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Tag: intervista

I Legno: una piccola realtà in una realtà per niente piccola.

E’ il 18 aprile, ormai è primavera ed io parto alla volta di Bologna dove ad aspettarmi al Cortile Cafè ci sono i Legno, un duo nato da poco che non è passato inosservato durante il mio inverno e la riproduzione della mia playlist preferita di Spotify: Scuola Indie.

Dopo i due fortunatissimi singoli Le canzoni di Venditti e Febbraio che hanno portato questi due ragazzi ad avere un pubblico sempre più ampio in pochi mesi, il 29 marzo è uscito il loro primo album per Matilde Dischi e subito dopo, hanno dato anche il via al loro primo tour che sta andando benissimo.

Segni particolari: indossano delle scatole che vanno a coprire i loro volti e a ricoprire il “ruolo” di legno triste e legno felice, il che rende impossibile l’identificazione, infatti giunta a destinazione la domanda è stata: come li riconoscerò?

Nessun problema, perché non hanno esitato a farsi riconoscere, presentarsi e farmi sentire immediatamente una di loro. Il bello di alcuni incontri è proprio questo, quando di fronte hai sì degli artisti, ma soprattutto dei ragazzi genuini, con tanta voglia di condividere e raccontare tutto ciò che ruota intorno al loro progetto musicale.

Non importa chi sono, ma il messaggio che vogliono mandare e trasmettere a chi li ascolta e non ho deciso di intervistarli mossa dalla curiosità verso il loro involucro, ma verso il contenuto di quel contenitore.

E così, ci sediamo ad un tavolino con delle birre e vi assicuro che è stato un aperitiv-intervista sorprendente. Impossibile non apprezzare i modi, l’educazione, lo spirito positivo e l’entusiasmo che questi due ragazzi toscani riescono a trasmettere.

 

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Partiamo dall’inizio, prima curiosità: quando e come nascono i Legno?

Noi ci conosciamo da sempre, siamo amici da una vita ed è nato tutto in un pomeriggio a casa quando per gioco, con una sola canzone abbiamo pensato di creare questa sorta di super-eroe della musica, nascondendo però la nostra identità dietro queste due scatole. Nelle scatole di solito mettiamo i nostri ricordi, i nostri pensieri ed è così che siamo nati. Ci siamo costruiti una corazza, una maschera e l’idea era quella di raccontare qualcosa senza dover necessariamente associare un evento ad uno di noi. C’è solo una differenza ed è tra legno triste e legno felice e la cosa bella è come se queste due figure adesso consolassero e aiutassero le persone. Siamo diventati amici e confidenti virtuali del nostro pubblico e loro hanno la possibilità di relazionarsi con noi attraverso i nostri canali social e lo fanno pensando di scrivere a legno triste e a legno felice. Eravamo entrambi disillusi dal sistema “musica” e avevamo bisogno di uscire dai nostri limiti e ci siamo riusciti, ma è nato tutto senza pensarci, tutto dal nulla. Avevamo solo una canzone: Sei la mia droga ed otto mesi fa tutto questo non esisteva, poi ci siamo ritrovati ad oggi a e vedere le persone ai concerti che cantano le nostre canzoni e per noi è già una vittoria.

 

Avete un bellissimo rapporto con il vostro pubblico e siete sempre molto presenti, soprattutto su Instagram dove spesso cercate di farvi conoscere meglio anche attraverso l’opzione di poter fare domande, non avete paura che crescendo questa cosa possa cambiare?

Noi abbiamo basato tutto sulla presenza e rispondiamo sempre a tutti i messaggi che riceviamo, che sia un consiglio o un complimento per noi è importante essere presenti per tutti quelli che seguono la nostra musica. Perché se una persona spende parte del suo tempo per noi, è giusto ricambiare, è giusto ringraziare. All’inizio era semplice perché eravamo in pochi, adesso invece inizia ad essere complicato soprattutto quando esce qualcosa di nuovo… Ad esempio dopo l’uscita dell’album abbiamo fatto le 5:00 di mattina, assicurandoci a turno di aver risposto a tutti, anche solo con un cuore. Spesso ci chiedono anche dei consigli, soprattutto d’amore ed è bello riuscire ad aiutare le persone che in quel momento magari non sanno cosa fare e cercano aiuto. Ci sentiamo anche utili.

 

Titolo Album è realmente il titolo del vostro album, com’è nata questa idea? 

Dobbiamo ringraziare Distrattamente, una pagina Instagram che ha fatto un disegno con le parole di una  nostra canzone e da lì è nata questa collaborazione. Non sappiamo chi sia o il suo nome, ma dopo la prima illustrazione gli/le abbiamo chiesto di creare la copertina di Febbraio. Successivamente le abbiamo chiesto di creare anche la copertina del nostro album e quando ci ha mandato la prima bozza, ovviamente c’era scritto “TITOLO ALBUM” perché noi avremmo dovuto mettere il titolo effettivo (che ancora non avevamo) e così è rimasto quello lì della bozza. Ci siamo detti: “Ma perché non lasciamo titolo album?”

 

Chi scrive tra i due?

Scriviamo entrambi, i nostri telefoni sono pieni di note vocali, vivendo in due luoghi diversi della Toscana spesso ci incontriamo anche su Skype e magari ognuno di noi ha scritto qualcosa e così poi confrontiamo le varie idee e assembliamo il tutto. Questo progetto non è pensato e ragionato, è nato passo dopo passo. La nostra idea iniziale era quella di fare uscire tre singoli, siamo partiti un po’ per gioco, invece ad ogni singolo aumentavano le visualizzazioni fino ad entrare in Scuola Indie e fino a quando l’etichetta ci ha proposto di far uscire il disco, quindi in tre mesi abbiamo messo insieme tutti i pezzi che avevamo ed è nato il nostro primo album.

 

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Questo tour è partito alla grande, state avendo un bellissimo riscontro. Cosa provate?

Surreale, la parola giusta è surreale perché per noi è tutto inaspettato. E’ un’emozione continua. Siamo una piccola realtà, ma torniamo a casa felici. Quando suoniamo ci trasformiamo e per noi è assurdo ma allo stesso tempo bellissimo vedere le persone che cantano con noi i nostri pezzi. Questa cosa ci ha travolto e noi ci siamo lasciati travolgere. Stiamo vivendo situazioni pazzesche, siamo sati in città come Milano o Avellino e non ci aspettavamo una tale presenza.

 

Tornando alle domande che vi fanno su Instagram, qualche giorno fa una persona vi ha chiesto a chi dedicate le vostre canzoni e la vostra risposta è stata:  “A tutte le persone che hanno avuto delle relazioni complicate” La mia domanda allora è: secondo voi cosa complica le relazioni di oggi?

La vita in generale. Quando ti trovi ad avere tutto non sei mai felice di avere tutto e ti manca sempre qualcosa, oppure in alcune eccezioni ti guardi allo specchio e sei felice perché sai di avere tutto. L’amore è bello e all’inizio è tutto perfetto, ma dopo un po’ bisogna iniziare anche a sopportare e supportare la persona con la quale decidiamo di condividere la nostra vita. La forza di una coppia è l’unione e in questo preciso momento storico in cui i social hanno un ruolo così importante nelle nostre vite, l’unione a tratti è sempre compromessa perché sicuramente da un lato è anche cambiato il nostro modo di interagire e inevitabilmente i social network vanno a complicare le relazioni perché tutti abbiamo bisogno di sentirci importanti e stimati e lì in un attimo puoi sentirti bene o anche male. Noi crediamo ci siamo molta solitudine e si tenda più alla malinconia che alla felicità. E’ cambiato il mondo. Prima per incontrare una persona dovevi chiamare a casa, oggi basta mettere un commento sotto una foto per farsi notare e per sentirsi o far sentire importante. L’amore inteso alla vecchia maniera come Sandra e Raimondo non esiste più ed era quella l’idea perfetta di unione che oggi manca o comunque sta scomparendo sempre di più.

 

Quanta vita c’è all’interno di queste scatole che tirate fuori nelle vostre canzoni?

Tutto. Praticamente tutto. Tutto quello che scriviamo in realtà nasce da quello che abbiamo vissuto. Abbiamo raccontato il nostro passato e il nostro presente. Raccontiamo le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre sensazioni. Chiunque potrebbe essere legno, perché chiunque ha vissuto o vive quello che cerchiamo di comunicare e dire attraverso le nostre canzoni.

 

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Dopo aver conosciuto meglio la storia di questi ragazzi, ho avuto il piacere di assistere al loro live.  Nascondono i loro volti è vero, ma non per paura.

Forse vorremmo avere tutti una scatola di cartone a portata di mano sotto la quale nasconderci ogni tanto, per avere anche solo per un attimo la libertà di essere qualcun altro o semplicemente per il bisogno di estraniarsi da quella necessità di apparire sempre e comunque in un modo piuttosto che in un altro.

Per loro non è importante farsi riconoscere tra la folla, per loro è importante emozionare ed emozionarsi. Per loro è importante continuare a fare quello che amano fare, esponendosi attraverso le parole e non attraverso i volti.

Non ci metteranno la faccia, ma sicuramente ci mettono il cuore ed è quello che arriva alle persone, ed è per questo che all’interno di una realtà per niente piccola come quella dell’attuale scatola Indie-pop, le loro scatole sanno sicuramente come farsi vedere e sentire.

 

Claudia Venuti

Dimartino: cantami, o Afrodite.

Dimartino: cantami, o Afrodite.

Il suo esordio da solista risale a quasi dieci anni fa. Il suo atteggiamento non è mai cambiato. Antonio Di Martino è l’artista che attinge dall’autenticità e dallo sguardo attento al mondo che lo circonda. È il cantautore sincero che approfondisce i temi legati alla fragilità umana, ai suoi contrasti e alla possibilità di conciliarli, nei contorni di personaggi estremamente reali. Un’intervista, un viaggio, nei luoghi e nel tempo. Dalle vie di Palermo, al Mar Mediterraneo. Dal tempio di Afrodite alle colonne dell’Olimpo che risuona di melodie dal respiro tanto anni Settanta quanto energico e internazionale.

