questo, è una via senza futuro. Mia nonna diceva: << Se la cima è aguzza, il culo non ce lo posi >>. Io ci credo. Quindi, quel brano è un’esortazione a non vedere tutto questo come un qualcosa che svanirà e basta…ma come un arricchimento che porterà a un altro passaggio, a nuove fasi, diverse ma non per forza negative. Il brindisi al futuro è davvero un invito a continuare così, perché in termini emotivi stiamo facendo la cosa giusta, stiamo assecondando noi stessi e stiamo esaudendo il sogno che avevamo da bambini. Quella frase tipo: << Voglio fare l’astronauta >>. E poi lo fai.

Ultima domanda. Ad oggi, qual è il demone che vi fa più compagnia e qual è il demone che vi spaventa di più?

Aimone: Ah questa è personale…iniziate voi dai…

Alessio: Il demone del fallimento credo…

Aimone: Ma che demone è… quello lo devi accogliere…io ho già una stanza preparata per quello (ride)! Io, ad esempio, ho paura del demone di diventare un essere senz’anima. Di iniziare a vivere la musica come un lavoro, lontana da me stesso. Vale lo stesso per i rapporti…viverli in funzione di… di una posizione sociale, del potere, dei soldi. Questa è una paura che ho da sempre, di perdere l’umanità. Il mio vero demone è il timore di diventare io il demone senza cuore.

Alessio: Wow! Questa è pesante… Il demone Aimone!

Aimone: Ho una band scema!

Jacopo: L’altro giorno, mentre portavo mia figlia all’asilo, ho pensato alla morte. Mi è balenato in testa: << Se oggi morissi, mia figlia non mi ricorderebbe >>. La persona più importante della mia vita, non mi ricorderebbe. Questo mi fa davvero paura.

Aimone: La chiusura del cerchio con la morte. Evviva! Queste sono le riflessioni della nostra band. E la morale è: << NON FATE MAI RIFLETTERE I FASK >>. Deve essere questo il titolo dell’intervista. Più domande sul perché ci chiamiamo così. Per quanto riguarda le domande esistenziali…Beh lì, apri una porta verso l’inferno.

 

Intervista a cura di Laura Faccenda

Foto: Luca Ortolani

 

Grazie a Ma9 Promotion

 

 

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Quei “Malati d’amore” dei Kaufman

Ho una playlist su Spotify che s’intitola: “AMO.” e tra gli artisti che seguo ci sono senza dubbio loro: i Kaufman, una band bresciana formata da Lorenzo Lombardi (penna e voce del gruppo) Alessandro Micheli, Matteo Cozza e Simone Gelmini.

Dopo il loro disco Belmondo uscito due anni fa per l’etichetta torinese INRI, hanno continuato a creare musica con l’uscita di diversi singoli tra il 2018 e il 2019, compreso Malati d’amore che ha visto la collaborazione della band con Galeffi, fino all’ultima uscita di pochi giorni fa Alain Delon, una canzone che mostra ancora una volta la straordinaria capacità che hanno questi ragazzi di portare con la loro musica buon umore e leggerezza, senza nessun tipo di superficialità.

Dei Kaufman amo principalmente due cose: il modo che Lorenzo ha di raccontare spezzoni di vita quotidiana alternando un po’ quell’eterna malinconia o vena nostalgica (che tendenzialmente appartiene ai romantici/ iper-sensibili) a quella sana strafottenza nel mostrarsi per ciò che si è senza nessuna paura, soprattutto quando si tratta di descrivere stati d’animo legati ai sentimenti e in questo Lorenzo viaggia con la giusta dose di ironia e allo stesso tempo con la giusta attenzione per tutti quei piccoli dettagli a cui nessuno fa quasi più caso.

Tendiamo a dimenticare le famose “piccole cose” quelle che lui fa venir voglia di tornare a ricercare e vivere, senza pensare che siano gesti o appunto cose banali. L’altra cosa che amo dei Kaufman è legata alla sensazione di totale serenità che sono in grado di trasmettere, riuscendo a rendere piacevole un verso ipoteticamente sofferto e trasformando anche le cose apparentemente negative in cose positive.

Credo che il segreto sia proprio legato all’emergere con un linguaggio semplice, senza veli e troppi ghirigori.

Era già da un po’ di tempo che volevo intervistarli ed eccoci qui, finalmente.

 

Prima di arrivare ad oggi, vorrei iniziare tornando alle origini, al giorno in cui è nata la band e all’originalità indiscussa del nome, è stato semplice unirvi, arrivare alla formazione definitiva e scegliere il nome dare al vostro progetto?

Guarda, il nome in se è datato perché lo usavo come mio pseudonimo fin da adolescente, quindi ci sono alcuni progetti con quel nome che poco hanno a che vedere con la band attuale. I Kaufman intesi come band con un carattere proprio sono nati di fatto con Belmondo, cioè prima di Belmondo, nella lavorazione di quel disco e la formazione è fissa. Unirci è stato molto semplice. Io credo che siamo persone molto compatibili nel carattere e nel contributo artistico e quindi con un equilibrio decisamente stabile. Il nome , come ti dicevo, è precedente ed è un tributo ad Andy Kaufman di cui abbiamo parlato più volte, il film Man on the Moon, Jim Carrey eccetera. Poi un nome spesso non nasce dopo molte riflessioni, anzi. Emolte volte frutto di incoscienza e di un suono. Il suono è importantissimo. Qui di solito tiro una pezza sul valore del suono usando come esempio The catcher in the rye e che suono meraviglioso abbia nella lingua americana però stavolta ti risparmio.

 

In un panorama musicale come quello attuale, i vostri singoli hanno un denominatore comune: entrano immediatamente nell’ormai famosa vetrina di Spotify dedicata alla musica Indie, quant’è stato difficile farsi “spazio” all’interno di quella stessa vetrina? Qual è secondo voi il vostro punto di forza?

Io credo che le playlist di cui parli abbiano in qualche modo codificato una scena musicale che stava esplodendo che, come ogni scena musicale, presenta differenze dovute alle varie individualità artistiche ed elementi comuni, tematiche simili, approcci alla vita simili, tecniche di arrangiamento confrontabili. Noi ci siamo trovati ad essere quella roba lì, senza tanti calcoli, ad avere un linguaggio che interpreta un momento storico e di luogo. Poi il resto credo sia semplicemente il pop, la canzone. E io ho sempre adorato la canzone. Mi piacerebbe scrivere la Grande Canzone Italiana.

 

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Lorenzo e la sua penna. Ti definisci un “ipercitazionista”, quale citazione famosa avresti voluto scrivere? Se dovessi scegliere invece una tua citazione significativa per te, quale sceglieresti? Scrivi da sempre, dall’età adolescenziale, cosa rappresentava per te la scrittura a 15 anni e cosa significa adesso che hai superato i 30? Hai mai avuto paura di risultare banale o non compreso?

Il senso del citazionismo è lattitudine postmoderna di raccontare cose personali usando un linguaggio codificato da una cultura comune, pop. Ecome il Mister Tamburino di Battiato per capirci. O come la Marylin di Warhol. Oppure pensa a questo artista, non so se lo conosci, Mimmo Rotella. Le sue opere darte sono manifesti del cinema strappati”.Io ho la fortuna di averne uno grazie al regalo di un caro amico. Ecco, utilizza qualcosa di esistente, che ha un mondo suo, tipo una vecchia locandina di cinema e , attraverso un processo creativo, la fa diventare qualcosa daltro. Però poi intendiamoci, le mie canzoni non sono tutte così. Ci sono episodi. Tutto qui. Ci sono infinite citazioni anche solo nel mondo della musica, c’è da imparare dai grandissimi. Se invece vuoi saperne una che mi è cara ti direi: Dimmi come si fa a rispettare le regole

A 15 scrivevo si, ma scrivevo cose bruttissime. Scrivere oggi è impegnativo. Ma non mi pongo il problema dellascoltatore, altrimenti sarebbe un delirio, ogni persona ha idee contrarie a un’altra. Devo esserne soddisfatto io. Così si è autentici. Se poi il risultato riesce a interpretare limmaginario degli altri allora hai fatto centro.