A due anni dall’ultimo disco, il 25 gennaio è uscito Afrodite. Come è nato l’album soprattutto in riferimento alla dea della bellezza e perché è così diverso da tutti gli altri?

Nei due anni in cui sono stato in tour per il disco precedente ho raccolto molte idee e ne ho sviluppate altre che avevo già per alcune canzoni. Altre sono nate all’improvviso. Riconduco tutto a un’urgenza personale probabilmente. Degli spunti derivano anche da viaggi e dall’avvicinamento alla cultura messicana. I miei dischi nascono così, da stimoli che mi creo e da altri che arrivano fortuitamente. Non dietro a contratti discografici ma per urgenza espressiva, per volontà di raccontare. La diversità, invece, riguarda la produzione. Volevo che pezzi e testi molto intimi fossero prodotti in modo più estroverso, più fosforescente. Poi ho scelto il titolo Afrodite perché, innanzitutto, mi piaceva la parola, il rimando a qualcosa di antico ma allo stesso tempo molto legato al contemporaneo: il collegamento con la dea della bellezza in un mondo dove la bellezza brucia, non viene tutelata o curata. O peggio, viene data per scontata. C’è anche in rimando ad un fatto personale perché la notte in cui è nata mia figlia, dalla finestra dell’ospedale di Trapani si scorgeva il tempio di Afrodite, sul monte Erice. E l’ho visto illuminarsi, in una specie di visione.

Nei testi vengono descritti personaggi, storie, esperienze di vita quotidiana. Come si inserisce in questo contesto il personaggio, il musicista e l’uomo Antonio Di Martino?

Molte volte, quando scrivo, pur utilizzando la terza persona in realtà sto parlando di me. Tutte le canzoni che scrivo mi riguardano…sarebbe difficile il contrario. Altre volte inserisco nei testi momenti e immagini che ho vissuto e che ho visto per strada. La scena del bingo su La luna e il bingo l’ho vista davvero a Palermo. Oppure un pezzo come Daniela balla la samba parla di un frame quasi cinematografico a cui ho assistito: questa ragazza che ballava sul tetto di una macchina con un ritmo che ricordava quello della samba. Dentro quest’ultimo brano, però, penso di esserci anche io in qualche modo. È legato a un senso di sensualità a cui volevo aspirare. In quei personaggi mi ci rivedo molto… Ci sono forse talmente affezionato da immedesimarmi.

Afrodite è anche la dea della navigazione. Tutto l’album si ascolta come un’onda di emozioni contrastanti. Esiste un modo per conciliare la “ricerca dell’amore nel dramma di una vita normale”?

Eh…bella domanda! C’è sicuramente un modo per conciliare la ricerca dell’amore nel dramma di una vita normale. Io sono ottimista in questo. Il problema sta nel fatto che l’uomo contemporaneo non si accontenta più di una sola forma di amore. È come se avesse continuamente desiderio di cambiare, di innamorarsi di nuovo, probabilmente per una insoddisfazione insita nell’essere umano di oggi. Avere mille possibilità non lascia la libertà di apprezzare davvero… e si sfocia sempre in un sentimento vicino alla sofferenza.

Palermo e, in un’ottica più ampia, la Sicilia rappresentano due sfondi costanti della tua musica. Qual è il volto attuale della tua terra?

Palermo è una città molto cambiata, soprattutto negli ultimi cinque o sei anni. Il volto e l’atteggiamento dei palermitani sono mutati in meglio. C’è sicuramente una voglia di riscatto. Le stragi degli anni Novanta hanno provocato talmente tanto dolore fra i miei concittadini che ci son voluti quasi vent’anni per elaborare il lutto. Adesso ci si sta rialzando. Anche la parola antimafia ha assunto altri significati. All’inizio, era un concetto a cui ci si avvicinava per dovere. Oggi, i ragazzi nascono già con una coscienza antimafia, non ci sono dovuti arrivare. Hanno già una visione con gli anticorpi del loro ruolo all’interno della città. Tengo a sottolineare, poi, che Palermo è stata una delle prime città ad aprire i porti. È una prerogativa che risiede nella sua natura, da quando è stata fondata. L’idea del porto aperto rimanda all’antico nome, Panormus, città tutto porto. Un luogo in cui approdavano e convivevano greci, turchi, spagnoli. La città che sogno in questo momento è una Palermo tutto porto.

Mi ha colpito il tema del sogno. Canti di “sogni perduti”, di “sogni da adolescenti”. Che cosa può sognare un musicista all’interno del panorama italiano oggi?

Oggi, un musicista deve sperare di non dover mai scendere a compromessi per andare avanti. Deve fare il suo percorso attraverso la sua arte. Io sono molto legato a quegli artisti con una forte identità e con una grande capacità di mantenerla. Un artista dovrebbe aspirare al racconto del mondo attraverso i propri occhi e, nello stesso tempo, non tentare di cambiarne la visione per attirare più pubblico. Dovrebbe cercare invece di attirare il pubblico alla propria visione.

Per quanto riguarda la dimensione del palco… Come è stato portare Afrodite live?

Questo tour è stato una somma di tutti i dischi precedenti. Oltre ad Afrodite, ho scelto altre dodici canzoni da tutti e quattro gli album. Essendo trascorsi quasi dieci anni dall’uscita del primo lavoro in studio, ho voluto fare una specie di riassunto. Ho guardato queste fotografie in musica e mi sono chiesto se sono invecchiate, come sono invecchiate, se ha ancora senso cantare una canzone del 2010 o se quella canzone non parla più ai ragazzi. È stato bello sceglierle perché, selezionandole, mi sono accorto anche di come sia cambiato il mio modo di vedere il mondo… o di come non sia mai cambiato. Ci sono delle canzoni di dieci anni fa che esprimono gli stessi concetti che vorrei esprimere in questo momento. Da un lato, questa caratteristica mi spaventa perché ho sempre considerato necessario mettere in discussione le proprie idee. Dall’altro, però, mi rincuora perché mi sento una persona che ha portato avanti la propria coerenza.

L’ultima domanda è più una curiosità. Se potessi scegliere un personaggio della mitologia greca, sia divinità che non, chi vorresti essere?

I personaggi che mi vengono in mente sono tutti tragici (ride). Sono tutti veramente tragici. Così, senza pensarci, come scelta inconscia, ti dico Achille.

 

Intervista a cura di Laura Faccenda

Grazie a SIDDARTA 

Jess e Lobina – Video intervista

Con il nostro Semprepiùpoveritour facciamo entrare la gente nella nostra musica

 

Però, ad entrare letteralmente in casa delle persone, in verità, sono proprio loro. Si chiamano Chiara Lobina, in arte Lobina e Jessica De Pascale, detta Jess, e sono le protagoniste del nuovo appuntamento con le scoperte artistiche della Liguria.

Ci troviamo a Genova, dove la splendida cornice della Claque – importante teatro e punto di riferimento per la musica genovese – mi ispira e mette in soggezione allo stesso tempo.

Qui le ragazze mi raccontano di loro, della forte passione per la musica e di quella voglia instancabile che le spinge ogni giorno a lottare affinché quella passione diventi un giorno un vero e proprio lavoro a tempo pieno.

Jess e Lobina sono due giovani e talentuose cantautrici genovesi, diverse e simili al contempo. Che non sono un duo, ci tengono a sottolinearlo: “Abbiamo due progetti differenti – racconta Lobina – e continuiamo a portali avanti singolarmente, ma qualche tempo fa, forti della situazione in cui oggi si trovano moltissimi musicisti, abbiamo deciso di unire le forze per trasmettere un messaggio importante. Basta con questa stupida competizione: siamo artisti, facciamo musica, abbiamo bisogno di collaborare e sostenerci a vicenda”.

Ed è proprio quello che, in modo naturale e spontaneo, stanno facendo le due ragazze attraverso la loro musica. “Ci sono tanti artisti che ce l’hanno fatta – mi spiega Jess – e tanti che sono ancora acerbi. Poi, proprio nel mezzo, c’è una grande quantità di persone brave, determinate e con prodotti molto validi che però, per chissà quale motivo, non riesce a fare il salto di qualità. E se da soli è un viaggio troppo difficile da affrontare, perché non farlo insieme?

Ora, tra tanti modi per trasformare una critica sociale in qualcosa di unico e divertente, questo rientra sicuramente tra le genialate dell’anno. Stanche dei locali che vedono gli artisti come dei carillon da salotto, stanche di quella considerazione becera e irrispettosa che tanti hanno nei confronti dei musicisti, Jess e Lobina si sono rimboccate le maniche e hanno deciso – in un certo senso – di boicottare e ribaltare completamente la struttura dello show tradizionale che, ad oggi, si riduce meramente in burocrazia spicciola: Quanto dobbiamo pagarvi? Quanta gente portate? Quanto casino fate? E la migliore, che resta l’evergreen per eccellenza, valida un po’ per tutti gli ambiti artistici, nientepopodimeno che l’intramontabile Ti pago in visibilità. Ma come, non lo sapete? La visibilità è la moneta del futuro. Altro che bitcoin!

La loro idea, dunque, è semplice quanto originale: portare fisicamente all’interno delle case di sconosciuti la propria musica, ma non solo. Un secret live di nicchia, dedicato a pochi, sempre diverso e irripetibile. “Siamo esseri umani – mi spiega Chiara – e come tali vogliamo essere…umani! Vogliamo essere compresi, noi con la nostra musica. Quando entriamo a casa delle persone non vogliamo semplicemente suonare, ma instaurare con quei pochi e intimi ascoltatori un rapporto umano, entrando in sintonia con loro”.

Un tour indoor che racconta la situazione dei musicisti emergenti, pieno di difficoltà ma anche di soddisfazioni, un modo per raccontare la competizione e combatterla – metaforicamente, per carità – a colpi di chitarra. Una musica diversa, umana e autentica, un modo per trascorrere del tempo tra una canzone e un bicchiere di vino e, perché no, qualche confidenza. Nessuna interpretazione, nessun filtro, nessuna messinscena.

Il semprepiùpoveritour è, di fatto, una trovata simpatica per sottolineare in modo intelligente la difficile condizione in cui si trovano oggi molti musicisti: da soli, in un mare di squali assetati di sangue, dove chi prima suonava in una fabbrica abbandonata e ora riempie i palazzetti, allora è un figo. Ebbene, nel 2019 – all’alba di un futuro gestito da intelligenze artificiali, macchine che si guidano da sole, assistenti domestici e Auto-Tune che trasformano i cantanti da doccia in pop-star, siamo ancora al punto di contare. Contare qualsiasi cosa: persone ai concerti, visualizzazioni, ascolti, click, like, cuori, case, libri e fogli di giornale. Ma sticazzi non ce li mettete? Eddai regà.

 

Giovanna Vittoria Ghiglione

 

A Ferrara si va “Fortissimo”

Matteo Bianchi ci racconta la sua “Penna”

 

2 DICEMBRE

 

«I don’t want to be the one / left in there, left in there»… laggiù, in una cittadina tra i campi, sul cuscino di lui lei aveva sistemato una mattina il suo pigiama, prima di andare al lavoro. Si sa quanto i pigiami siano morbidi. E magari sono quello che portiamo addosso di più sincero. Spontanei, a volte scontati. Quello che basterebbe per svegliarsi bene il primo gennaio. Il suo aveva un biscotto enorme, tante stelline e tante piccole lune su un cielo blu. E lui che con gli occhi la seguiva da mesi sul finire del turno, in mezzo alla folla degli acquisti, sapeva che ci sono cieli e notti in giro che riempirebbero una casa. Più delle luci di Natale. Notti sfogliate solo nei racconti che l’avrebbero scaldato più del solito cappotto grigio. Quello da battaglia, appeso vicino all’entrata. Di solito lei dormiva sul fianco destro, lievemente raccolta, con le braccia al petto; perciò, quando spegnevano la luce al secondo piano in una stanza tra le tante, lui le prendeva le mani e la stringeva a sé. In due si vede anche al buio, e il buio stesso si fa inconsistente. Talvolta si svegliava per assicurarsi che lei non avesse freddo, le baciava i capelli che si erano sciolti sul cuscino e tornava ad appoggiare il viso sulla sua schiena, sperando di avere altri dieci minuti a disposizione, sebbene del tempo non gli importasse più granché.

 

 

Copertina Fortissimo 1 

 

Il libro si intitola Fortissimo (Minerva), comprende un mezzo piano e si apre con dei versi degli Anthony and the Johnsons. Quali e quante musiche ci sono in questo libro?

«Il testo di Hope there’s someone si sovrapponeva a quello che sentivo per la persona di fianco a me in quel momento. La musica è la prova di una coincidenza che diventa emozione. Anche il tono e il timbro vocale erano adatti alla circostanza. Fortissimo e Mezzo piano hanno sia una connotazione fisica di spazio, legata alla percezione della realtà circostante, sia una temporale: il mezzo piano è il mezzanino di ogni condominio che consente incontri momentanei, in cui ci si dice tutto con uno sguardo. Esiste una sfumatura musicale che lega i due titoli: sono entrambi indicazioni dinamiche dell’intensità sonora e, astraendo, offrono la possibilità di dare volume alle conseguenze delle nostre azioni».

 

Se dovessi scegliere una (o più d’una) canzone da ascoltare in sottofondo, leggendo le tue poesie, quale sarebbe?

«Mi hanno accompagnato nella stesura l’intero Bon Iver, Bon Iver, Solitude di Ryuchi Sakamoto, Odradek di Alva Noto, proprio per affrontare il buio. È stata la reazione visionaria di questi artisti, ognuno con il proprio stile, a convincermi; il modo con cui si sono opposti all’incombenza del passato sul presente. D’altronde “il sogno è l’infinita ombra del vero”, scriveva Pascoli».

 

Secondo te, poesia e musica mantengono ancora oggi il legame indissolubile che hanno fin dalle origini?

«Decisamente. La prima parte del libro è una prosa poetica, vale a dire una prosa costruita mediante figure retoriche, prevalentemente di suono. Uso assonanze, allitterazioni e rime in quantità per sostenere quello che di fatto è un flusso di coscienza. Un monologo interiore che asseconda i miei stati d’animo. È il riflesso di quello che ho provato, e la musica mi è fondamentale per tenere insieme il discorso. Dove non c’è logica e razionalità, e nella poesia non c’è, la musicalità è un medium: dà alla parola lo slancio necessario per arrivare all’orecchio del lettore, non solo alla sua mente. Non applico una struttura metrica tradizionale abbastanza solida o lavorata, sono andato a orecchio».

 

E il mondo della musica e quello della letteratura trovano ancora qualche connessione?

«Sono in realtà molto scoraggiato, mi demotiva parecchio il panorama attuale, perché il punto di collisione più forte era quello cantautoriale, anello di congiunzione tra testo poetico e musicale. Siamo circondati da prove scadenti, non trovo contemporanei viventi degni di nota. Forse solo Nicolò Fabi riesce a tenere il punto, e, quando è in forma, Samuele Bersani, poiché dimostra un grande rispetto nei confronti della lingua, questo per quanto riguarda i più giovani. Guccini, Branduardi e Vecchioni sono indimenticabili soprattutto per le prime prove; Battiato e Tenco, ovviamente, e pure Gino Paoli agli esordi. Ma la cosiddetta “scuola genovese” in toto, conquistata dalla passione di De André: “Sono evidentemente fortunato – annotava sotto le ciglia – soprattutto quando riesco a trasformare il disagio in qualcosa di bello e magari anche di utile, non necessariamente di memorabile”.

Un altro filone interessante è quello che unisce il rap al poetry slam, la poesia d’occasione incanalata su un tema a richiesta. Io non sono vicino a quel metodo di scrittura: nel poetry slam la forma si impone troppo sul contenuto rischiando di impoverirlo, non solo di storpiarlo. Davanti a un impoverimento cambierei approccio, per questo non l’ho mai concepito, anche perché scimmiotta un’urgenza, è un volersi dare un tono d’emergenza che di fatto non corrisponde alla realtà. Non c’è più la ricerca di equilibrio».

 

I temi portanti del libro sono l’amore, il tempo, la quotidianità. Qual è il filo rosso che tiene tutto insieme?

«Il filo rosso della raccolta è la necessità di innamorarsi, perché spesso, anche se non sempre, innamorarsi o riuscire a innamorarsi ancora rende liberi.  Che poi sia una libertà illusoria ed effimera, che non può fare i conti con la realtà, è vero, ma l’esigenza rimane. Se vogliamo tracciare un parallelo musicale, ciò che lega i miei testi è l’innamoramento che dà il la a un sentimento amoroso, proprio come la prima nota avvia un brano».

 

Irene Lodi

Limbrunire e l’innovazione nel cantautorato

Siamo nell’era dell’emulazione, del – tutti copiano tutti – con la convinzione che la stessa formula valga e funzioni a prescindere da quelli che siano i contenuti di ogni singolo individuo.

Siamo nell’era in cui la musica sembra un grosso contenitore, a tratti fin troppo piccolo, incapace di racchiudere così tante note e parole, ma la cosa più difficile è senza dubbio quella di distinguersi ed “emergere” facendo la differenza.

C’è un ragazzo che sa bene come fare, sa bene come farsi riconoscere senza che ci sia neanche lontanamente il rischio di non essere identificato e questo accade per due motivi: il primo riguarda i testi delle sue canzoni, tutti lontani dalla parola “banale” perché ha la straordinaria capacità di descrivere e raccontare in un modo tutto suo ciò che sente e lo fa con estrema cura nella scelta delle parole da usare e accostare l’una all’altra.

Il secondo riguarda la sua persona, il modo in cui percorre la strada che ha scelto “lottando” a mani nude e con la sua chitarra creando musica vera, proteggendo e conservando la sua identità artistica che coincide perfettamente con la sua identità personale e umana.

Il ragazzo in questione si chiama Francesco Petacco, meglio conosciuto come Limbrunire un giovane talento proveniente dal levante ligure che ho scoperto qualche mese fa grazie al suo ultimo singolo “Ho – Oponopono” estratto dal suo primo disco: “La spensieratezza”  uscito a giugno del 2018.

La prima cosa che ho pensato ascoltando quella canzone dal titolo quasi impronunciabile è stata: “Che genio!” e la stessa esclamazione mi ha accompagnata durante l’ascolto di ognuna delle restanti tracce del disco che ho ascoltato e riascoltato fino a conoscerle a memoria.

Limbrunire ormai mi accompagna “all’imbrunire”di molte delle mie giornate, soprattutto durante i viaggi in macchina.

Con la sua musica è un po’ come fare un “viaggio nel viaggio” e ho aspettato prima di chiedergli un’intervista, perché volevo andare a fondo.

Volevo capire bene quali fossero i suoi messaggi e quale fosse la sua linea che si è rivelata ben presto una bellissima linea curva, proprio come la vita di ognuno di noi…

E’ solo che poi c’è qualcuno che ha una sorta di “dono” nel raccontarla e risulta quasi impossibile non rimanerne affascinati.

Ecco alcune delle mie curiosità….

 

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Facciamo subito un passo indietro prima di arrivare ad oggi e all’uscita del tuo primo album: La spensieratezza Chi era e quali erano i sogni di Francesco prima di diventare Limbrunire?

Francesco era ed è un ragazzo come tanti altri con una grande passione diventata nel tempo sostanza vitale e necessità primaria come la testa fuori dall’acqua dopo secondi d’apnea. I sogni di Francesco in realtà sono fiori di un prato che vengono annaffiati costantemente, a volte appassiscono ma poi rinascono più grandi e colorati di prima, alle volte vengono raccolti e regalati ad un sorriso come un battito di ciglia, di stupore. Francesco ha sempre creduto nelle possibilità di ogni individuo e come tale sente il bisogno di mettersi in gioco per lasciare un punto esclamativo su questo interrogativo passaggio! La condivisione per Francesco è un pasto fondamentale così come la curiosità di andare oltre i propri limiti, circoscrivere la temuta drammaticità del tempo a favore del qui ed ora, dell’essere presenti appieno, adesso!