 

Il vostro ultimo singolo “Alain Delon” è uscito il 7 giugno e a proposito di citazioni, c’è una frase che credo rispecchi e fotografi alla perfezione la società attuale: “C’è chi per apparire cita Schopenhauer” ed effettivamente è così, le persone sembrano distaccarsi sempre di più dall’essere ciò che sono per adeguarsi a standard di massa. Nella musica quant’è difficile rimanere su una propria linea? Essere e rimanere autentici in ciò che si fa…

Eh ma è lunica via. Lo so che è banale dirlo. Ma ogni artista dovrebbe creare per sé. Il che non significa non conoscere la contemporaneità, anzi. Ascoltare musica è lunico modo per comporre musica un po come scrivere un libro no? Lo puoi fare solo se leggi. Ma poi una personalità artistica analizza, rielabora, sceglie. A volte perfino dimentica. E poi cammina da solo.

 

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Quali novità arriveranno da qui al prossimo autunno? Cosa dobbiamo aspettarci dai Kaufman?

A metà Ottobre uscirà il disco nuovo, ci stiamo lavorando intensamente. E da lì il tour e tutto il resto. Io non vedo già lora.

 

Non ci resta che aspettare l’arrivo dell’autunno e non solo perché le cose belle si fanno sempre attendere un po’, ma perché conoscendo chi le “anima” sai già quanto possano essere soprattutto vere.

E poi con la musica dei Kaufman sembra sempre estate.

Claudia Venuti

 

Jaspers, quelli che…

“UN INCONTRO CASUALE DI SEI MOLECOLE CHE SCONTRANDOSI CREANO REAZIONI STRANE E INASPETATTE”

I Jaspers non sono solo la band ufficiale del programma sportivo di Rai 2 “QUELLI CHE IL CALCIO” ma sono sei ragazzi che si sono conosciuti per caso, erano tutti studenti del CPM MUSIC INSTITUTE di Milano dove un po’ per gioco e un po’per scherzo hanno iniziato a provare, fino a scegliersi reciprocamente e definirsi come i più pazzi della scuola.

Non a caso hanno scelto questo nome, un chiaro omaggio al filosofo e psichiatra Karl Theodor Jaspers: “quale nome se non quello di uno psichiatra per descrivere, rappresentare dei pazzi?” hanno confessato a Vez Magazine.

“Solo insieme possiamo raggiungere ciò che ciascuno di noi cerca di raggiungere” (Karl Theodor Jaspers)

 

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La band nata 10 anni fa, nel 2009 è composta da Fabrizio Bertoli (voce), Giuseppe Zito (voce), Erik Donatini (basso), Eros Pistoia (chitarra), Francesco Sgarbi (tastiere) e Joere Olivo (batteria).

Sin dal loro primo live ognuno di loro è salito sul palco con un proprio alter ego e un diverso costume di scena. Così è nato anche il loro primo album “Mondocomio”, un concept album incentrato sulla pazzia e la malattia mentale che affligge i nostri giorni.

Ora, sette anni dopo il loro debutto discografico avvenuto nel 2012 sono tornati con un nuovo album “non ce ne frega niente” che è anche il titolo dell’omonimo primo singolo estratto.

Si tratta di undici brani che ripercorrono insieme un viaggio, e rappresentano per la band un punto di arrivo definitivo da una parte, di partenza dall’altra. Un album che contiene la vera essenza dei Jaspers, la loro identità, l’essere eclettici e soprattutto uscire fuori dagli schemi come solo loro sanno fare. Un album in cui si nota la crescita e la maturazione artistica accompagnato dalla voglia e la continua ricerca di innovazione.

Il singolo omonimo “non ce ne frega niente” rappresenta il perfetto lancio per l’album. Uscito lo scorso tre maggio, è un brano pop/rock che descrive la nostra società così frenetica, distratta e indifferente. Menefreghista appunto.

Uno spaccato delle generazioni più giovani e non solo che ormai vive la propria vita attraverso un telefono e i social. Siamo sempre più avatar di noi stessi, ci nascondiamo dietro il nostro ego, sempre più privi di emozioni, sentimenti ed empatia nei confronti di chi abbiamo di fronte e questo crea inevitabilmente dei problemi per e con la collettività.

Come ci ha raccontato Giuseppe quel “non ce ne frega niente” diventa un vero e proprio motto.  Autentico come la volontà di andare verso nuove strade, percorrere un nuovo viaggio magari anche rischiando e dall’altra è la vera, reale fotografia di un comportamento sempre più attuale.

Album e singolo vogliono strizzare provocatoriamente l’occhio verso una sempre più presente indifferenza generale di questi tempi così moderni ma anche così bui dove si è (purtroppo) più interessati ai like e al mondo virtuale che alla quotidianità concreta e reale.

Un album che è frutto di collaborazioni importanti tra i Jaspers e un super team di quattro produttori: Cass Lewis  (Skunk Anansie), Diego Maggi (Elio e Le Storie Tese), Larsen Premoli (Destrage, Jarvis) e Jason Rooney (Negramaro)

Non a caso la prima e l’ultima canzone della track list dell’album rimandano e riassumono questo viaggio di formazione della band: “L’Happiness” è un brano ricco di simpatia, ironia ed energia positiva che sarà anche il prossimo singolo ad essere estratto dall’album.  Scritto da Franco Mussida (PFM) trova il featuring con Paolo e Luca conduttori di “quelli che il calcio” dove i Jaspers sono resident band dal 2017. Mentre si conclude con una versione alternativa e inedita di “palla di neve” , precedentemente eseguita solo dal vivo e che da due anni a questa parte è la sigla finale sempre del programma di Rai 2.

Cosi le sfumature e le molte facce di questa band molto versatile si riversano tutte in questo album, un disco divertente e sempre vivo. Un album in cui anche la scelta compositiva è stata cangiante, proprio come i cambi di abiti di scena quando si esibiscono live e che rispecchia il perfetto stile Jaspers.

Infine, a proposito di progetti futuri ci hanno rivelato che la loro intenzione è quella di continuare a scrivere brani, fare tour in modo tale da portare la loro musica a più persone possibili, magari negli stadi. Ci stanno lavorando, intanto le date che li vedranno protagonisti questa estate le trovate sul loro sito www.jaspersofficial.com

Originali, camaleontici e riflessivi, you rock Jaspers!

Ivana Stjepanovic

 

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ALBUM TRACK LIST

L’HAPPINESS feat. Luca & Paolo

Mr. MELODY

IN FONDO AL MAR

MASTICA

IL CIELO IN UNA STANZA

TONALITà

NON CE NE FREGA NIENTE

VODKA E NOCCIOLINE

MILIONI DI STELLE

ECLISSI DI SOLE

PALLA DI NEVE – EXTENDED VERSION LIVE

 

 

La resistenza dei Doormen tra chitarre, vinili e live

Incontro Vins all’ingresso del Moog locale, un po’ speakeasy e un po’ salotto bohémien, nascosto in un vicoletto in centro a Ravenna. Gli altri Doormen, Luca “Mala”  e Andrea “Allo” sono già dentro, con la loro birra in mano.

Tommaso non riesce ad esserci: è bloccato a Bologna, “ma si fida di noi” aggiunge subito Luca. Per non essere da meno prendo la mia birra anch’io e andiamo nella sala al piano di sopra, con le fotografie alle pareti e i divani in velluto, per la nostra intervista. 

I Doormen sono una band di Ravenna che ormai da dieci anni si muove, con grande consenso di pubblico e critica, sulla scena rock alternativa.

Qualche mese fa è uscito il loro ultimo disco, Plastic Breakfast, un album che rispetto ai precedenti segna il ritorno ad un suono più ruvido: tante chitarre e pochi effettini. Tutto quello che manca alla musica italiana degli ultimi anni.

La prendiamo larga: come descrivereste la vostra musica a chi non vi conosce?

Luca: La nostra musica è il risultato del nostro background, quello di ognuno di noi. In questo disco in particolare, rispetto agli altri lavori, c’è veramente il contributo di tutti. 

È un disco fatto a quattro mani e quattro teste. Non a caso ci abbiamo messo quasi tre anni prima di farlo uscire. 

In passato eravamo sempre io e Vins a comporre. Io scrivevo i riff e lui i testi e le linee vocali, poi univamo le cose. Stavolta ognuno di noi ha detto la sua.

È il primo disco da band. Tanto è vero che ci sono stati anche dei momenti di scontro: “questo mi piace, questo non mi piace”, ma ce l’abbiamo fatta. Anche se la maggior parte delle persone lo ascolta su Spotify.

È una cosa che vi dà un po’ fastidio, questa di Spotify.

L.: Sì, un po’ sì. (ride, ndr). Questa volta abbiamo deciso di fare solo il vinile, che è una cosa da appassionati. Sai perché mi sta sul cazzo Spotify? Perché se lo ascolti lì sopra ha un suono bello, ma se lo ascolti su disco è diverso: è meglio, ha un’altra grana.

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Raccontatemi un po’ di voi, quando nascono i Doormen?

L.: I Doormen hanno avuto due fasi, nel 2009 e nel 2015, quando abbiamo cambiato la sessione ritmica e sono entrati nella band Allo, cioè Andrea, e Tommy. I migliori sulla scena romagnola.

Quando ci sono questi cambi a volte il rischio è di trattarsi come turnisti, invece ci siamo presi bene, e abbiamo trovato la formazione definitiva.

Parlando dell’ultimo album, Plastic Breakfast, visto che prima avete accennato al fatto che ognuno di voi
ha portato il proprio universo musicale, ero curiosa di sapere quali sono stati i vostri ascolti durante la realizzazione e quali le vostre ispirazioni.

Vins: Per me senza dubbio i Nirvana. Perché in quei dischi lì, quelli belli, ci sono loro quattro. Qui ci siamo noi quattro. 

Che il riff sia gentile o incazzato, siamo noi. Non c’è stato un vero e proprio riferimento, ma sicuramente un’ispirazione.

Andrea: Dentro Plastic Breakfast c’è il nostro background, che arriva direttamente dagli anni Novanta. Lo sapevamo ma è stato ancora più evidente quando abbiamo iniziato a lavorare insieme sui pezzi. 

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Infatti, rispetto ad album precedenti il suono è più graffiante, più dritto. C’è meno synth, ci sono meno effetti. 

L.: Sì, infatti a questo proposito l’esempio dei Nirvana è calzante. Questo disco è stato suonato in presa diretta, come siamo noi dal vivo. Mi viene in mente In Utero, che è stato registrato in questo modo. 

Molti ci dicevano “avete dei bei pezzi, però dal vivo avete qualcosa in più”. 

V.: Ti riassumo tutto con una frase del fonico Filippo Strang, dello studio di registrazione di Frosinone, dove abbiamo realizzato il disco. In tutti i nostri lavori precedenti, una volta registrato il canovaccio, ci mettevamo il cimbalino, l’ovetto, la chitarra acustica e altri effetti.

Così, quando finiamo tutte le registrazioni di Plastic Breakfast salto su e faccio: “e l’acustica dove la mettiamo?”e Filippo “ao’, ma che stai a dì? Questo è un album maschio, non la mettiamo da nessuna parte”. E così è stato.

A.: Non ce l’eravamo detti all’inizio quello che volevamo fare, siamo partiti ed è venuto fuori questo. Avevamo voglia di fare delle cose belle grintose, probabilmente perché è quello che ci viene meglio. 

In questo disco ritorna la formula: chitarra-basso-batteria. Rispetto ai precedenti mi sembra più pensato per la dimensione del concerto. Avete pensato al live mentre lo facevate?

L.: E’ esattamente quello, è pensato per il live. Se senti il disco e vieni al nostro concerto suona esattamente così. Eravamo noi quattro, ci siamo chiusi in sala prove ed è venuta fuori questa cosa qua. 

A.: Volevamo portare il disco in concerto e riproporlo il più uguale possibile. Per questo sintetizzatori e suoni particolari li abbiamo esclusi a priori. 

L.: Nulla da recriminare rispetto ai dischi precedenti, che ci hanno permesso di fare tante cose importanti. Però, per fare un esempio, Abstract (RA) è stato un disco che abbiamo fatto io e Vins, orfani della sezione ritmica. L’abbiamo dovuto riarrangiare parecchio.

V.: Quello era un disco costruito in laboratorio.

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Chi non vi ha mai visti dal vivo cosa si deve aspettare da un vostro concerto?

L.: Poche chiacchiere sul palco. Parliamo zero, solo in qualche rara occasione sfociamo nel cabaret.

A.: Sicuramente è un live carico, dritto e diretto. C’è qualche rallentamento, come nel caso di Have You Ever, ma fondamentalmente è un concerto che arriva dritto in faccia. 

Have You Ever è il pezzo che calma il respiro all’interno di Plastic Breakfast che invece ha un ritmo molto serrato.

A.: Eravamo stanchi quel giorno (ride, ndr)

Ho visto che avete fatto delle date anche all’estero. Qual è la differenza rispetto ai concerti in Italia?

A.: L’attenzione.

L.: Il tour è stato una figata. Abbiamo suonato in uno dei locali di riferimento della scena underground parigina, ma anche europea, che è il Supersonic. Ci hanno suonato i Godzilla, solo per nominare una band.

Dopo quella abbiamo infilato altre date, una in particolare in un piccolo paesino che sembrava Twin Peaks, Ainey Le Chateau. Siamo arrivati e sai chi c’era? Nessuno.

V.: Un villaggio nelle campagne francesi, dove non c’era un’anima. 

L.: Il promoter del locale sembrava Mangiafuoco e mentre noi stavamo montando le attrezzature, ci fa “voi non vi preoccupate, alle sette e mezza sarà pieno”.

Non ci credevamo, ma aveva ragione lui: alle sette e mezza il locale era pieno. Poi è finita che al termine del concerto abbiamo cenato tutti insieme con chi era venuto a vederci. 

A.: In Francia hanno la cultura del concerto. La gente arriva e nessuno se ne va prima della fine. Aspettano che finisci e applaudono. In tutte le nostre date erano presi bene, partecipi. 

L.: In Italia non c’è quell’attenzione totale verso l’artista. Anche se Bologna e Milano, per esempio, sono due zone calde. Ci abbiamo fatto dei bei concerti e l’accoglienza è sempre grandiosa. 

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Mi avete già accennato qualcosa sul processo creativo. In questo album come è stato?

V.: Ognuno presentava qualcosa e ci si lavorava sopra insieme.

L.: Poi tutte le volte che io presentavo qualcosa o Vins presentava qualcosa, Tommy, arrivati alla fine del pezzo, ci diceva che non gli piaceva e dovevamo rifarlo tutto. Per questo ci abbiamo messo tre anni a farlo (ridono, ndr).

Ti racconto questo aneddoto: siamo andati a fare le post produzioni dal nostro amico Andrea Cola dei Sunday Morning, avevamo cinque pezzi finiti e li abbiamo registrati per capire cosa sarebbe venuto fuori. Quando li abbiamo riascoltati ci siamo detti: “ok, fanno cagare”. 