 

L’uscita di un disco è il primo e vero confronto diretto con il grande pubblico, è il traguardo al quale si arriva attraversando vari step che vanno dalla stesura di un testo alla sua registrazione. A distanza di quasi un anno dal giorno di uscita del tuo debut-album e dopo aver avuto modo di portare in giro la tua musica con un bel tour in giro per l’Italia, qual è la parte che hai amato o che ami maggiormente di quello che hai avuto modo di vivere grazie a questa esperienza e in generale del tuo percorso musicale personale?

Chiudere i flight-case, preparare la valigia, salire in auto, fermarsi agli autogrill, le cazzate, i chilometri on the road, le domande, i dubbi, le tensioni, i gradini, il palco, il sound-check, il riscaldamento, il bicchiere di vino, l’ultimo briefing e l’abbraccio con la band, l’ok, 3..2..1, la sensazione d’infinito! Turbinio d’emozioni e lacrime trattenute a stento, nastri riavvolti.

 

C’è un tuo brano che amo in particolar modo e che ad ogni ascolto mi regala una riflessione in più perché riesco a cogliere sempre qualche dettaglio che la volta prima mi era sfuggito ed è Non è allarmante. Prendendo spunto proprio dal suo testo, per te di cos’è fatta quella bellezza (da tramandare) e come inganni le forze contrarie?

La bellezza da tramandare risiede dentro di noi, nella nostra anima, nella fratellanza e riconoscenza, nella mano allungata e non nel pugno in faccia, nei piccoli gesti e negli spazi grandi, negli abbracci sinceri, nella presenza! Il mondo è pregno di bellezza ma l’odio, la brutalità, la malvagità ahimè fanno più notizia, hanno maggiore appeal mediatico e catalizzano maggior interessi, e tutto ciò che si ripete ciclicamente se viene servito come unico pasto quotidiano alla fine diventa paradossalmente buono, l’alibi sul quale addossare un nemico. Io credo che l’impegno di ognuno possa risiedere nel tramandare i flussi positivi e non considerare quelli negativi, nell’ignorarli completamente. Martin Luther King affermava:

“L’odio genera l’odio, la violenza genera la violenza, un conflitto genera conflitti ancora più grandi”.

Io credo che la bellezza possa generare solo bellezza, la non violenza la pace, la gratitudine e riconoscenza solo un mondo migliore. Gli esempi sono fondamentali perché noi un giorno saremo gli antenati di coloro che verranno! La mia missione risiede in questo, nell’essere ricordato come “artista” ma ancor prima come persona.

 

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Seguendoti molto sui social, ho avuto modo di vedere che hai fatto da poco un viaggio a Praga e da lì hai pubblicato la foto di un foglio pieno di parole, ci sono nuovi progetti in cantiere? E a proposito di viaggi, se avessi la possibilità di teletrasportarti in questo istante da qualche parte, dove andresti e perché?

Ci sono sempre nuovi progetti in cantiere, vivo di progetti, mi aiutano ad essere intenso e costantemente stimolato, ad essere proiettato sempre sul prossimo step da compiere! Nell’immediato uscirà un nuovo singolo con relativo videoclip e dopo… Chissà. Se avessi la possibilità di teletrasportarmi adesso sarei in Islanda o in Nuova Zelanda, comunque sia agli antipodi di dove sono adesso, per immergermi totalmente nell’ambiente selvaggio, lasciarmi rapire da scenari unici e creare un tutt’uno con gli elementi per ridimensionare l’ego e riconsiderare me stesso.

 

Se dovessi descriverti con uno stato d’animo, quale sceglieresti e perché?

Nostalgico perché ho la sensazione che qualcosa ci sia sfuggito, che qualcosa ci manchi.

 

Ultima domanda: quali sono gli elementi fondamentali della tua felicità? Li hai tutti in questo momento o c’è qualcosa che ti manca?

Non so cosa sia realmente la felicità, ci sto lavorando. So cos’è l’altopiano della serenità, il benessere psico-fisico e quello che mi permette di essere allineato. Mi manca sempre e comunque una cosa ma non la dirò per scaramanzia, la sto cercando da anni!

 

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Ringrazio Francesco per aver condiviso un pezzettino del suo mondo raccontando qualcosa in più di sé stesso e vi consiglio di ascoltare il suo album (disponibile su tutte le piattaforme online) per intraprendere uno di quei viaggi di cui vi parlavo poco fa, in grado di far guardare tutto quello che ci circonda ogni giorno da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati.

Se a scuola durante l’ora di musica ci fosse la possibilità di studiare i testi delle canzoni, proporrei senza dubbio di analizzare alcune delle sue.

Chi mette attenzione in quello che fa, poi quella stessa attenzione la merita ed automaticamente l’attira.

Limbrunire in questo è un fuoriclasse.

 

Claudia Venuti

La Vita “Eclettica” di Pietro Falco

Nessun nome d’arte per uno a cui l’arte scorre nelle vene da sempre, perché se è vero che ognuno di noi ha una dote dentro di sé, una sorta di vocazione che ci spinge a muoverci in una direzione piuttosto che in un’altra, Pietro Falco ha scoperto ben presto quale fosse la sua.

Pietro, classe 1990 originario del casertano da insaziabile buongustaio di emozioni ha ben pensato di prendersi cura della propria vocazione senza lasciarsela sfuggire, di alimentare in ogni modo possibile il suo amore per la musica e lo ha fatto senza la presunzione di arrivare in fretta ad un possibile traguardo.

Anzi!

Il suo background artistico spazia da piccole esibizioni live a Festival importanti come quello di Castrocaro al quale ha partecipato arrivando come finalista nel 2015. Da bambino ha scoperto l’esistenza delle note e crescendo ha iniziato a mescolarle e ha continuato ad ascoltare e allo stesso tempo a creare musica, la sua musica.

La passione per la propria musica è quella che ha portato questo giovane talento al 28 febbraio di quest’anno, data di uscita del suo primo disco Vita Eclettica.

Quando mi ha chiesto di ascoltare l’album in anteprima non ho esitato ad accettare e ad immergermi completamente nel suo mondo, perché già ne pregustavo il sapore.

Inoltre sapevo già che non avrei saltato alcuna traccia come spesso accade e che consapevolmente mi sarei riscoperta tra le sue parole, scritte con una penna fin troppo vicina all’anima delle persone (sicuramente vicina alla mia).

Sapevo già che il frutto di mesi e anni di lavoro, sacrifici e determinazione sarebbe stato sicuramente un ottimo frutto, lasciato crescere con i tempi giusti e pronto per essere raccolto e gustato da chi, non riuscendo ad esternare i propri sentimenti e le proprie sensazioni, si affida alle parole di chi invece ha la fortuna di saper trasformare stati d’animo in musica.

La prima cosa che ho pensato una volta ascoltato il disco è stata: “Mi piacerebbe fargli un’intervista!” per andare un po’ a fondo e conoscerlo meglio.

 

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Il 28 febbraio è uscito “Vita Eclettica” un album nato dopo anni di gavetta e mesi di lavoro, non solo materiale in studio, ma stando ai testi delle tue canzoni, soprattutto introspettivo. Come mai hai scelto questo titolo?

Diciamo che più che un disco è il ritratto di questa fetta di esistenza. Ci sono diverse storie, un grande amore, tante serate con i miei amici ad onorare la vita tra euforia e malinconia. Ho scelto questo titolo perché cambio spesso direzione, sia musicalmente che nella vita. Mi piacciono molte cose estremamente diverse tra loro. Forse è anche un modo per assecondare e ironizzare sulla mia instabilità! La prima persona ad attribuirmi l’aggettivo “eclettico” fu la mia professoressa d’italiano. Sto parlando, ahimè, di dieci anni fa… Forse anche di più!

 

In uno dei tuoi brani affermi: “Ascolto ancora i Gallagher…” quali artisti oltre a Liam e Noel hanno contribuito alla tua formazione artistica e in che modo?

Ho una doppia vita musicale. Nasco come chitarrista rock, ma sono cresciuto con i cantautori. In questo disco ho soddisfatto il desiderio di registrare tutti gli strumenti. Volevo essere il Lenny Kravitz della situazione! Mi divido tra il pianoforte e la chitarra. Il primo mi chiama nei momenti in cui mi sento più riflessivo, la seconda, beh, mi fa sfogare in modo unico. Ho ascoltato di tutto, dal pop al metal. Porto i Red Hot Chili Peppers tatuati sulla pelle, ma non posso rinunciare a Lucio Dalla, Vasco, Grignani, Cremonini, Bersani, Venditti. Durante questo percorso musicale, gli Oasis erano sempre lì, anche quando li abbandonavo pensando che la loro musica non potesse darmi più nulla. La brit music é ciò che sento più vicino a me in termini di composizione. Penso agli Stone Roses o ai The Verve. Ah, dimenticavo l’amore viscerale verso quel genio di Richard Ashcroft!

 

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Polistrumentista e cantautore… Raccontaci un po’ come e quando hai scoperto l’amore per la musica e cosa ti ha spinto a scrivere la tua prima canzone?

La musica per me è stata una sorta di richiamo. A casa avevamo un bellissimo pianoforte a coda ed io passavo le mie giornate a percuotere quei tasti bianchi e neri. Per un bambino la musica è magia. In realtà credo lo sia sempre. Ho scritto la mia prima canzone a 16 anni per una biondissima ragazza piemontese che in vacanza rubò il mio giovane cuore. Siamo in contatto ancora oggi e spesso scherziamo su questa cosa. È tutta colpa sua!

 

La musica è una terapia sia per chi la fa che per chi l’ascolta. Quali sono i messaggi che vorresti trasmettere alle persone che ti ascoltano e a cosa pensi possa servire o in che modo pensi possa aiutare la tua musica?