V.: Io quel giorno ero in spiaggia, ho ascoltato questi pezzi e ho mandato un messaggio nella chat: “ragazzi, io mollo”. 

L.: È stato utile fare post produzione per questo motivo, ci ha fatto capire dove intervenire. 

Ho visto che, sia nei video che nelle copertine, Ravenna è sempre presente. 

L.: E’ presentissima, sempre. Non è un caso che oggi siamo qua al Moog, che è casa nostra. Il video invece è stato realizzato da Matteo Pozzi (Action Man e Cacao). Ci ha fatto vedere una Ravenna interpretata alla sua maniera, alterata in varie forme e colori. Esiste, ma può essere diversa. 

V.: E’ un po’ il discorso del Professor Keating: tu vedi una cosa in un certo modo, ma se vai sulla cattedra la vedi in un’altra maniera. 

Come influenza Ravenna il modo in cui viene realizzato un vostro album? 

V.: La nebbia e il clima sicuramente incidono molto. 

L.: Alla fine se ci pensi Ravenna è una città fuori dalla via Emilia, è chiusa. Per la copertina del disco, a proposito di malinconia, abbiamo collaborato con Alessandro Garavini. Le foto sono state fatte nella Piallassa Piomboni, che è il cimitero delle navi russe. 

A.: Era quello che cercavamo e le sue foto ci sono piaciute subito. Davano l’idea di un disagio clamoroso. Che poi è quello che è Ravenna. 

L.: A Ravenna sono passati anche Lord Byron e Oscar Wilde. Quest’ultimo ci ha scritto sopra una poesia, così come Herman Hesse che descrisse Ravenna come una “città di rovine e di chiese”. C’era del disagio clamoroso anche allora.

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Ascoltando i vostri album precedenti ho percepito una certa coerenza, di lingua e di temi. Avete mai pensato di cambiare qualcosa, magari seguendo una tendenza, come cantare in italiano?

A.: Ci abbiamo provato e abbiamo capito che non era per noi. All’inizio, con il disco in inglese, abbiamo anche cercato qualcuno che ci producesse, ma ci segavano tutti: “Canti in inglese, cosa dobbiamo fare per te?”. 

V.: Per Plastic Breakfast avevo fatto un file registrato da me, chitarra e voce, con alcuni pezzi dell’album cantati in italiano, ma non eravamo noi. Non ci siamo nemmeno impazziti troppo sopra.

L.: Ci sarebbero voluti dieci anni per uscire con il disco. 

V.: Noi volevamo fare date all’estero, se canti in italiano all’estero non ci vai. 

L.: Una cosa influenzava l’altra. I live all’estero erano anche un modo per dare un senso al disco: “stronzi, l’avete fatto in inglese e adesso ci andate”. Infatti abbiamo prima fatto le date all’estero e poi in Italia. Adesso riprendiamo il tour 5 Giugno, qui a Gambellara.

Comunque a voi non interessava provare una strada diversa per guadagnare un pubblico più ampio. 

L.: Il nostro è un pubblico di colti e appassionati, che ascoltano quel genere lì. Poi, che lo faccia una band italiana o inglese, non importa. Se è fatto bene è contento e ti compra il disco.

V.: Negli anni Novanta, fino ai primi Duemila, era più facile trovare anche nel mainstream qualche pezzo che ti piaceva. Iris dei Goo Goo Dolls era mainstream ma era un bel pezzo.

Adesso non è più così. Negli anni Novanta i Nirvana te li mettevano ovunque, è vero c’erano anche le Destiny’s Child, ma si sentivano anche i Bush e tanto altro. 

A.: A me piacevano le Destiny’s Child! (ridono tutti, ndr)

V.: Adesso c’è solo quello. Se ascolti la radio non senti una chitarra per quattro ore. 

L.: Anche Noel Gallagher è uscito con un disco che ha la ‘drum machine e non ha le chitarre. Tutto oggi, soprattutto in Italia, è impostato sulla melodia, sul cantautorato. Che non c’entra niente con noi.

A.: Oggi nei dischi mainstream le chitarre stanno scomparendo. Resistono invece nell’underground. 

Come sono cambiati i vostri obiettivi negli ultimi dieci anni?

L.: Tutto è cambiato. I Doormen hanno sempre suonato tanto, soprattutto nei primi anni di attività.

Abbiamo fatto tante aperture a band grosse: Paul Weller, i Charlatans, i Vaselines. Abbiamo aperto ai Tre Allegri Ragazzi Morti, recentemente ai Preoccupations. Però allora c’era più giro, adesso si suona meno.

Quando siamo usciti con Plastic Breakfast ero molto scoraggiato, il disco era figo ma trovare date non era così facile. Poi è arrivata l’apertura ai Preoccupations, abbiamo iniziato a collaborare un’agenzia di booking (Hey Man Booking) e la situazione ha iniziato a muoversi ancora.

L’obiettivo oggi è di divertirsi e fare delle belle date live. Di band italiane che fanno cose in inglese ce ne sono poche, e quelle poche che ci sono – se sono in giro – è perché la gente vuole andarle a sentire. Tendenzialmente chi organizza concerti predilige la formula in italiano, ma forse quello non è nemmeno il nostro pubblico. 

V.: Dieci anni fa c’era più sogno. Oggi puoi sperare che succeda qualcosa, ma non lo fai per quello. Forse c’era più tensione, oggi c’è un po’ più “sbat’ e cazz“, ma abbiamo constatato che alla fine porta risultati migliori. 

Ultima domanda: che consiglio dareste ai voi stessi di dieci anni fa?

V.: Di spendere i soldi della cassa più in promozione che in fonici.

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Intervista di Daniela Fabbri.

Foto di Luca Ortolani.

Gli HANA-BI ci presentano lo spleen rock partenopeo.

E’ già la seconda occasione in cui mi capita di farmi sorprendere dal sound e dalle proposte musicali di una band partenopea.

Si parla di rock.

La prima volta, solo poco tempo fa, sono rimasta folgorata dalla assatanata performance dei The Devils, un duo trash rock ‘n roll: un’immagine dura e selvaggia, nonché parecchio profana, come piace a me. Gruppo spalla dei Mudhoney al concerto di Bologna al Locomotiv Club.

Ora invece sono qui per parlarvi degli Hana -Bi, il cui leader, Johnny Darko, voce e chitarra del gruppo, non con poche difficoltà, ha portato finalmente alla produzione e diffusione su diverse piattaforme mediatiche dei primi brani della band. Band che conta altri due protagonisti: Luca Fumo, bassista e Alex Denial, batterista.

Dico, “non con poca difficoltà”, perché portare quello che loro stessi hanno coniato come spleen rock, un genere di rock psichedelico, che mischia grunge, atmosfere dark e malinconiche non è facile.

Soprattutto in Italia, e questo tutti lo sanno. Quello di cui ci parlano, spiegandoci cosa sia per loro il rock, lo fanno raccontandoci le loro origini e di come per loro la musica non si può tanto classificare in un genere, ma in una sensazione che deve arrivare a chi la ascolta.

 

Partiamo, innanzitutto, dal nome della vostra band: HANA-BI significa “fiori di fuoco” come suggerisce il film giapponese del 1997 o ha tutt’altre origini? Esatto, è una di quelle poche volte che indovinano subito le origini del nome della band! Sono un cinefilo e dovevamo scegliere il nome della band, io proposi fra vari nomi fra cui questo e piacque subito agli altri perché aveva un qualcosa di esotico, ma celava un significato più profondo, i 2 kanji rappresentano 2 cose opposte, Il fiore, fragile, delicato, bello e il fuoco, distruttivo e pericoloso. Questi 2 opposti rispecchiano la nostra musica che ha lati più calmi, riflessivi, “fragili” per poi sfociare in momenti più duri e rabbiosi. Insieme i due simboli stanno a significare  “Fuochi d’artifcio”, il logo che rappresenta questi due simboli opposti, che ho anche tatuato sulla schiena.
Siete un trio di Napoli, giusto? Come vi siete conosciuti e, soprattutto, avevate tutti e tre le stesse influenze musicali o, per iniziare a comporre, avete ognuno “portato dentro” le proprie?

Sì Napoli e zone limitrofe. La line up attuale è nata dopo più di un anno di fermo, nel 2017. Ero alla ricerca di un nuovo bassista e batterista e bazzicavo locali dove si fanno jam e si conoscono musicisti. Mi sono ritrovato più di una volta a suonare con Luca, il bassista, tant’è che un giorno decisi di presentarmi e chiedergli di suonare negli Hana Bi ma inizialmente non accettò subito; poi un giorno mi chiese per curiosità di ascoltare i miei brani e decise di entrare a farne parte. Il batterista, Alex, era una conoscenza di Luca con cui suonava già in un altro gruppo e lo convinse in breve a completare la formazione degli Hana Bi. Tutti e tre adoriamo il rock, ma abbiamo un background molto diverso: il batterista ha influenze jazz e prog rock; il bassista ascoltava molto Nirvana, Placebo, Cure (che sono gruppi che piacciono anche a me). Io ne ho altre ancora: sicuramente la new wave/post punk con i Joy Division in primis poi I Cure e tanta musica Goth, il post rock (amo i Sigur Ros), Smashing Pumpkins e tutto quel rock post-grunge anni della seconda metà dei 90 etichettato come alternative, che era difficilmente catalogabile; fra le mie preferenze musicali aggiungo anche lo shoegaze/dreampop, gli Slowdive su tutti. Quindi abbiamo influenze abbastanza diverse il che rende tutto più vario e con più sfumature.
 

 

Da quanto tempo esistono gli HANA-BI? Avete già prodotto o state per produrre qualcosa? Trovate che sia difficile introdurre nel nostro territorio un prodotto di rock psichedelico come il vostro?

Esistiamo dal 2014 ma sono stato fermo per due anni ad intervalli vari, ho sempre avuto problemi con membri che lasciavano il gruppo per motivi ahimè lavorativi; sono tutti pian piano emigrati e mi toccava sempre ripartire da zero, cercare nuovi membri fargli imparare il repertorio e così via. Le cose stanno andando bene da un paio di anni a questa parte e infatti abbiamo appena prodotto il primo EP: HANA BI presente su varie piattaforme quali Spotify, Itunes, Bandcamp,Soundcloud, YoutubeMusic ed è uscito il nostro primo singolo e video LABYRINTH. Sì è molto difficile far attecchire questo tipo di musica: in questi cinque anni in cui ho coltivato questo progetto, ho visto affermarsi varie “mode” e generi musicali, che ciclicamente si sono alternate nel tempo, ma mai un genere come il nostro, che chiamiamo “spleen rock“. Abbiamo voluto inventare noi questo termine per indicare il tipo di stato d’animo e mood in cui è avvolta la nostra musica: spleen inteso come malessere esistenziale, come disillusione. Al momento, nei locali soprattutto, si ascolta spesso musica minimale, acustica, folk, cantautorale, diciamo così… Un genere che non cede sulla scena musicale è anche il metal, il punk e in parte lo stoner: seppur di nicchia questi generi sono sopravvissuti ed hanno uno zoccolo abbastanza duro di seguaci, esiste un certo “movimento”, un circolo di sostenitori fra fan, etichette e organizzatori che mantengono la scena viva. Nel mezzo ci siamo noi ed altri come noi che fanno un qualcosa di diverso che non hanno già una scena, un background e devono crearseli. Siamo piccole isole che provano a galleggiare. Inoltre i locali che fanno un certo genere di musica alternativa stanno chiudendo qui dalle nostre parti e in questi anni ne ho visti sparire diversi. Farsi avanti in questo tipo si situazione diventa sempre più complicata, ma noi non molliamo! In maniera più ampia posso dire che l’ Italia è un paese che ha un certo gusto musicale, parlo di grossi numeri, per cui è difficile emergere se fai un certo tipo di musica, ma il mio fine, attualmente, è quello di creare una buona base, anche se di nicchia, e farlo approdare fuori da questo contesto, anche all’ estero.

 

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Ho ascoltato le vostre canzoni: alle mie orecchie è arrivato un sound bello convincente. Avete già riscontrato successo nei live e finora dove avete suonato oltre che Napoli e dintorni?

Ti ringrazio! Credo molto nel nostro sound, ci abbiamo lavorato per anni ma ho sempre avuto le idee abbastanza chiare su come dovevano suonare  soprattutto per quanto riguarda i suoni delle chitarre, ma in generale ho sempre avuto chiaro la direzione da prendere. Sì,  è un periodo in cui ci siamo accorti che le cose stanno cambiando, abbiamo fatto da poco un live per esempio, in provincia di Napoli, nemmeno in città, ed è stato un successo: il locale era pieno, Il che significa che pian piano ci stiamo facendo conoscere, ci accorgiamo che la gente ci segue e raccogliamo ogni volta nuovi fan,  che ci chiedono i nostri testi e cantano i nostri pezzi ai live, solo un sogno fino a qualche anno fa e mi emoziono ancora quando succede… I fan vogliono conoscere di più sulla band e ci stanno sostenendo nella promozione dell’ EP e video: non ci siamo affidati ad agenzie o altro, come sponsorizzazioni e promozioni a pagamento, ma sta funzionando tutto tramite passaparola ed è una bella soddisfazione, è un bel momento ma è comunque ancora in stato embrionale e per arrivarci abbiamo fatto anni di serate, in cui ad ascoltarci c’erano solo una manciata di persone ad orari assurdi. La classica gavetta, insomma, ma in fondo non ne siamo ancora usciti; comunque sia, questo per noi è un buon punto di partenza finalmente, è piccolo, certo, ma ce lo godiamo e penso che ce lo meritiamo. Abbiamo suonato a Roma, Potenza e in alcune zone sparse della nostra regione ma sempre a festival o rassegne varie, ancora dobbiamo fare un live nostro o comunque più sostanzioso, magari in apertura nomi un po’ più conosciuti: a riguardo, ci stiamo organizzando per la prossima stagione dove vogliamo promuovere il nostro EP in giro per l’Italia. Soprattutto speriamo di venire a suonare al nord, per ora ci stiamo scaldando qui in zona con un po’ di date, sarà una sfida ripartire da zero in posti dove non siamo ancora conosciuti, ma la cosa, non ci spaventa, anzi ci stimola. A breve suoneremo il nostro repertorio in versione semi acustica, quindi niente distorsioni e fuzz, sarà anche questa una sfida perchè dovremo riarrangiare i pezzi in chiave diversa… Staremo a vedere!

 

Ultima domanda per discostarsi dal biografico. Ci siamo conosciuti in fila ad un concerto degli Smashing Pumpkins a Bologna, non proprio dietro l’angolo per voi. Deve avere un forte ascendente su di te Mr. Corgan per averti fatto fare tutta quella strada: quanta influenza hanno i Smashing Pumpkins sulla vostra musica?