La musica per me è una forma di auto-terapia. Veleno e cura. Sono una persona come tante che vive situazioni e storie come tante. Non sono il primo, né l’ultimo, non sono speciale, né geniale, magari qualcuno si ritrova in questa “normalità.” Mi capita spesso che qualcuno mi scriva su Instagram cose del tipo “Questa l’hai scritta per me, sei un mago”. È sicuramente una delle sensazioni più belle che abbia mai provato. Scrivere di sé e parlare per molti…Questo è quel che più mi piace di tutta questa pazza storia!

 

Se ti venisse data la possibilità di tornare indietro per rivivere un momento, quale sceglieresti e perché? E allo stesso tempo se ti venisse data la possibilità di immaginare un momento da vivere, non ancora vissuto, cosa vorresti?

Potrei dirti che tornerei indietro per non commettere alcuni errori, ma sbaglierei. Gli errori sono fondamentali per il nostro futuro, sembra scontato ma a volte è giusto ricordarlo. Forse correggerei solo un episodio della mia vita, ma è strettamente personale. Posso dirti che le conseguenze di quell’episodio sono state la spinta emotiva di Vita Eclettica. Il momento da vivere? Non è San Siro, né Maine Road. Aspetto che Pierluigi Pardo mi chiami a Tiki Taka. Giuro questo è il mio sogno!

 

Stai promuovendo il disco con dei live molto apprezzati e stai ricevendo tanti feedback positivi, quali erano le tue aspettative a tal proposito, ma soprattutto quali sono le tue ambizioni adesso?

Da musicista adoro il Live e sicuramente lo preferisco allo studio, che ha comunque un fascino unico. I concerti sono una festa. Non voglio barriere tra me e la gente. Mi metto completamente a nudo. Infatti ci sono diversi momenti in cui resto da solo al piano, a 10 centimetri dalle persone. Stupendo! Sono molto contento perché la risposta supera di gran lunga previsione. Ho una band fantastica che mi accompagnerà in giro per l’Italia a promuovere il disco. Di Vita eclettica c’é una seconda parte. Adesso vorrei alzare un po’ l’asticella. Aspetterò pazientemente il momento giusto e cercherò di tenere a freno la voglia di spaccare tutto! Che la Dea musica ci assista. Grazie per questa bellissima intervista. Un saluto a Claudia e agli amici di VEZ.

Buona musica!

 

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E buona musica sia! Sempre! Se vorrete, da adesso in poi sapete dov’é possibile trovarne sicuramente un po’.

Vi ricordiamo che Vita eclettica è disponibile su tutti gli store digitali.

Buon ascolto VEZ!

 

Claudia Venuti

Grandine: emozioni, passione e autoproduzione.

Tra le tante cose che amo fare c’è sicuramente quella di scoprire nuova musica, quella che nasce da fogli sparsi scritti a mano, da momenti di solitudine tra quattro mura e quella che prende vita dalla passione di chi crede in maniera smisurata in ciò che fa, partendo da zero e partendo da solo.

Marco Cappugi, in arte Grandine è senza dubbio uno di quelli.

Mi sono innamorata della sua voce un anno fa, quando per caso (anche se credo che nulla accada per caso) sono “inciampata” nell’unico singolo allora disponibile su Itunes: America.

Chi mi conosce sa bene il mio amore per gli States e la facilità con la quale io riesca ad amare qualunque cosa provenga da lì o abbia a che fare con questa parola.

Così leggo il titolo e in automatico schiaccio play, dando inizio al mio viaggio nella sua America, attraverso il suo concetto di America, come sempre paragonata a qualcosa di grande, al massimo a cui aspirare anche per fare una semplice promessa d’amore.

E’ proprio così che inizio a conoscere meglio questo ragazzo siciliano con il sogno di incidere un album.

Inizio a seguire passo dopo passo il suo lavoro, il suo impegno e le sue registrazioni in studio e quello che vedo mi colpisce, la sua umiltà mi colpisce tanto quanto le prime note di quell’unico singolo disponibile.

Giorno dopo giorno arriva il 18 gennaio, giorno d’uscita di Origami il suo album d’esordio e grazie al mio piccolo spazio su VEZ magazine con la rubrica “VEZ incontra” ho l’opportunità di incontrare Marco e fare in modo che riesca a raccontarsi un po’ e lo fa con il suo carico di umiltà ed emotività in questo modo….

 

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Marco Cappugi in arte Grandine, come nasce la scelta di questo nome e come inizia la tua/ sua storia? 

Il nome Grandine deriva dal mood delle mie canzoni, la mia musica è molto malinconica e si basa sui miei ricordi e le mie emozioni. Ricordi ed emozioni che spesso fanno male dentro e che ti segnano. Anche se sono siciliano, amo il freddo e l’inverno, sono un po’ meteoropatico. Cercavo un nome che descrivesse tutto questo e un giorno guardando un anime giapponese sentì il nome “Grandine”, me ne innamorai subito e decisi di farlo mio.

Per la realizzazione di Origami, il tuo primo album, hai utilizzato la piattaforma Musicraiser, promuovendo l’iniziativa sui social network, hai ottenuto il risultato che speravi? Raccontaci com’è andata. 

Essendo completamente auto-prodotto e non avendo alle spalle un’etichetta discografica o qualcuno che investa sulla mia musica, cercavo un modo per poter affrontare le spese di realizzazione e promozione dell’album. Così decisi di provare la strada del crowdfunding. All’inizio ero scettico, ci speravo ma non credevo che sarei riuscito a farmi finanziare dalle persone che ascoltavano la mia musica, era uscito solo il primo singolo America e pensavo fosse troppo poco per poter coinvolgere tanti fan. Per fortuna mi sono dovuto ricredere. America è arrivata al cuore di tante persone che mi hanno aiutato nella campagna di crowdfunfing su Musicraiser e sono riuscito, grazie a queste persone stupende, a finanziare il disco. Sono molto soddisfatto di come sia andata.

Hai tentato altre strade prima di decidere di auto-produrre interamente il tuo album o è stata una scelta netta, fatta a prescindere dall’eventualità di avere una casa discografica alle spalle? 

Mi piace autoprodurre la mia musica. Ogni canzone è come un figlio per me e mi piace potermi esprimere in libertà senza dover sottostare alle leggi di qualcuno o alle leggi di mercato. Ho sempre fatto quello che mi piace, senza pormi limiti e mi piacerebbe restare libero. Ovviamente sarei un ipocrita se ti dicessi “non voglio una casa discografica alle spalle”, però se mai succederà in un futuro spero che mi lascino la libertà di esprimermi.

 

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I tuoi testi sono ricchi di sentimenti, di vita vera e quotidiana, raccontata con estrema naturalezza, tanto da sembrare appunto “vissuta”. Quanto c’è di Marco nei tuoi testi? 

Direi il 100%. Non sono uno di quegli artisti che si creano il personaggio e raccontano di cose mai avvenute per vendere qualche disco in più. Tutto il mio mondo musicale ruota intorno a quello che sono veramente. Dal mio vestiario alla mia musica. Per me scrivere è uno sfogo, un modo per esternare quello che non riesco a dire nella vita di ogni giorno. Non sono una persona che parla molto, ma nella musica mi sento libero di raccontare tutto quello che sento. Scrivere una canzone è un po’ come fare una seduta da uno psicologo, e una volta conclusa la canzone e averla riascoltata mi emoziono tantissimo quasi al punto di piangere, proprio perché parla di cose che mi sono tenuto dentro per tanto tempo.

La tua musica è un mix perfetto di tanti stili che vanno dal pop al rap all’indie, pensi di esser cambiato in base ai tempi o hai sempre spaziato tra i vari generi? E se ne hai uno, qual è il tuo preferito? 

Come dicevo prima mi piace essere libero. Nella mia vita ho suonato diversi generi e diversi strumenti, dal punk al metal, dalla chitarra alla batteria. Quando ho iniziato a fare musica suonavo in un gruppo punk/rap, poi in un gruppo nu metal dove la componente rap era sempre presente nonostante si trattasse di metal. Ovviamente col passare del tempo la musica si evolve e cambiano i suoni. Io ho sempre suonato quello che mi piace a volte anche fregandomene se quel genere fosse ormai “obsoleto”. Più che un cambiamento credo sia un’evoluzione. Un artista, dal mio punto di vista, deve sempre sperimentare, evolversi e sapersi mettere in gioco. Mi piace ascoltare di tutto, non credo molto nella distinzione di genere nella musica, credo che se una canzone è scritta bene non importa il genere o chi la canti, conta solo quello che ti fa provare.

Il tuo disco è appena uscito e siamo solo all’inizio del 2019, sono previsti appuntamenti durante quest’anno, per ascoltarti dal vivo?

Ancora non c’è niente di ufficiale ma sto lavorando per portare Origami su più palchi possibili, speriamo bene.

Qual è l’augurio che fai a te stesso?

Di non cambiare mai. Di scrivere musica sempre e solo per la gente che come me ha qualcosa da esternare e non ci riesce a parole, mai per vendere qualche disco in più.

 

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Le parole di Marco, che siano all’interno dei suoi testi o all’interno di un’intervista, arrivano.

Arrivano i suoi messaggi positivi e arriva una speranza, cosa rara come questa sua sensibilità che traspare in ogni nota. La musica di Grandine è davvero forte come un chicco di grandine, è in grado di spaccare qualunque cosa volendo oppure semplicemente può rendere tutto più bello, anche solo per un attimo.

 

Claudia Venuti

Da Savona ai tour internazionali, ecco chi sono i Maximals

Un promettente duo della musica Electro-Nu Funky

 

Partire dalle quattro mura della propria cameretta per arrivare a calcare palchi di una straordinaria importanza come quello dell’Holi Fusion di Torino o quello dell’Amsterdam Dance Event. Sembra la classica storia di chi ce l’ha fatta o ce la sta facendo, ma – vi assicuro – non è mai così “classica”. Quella luce negli occhi di chi, ogni giorno, cerca di portarsi a casa una soddisfazione, non è mai qualcosa di scontato, e mi emoziona sempre.

Si chiamano Riccardo Patruno e Davide Alpino, in arte Maximals, e nella vita producono e suonano (perché sì, si può dire che un dj suona) la propria musica per l’etichetta discografica Protocol di proprietà del nientepopodimeno che il signor Nicky Romero in persona. E ho quasi detto tutto.