Posso dire che Corgan insieme a Robert Smith, è il mio artista preferito in assoluto, alcuni riconoscono in me il tipo di voce: in verità, non è intenzionale, cantavo così già da ragazzino prima ancora di conoscere gli Smashing Pumpkins. Quando li ascoltai infatti capii che erano il gruppo per me, perché per la prima volta sentii qualcuno che cantava in modo del tutto diverso dai cantanti sentiti fino a quel momento, qualcuno che non aveva paura di mostrare un lato delicato nel modo di cantare, cosa che già facevo io un po’ per indole un po’ per timidezza; alcuni amici sentendomi cantare mi dissero che ci somigliavo parecchio, ad ogni modo, di loro amo tutto, il suono delle chitarre, le melodie, la batteria… tutto. Su di noi musicalmente parlando penso abbiano influito sul sound, sull’uso del Big muff ed altri pedali che mi sono scelto nel corso degli anni e un certo modo di arpeggiare e posizioni strane sulla chitarra. Non ho studiato musica, non so che arpeggi faccio ma ho imparato da loro a tenere le posizioni più strane e inusuali per gli arpeggi che uso parecchio nei miei pezzi.

 

Valentina Bellini

Un’idea condivisa è un buon punto di partenza, ne sono un esempio i Geller

Ed eccomi qui in una notte romana, l’aria è abbastanza fresca per essere l’11 maggio ed io sarò in compagnia di due ragazzi da intervistare e fotografare: i Geller.

Loro sono Valerio Piperata (autore dei testi, batterista, drum machine e timpani) e Dario Gambioli (cantante, compositore, synth e timpani), si sono conosciuti in un condominio a Centocelle durante un home party e hanno scelto di formare un duo per esprimere i loro pensieri che oscillano tra dipendenze e amore nelle sue varie forme.

Inevitabilmente ci ritroveremo a viaggiare con la loro musica.

 

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Male Male è il loro ultimo singolo nonché il title track dell’album di debutto uscito il 19 aprile per Giungla Dischi, anticipato dai brani Pausa, Ci pensi mai, Bomba a mano e Sprite, tracce inserite nelle playlist Spotify di Scuola indie e in quella dedicata alla nuova generazione pop Indie Italia.

Da aprile la band è in tour e questa sera giocano in casa: nella capitale. Ci accomodiamo sui divanetti del locale La Fine.

Ho percepito la loro umiltà sin dal primo sguardo e dal loro modo di accogliermi. Intervistarli è stato come scartare un cioccolatino, sapevo di trovare qualcosa di buono!

 

Ciao Geller raccontateci del vostro progetto, com’è nato, se avete progetti futuri…

V.: Il progetto è nato da parole, alcuni testi che avevo scritto e non sapevo esattamente cosa farne e durante una serata un po’ particolare ho avuto l’idea di parlarne con Dario, gli ho chiesto se avesse voglia di farci musica, lui è un musicista e ha detto… cioè non ha detto niente! Il giorno dopo si è presentato con una canzone, abbiamo visto che funzionava, abbiamo continuato e così è nato un disco intero.

D.: Il progetto nasce dall’unione tra lo scrittore che ha buttato giù dei testi e ha chiamato me, che ho musicato le sue parole. Ho scritto la melodia, gli accordi, l’impronta di produzione e abbiamo contattato l’etichetta discografica Giungla Dischi a cui è piaciuto molto questo primo provino e ci ha spinto a continuare a scrivere e a fargli ascoltare ancora la nostra musica. Così è nato il progetto e si è sviluppato così, all’inizio non c’era neanche il nome, c’era solo la canzone.

 

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Il 16 aprile è uscito il singolo “Male male” il testo dice: “Hai sempre qualcosa da fare, qualcuno che credi di amare, mi servi che sto male” l’amore è qualcosa che arricchisce o una dipendenza? 

V.: Tutto il disco parla di questa dipendenza affettiva, in questo brano racconto di una ragazza in un periodo non facile e in questo caso l’amore è visto come una dipendenza.

D.: Un amore malato, ossessivo che quando manca crea disturbo.

 

Una curiosità i vostri testi sono a tratti malinconici e ribelli, sono esperienze personali o è la società vi è d’ispirazione?

V.: Noi siamo due persone super polemiche in realtà!

D.: Direi che è un connubio tra gli stimoli esterni che non ci piacciono e le nostre esperienze.

 

“Bomba a mano” lo dice il testo stesso è un’esplosione per liberarvi dai tormenti, in una scala di priorità cosa non tollerate assolutamente nella realtà che viviamo?

V: Hai colto bene, la bomba a mano è una liberazione da stati d’animo privati, personali che hanno a che fare più con la tua vita che con quello che ti capita.

D: Quello che non tolleriamo fondamentalmente è la superficialità, la mancanza di cultura, il voler dire per forza la propria senza avere gli strumenti per potersi interfacciare con il discorso in questione.

V: In Italia è un periodo in cui si ha questa tendenza… te lo abbiamo dovuto dire!

D: E’ la prima volta che tocchiamo questo tasto, non ce lo hanno mai chiesto.

 

Come sta andando il vostro tour? C’è qualcosa che ricorderete con stupore o delusione?

V: Siamo un po’ storditi ancora, perché siamo stati catapultati in qualcosa che non abbiamo mai fatto, in un progetto esclusivamente elettronico in cui ci siamo soltanto io e Dario sul palco, dipende tutto da noi lo show e quindi stiamo affrontando ogni concerto in ogni città come fosse la prima volta.

D: Questa è la terza data, siamo in fase di rodaggio totale, stiamo ancora capendo se questa cosa la sappiamo fare…

 

Chi ha creduto in voi? C’è qualcuno che vorreste ringraziare?

V: Chi ha creduto in noi dal principio è Andrea Rapino, manager, discografico di Giungla Dischi.

D: Sì lui ha abbracciato il progetto da quando c’era solo un provino fatto con il mio telefono. Aveva percepito qualcosa che poi si è confermata con tutti gli altri brani. Vorrei menzionare Spotify che ci ha dato un grosso spazio senza avere nessun tipo di connessione o di motivazione particolare per farlo, quindi vuol dire che il progetto è piaciuto per aver puntato su di noi nelle playlist e questo lasciacelo dire, fa piacere!

 

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Piacere mio avergli stretto la mano e aver assistito subito dopo ad un live electro-pop. Non ho dubbi, la musica sanno farla proprio bene! Lasciarsi cullare dal suono sotto le mani di Valerio e dal tono di voce caldo di Dario è stato travolgente e in un attimo via tutti i pensieri! Prima di tornare a casa ho fatto una passeggiata lungo Trastevere, ammirando Castel Sant’Angelo con il sorriso sulle labbra. Apprezzo questi momenti di vita vera, dove si è uniti anche tra sconosciuti, dove ci si sfiora e si canta guidati solo dalle emozioni, non serve nient’altro per star bene.

Abbiamo bisogno di semplicità e al tempo stesso di contenuti e i loro brani meritano l’ascolto, vengono memorizzati, ricordati e cantanti sin da subito.

L’amore va cantato ma ricordiamoci, non deve far male!

 

Foto e intervista di: Silvia Consiglio

 

Quando finisce la festa, Angelica e un album da scoprire

Angelica (Schiatti ndr) è una cantautrice originaria di Monza.

Conosciuta e apprezzata come leader dei Santa Margaret, gruppo con il quale ha vinto gli MTV Awards New Generation, esce nel 2019 con un nuovo album da solista Quando finisce la festa con l’etichetta Carosello Records.

Amante del vintage applica il proprio gusto retrò nella musica in maniera mai scontata e super fresca, toccando temi come la fiducia in se stessi, l’amore e l’attualità.

Un album profondo e serio che tra le pieghe di melodie ritmate e “serene” nasconde l’ambiguità della modernità e i rapporti umani che nel male o nel bene fungono da analisi per la crescita personale.

Un lavoro puntuale e preciso che mescola malinconici scenari ad aperture verso il mondo con note che scivolano via morbide e voluttuose. Talvolta ammiccanti.

L’abbiamo incontrata e le abbiamo fatto una VEZ Rece-Intervista.

 

Essere una solista dopo l’esperienza con i Santa Margaret quali sentimenti e sensazioni ti fa provare? Quali sono i lati positivi e quali i negativi?

Di positivo c’è stata un’emancipazione sia professionale che personale. Sono una persona molto insicura e quindi avere la band era un po’ come avere una famiglia alla quale chiedere consiglio, chiedere appoggio. Lavorare da sola all’inizio mi fatto provare un forte senso di confusione, ero spaesata. Però alla fine c’è stata una vera e propria presa di coscienza di me stessa. È stata un’autoterapia poiché essendo da sola dovevo fare tutto da sola, nonostante la difficoltà sono molto serena perché mi ha permesso anche di capire meglio cosa mi piace e cosa no. Affinare l’estetica in maniera pura e sincera, poiché essendo in una band la mia personalità era ovviamente mitigata dagli altri membri della band.

 

Hai un gusto retrò. Racconti un mondo passato rendendolo comunque attuale ed è una peculiarità che avevi già ai tempi della band, anche se con delle sonorità più calde. Ora invece è come se avessi scarnificato quello che avevi creato prima. Ho percepito una sorta di voglia di eliminare la propria protezione e mostrare te stessa nella tua purezza in maniera cristallina. Sbaglio?

Ho destrutturato il lavoro di prima. È vero, ho scarnificato i miei lavori precedenti. In precedenza i lavori si basavano su un personaggio, ovviamente nato dalla mia persona poiché non era un personaggio inventato. Ora invece addio al personaggio e ci sono semplicemente io senza la “maschera”, il filtro del personaggio che mi ero creata all’interno della band. Ho voluto abbandonare il personaggio abbandonando quindi anche la protezione che il personaggio stesso ci concede di avere.

 

Tra le canzoni che mi hanno colpito c’è Guerra e Mare. Nel ritornello riecheggia la frase  “Compriamoci un’estate in pieno inverno” e si parla di persone che se hanno paura vanno al mare oppure fanno la guerra. All’ascolto sembra gioviale e tranquilla quando in realtà nasconde un messaggio anche severo nei confronti della nostra vita day by day. Persone che hanno paura del diverso e che rifuggono ciò che non conoscono voltandosi dall’altra parte e scappando oppure che lo attaccano. E se come al solito premendo play ci illudiamo di restarcene rilassati ascoltando un brano da “disimpegno e diletto” in realtà alla fine ci sentiamo quasi ammoniti. Sempre in maniera raffinata, chiaramente.

Cosa mi dici Angelica di questo brano?  Quanto c’è della situazione italiana e mondiale attuale nelle tue parole?

Molto. C’è molto. È proprio questo, in realtà. Non puoi avere paura nel 2019 di quello che non conosci. Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca nella quale se non conosci una cosa la puoi tranquillamente studiare. Una cosa ignota grazie a internet può facilmente diventare conosciuta, almeno un minimo. Inoltre è vero che la paura troppe volte non è nient’altro che una corazza che apparentemente ci fa vivere meglio. Come dire “ho paura di questa cosa e non la faccio” e sembra apparentemente di stare meglio quando in realtà non è così. Quindi scappi ma fai del male solo a te stesso impedendoti di evolvere. Oppure che fai? Attacchi ciò che non conosci. Invece di fare così dovremmo utilizzare la nostra paura come movente e stimolo alla conoscenza così che possiamo crescere e comprendere le differenze. L’ignoranza non è più una scusa e in questi anni così controversi tutto sta cambiando molto velocemente e se è vero che ci sono tanti aspetti negativi ce ne sono anche tanti positivi.

 

Nella canzone Due anni fa hai detto “ero un foglio bianco e tu mi hai scritto il mondo addosso”. È una frase che sembra introdurre ad una canzone che parla d’amore, di una storia nel momento in cui uno la sta vivendo. Poi, procedendo con l’ascolto ci si rende conto che parli del passato. Passando ad un’altra canzone inoltre, Beviamoci, viene riproposto il tema della storia passata. Il passato è un tema per te importante. Un passato che sembra solo rimpianto. O forse no. Nello stesso album quindi si parla di storie diverse ma entrambe finite. Ritieni che quindi sia più proficuo per l’arte parlare di momenti di rottura drammatici o perlomeno tristi e malinconici, oppure credi che l’atto creativo possa nutrirsi anche di narrazioni quali le giornate qualunque di un mese qualunque decantando la quotidianità?

Mi ha sempre colpito la frase di Tenco “Se sono triste scrivo canzoni, se sono felice me ne vado al mare”. Un po’ è vero, quando sei felice hai voglia di condividere la felicità anche all’atto pratico quindi di stare a contatto con le persone. Dato che la musica è terapeutica, o per lo meno per me lo è, viene quasi da dire che l’atto creativo è figlio della malinconia e di quel “male di vivere” che talvolta ti porta al raccoglimento in solitaria. Queste due canzoni che hai citato parlano di una storia finita ma c’è anche il risvolto positivo, agrodolce, perché è meglio perdersi che rimanere assieme e vivere male. In realtà queste canzoni sono come un bilancio finale più che figlie della malinconia. Un bilancio che alla fine non è negativo. È importante comunque smuovere delle emozioni con l’arte e nello specifico, con la musica anche se sono emozioni di felicità.

 

Adulti con riserva mi sembra il tuo punto di vista attuale, fai come il punto della situazione. Mi ritrovo a sorridere perché la vedo una canzone possibilista. Elenchi tante cose, ammetti la possibilità di fare qualsiasi cosa basta che lo si faccia in maniera positiva e propositiva, come un inno alla vita.

È banale da dire ma il punto di vista che si ha quando si è in mezzo ad una cosa è diverso da quello che si ha quando ci si allontana. Tutti i sorrisi che ti sei perso, le giornate e le ore che ti sei perso quando eri nel buco nero non te le ridà indietro nessuno. Quindi mentre sei nel buco nero ricorda di sorridere perché comunque passerà e quindi almeno ricorda.

 

La mia canzone preferita è Quando finisce la festa dato che mi sembra quasi che parli di me. È molto introspettiva, quasi onirica. Presenta svariati cori in sottofondo con tanti strumenti che si mischiano ad una moltitudine di voci. Sembra di fare una camminata serena in un bosco fatato. Ora cammino in questa foresta e intanto dedico del tempo solo a me stessa e a ricordarmi che io valgo. Il pezzo strumentale alla fine della canzone è un accompagnamento ad un viaggio che non sembra voler finire. Attende di iniziare nuovamente e si apre ad un nuovo inizio.

Questa canzone ricorda un periodo particolare della tua vita?

Volevo fosse un po’ una colonna sonora ad un momento che stavo vivendo. Non mi fidavo di me stessa, non mi piacevo, non mi apprezzavo. La canzone è nata da una discussione molto brutta al telefono dove mi sono state dette delle cose bruttissime. A quel punto ho capito che non meritavo delle parole così brutte e che non era giusto per me rimanerci male e rimettere in dubbio e discussione tutta la mia vita. Ma anche se sapevo che tutto era infondato sono comunque entrata un po’ in crisi. Alla fine quindi questa canzone è stata una sorta di catarsi per ritrovare il mio centro, per “ricentrarmi” e ritrovare me stessa. Doveva essere un inizio di una nuova era ricominciando a vivere tentando di fidarmi degli altri finalmente. La coda della canzone è così lunga proprio perché è una fine che in realtà non vuole finire.

 

Alla fine della canzone ci sono degli speech. Di chi sono le voci?

Ci sono Massimo Martellotta (Calibro 35), Antonio Cupertino (produttore dell’album) e ci sono anche io. Massimo e Antonio si sono messi a lavorare sull’album con grande entusiasmo regalandomi la loro fiducia e il loro entusiasmo. Per me sono stati come dei padri. Poi c’è la voce di Miles Kane conosciuto poco prima della fine delle registrazioni dell’album con il quale abbiamo iniziato a scambiare pareri e opinioni sulla musica scambiandoci registrazioni. Abbiamo anche scritto delle cose insieme. Anna Vigano’ (Verano) che fa l’entrata con la chitarra distorta sulla coda. È una delle mie migliori amiche e io la adoro. La volevo nell’album e le ho chiesto di partecipare. Poi ci sono tante voci che abbiamo preso registrando con il microfono in giro per strada.