Quasi perché su di loro, di cose, ce ne sarebbero moltissime da dire. Partiamo con una precisazione. In un mondo dove la grande borghesia dell’Indie e della Trap sta avendo la meglio sul mercato musicale italiano, esistono tantissime “piccole” realtà che lavorano e producono musica di qualità ma che oggi, spesso, tendono a essere sovrastate dalla grande onda mediatica che sta elevando la musica italiana. Da un lato, per fortuna, ma dall’altro – mi verrebbe da dire – anche meno.

Maximals non solo come nome e brand ma anche come genere. Quando domando se ci sia un’etichetta precisa per le loro produzioni, mi spiegano che: “EDM è una sigla troppo generica per noi. Electro-Dance-Music vuol dire tutto e niente. Preferiamo attingere da diverse dimensioni musicali e creare il nostro stile; miriamo a diventare noi stessi un genere a cui le persone possano ispirarsi. In due parole: Maximals style!”.

Grandi aspirazioni, voglia di fare e di farsi sentire, di far divertire la gente durante gli show. Questo giovane duo savonese gioca con il proprio entusiasmo e da una passione nata in adolescenza sta tirando fuori il meglio di sé. Tanti progetti, di cui poco mi accennano – forse per scaramanzia – tantissime idee e un laboratorio di creatività in continuo fermento. L’X-Studios, infatti, nato da non molto nel centro di Savona, è il loro rifugio e coperta di Linus insieme: un luogo dove tutto comincia e dove i pensieri prendono forma.

Ma non voglio spoilerare troppo. Ascoltate che cosa mi hanno raccontato.

 

Servizio di Giovanna Ghiglione

 

Anna Ox: un buon motivo per rivalutare la Lomellina

Suonano insieme da 10 anni, hanno alle spalle tre album, uno dal titolo GIOACCARDO (“Charles” Abnegat Records 2014), gli altri due ELK (“World” Picane 2015 e “Ultrafun Sword” Niegazowana 2016) e il primo marzo 2019 esce il primo ufficiale degli Anna Ox dal titolo Black Air Falcon Dive, grazie alla collaborazione tra l’etichetta To Lose La Track E LAROOM RECORDS.

La particolarità di quest’album è che sarà prevalentemente strumentale, un mix tra post-rock, elettronica, r’n’b, fatta eccezione per un’unica traccia. La traccia in questione si chiama Fucsite ed è quella che vede il featuring con Adam Vida, probabilmente sconosciuto alle orecchie dei più, ma necessario un solo ascolto per capire quanto la sua voce si sposi bene alla strumentale e quanto il pezzo funzioni.

Una voce decisa che non irrompe subito, ma merita di essere scoperta, come lo è d’altronde la storia che racconta il loro incontro.

 

Come è nato il gruppo?

Il nucleo degli Anna Ox suona insieme e si conosce da 10 anni. Veniamo tutti da Vigevano e siamo cresciuti suonando insieme, un po’ alla volta. Vigevano è un paesone e per noi suonare e andare a concerti di band conosciute e soprattutto sconosciute insieme (il video di Fucsite parla proprio di questo) è stata la colla della nostra amicizia. Dopo aver fatto parte di realtà eterogenee che in ogni caso ci hanno dato grandi soddisfazioni, abbiamo deciso di provare (per gioco all’inizio) a mettere insieme una formazione che prendesse spunto dalla musica strumentale, da anni la nostra principale passione. Abbiamo trovato una formula particolare, con un giro complicatissimo di cavi che permette al nostro fonico di essere a tutti gli effetti un membro live della band, dato che ogni suono che passa da chitarre e basso e controllato in uscita dagli ampli dalla sua postazione, per interpretare il momento ma partendo da una sorgente analogica.

 

Parliamo del nome, pare richiamare una cantante non propriamente sconosciuta…

È un classico nome da sala prova, che ha proprio quella dimensione lì che conserva a mio parere in potenza tutto quel sottotetto di amici che si incontrano da una vita per stare insieme e suonare e che sviluppano una chimica utile a partorire fenomeni del genere. In buona sostanza si voleva esser seri e chiamarci con un nome inglese di animale. Ox vuol dire toro e piaceva molto, ma da lì a rinominare la chat di gruppo Anna Ox il passo è stato breve. A dire il vero ci piace molto. Ovviamente musicalmente nessuno di noi ascolta con assiduità Anna Ox a, ma concordiamo sia una super cantante con alle spalle dei gran brani. Sarebbe bello un giorno fare un feat. con lei.

 

Come avete conosciuto Adam Vida?

Ho conosciuto Adam per pura coincidenza durante un viaggio di piacere in California nel 2015. Ero ospite di questa gentilissima signora italoamericana a San Francisco. La prima sera nel preparare la cena, mi raccontò che il giorno successivo ci sarebbe stato anche suo figlio che al momento si trovava al Coachella. Ovviamente ero convinto fosse fra il pubblico e invece era sul palco, come ospite di un noto rapper. Ho conosciuto una persona profonda, umilissima, con una storia e una visione del mondo affascinante nel cuore, che poggia le basi sull’accettazione della vita e del diverso (Adam è figlio di una immigrata italiana e di un immigrato senegalese). Siamo rimasti in contatto, scambiandoci la nostra musica (lui nel frattempo è diventato decisamente e meritatamente popolare). Vista la sua impennata non avrei mai immaginato che saremmo arrivati a collaborare fattivamente a un brano e invece il suo amore per la base di Fucsite è stato a detta sua folgorante e ispirante, tanto che mi sono ritrovato una mattina inaspettatamente una linea di voce su una mail con oggetto una roba del tipo: How does it works? Mannaggia, funziona da Dio Adam, altroché.

 

È previsto un album?

È prevista l’uscita di un album. Si chiamerà BACK AIR FALCON DIVE e uscirà per l’etichetta TO LOSE LA TRACK in collaborazione con LAROOM il 1° marzo. È composta da 7 tracce. Doveva essere tutto strumentale, ma alla fine Fucsite ha come ospite Adam Vida. È stato un esperimento stimolante e di successo, quindi è probabile che altre tracce del disco riusciranno cantate da altri artisti. Per quanto ci riguarda la dimensione strumentale ha comunque una dignità propria altissima, siamo grandi fan del genere ed in effetti le canzoni hanno tutte una propria emotività e grazia che permette loro di stare in piedi già da sole.

 

Alice Govoni

 

 

 

Futura 1993 è il network itinerante creato da Giorgia Salerno e Francesca Zammillo che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro, attraverso un programma radio e tante diverse testate partner. Segui Giorgia e Francesca su Instagram, Facebook e sulle frequenze di RadioCittà Fujiko, in onda martedì e giovedì dalle 16:30.

 

Teryble e l’omonimo singolo – Intervista di Futura 1993

Non si muove una foglia senza che Futura 1993 non se ne accorga. Questa volta ad attrarre la nostra attenzione è stato Guglielmo Giacchetta, che già da un po’ muove i suoi primi passi nell’underground bolognese col nome d’arte di Teryble. Con il suo ultimo, omonimo, singolo Teryble”, il giovane trapper del capoluogo emiliano vuole mettere in chiaro subito il suo intento: far tesoro di quanto prodotto fino ad adesso per ricominciare con un nuovo progetto al fianco di Parix Hilton, producer rinomato nella scena trap, ex chitarrista di Sfera Ebbasta, oltre che agente dello stesso Teryble. Abbiamo deciso dunque di fargli qualche domanda anche per testare di che pasta è fatto.

 

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Guglielmo e Teryble, quanta distanza c’è tra la persona e il personaggio?
Sono sempre stato un po’ timido nell’esprimermi e raccontare quello che sono. Quello che ho creato fa parte di me, sono semplicemente io che racconto quello che non sono mai riuscito a dire. Non voglio etichettarmi come personaggio, non mi riconosco in nulla di quello che già esiste: i miei messaggi, quel che faccio, ognuno è libero di interpretarlo come gli pare.

Parliamo del tuo nuovo singolo: come è nato e qual è il suo messaggio principale?
È nato quasi per scherzo, in questa canzone ho raccontato in modo giocoso la mia vita e quello che sono, non abbiamo pensato a un messaggio preciso da dare ma piuttosto a presentare Teryble e le sue sonorità. Il vero messaggio arriverà con le prossime uscite, spero.

Hai affermato che Teryble è un collage di cose diverse; quali sono a tuo avviso le più importanti che caratterizzano il tuo alter ego?
Come ti dicevo prima, non credo sia etichettabile come alter ego, Teryble sono io, o meglio è una parte di me. Ciò che mi contraddistingue penso sia l’autoironia, direi che si vede abbastanza.

 

Come nascono i tuoi brani? Come gestisci il flusso creativo tra rime e strumentale?

Le canzoni, le rime e la strumentale escono sempre in modo estremamente naturale, per questo devo ringraziare Parix Hilton: ci chiudiamo in studio a parlare e fumare, è così che tutto nasce.

 

Qual è stata la motivazione che ti ha spinto a fare tabula rasa dei tuoi progetti autoprodotti per rilanciarti con questo nuovo progetto?
La voglia di rivalsa, di raccontare chi sono al meglio delle mie possibilità. Quel che facevo prima non mi rispecchiava, credo di aver trovato finalmente la mia dimensione.

Com’è il tuo rapporto con Parix Hilton? Come avete deciso di sviluppare un progetto artistico insieme?

Parix è un amico, un fratello e un collega, oltre ad essere il mio producer e il mio manager. Insomma è un elemento fondamentale del mio percorso musicale, ma anche di vita.

 

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La scena trap bolognese è in fermento, e giorno dopo giorno nascono nuovi ambiziosi progetti musicali. Come ti collochi in questo scenario? Perché Teryble è diverso?

Non c’è una scena statica a Bologna. Tutti i talenti che nascono qua poi faranno parte della scena di Milano, mentre noto un grande espatrio da Roma. Bologna è un punto di arrivo e un punto di partenza: un porto di talenti, si potrebbe dire così. Credo che l’unica differenza tra me e gli altri colleghi bolognesi sia la professionalità e la mentalità, punti fondamentali se vuoi che questa passione diventi un vero lavoro.

 

Considerando ciò che hai in serbo per il tuo pubblico, come pensi sarà il 2019 di Teryble?
Il 2019 per me è una sorpresa, il successo sarà determinato solo dalla continuità e dalla serietà. Tutto è già pronto, bisogna solo trovare il modo giusto di mostrarlo.

 

Ci salutiamo, ma con una domanda: perché vale la pena ascoltare Teryble?
Per qualsiasi artista credo non sia possibile spiegare la sua arte o perché a qualcuno potrebbe piacere. Le arti in generale non hanno un perché, specialmente la musica. È semplicemente il mio modo di esprimermi, può piacere come non piacere, c’est la vie.

Francesco Trovato

 

 

Futura 1993 è il format radio itinerante creato da Giorgia Salerno e Francesca Zammillo che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro. Segui Giorgia e Francesca su Instagram, Facebook e sulle frequenze di RadioCittà Fujiko, in onda il martedì e il giovedì dalle 16.30

 

 

 

Riccardo Sinigallia: a Cuore aperto

Abbiamo già raccontato della magia del live di Riccardo Sinigallia al Reowrk Club di Perugia, lo scorso venerdì 15 febbraio. Proprio per quell’occasione, qualche giorno prima, lo abbiamo raggiunto telefonicamente.

Appuntamento alle ore 16,20. E tanta emozione nell’ascoltarlo.

Attraverso la chiave delle sue parole, ha aperto un mondo. Un mondo che ruota attorno al suo ultimo disco Ciao Cuore, ai personaggi che lo abitano, alla luce speciale dei loro occhi. Un viaggio nella musica, nei progetti, nella passione e nella grande umanità del cantautore romano.

 

A distanza di quattro anni da Per tutti, lo scorso 14 settembre è uscito il tuo ultimo album che si apre con una sorta di “anti-manifesto”: << So delle cose che so e non ti posso spiegare, perché non esistono tutte le parole >>. Quanto la musica può essere d’aiuto nel trovare un canale d’espressione o almeno alcune di quelle parole?

Ohhh questa è una domanda nuova! E mi piace molto perché è effettivamente il motivo, o almeno uno dei motivi, per cui questi versi di Franco Buffoni, un poeta del nostro tempo, mi hanno colpito. Io vivo questo testo, quindi, un po’ da ascoltatore e un po’ da cantautore. Lavorando da tempo come scrittore di canzoni, ho realizzato quanto il rapporto tra musica e parole proponga sempre nuove profondità, nuove possibilità, nuove relazioni. Il quesito sui significati e sul rapporto tra la musica e il testo, anche solamente in relazione alle potenzialità che la parola e il pensiero lasciano da qualche parte, è un motivo di grande interesse. Ecco perché quel testo mi ha tanto colpito e ho voluto musicarlo. La musica può dare nuove interpretazioni, può cambiare dei significati rispetto a una parola o una frase. Può spostarli…e questo è uno degli aspetti del fare e scrivere canzoni che mi affascina di più.

 

Della musica fanno parte anche i “tempi pari”. In Bella quando vuoi sembrano essere personificati in coloro che affermano: “Niente paura e intende niente coraggio”. A chi ti riferisci?

È una constatazione. Ovviamente, non sono il primo a farla…arrivo trenta, quaranta anni dopo Pasolini. È la testimonianza contemporanea di quello che vedo intorno a me. Dell’omologazione, punto. Sia dei linguaggi che dei rapporti, delle attitudini delle persone nel quotidiano. I tempi pari sono un parallelismo tra i tempi della musica pop che sono divisi sempre solo in quarti, ottavi, sedicesimi, trentaduesimi e la modalità in cui molto similmente gestiamo e schematizziamo il nostro tempo. Tempo che non è più diviso in secondi, minuti, giorni, mesi, anni ma è anche schematizzato – oserei dire – da un punto di vista spirituale. Mettiamo ogni cosa al suo posto senza nemmeno più sorprenderci o addirittura evitando di sorprenderci troppo per non uscire da quei binari. Ed è quanto di peggio può succedere a un essere umano. Da musicista, è ciò che mi fa soffrire di più nell’ascoltare la musica del mio tempo.

 

E invece che prospettiva si scorge, “suonando per anni a testa in giù”?

“A testa in giù” può assumere un duplice significato. Da una parte, indica il guardare per terra… quindi una specie di rassegnazione. Potrebbe, però, anche indicare un ribaltamento, una rivolta rispetto a questa rassegnazione. C’è anche una terza interpretazione che, in qualche modo, si avvicina alla prima. In questi ultimi anni, la fortuna del nostro paese ha sempre privilegiato un certo tipo di omologazione, come dicevamo prima. Invece, chi ha intrapreso una ricerca nella fragilità o nel fallimento è sempre stato obbligato a portarla avanti a testa in giù. Come di nascosto, chiedendo permesso. Sempre con quella sfumatura di criminalità, di vergogna e dovendo giustificare l’utilità di tutto ciò. È la ricerca, però, ad essere alla base di ogni scoperta, supponendo anche il fallimento e l’errore. È fondamentale che l’uomo ricerchi e non tenti soltanto di essere produttivo.

 

Protagonista dei tuoi brani, tanto da apparire nel titolo del disco, è il cuore (Ciao cuore, A cuor leggero). Quante e quali sfumature assume per te questo termine anche così “tradizionale” all’interno del panorama musicale italiano?

In realtà, lo uso esattamente per come è sempre stato usato nella tradizione italiana e non solo. È un simbolo che racchiude la mia orgogliosa rappresentazione del soul, di una musica che venga dalla semplice espressione di ciò che si è e della ricerca di sé, prima di ogni ragionamento o possibile utilizzo. Il soul romano è perfettamente sintetizzato in due parole: Ciao Cuore. Un saluto che può essere di benvenuto, di arrivederci o di addio. E il cuore che rappresenta il soul, l’anima.

 

In riferimento al tuo metodo di comporre canzoni, tempo fa, in un’intervista, hai dichiarato che non riesci a scrivere partendo da tematiche o da un evento storico. Come è nata allora Che male c’è, dedicata a Federico Aldrovandi?

Ho scritto quella canzone quando Valerio Mastrandrea mi ha portato due pagine su quella vicenda. Quella concretezza di cui parli non viene da me ma da una richiesta di Valerio. Poi ho lavorato sulle due pagine con il mio metodo tanto che nel brano non ci sono dei riferimenti così precisi alla vicenda. Ma se uno sa che parla di quello, ci si trova catapultato dentro. Io non riesco tanto a scrivere su un argomento…e non è nemmeno una cosa che mi va tanto di fare. Non vivo la canzone con un obiettivo giornalistico, come un’inchiesta. La vivo come una dimensione a sé che mi permette di aprire un varco spazio temporale in cui la realtà c’è ma solo come punto di riferimento.

 

In Dudù e Backliner delinei due figure “umili” che ho collegato, in ambito letterario, ai Vinti di Verga. Coloro che si accendono quando le luci si spengono. Che insegnamenti e che segreti possono svelarci?

Voglio citare, a riguardo, una frase di Giannino Ferretti della canzone In viaggio: “Viaggiano i viandanti, viaggiano i perdenti. Viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti”. Questo verso mi ha sempre colpito molto perché anche io tendo a privilegiare in maniera naturale, sia quando scrivo che nelle relazioni, le persone che hanno negli occhi il racconto di chi non emerge. Vedo sempre una luce diversa nei loro occhi. Li trovo più interessanti rispetto agli “adattati”. Mi affascina raccontare quelle persone. Poi… non si sa mai eh…magari un giorno scriverò una canzone su Totti!

 

Tutti i personaggi del tuo album appaiono, uno dopo l’altro, sia sulla copertina che nel videoclip di Ciao Cuore, trasformandolo nel trailer che riassume il progetto. Come nasce questa attenzione per l’aspetto più figurativo e più visivo della musica?

Alla fine del disco mi sono dilettato sull’aspetto iconografico e visivo delle canzoni. Ho capito che sarebbe stato possibile simboleggiare ogni brano attraverso una persona, un oggetto o un personaggio. Quello che viene fuori è un ritratto di famiglia, la famiglia allargata di Ciao Cuore. A quel punto mi sono divertito a rappresentare la figura della rockstar decadente, quasi un Keith Richards romano, interpretata da Valerio Mastrandrea nel video e in cui io mi identifico. È nato tutto in modo molto naturale ed è stato divertente.

 

Il sound del disco è un mosaico di molte influenze: dal blues all’elettronica, dai ritmi tribali a un’impronta cantautoriale che dà ampio spazio alla linea vocale. A quali ascolti o a quali generi ti sei ispirato?

È la naturale evoluzione del lavoro di ricerca che ho fatto in questi anni, in cui mi piace moltissimo lavorare in editing e in fase di rimescolamento della forma-canzone e del suono dal punto di vista strutturale e compositivo. Invece, per quanto riguarda la voce, avevo voglia di essere molto asciutto e concreto. Mi sono mosso su questi due livelli: un editing anche feroce nella parte “climatica” e sonora, mantenendo sempre il testo perché non volevo che si perdesse niente. Per me il testo è centrale. Non vuol dire che non lavori sperimentando effetti sulla voce o che non l’abbia fatto altre volte anche in maniera preponderante. Su questo disco, però, mi interessava essere più assertivo nella parte vocale.

 

E ti senti più produttore o più cantautore?

Non separo molto i due aspetti. L’idea di me come produttore si è creata negli anni, avendo lavorato a dischi di altri artisti. Io non faccio questa distinzione. Per me la parte preponderante sta nella relazione tra il lavoro sonoro e le parole. Vive lì in mezzo l’aspetto che mi interessa di più, quello che cerco. E che non sta né nella produzione fine a se stessa… che anzi mi infastidisce… o nel testo e basta. Ma è sempre nell’insieme.

 

Per l’ultima domanda, cito un tuo verso: “Ho cercato tanto la felicità, al limite dei sogni, per un’eternità”. Oggi, l’hai trovata?

Credo che non sia tanto rilevante per me immaginare, cercare o pormi l’obiettivo di essere felice quanto accorgermi di essere felice. Questo è il lavoro che sto facendo perché è la cosa più complicata. La rivelazione arriva quando ti accorgi che stai attraversando un momento di felicità. E godere di quell’attimo è molto complesso per noi occidentali. Da questo punto di vista, dovremmo intraprendere proprio un percorso di ascolto interiore e rispetto a quello che c’è intorno a noi. Perché quando ti accorgi della felicità, sei veramente felice.

 

Laura Faccenda

Nessuno lo deve sapere: il nuovo disco di Brenneke svela cosa è scritto nelle stelle

Questo 2019 è iniziato all’insegna di uscite musicali. Quello che non è ancora stato svelato al pubblico è Nessuno lo deve sapere, terzo album (in uscita per VetroDischi il 1 febbraio) di Brenneke, al secolo Edoardo Frasso, classe 1989.

L’ho ascoltato in anteprima per  Futura 1993,  e posso rivelarvi quello che ci aspetterà.  La prima cosa da sapere è che quello che Brenneke tesse, all’interno delle dieci tracce del disco ( in cui compaiono anche Compleanno e Lasciarsi alle spalle, i primi due singoli usciti) è un viaggio fisico e spirituale in un’altra dimensione, estremamente reale e allo stesso tempo lontana, un po’ come lo spazio.

Ecco, in questo viaggio spaziale siamo accompagnati da Edoardo stesso, che si racconta attraverso amori finiti, amori in corso, tracce di vita vissuta ma soprattutto vivibile. La prima cosa che viene in mente ascoltando i suoi brani è che questi formino una sorta di mappa che ci fa percorrere in tutti i luoghi, reali e metaforici, che costellano l’album.

Senza accorgercene ci siamo persi in un’isola irlandese e troviamo rifugio in pezzi di un’altra persona, catapultati nello spazio, in mezzo a Satelliti e segreti.

La cosa che più colpisce dell’album è che diventa bello al secondo ascolto, quando l’orecchio si è già abituato ai suoni felici, quando non si fa più caso ai ritmi pop e ci si concentra sui testi, perché in quel momento le immagini di Brenneke diventano nostre, le sue parole descrivono il nostro vissuto.

È quello il momento in cui Nessuno lo deve sapere diventa uno dei prodotti più limpidi che mi sia capitato di ascoltare in questi anni. Dopo aver ascoltato l’album ho deciso di portare Brenneke all’Osservatorio Civico di Milano, perché mi sembrava potesse essere la location giusta per fargli qualche domanda per aiutarci ad orientarci meglio in questo viaggio.

 

La prima domanda che ti faccio è abbastanza canonica, raccontaci il tuo progetto, descrivendolo con tre aggettivi. 

Il mio progetto è Indipendente nel senso che io ho un bisogno stratosferico della mia indipendenza, intesa come la necessità di essere lascito un po’ da solo. Ho anche attraversato periodi con le band, ma alla fine ho bisogno di stare da solo.

È indipendente ma non è indie, è una parola che non mi piace perché è diventata sinonimo di moda, che non è necessariamente negativo, ma l’indie  storicamente è la controcultura, non ha a che fare nulla con la moda. Mentre venivo qui  in macchina ho sentito il vecchio disco di Giovanni Truppi e ho pensato che quello era vero Indie, e che in questo caso la parola ha un’aggettivazione culturale impressionante.

In quel disco c’è il jazz, c’è il rap, c’è Rino Gaetano ed è frutto di una mente artistica che sapeva perfettamente quello che voleva e che era politicamente connotata. Secondo me oggi manca un po’ questa accezione nell’indie.

Il secondo aggettivo è pop, ma quando ti dico pop io penso ai R.E.M., un pop che se ne frega. Poi ti direi provocatoriamente contemporanea, ma non tanto per una questione di sound, quanto per il fatto che per quel che mi riguarda non avrei potuto scrivere dieci anni fa quello che ho scritto oggi. Ne viene da sè che lo stesso album scritto oggi non penso possa parlare della realtà tra dieci anni.

Mi inorgoglisce molto l’idea di aver fotografato qualcosa che è adesso e basta. Per ultimo ti direi vivo nel senso che si evolve, che è una cosa che io ho sempre percepito nella sfera live. E’ un annetto che non mi esibisco live, ne ho fatto solo qualcuno acustico, ma tra pochissimo c’è il mio nuovo debutto. Però nel 2016/17 ho fatto decine di live e una cosa che ho sempre molto apprezzato, che veniva fuori sia con la band dell’epoca che con quella di adesso, era che i pezzi evolvevano. E mi piace avere questo approccio vivo.

 

Ecco, avendo ascoltato l’album, secondo me il tuo è un album da cantare. Nel senso che il modo stesso in cui tu lo canti porta le persone a cantarlo con te, quindi ti volevo chiedere, quale sarà l’approccio al live? 

Sarà, appunto, un live molto vivo. Il principale strumento delle mie canzoni, so che sembra banale ma non è così, è la voce. Non per tutti è così, io amo utilizzare la voce come la potrebbe usare un Dylan o un De Gregori. Quando uno ascolta un disco con me che sillabo le parole in un determinato modo, non deve necessariamente aspettarsi che ad un live io le faccia esattamente così.

 

Il tuo album è stato una sorpresa, non lo immaginavo così. Avevo ascoltato Compleanno e me lo immaginavo forse un po’ meno ritmato. Partendo dalla prima traccia fino all’ultima c’è quasi una crescita vocale. È qualcosa di voluto o è casuale? 

Allora è un disco abbastanza up-tempo e ora che mi fai pensare, effettivamente è vero quello che dici, c’è un crescendo vocale! In realtà non è stato voluto, ma mi piace molto.

 

Ti ho portato qui all’osservatorio perché voglio anche parlarti di spazio. Se il pianeta Venere significasse amore e Marte separazione, in quali brani troveremmo questi due pianeti? 

La cosa bella è che quasi tutte le canzoni li comprendono entrambi. Penso che così, su due piedi, quella che rappresenta meglio entrambe le anime è  Lasciarsi alle spalle,  perché ha in sé una doppia lettura. Lasciarsi alle spalle vuol dire sia smettere di amarsi in segreto l’uno dall’altra, metti caso due persone che convivono e che piano piano fanno affievolire i loro sentimenti, sanno che non amano più l’altra persona; quindi in un certo senso si stanno lasciando alle spalle l’uno dall’altra. Ma vuol dire anche dirsi addio, in senso positivo.

 

Sai io ti devo ringraziare, perché in questo album spesso e volentieri mi sono ritrovata! Una canzone che ho amato è Certi animali in cui secondo me si ritrovano molti luoghi, sia reali che metaforici. Molto romantica e forse molto triste. 

Sai, alcune canzoni di questo album sono state scritte tempo fa, quindi magari ci sono dei collegamenti a persone che hanno fatto parte del mio passato e che ora non sono più nella mia vita. È difficile da spiegare, ma a volte scrivere una canzone d’amore non significa amare ancora qualcuno, cantarla non significa riprovare le stesse cose. Una volta che una canzone viene scritta ed è davanti a me, per me diventa una sorta di esercizio di sillabazione ed è come recitare, è come un copione, un mantra e la sacralità della canzone è insita in questa cosa. Poi io in realtà amo questa cosa dei luoghi, cerco una certa geografia tra immaginario e reale.

 

Un’altra cosa che mi ha molto colpita del tuo album è il titolo, Nessuno lo deve sapere. Però poi è un album, quindi lo sanno tutti. Era questo che volevi? Lasciarci in un ossimoro? 

Sì, assolutamente sì. Poi, oltre ad essere il nome di una traccia (una delle canzoni più vecchie che ho scritto), Nessuno lo deve sapere racchiude un po’ il senso del mio modo di portare le cose sul foglio, da un punto di vista testuale molto più che musicale. E in fondo, anche qui c’è un ossimoro ( nel rapporto musica-testo) perché testi molto intimi sono accompagnati da suoni molto forti! Fatto sta che, che cosa non si deve sapere? Quelle cose che potremmo definire i sentimenti profondi, come la delicatezza che c’è nell’amore, come una conversazione tra amici. A me piace l’idea che le persone che mi sentono cantare abbiano la sensazione che sia un loro amico a raccontargli una storia.

 

È un album in cui ci si immedesima solo dopo qualche ascolto, è un album su cui si riflette! Era quello che volevi? 

Non so se è quello che volevo dato  mio modo di scrivere canzoni, ma è quello che mi viene detto da diversi anni. Anche con il mio disco precedente (Vademecum del perfetto me) e con il mio ep, a me la gente diceva “ le tue canzoni mi arrivano dopo” e io mi arrabbiavo, non capivo, volevo scrivere delle canzoni pop. Poi ho capito che è molto meglio questa cosa, ho capito che era quasi un regalo.

Facciamo una domanda più divertente. Fingiamo tu debba fare un concerto su Marte e puoi chiamare chiunque vuoi, presente o passato,  a cantare e suonare con te, chi chiami? 

Quindi io sono l’organizzatore di un concerto su Marte, allora, chiamo gli  U2 di Achtung Baby, gli Why? che sono una band che amo alla follia e vengono davvero dallo spazio, e poi chiamo i The Cure. E poi di italiano contemporaneo metterei  I Cani (di Aurora), poi porterei  La Rappresentate di Lista, Caso e poi Truppi.

 

Ultima domanda, c’è una domanda che nessuno ti fa?

Nessuno mi chiede mai nulla dal punto di vista tecnico sulla chitarra, io sono un chitarrista. Il fatto che io sia chitarrista influenza il 90% del mio far musica! L’altro 10% è influenzato dall’attrazione per quei cantautori che sembrano sempre stiano nell’etere, e le loro canzoni parlano di te ma tu non sai come. Io sono sempre stato attratto da questa superiorità, ho una vena verso l’umanesimo. Sono attratto dalla cultura ecco. La grandezza degli altri mi ispira tantissimo!

 

Mariarita Colicchio

 

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