 

Vuoi lasciarci con un messaggio?

Più rispetto e più sostegno tra le donne sarebbe importante e anche più solidarietà femminile.

 

Un album quello di Angelica che si racconta nota dopo nota invitandoti al mare, ad una festa, ad un viaggio, alla vita. Un album da portare sempre con sé.

Grazie a Carosello Records e ad Angelica per aver accettato questa rece-intervista.

 

Sara Alice Ceccarelli

I Hate My Village: l’esigenza di bellezza balla a ritmo tribale

Una formazione d’eccellenza che non ha bisogno di presentazioni.

Un unico manifesto artistico: creare qualcosa di bello. Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) si sono incontrati puntando dritto a questo obiettivo.

È nato così un super-gruppo, gli I Hate My Village. Li abbiamo incontrati nel backstage del Supersonic Music Club, in occasione della data del 20 aprile a Foligno. Loro, schierati su un divano. Di fronte io, su uno scalino, con il palco alle spalle e tanta emozione. Un viaggio di andata e ritorno per l’Africa, tra curiosità, melodie sciamaniche, nuovi linguaggi e riflessioni sul villaggio musicale attuale.

 

Nel momento in cui si parla di una super-band scatta sempre il meccanismo mentale per cui non si sa se aspettarsi un progetto del tutto nuovo o un’opera di citazionismo legittimo dei rispettivi gruppi di provenienza. Su questa premessa, come nascono gli I Hate My Village?

Fabio: In realtà non sapevamo che cosa sarebbe venuto fuori. Il primo incontro è stato fra me e Adriano, in sala prove. Inizialmente l’intento era quello di vederci per suonare…niente di più. Avevamo già qualche idea da sviluppare quindi abbiamo dato al tutto una certa frequenza. Da lì, è venuto fuori il materiale per un disco che abbiamo poi portato da Marco, in studio. Un disco totalmente strumentale.

 

Quando avete detto: “Vogliamo Alberto Ferrari alla voce?”

F: Anche per quanto riguarda la linea vocale, la scelta è stata spontanea. Abbiamo chiesto ad Alberto se voleva unirsi per cantare quello che voleva, come voleva lui. Ed ha accettato.

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Perno centrale è il rimando a sonorità africane. Un tentativo di comunicazione, in musica, attraverso una lingua straniera. Che messaggio vuole veicolare?

F: Già nel nome del gruppo c’è un errore di pronuncia. Nome ispirato al titolo di un cannibal movie che gioca sui verbi odiare “hate” e aver mangiato “ate”. È vero, a noi piace la musica africana e lo spunto è stato quello…però non siamo africani… il risultato rimanda a questo enorme errore di pronuncia. Volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse e che consideravamo bello, nel senso più autentico del termine. Il messaggio, anche di stampo sociale e politico, ci si può comunque leggere: siamo noi, in questo caso, ad andare verso l’Africa? Anche noi viviamo in un piccolo grande villaggio, alla fine? Lo odiamo? Oppure…pensa anche al fatto che un errore di pronuncia tra “hate” ed “ate” l’avrebbe potuto commettere qualsiasi italiano…

 

Quindi anche gli altri equivoci lessicali in titoli come Tramp o Fame che in inglese sta per “fama, successo” sono più dei collegamenti o dei contrasti?

F: È un significato contenuto già nel titolo stesso del progetto appunto: facciamo musica africana ma poi non ci riusciamo. Anche noi abbiamo iniziato studiandola o facendoci guidare da ascolti precedenti. Ciò che emerge è l’originalità del disco.

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E quali sono le influenze, gli ascolti o le collaborazioni che hanno inciso maggiormente nella fase creativa?

Adriano: La musica africana ci ha influenzato anche in seguito a collaborazioni con artisti come Bombino e Rokia Traoré. Inoltre, nell’ambito della musica rock e blues, durante il corso degli anni Novanta si è susseguita tutta una serie di artisti africani che suonavano con le chitarre elettriche. Qualcosa che risultava molto difficile ascoltare negli anni Ottanta, famosi per le corde di nylon. È nato così un filone legato al rock ma di matrice africana: il Blues Tuareg o il Mali rock, ai quali ci siamo associati per gusto personale, mescolando le varie psichedelie del Fela Kuti dagli anni dai Settanta in poi.  Abbiamo approfondito questo linguaggio, spinti dall’interesse e dalla necessità di esprimerci con una musica basata su codici diversi, su una genesi differente per quanto riguarda la canzone e la stessa idea di band. La nostra non è una superband anni Novanta, è un po’ diversa, più contemporanea. Da non tralasciare il fatto che ci siamo ispirati a noi stessi. Se penso ai gruppi che amo di più della scena italiana sono i Calibro 35, i Jennifer Gentle, i Verdena o gli Zoo. Ci siamo trovati tra persone che si stimano a vicenda.

F: È un grande laboratorio. Poi, ovviamente, venendo tutti da altre situazioni più grandi, è normale che questo sia considerato come il b-project. Ma non è così.

A: Esatto, non c’è una classifica. La musica si fa perché viene. E volevamo fare una cosa bella…è questa la benzina, il motore che ha dato il via a tutto. E continua a farlo. L’esigenza di bellezza.

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Ricollegandomi al cannibal movie ghanese e alla copertina dell’album realizzata dall’artista romano Scarful, nel vostro progetto si rintraccia un “cannibalismo artistico”, un nutrirsi di idee. Quanto la musica italiana attuale si ciba ancora di curiosità, di sperimentazione?

F: Di sperimentazione ce n’è ancora tanta, ma non si vede così facilmente. Forse non trova il giusto spazio. Chi fa musica per lavoro spesso sceglie la strada più semplice da seguire. Soprattutto se vuoi fare musica perché preferisci non fare un cazzo nella vita…e magari ti riesce pure bene eh… allora quella è la via. Se invece hai qualcosa da dire, diventa tutto più difficile…ci vuole coraggio. Ovvio, c’è ancora chi sperimenta, magari nei teatrini da trenta persone. Però c’è. L’appiattimento esiste nella legge dei grandi numeri. Nei piccoli numeri, però, certe cose sopravviveranno sempre. Una cosa da non dimenticare è che per noi è più facile fare quello che ci pare. In questo ci ha protetto la natura di super band. A noi piace quello che abbiamo creato? Si. A voi no? Pazienza. Ci siamo sentiti liberi. L’intenzione era quella di arrivare anche al pubblico, certo. Divertirsi prima di tutto…addirittura intrattenere! Altro che sperimentazione… è l’esatto opposto!

Marco: Ma non è detto che i due aspetti siano inconciliabili, anzi!

 

È di qualche giorno fa l’annuncio del tour estivo. Il prossimo 10 agosto suonerete allo Sziget, uscendo dal “villaggio italiano”. Quali sono le aspettative sulle date all’estero?

F: In realtà, fin dall’inizio, avevamo concepito gli I Hate My Village come progetto internazionale tanto che volevamo uscire con il disco prima all’estero che in Italia. Ci stavamo anche riuscendo… poi una serie di circostanze ci ha fatto un perdere tempo e abbiamo deciso diversamente. Senza dubbio, l’estero è un sentiero inevitabile da percorrere.

A: Anche per far conoscere la nostra musica al di là dei confini italiani. Le caratteristiche si prestano molto: i testi sono in inglese, sono fruibili a tutti. Non vediamo l’ora.

IMGL6604Intervista di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani