Se nel 2015 provavi a digitare su GoogleSpanish Love Songs, come risultato della tua ricerca ottenevi qualsiasi cosa tranne questa band di Los Angeles, tant’è che se per “sbaglio” incappavi sul loro sito internet (all’epoca ancora in costruzione) una dicitura a caratteri cubitali ti ringraziava per la tenacia che avevi dimostrato nell’averli trovati.
Beh, i tempi son cambiati, e a furia di tour incessanti in America ed Europa siamo arrivati al terzo capitolo di questa incredibile band Californiana, nata inizialmente su Wiretap Records.
Già dal primo disco del 2016 si poteva intuire che questi ragazzi avrebbero fatto tanta strada, e ascoltando canzoni come Remainder dalle grandissime potenzialità melodiche, m’innamorai di loro dal giorno 1, e con gli amici facemmo le prime furgonate verso Vicenza per vederli real live alla Mesa di Montecchio prima nel 2016 e poi nel 2018. Ringrazio ancora oggi il promoter che li organizzò due volte di fila!!!
Premettendo che il frontman Dylan Slocum ha una potenza vocale tale da poter cantare con qualsiasi band dal grunge degli anni ‘90 al rock dei giorni d’oggi, anche il resto della formazione ha raggiunto la perfezione, specialmente in questo ultimo disco si fa notare una sezione basso-batteria ancor più serrata rispetto i lavori precedenti.
Gli orecchi più fini potranno sentire anche l’uso di tastiere con suoni synth, pad e pianoforti, presenti in sottofondo su quasi tutte le dieci tracce, com’era già successo con Schmaltz, arricchendo ancora di più le frequenze già sature da chitarre crunch al limite.
Come nei loro dischi precedenti, non mancano (piatto forte della band), spazi sonori vuoti, dove ad un certo punto della traccia, la voce graffiante di Dylan rimane da sola, creando atmosfere emozionanti uniche, prima che il muro di chitarre, basso e batteria ritorni ad invadere quello che poco prima era silenzio cosmico.
In definitiva questo album conferma la crescita esponenziale del quintetto californiano, tra l’altro proprio in queste settimane in tour europeo di spalla a Menzingers, tra Inghilterra, Germania, Austria, Svizzera, Olanda e Belgio.
Purtroppo questa volta non c’è l’occasione di rivederli in Italia…speriamo in futuro.
Ancora una volta gli Spanish Love Songs dimostrano che siamo nel 2020, che un album punk può contenere otto canzoni su dieci di quattro minuti e che negli U.S.A. non vige il divieto dell’uso di tastiere e chitarre acustiche su questo tipo di musica, cosa che in Italia invece sembra essere ancora scolpita sullo statuto dell’alternative punk.
Oggi è una bella giornata, è uscito il nuovo degli Spanish.
Il 17 gennaio è uscito Fare Schifo, primo album di Scrima, giovane cantautore romano, già noto per i singoli Sofia ed Elisa. L’album è segnato da un sodalizio particolare: quello con Alessandro Forte (già produttore di Galeffi e Aiello), il quale ha anche avviato l’artista al suo percorso musicale.
L’album contiene nove brani e vede il suo filo rosso nell’amore, che plasma tutte le tracce dell’album, non esclusivamente nella forma di una storia finita; contiene un featuring con Mameli (Come quella sera) e un brano, Zanetti, realizzato a quattro mani con Riccardo Zanotti (Pinguini Tattici Nucleari).
Ho ascoltato l’album di Scrima il giorno in cui è uscito: le nove tracce non hanno richiesto molti sforzi per poterne apprezzare tutte le sfumature. Mi hanno colpito al primo ascolto, sorprendendomi traccia dopo traccia. I brani emergono dalla scena it-pop e da quella pop in senso più classico: è un lavoro che riesce ad inserirsi nella perfetta via di mezzo, senza pendere verso nessuna delle due direzioni in particolare.
Le canzoni nascono tutte da un’esperienza autobiografica: forse il dono di Scrima è quello di saper trasformare in parole l’esperienza che sta raccontando, nella totalità della sua forma.
Le tracce dell’album sono tutte cariche di emozioni e sensazioni diverse, probabilmente perché frutto di un’esperienza autentica. È proprio la loro autenticità che permette a chi le ascolta di identificarsi in ognuna di quelle parole, anche al primo ascolto.
L’album rappresenta un lavoro in cui l’artista non ha avuto paura di mostrarsi nudo davanti al suo pubblico: è questa la sensazione che le sue canzoni mi hanno trasmesso. Dalla semplicità toccante di brani come Milano alla delicatezza del ritratto Tommaso.
Non c’è bisogno di dilungarsi ancora: credo sia un album da ascoltare. Nel frattempo leggete cosa ci ha raccontato, sul suo album e il tour che si avvicina.
Fare schifo è il titolo che hai scelto per l’album. Devo rivelarti che prima di ascoltarlo ho pensato agli Skiantos, e al loro “imperativo morale”. Sono due cose abbastanza lontane, questo album e la loro musica. Mi è rimasta però comunque la curiosità, c’è un piccolo riferimento a loro?
“Conosco molto bene gli Skiantos e devo dire che apprezzo la loro musica, però non è collegato a loro. Il mio “fare schifo” è legato all’amore, alla sofferenza che ti porta la mancanza fino al punto di lasciarti andare completamente. Vuoto incolmabile che ti porta a fare schifo.”
Parliamo di Lei. Quando l’ho ascoltata ho avuto la sensazione che fosse una canzone che in realtà ho sempre conosciuto. Penso sia quella che mi ha colpito prima di tutte. Ci vuoi parlare un po’ di questo brano, di come è nato, e il legame che ha con gli altri dell’album? C’è uno storytelling abbastanza preciso dietro i primi pezzi.
“Lei è per me un po’ un piccolo gioiello all’interno dell’album . È una canzone in cui il lieto fine c’è. Lieto fine di un vero e proprio storytelling che parte dalla traccia numero uno Meno Male e attraverso il quale i protagonisti superano ogni tipo di avversità legata all’amore, fino a riconciliarsi proprio in Lei. Dico chiaramente “ancora tu, ancora lei” proprio per descrivere il riavvicinamento tra i protagonisti del pezzo. Parlando di stile sicuramente è meno indie rispetto ad altri brani nel disco ma forse è quello di cui sono più innamorato.”
Le canzoni che compongono l’album le ho sentite molto a fuoco, focalizzate bene verso una direzione, pur essendo diverse le une dalle altre. Mi sembra un lavoro dotato di molta personalità, probabilmente perché ti rispecchia molto. Vedi queste canzoni come piccole parti di te? Quanto c’è di te stesso all’interno di ognuna?
“All’interno di ogni singola canzone c’è tutto me stesso perché non riesco a scrivere di cose inventate. Parlo sempre ed esclusivamente di quello che mi succede in prima persona, cercando con immagini semplici ma profonde di far rispecchiare più persone possibili in quello che dico. Vi ringrazio poi per il complimento perché aver un disco che segue un certo stile significa essere distinguibili dalla massa e per un cantautore essere ben riconoscibile è una cosa fondamentale. Vorrei che un domani accendendo la radio, l’ascoltatore possa riconoscermi dopo 5 secondi di canzone.”
Nell’album c’è un featuring con Mameli in Come quella sera. Come vi siete conosciuti? Vuoi raccontarci come è nata questa collaborazione?
“Con Mario ci siamo conosciuti tramite la nostra etichetta, ma eravamo in contatto già mesi prima perché aveva collaborato anche lui con il mio attuale produttore Alessandro Forte.
Una volta entrati con la stessa etichetta ci siamo messi a lavoro e abbiamo pensato di scrivere delle cose insieme perché c’è molto rispetto tra noi, umano ma soprattutto artistico. A parte il featuring, insieme ci scambiamo sempre provini e bozze di brani nuovi. I suoi consigli e il suo parere per me sono sempre indispensabili.”
Mentre Zanetti è stata scritta a quattro mani con Riccardo Zanotti. Mi chiedo spesso come nasca una canzone quando nel processo creativo sono coinvolte due teste, quattro mani, e tanti vissuti diversi. Avete scritto insieme tutto, dal testo alla musica, o vi siete divisi “i compiti”?
“Zanetti è un brano che abbiamo scritto in due ore dentro la mia cameretta. Riccardo venne a Roma con l’idea di scrivere un brano insieme. Non sapevamo né come né in quanto tempo. Alla fine dopo due ore il pezzo era finito e il giorno dopo l’abbiamo prodotto insieme ad Alessandro Forte. Siamo stati abbastanza rapidi. Abbiamo scritto insieme tutto, musica e testi. Credo che nella versione finale ci siano ancora le chitarre che registrò Riccardo in studio nel provino. Erano perfette così.”
Sei nato e cresciuto nel quartiere popolare Giardinetti di Roma. Quanto ha influito, nella tua scrittura e nella tua musica, Roma? È punto di riferimento di un cantautorato ben preciso e anche di una nuova scuola, tra trap e rap. Cos’hai preso dalla tua città?
“Sicuramente la zona da cui provengo non è una zona facile. Posso dire che la musica mi ha creato l’alternativa alla monotonia della borgata e mi ha allontanato dalla cattiva strada. Quindi in un certo senso mi ha salvato. Roma poi, la città più bella del mondo. Ogni angolo ti offre spunti e piccoli dettagli che arricchiscono sicuramente in modo influente la penna di un’artista. Poi ovviamente bisogna saperli cogliere e anche quella è la bravura di un cantautore. Devo tanto alla mia città.”
Manca meno di un mese a Sanremo, e ci troviamo già in quel vortice sanremese che attraversa un po’ l’Italia in questo periodo dell’anno. Hai mai pensato a una tua partecipazione al Festival? Ti piacerebbe?
“Sono sincero. Non ci ho mai pensato ma sicuramente sì, mi piacerebbe moltissimo. È il sogno di ogni cantante o cantautore salire su quel palco e chi dice il contrario mente.”
Ti vedremo impegnato in un tour? Se sì, cosa ti aspetti da questa esperienza?
“Il tour sta per partire. Ci sono le prime tre date secche di lancio del disco. 21 febbraio Roma al Largo Venue, 20 Marzo Milano all’Ohibo, e il 21 Marzo Bologna al Club Mikasa. Voglio solo divertirmi tantissimo e cercare di divertire le persone. Vorrei regalargli l’emozione che ho io quando scrivo un brano e vederle uscire felici da un mio concerto.”
Tempo fa invece hai aperto una data importante di Galeffi a Roma. Come hai vissuto l’esperienza dell’opening? Sei davanti a un gruppo di persone che non ti conosce, o ti conosce poco, e devi cercare di convincerle in pochi minuti, con una selezione di brani…
“È stata un’esperienza fantastica. Marco per me è un fratello e ci sosteniamo molto a vicenda. Quello è stato il regalo più bello che mi potesse fare ed anche una grande responsabilità per me.
Il live è andato bene. Sono sincero, ho chiuso gli occhi, ho attaccato Sofia chitarra e voce e la gente ha cantato, anche forte. Direi molto bene.”
Allora, ti va di salutarci dicendoci quale brano dell’album sceglieresti, per presentarti a una persona che non ti conosce?
“Vi saluto e vi ringrazio per la bellissima intervista. Sicuramente per presentarmi sceglierei Lei perché è un brano immenso e potente che arriva dritto nel cuore delle persone.”
L’uscita di un disco dei Calibro 35 è sempre un evento speciale e particolare, capace di farci riassaporare sfumature musicali troppo spesso dimenticate ma ricche di umanità, forza ed energia. Momentum, il loro nuovo album pubblicato per Record Kicks, conferma pienamente tutto ciò, mostrando ancora una volta sfaccettature nuove dei cinque ninja della musica italiana, mai banali e amanti delle sperimentazioni.
La band, costituita da quattro tra i più talentuosi musicisti italiani, Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini, Massimo Martellotta e Luca Cavina, è completata dal produttore pluripremiato Tommaso Colliva, quinto membro a tutti gli effetti per il fondamentale apporto sonoro da lui conferito. Negli anni si sono contraddistinti per aver saputo ricreare agilmente e in modo estremamente attuale un sound tipico dei film polizieschi italiani anni ’70, ricchi di inseguimenti e sparatorie. Da un paio di lavori, però, questo format è stato progressivamente lasciato sullo sfondo per cercare nuove vie, nuove strade inesplorate, e anche nel caso di Momentum è stato così, proponendo un immaginario inedito, figlio di nuovi ascolti.
Le dieci tracce del disco godono di estrema compattezza sonora, con una coerenza concettuale in grado di legarle tutte. L’impronta funk-jazz dei cinque rimane inalterata, ma è possibile percepire influssi post-rock ed elettronici di notevole fattura. Come sempre, la produzione di Colliva è estremamente raffinata e bilanciata, il mix è incredibilmente preciso e dettagliato, sembra quasi di osservare una goccia di sangue al microscopio. Le cose vengono messe in chiaro già nel brano d’apertura, Glory – Fake – Nation, dove ci accoglie il drumming potente e inconfondibile di Rondanini su cui si innesta un loop di voce campionata unito a stratificazioni di synth, chitarre e bassi, creando un’atmosfera rarefatta e spaziale. Il secondo pezzo della tracklist è anche il primo singolo estratto dall’opera, Stan Lee, e vede la collaborazione del rapper americano Illa J, esperimento tutto nuovo per la band, che raramente in passato aveva collaborato con cantanti all’interno delle loro composizioni. Il risultato è decisamente ben riuscito, regalando coloriture hip-hop e soul perfette per il tessuto sonoro dei Calibro. Questi ultimi sono molto bravi ad adattarsi ai vari contesti per via della carriera parallela di sessionmen, e qui non fanno eccezione, mettendo a punto un beatmaking alla DJ Shadow.
Un altro brano sulla scia di questo mood è Black Moon, dove la voce di MEI si amalgama ottimamente all’insieme, dando la prova che il gruppo sa guardare oltre i propri orizzonti con credibilità, senza snaturarsi. La tracklist scorre che è un piacere, con variazioni timbriche sorprendenti e calzanti, tra influenze derivanti da Tortoise, The Comet is Coming, Mogwai e Cinematic Orchestra, il tutto frullato con reminescenze morriconiane e fusion.
Insomma, Momentum è l’ennesima conferma che i Calibro 35 sono molto più di una band tributo agli anni ’70, riuscendo ad alzare l’asticella sempre più in alto e portando il proprio pubblico in mondi inaspettati. Questo lavoro ci ricorda che la musica ben suonata e ben prodotta trasmette intense emozioni e bisogna essere eternamente grati a questi ragazzi, che, pur essendo stati campionati da gente del calibro di Jay-Z, Dr. Dre e Damon Albarn, negli anni non hanno cambiato approccio, continuando a divertirsi e a suonare come se fosse sempre la prima volta in una minuscola sala prove.
Se molte band perdono in interesse per un’assenza di tematiche e contenuti, gli Anti-Flag hanno il problema opposto: gli scenari internazionali che soffiano venti di guerra imminenti, sono forse l’ennesima rampa di lancio per i ragazzi di Pittsburgh.
20/20 Vision è il nuovo album di una lunga serie, ma anche l’ennesimo guanto di sfida che i paladini della musica politicizzata internazionale della nostra generazione lanciano al “palazzo”.
Il rilancio del punk rock idealista passa necessariamente dalla Pennsylvania.
Gli Anti-Flag evolvono senza perdere mordente, si districano in un turbinio di sonorità all’apparenza discordanti tra loro, ma legate come un nodo stretto in gola da una lunga carriera, che ha il sapore di un percorso coerente e imprescindibile.
Chi ha avuto la costanza di seguire la band fin dagli albori troverà e subirà particolari flashback riconducibili ad album datati, chi invece avrà il primo approccio alla band con questo album, non rimarrà deluso dalla pienezza degli spunti messi in tavola.
La varietà, per l’appunto è la colonna portante di questo lavoro.
Un mastering azzeccato e avvolgente, suoni corposi dove batteria, basso ed elettriche si tramutano in una singola bolla di adrenalina. Una mescolanza di intro e outro che fanno da filo conduttore, quasi a voler dare al tutto l’aria di un concept album.
Il marchio di fabbrica rimane immutato, viene solamente puntellato di sfumature che danno uno scatto di maturità e flessibilità. Lo si capisce sin da subito con Hate Conquers All.
Le liriche di Chris#2 restano inconfondibili, lo scream mai invasivo e il trasporto emozionale, degno di un live ben riuscito incarnano tutta la voglia e l’attitudine esplosiva di questo mattatore.
Il “cantato” di Justin Sane invero sembra aver avuto una sensibile modifica, a volte poco riconoscibile rispetto alle sue trentennali performance, tipologia di canto anomala, abbandonando l’accento grezzo verso una più appoggiata denuncia melodica. Esula dal discorso il primo singolo Christian Nationalist, vero e proprio cavallo di battaglia in cui si ritrova il frontman di vecchia data.
Con Don’t Let the Bastards Get You Down salutiamo dal lunotto posteriore dell’auto The Clash, ma anche The Terror Statedel 2003 prodotto da Tom Morello dei Rage Against The Machine.
Con a Nation Sleep ti addormenti di colpo e ti svegli in un’appendice di Underground Network, tempi raddoppiati, tecnica e velocità a fondersi in puro hardcore melodico.
Luci soffuse nella balladfilo radiofonica Un-American, brano degno di una nostrana Virgin Radio per intenderci, che spalanca le porte ad un finale trionfale supportato da trombe e fiati per i titoli di coda redatti da una nostalgica ed energica Resistance Frequencies.
L’innesco di qualche brano pop punkpotrebbe far storcere il naso agli intramontabili nostalgici, ma la musica come la vita è fatta di lampadine che si accendono e questa volta gli Anti-Flag hanno addobbato un albero di Natale. L’irriverenza di You Make Me Sick non ha bisogno di presentazioni, il titolo serve un assist automatico.
Emerge tutto il fuoco che ancora brucia dentro questi ragazzi del popolo, artisti che hanno fatto della musica un tramite per abbracciare gli ultimi.
Non è scontato mantenersi nella giungla del sociale quando le sorti del mondo da tanto tempo hanno sempre gli stessi protagonisti ma con facce diverse.
Gli idealisti che amano il punk rock però possono avere ancora qualcuno in cui credere, in cui appellarsi.
Gli Anti-Flag incarnano ancora una scuola di etica e tecnica, sopratutto nel mondo del “tutto e subito” dando una lezione importante, quella delle priorità.
A conti fatti la vita dell’uomo viene prima del successo, cosi come il messaggio di unione viene prima della musica stessa.
“Conta i lividi che servono per ritornare a scrivere”
È stata questa la frase con cui ho conosciuto gli Elephant Brain, per puro caso, con una canzone tra le tante consigliate dall’algoritmo di Spotify. È l’intro di Ci Ucciderà, brano pubblicato nell’estate del 2018 da questa rock band perugina e che dopo un anno e mezzo è rientrato a pieno titolo nel loro primo album Niente di Speciale.
Mi aveva colpito parecchio, quella frase. Innanzitutto perché sottolinea quanto sia intimo il legame tra arte e dolore, ma soprattutto lascia intendere che anche attraverso qualcosa di negativo come il dolore può fiorire qualcosa di bello.
Forse è un concetto un po’ inflazionato, ma resta comunque un bel concetto…
Niente di Speciale raccoglie questo dolore, lo scompone pezzo per pezzo e lo passa impietosamente al microscopio, ma lo fa con una dichiarazione d’intenti ben precisa: la prima traccia, Quando Finirà, è un po’ un invito alla speranza, al lasciarsi il passato alle spalle per poter ricostruire da capo sulle macerie.
C’è quindi la sofferenza in sé, ma non mancano tutti quei i metodi che tendiamo a usare come palliativi per negarla, dal fingere che vada tutto bene di Weekend alla voglia di fuggire davanti ai problemi di Scappare Sempre.
Le nove tracce si susseguono con velocità, seguendo un ritmo incalzante, mentre la voce graffiante di Vincenzo Garofalo si sposa benissimo con un sound crudo ed esplosivo ma curato, a dimostrazione che dal loro primo, omonimo EP del 2015 c’è stata una maturazione stilistica non da poco.
Il cerchio si chiude con la canzone che dà il nome al disco, Niente di Speciale, che è un po’ una presa di coscienza. È il momento in cui si smette di urlare e in qualche modo si cerca di fare pace con se stessi. Grande importanza è data alla parte strumentale, che va sfumando verso la fine, quasi a darci modo di riflettere su tutto quello che abbiamo appena ascoltato.
Niente di Speciale è un album onesto e che parla a tutti, senza distinzioni.
È anche un album che deve essere ascoltato live il più possibile, gridato a squarciagola insieme a loro a mo’ di catarsi per renderci conto che sì, siamo solo umani e quindi “niente di speciale”, ma almeno non siamo da soli e ci sarà sempre qualcosa che varrà la pena salvare.
Quando prendevi il telecomando e bastava comporre dei numeri sulla tastiera per venir catapultata in un altro mondo. Avendo cugini più grandi (che ringrazio di cuore), il nostro canale preferito era MTV. Non quello che guardate ora. Era tutto diverso. A rotazione, carrellate di videoclip, programmi, live, una meraviglia. Poi il declino. Ma questa è un’altra storia.
Girava un post punk revival melodico, i Green Day, Sum 41, Blink 182, i Fall Out Boy e Jimmy Eat World,erano il nostro pane quotidiano. La sera tardi in programmazione potevi trovare roba più “acida” o “strana” , e noi italiani andavamo forte. Verdena,Punkreas, Prozac+, Derozer, Porno Riviste e i SuccoMarcio. Spaccavamo le classifiche.
Anche in Italia era arrivato il contagio del pop punk, e per fortuna.
Mi ricordo, però, in particolare di una band, che adoravo, i Naftalina.Erano due ragazzi e una ragazza poco più grandi di me. Li passavano in radio, in tv. Io guardavo la ragazza, Klari (basso e voce) e sognavo di diventare così da grande. Il loro primo album Non Salti Come Me fu un vero successo. Balzarono subito nelle classifiche con il singolo Se, tra tour e ospitate in TV passò un anno, al termine del quale iniziarono a registrare il nuovo album, considerato troppo rock dalla major che nel gruppo ricercava sonorità più pop. Non si sono voluti piegare alla volontà dell’etichetta, quindi il gruppo si sciolse. Nel 2008 riapparirono in una nuova veste e scomparvero di nuovo.
Tornano definitivamente (?) insieme Peter (voce e chitarra) e Klari, nel 2018, e finalmente adesso riusciamo a sentire questo nuovo album La Fine, anticipato dal videoclip di Error 404,parodia di Bitter Sweet Simphony, dove troviamo uno splendido Auroro Borealo nei panni dell’incazzosissimo Richard Ashcroft, solo più sfigato.
Mantengono le loro radici, accordi semplici, chitarre distorte e ritornelli orecchiabili come in Labile, ma i testi sono più ricercati e adulti, per esempio in Distorta parlano delle donne moderne, regine di Instagram, fashion blogger e legate alla vita paradossalmente finta dei social.
La voce melodica di Klari si fonde con quella acida e particolare di Peter, sporcando i brani di un’aura punk e alternativa, ricordando i nostrani Prozac+ o gli internazionali Sonic Youth. Ma le melodie ricadono nel pop punk.
Non mi dirai, forse il pezzo più tosto dell’album, chitarre tiratissime e batterie picchiate ad arte.
La loro crescita si denota dagli argomenti che affrontano, come in Kalief Browder, doveraccontano a loro modo la storia di unragazzo di colore americano suicidatosi per le violenze e le angherie subite all’interno del carcere (gli ultimi minuti della canzone sono un’intervista allo stesso).
Nel album è presente anche un brano più soft (ma solo a livello musicale), Sopra di me, che parla di perdita e solitudine, in un ambient più malinconico.
La voce di Peter, in Nostrand Avenue è quasi ingenua e innamorata, per scoppiare in chitarre aspre e batterie ritmate, la presenza della tastiera e delle trombe lo rende il pezzo più pop dell’album.
Dopo 20 anni tornano, con le stesse sonorità da garage band che li ha portati al successo, ma con testi più motivati e profondi.
Per tutti quelli che hanno visto la propria adolescenza in toni pop punk sarà un ritorno al passato con la coscienza da adulto.
Per quelli che non hanno vissuto questo periodo, sarà una bella scoperta.
E mentre ci godiamo La Fine, aspettiamo già il prossimo album.
Chi non muore si rivede – in questo caso possiamo dire “si risente”.
Nella nostra cultura letteraria, il monomito, cioè il viaggio dell’eroe, è uno schema comune di un’ampia categoria di storie che descrivono le avventure intraprese dal personaggio per vincere una sfida, che lo faranno tornare a casa trasformato. Questo modello narrativo è stato descritto da Joseph Campbell studioso americano di mitologia comparata e storia delle religioni, ed ha influenzato la nascita diStar Wars eIl Signore degli Anelli.
Capendo l’eroe e il suo scopo capiremo il mito, e capendo il mito capiremo l’uomo.
Il monomito rappresenta lo scorrere della vita. Tutti affrontiamo le nostre battaglie interiori per riuscire a sconfiggerle, e queste storie ci raccontano di eroi che riescono a vincere, infondendo speranza a chi sta ancora lottando.
Come asserisce il maestro Yoda “Provare no. Fai. O non fare. Non c’è provare”.
Questa concezione di racconto ha ispirato l’album Monomythde The Warriors, che tornano dopo otto anni di silenzio. Band punk hardcore californiana, si sono sciolti nel 2011, ed ora eccoli, cresciuti, e decisi ad esporre il loro punto di vista sulla società attraverso un viaggio musicale in dodici tappe, che mantiene l’ambientazione punk hardcore con influenze rap metal, funk metal, alternative metal e nu metal.
Quattro album all’attivo in puro stile punk hardcore americano. Influenzati dai Rage Against the Machine e Snapcase, hanno riscosso molto successo nella prima decade degli anni 2000, finendo anche in serie tv (Netflix, Daredevil seconda stagione) e in videogiochi (Far Cry 5 e Steep) con il brano The Price of Punishment.
Questo nuovo album, composto da dodici canzoni, raffinato e progressivo, è il migliore del gruppo. Il talento è palpabile, l’esperienza pure. Una band in cui ogni componente sa quello che deve fare e porta a termine il suo compito in maniera precisa e coesa.
La voce altisonante di Marshall Lichtenwaldt , la batteria pistata come se non ci fosse un domani di Roger Camero, gli assoli e riff di chitarra da paura di Charlie Alvarez e Javier Zarate e il potentissimo basso di Joe Martin sono gli ingredienti fondamentali per cui il vostro culo salterà giù dalla sedia, questo Natale.
Sono stati assenti quasi un decennio, e ora eccoli riaffacciarsi alla musica con un album possente, eccitante, che inchioda l’ascoltatore di (buona) musica sin dalla prima nota. In questo periodo di assenza hanno visto il mondo cambiare, e non solo quello musicale.
Il singolo, Death Ritual, brano musicalmente metal, con schitarrate degne di nota e un growl pesante, parla della vita, di come migliorarci. Da quando ci alziamo, tutte le nostre azioni sono rituali, ogni giorno è uguale a quello precedente, e i colpi di scena (ove presenti), non sono mai positivi. Questo brano ci spinge a cambiare la nostra routine, a guardare le nostre scelte da fuori, come se non stessimo pensando alla nostra vita. Solo sacrificando quelle situazioni che compongono una routine possiamo sentirci liberi.
L’altro singolo, The Painful Trust, è la dimostrazione che non sono cambiati, padroneggiando un growl preciso e metodico, e una forte armonia tra gli strumenti.
Sperimentano un intro groove in Fountain of Euth per sorprenderci dopo 30 secondi in un’esplosione in uno scream profondo, su una base ritmata, che sembra l’unione civile dei Massive Attack e dei Bring Me The Horizon.
Si buttano in un pezzo decisamente trip hop, Tavi Üüs Yukwenaak (The Sun Is Dying), per poi tornare nella loro identità punk hardcore in Burn From The Lion nel quale sono evidenti le influenze rap metal.
Il viaggio dell’eroe, dalla “chiamata” ad intraprendere un’avventura, passando per le varie prove da affrontare per portarla a termine, fino all’arrivo a casa, dove il nostro eroe tornerà nei suoi luoghi totalmente cambiato. Questo è il viaggio che ci propinano, sperimentando varie sonorità ma nel tempo stesso mantenendo la loro personalità. Il tutto unito da un sentimento negativo verso la società moderna, combinato ad un bisogno di combattere la sopravvalutazione dell’ego, e anche la svalutazione di esso, in un momento storico dove l’importante è apparire e non essere.
La visione che ci regala è straordinariamente punk. “Se vogliamo parlare di hardcore, dobbiamo iniziare a pensare in termini di fare le cose effettivamente difficili.Essere gentili e compassionevoli con qualcuno che non se lo è guadagnato. Se riesci a farlo, provoca un effetto a catena che riverbera più lontano di quanto tu possa immaginare. Vivere per gli altri può essere la cosa più difficile da fare a volte. Una volta che lo fai, inizi a sentirti più soddisfatto.”
Dicembre. Le strade sono già invase da fastidiose luminarie, gli scaffali dei negozi da mesi sono infestati da panettoni e torroni. In TV le ipercolorate e strafelici famigliole delle pubblicità ci introducono il periodo dell’anno più noioso: il Natale.
La lotta al regalo più azzeccato forse è la parte più temibile di questa festività.
Cade a pennello quindi l’uscita di Exposition II, nuovo lavoro dei Nova Charisma, duo composto da Sergio Medina (chitarra in Stolas e Sianvar) e Donovan Melero (chitarra e batteria in Hail The Sun), due geni, oltre che profondamente amici.
Il loro è quel tipo di sperimentazione musicale che ci piace: spontanea e ben riuscita.
Artisti poliedrici e talentuosi, hanno deciso di unire le forze per combattere la musica di merda. Agli inizi del 2019 il supergruppo di Medina si scioglie, e dopo appena quattro giorni è su un volo per Londra per iniziare questo nuovo progetto con Donovan.
Legati emotivamente, sono riusciti a trovare subito un’armonia, fondendo la voce melodica e camaleontica, quasi femminile di Melero e la strabiliante abilità di Medina con la chitarra. Escono dalla loro confort zone nel modo più spettacolare possibile: si mettono in gioco e vincono su tutti i fronti.
L’album esce dopo quattro mesi dal precedente, Exposition I, molto apprezzato da critica e fans. Quattro minuti scarsi per quattro brani.Ascoltando questa ultima parte di Exposition viene voglia di averne ancora. E ancora.
I quattro brani sono entità separate, pervase da un senso di disillusione e isolamento. Il filo conduttore di questo album è l’idea di inseguire qualcosa (un’idea, un amore, un sogno) e fallire.
Ci introduce l’album Diary (Don’t Speak), toni malinconici e inquietanti, sul tema della scoperta dei segreti, dopo la morte di qualcuno. k
Gemini è il primo singolo pubblicato dal duo, dove si può apprezzare in toto i loro talenti.
Ci dimostrano che sanno cambiare colore e umore in Hoxton, finalmente qualcosa di sperimentale e che riesce a portare aria nuova. Pezzo profondo, grazie alla voce del cantante, rapisce le orecchie e il cervello.
Il pezzo finale è quello di cui avevamo bisogno per chiudere in bellezza questa raccolta. Sonya presenta un intro che cambia rapidamente e ineluttabilmente, trasformando un pezzo docile e di facile riproduzione in qualcosa di veramente personale e che riporta alle loro radici post-hardcore e ci sbalordiscono grazie ai cambi di voce di Melero.
Questa unione artistica è quel regalo sotto l’albero che non ti aspetti, ma che si rivela quello migliore.
Grandi musicisti e amici, riescono nell’intento di soddisfare l’ascoltatore con qualcosa di valore, ben fatto e talentuoso.
(Se non sapete cosa regalare ad un’amante della musica, c’è anche le versione in vinile, più indicata per tutti gli indie)
O no! It is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wand‘ring bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
W. Shakespeare
Sarà anche vero che siamo attratti dagli opposti, ma è ancora più vero che per creare, per vivere, per sentirci ispirati cerchiamo la metafora autoriferita, cerchiamo un luogo, un simbolo, un totem che ci garantisca che quello che vediamo, per come lo vediamo, sia per sempre in sintonia col nostro sentire. Una sorta di golem a protezione della nostra Musa, una trottola in Inception, un luogo sacro, pagano — sia chiaro —, che sia recinto per la vita.
Un faro, un’isola a ovest della Bretagna, l’estremo confine occidentale, per di più circondato dal mare, che diventa doppiamente finis terrae, uno di quei luoghi dove potevano vivere selkie e banshee, un luogo dove il grande faro sfida l’ Oceano Atlantico e si prende cura degli uomini in mare.
Sull’isola di Ouessant (o Ushant) un uomo ha deciso di vivere e di scrivere musica. A giudicare dalla sua storia, fatta di studi classici e di amore per il punk, e ancor più a giudicare dalla sua opera, viene da pensare che abbia, in realtà, deciso di mettere in note la terra che ha scelto. E i suoi cieli, le sue nebbie, i suoi verdi. Del resto ci sono incontri fortuiti che cambiano storie e destini. E chissà quale sarebbe potuta essere la storia di Yann Tiersen, se i suoi occhi non si fossero posati sul grande faro di Ushant. Un uomo che a tredici anni poteva già definirsi polistrumentista, che abbraccia la musica degli Stooges e dei Joy Division, che poi si perde e decide di fare da solo, in una stanza, con un registratore a otto tracce, sinth e drum machine.
E quello che ne nasce è ispirato al grande classico Freaks di Tod Browning del 1932 e ai fantasmi giapponesi di Aya no Tsuzumi. Suona cinquanta strumenti, il nostro protagonista, ma ha in testa un mare burrascoso, e trova la pace solo nel 1998, quando riesce a mettere su pentagramma il suo demone e lo ingabbia, lo esorcizza, lo chiama per nome. Un terzo album chiamato Le Phare, e una canzone, Monochrome che arriva alla cinquantesima posizione della classifica francese. Iniziano i tour, una collaborazione con i Noir Désire, il successo mondiale grazie a Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain nel 2001. Il resto è storia, nuove colonne sonore, nuovi tour con orchestra e mille collaborazioni.
Questo album, che andrebbe ascoltato solo nell’edizione in vinile (e vi spiegherò il perché), è la summa di questa strana storia e di questo fortunato incontro, tra un uomo e il suo faro.
Yann Tiersen sulla sua isola ha costruito uno studio di registrazione, battezzato The Eskal, in cui accoglie i numerosi artisti che hanno partecipato a questo suo ultimo progetto. Di fatto questo Portrait è un’antologia dei pezzi più noti e amati del compositore bretone. Ma Tiersen ha voluto rivisitare ogni traccia, e le ha reinterpretate tutte, ibridandole con idee nuove, lasciando che non ingiallissero col tempo. Ha così chiamato alcuni amici a lavorare con lui: Gruff Rhys dei Super Furry Animals, John Grant, Stephen O’Malley dei Sunn O))), Blonde Redhead.
È un’opera volta a riappropriarsi della musica nata dalla propria storia e immaginazione, che ha vissuto altre storie, che a volte è stata fraintesa. È una setlist rivisitata e che crea un nuovo contesto e una nuova chiave di lettura. Ma è ancora di più: l’intero album è registrato in presa diretta su nastro e inciso su vinile senza passaggi in digitale. Un vero album analogico, suonato con spirito da artigiani, da musicisti di strada, un po’ troubadour un po’ esploratori, sospesi tra minimalismo e malinconia. Del resto Tiersen in passato è stato accostato a Erik Satie e al Teatro dell’Assurdo.
Quest’opera, così definita a livello temporale, trova una sua dimensione anche spaziale, geografica: sembra la colonna sonora di un isola con faro, più che di una storia d’amore. È un lungo piano sequenza pieno di spiriti inquieti, di note che escono da pianoforti giocattolo, da strumenti improvvisati. E un suono antico e solo apparentemente semplice, in realtà è quasi sempre portatore di un lato nascosto e, spesso, oscuro.
E’ come il suo faro, Yann Tiersen. Calmo, osservatore, impassibile, testimone di eventi, di storie, di maree. E, come il faro di Shakespeare, sovrasta le tempeste e non vacilla mai.
I latini dicevano “ubi maior, minor cessat”, una frase che dovremmo ricordare sempre e che potremmo tradurre con “laddove ci sono i grandi, lì cadono i piccoli”. Ecco, quando ho ascoltato per la prima volta Microchip Temporale, il rifacimento in featuring con i grandi nomi della nuova scena per l’anniversario dell’arcinoto Microchip Emozionale, dei Subsonica, quella è stata la prima frase a venirmi in mente. Non un grande inizio, insomma, ma andiamo per ordine.
Quando nel 1999 è uscito Microchip Emozionale io avevo due anni, quindi va di conseguenza che questo album io l’abbia scoperto più tardi, capendolo e assimilandolo in una luce diversa ed estratto completamente dalla sua contemporaneità. Eppure l’ho amato dal primo ascolto, imparando sin da subito quale fosse stato l’impatto che un progetto come Microchip Emozionale aveva avuto sulla musica di quel periodo, cambiandola radicalmente.
Ecco, potremmo dire che esistono dei momenti di trasformazione e che questi momenti, talvolta, vengono sanciti da album. Microchip Emozionale e i Subsonica stessi sono stati esattamente questo: una sorta di incoronazione, uno spartiacque nella musica italiana.
Insomma, per riassumere, Microchip Emozionale è stato e tutt’ora è, per moltissimi, una sorta di testo sacro. E i testi sacri non si toccano. Mai.
Microchip Temporale è stato pensato come una sorta di album di duetti in cui gli ospiti sono quelli che ancora ci ostiniamo a definire i “nuovi” nomi della scena musicale, e che invece ne sono protagonisti da un bel po’, sia rap che elettronica che nel nuovo cantautorato. Quelli, insomma, che fino a qualche anno fa avremmo definito indie rap e che ora sono quelli che riempiono i palazzetti. In ordine di comparsa e senza bisogno di grandi presentazioni troviamo: Willie Peyote, Nitro, ComaCose e Mamakass, Elisa, Motta, Lo Stato Sociale, Coez, Cosmo, Achille Lauro, Ensi, FASK, Myss Keta e Gemitaiz. Un ventaglio di possibilità che avrebbe potuto davvero rendere quello che è stato un album di culto per la scorsa generazione, un album di culto per quella nuova, che sta scoprendo la faccia di Samuel sui banchi della giuria di X-Factor.
Partendo con queste premesse, posso dire che l’attesa di un progetto come Microchip Temporale è stata più curiosa che scalpitante per me, ma ero pronta a far sì che il genio (perché di genio si tratta) della band rivoluzionasse tutte le mie aspettative; che ribaltasse il risultato, per dirla alla Borghese. Così è stato perché io ero pronta ad arrabbiarmi, infastidirmi, aggrottare le sopracciglia e innamorami ancora di più grazie all’apporto di alcuni tra gli artisti che popolano maggiormente le mie playlist. Invece l’unica cosa che ho fatto è stato rimanere impassibile, sopportare un solo ascolto, skipparne alcune al secondo. Per farla breve, il giorno dopo, per me, eccetto alcune rarissime eccezioni, Microchip Temporale non era mai esistito.
Perché il grande difetto di questo progetto è che strizza troppo l’occhio alle nuove generazioni, ma poi effettivamente non lo fa abbastanza. Gli ospiti del disco, invece di regalare qualcosa di nuovo e superarsi, danno la spintarella che non ti sposta granchè, non ti fa volare, una via di mezzo.
Certo le mie aspettative erano molto alte, tanto che il confronto con il precedente muore nel momento stesso in cui viene fatto. La mia apertura mentale in questo caso si riduce per affetto, ma la verità è che le aspettative dovevano essere troppo alte, il confronto doveva essere vincente e queste chiusure mentali dovevano essere distrutte e spalancate al primo ascolto. In questo progetto bisognava osare al massimo, usare la massima reverenza, esattamente come si fa nei confronti di un capolavoro, non utilizzare soltanto questo remake per rilanciare l’immaginario di una band sull’onda dell’attenzione televisiva.
Ammetto che ci sono dei momenti di grande bellezza, in particolare grazie a Motta a cui viene affidata Tutti i Miei Sbagli, che riesce a rendere il manifesto di una generazione ancora più grande, ancora più bello. Inoltre, grazie a Cosmo, che si consacra ancora come il Dio indiscusso dell’elettro pop, Disco Labirinto rinasce completamente. Giusta Myss Keta che in Depre si trova nella sua comfort zone e che alla fine si porta a casa in scioltezza un brano adatto a lei e chapeau anche per i Fast Animals and Slow Kids su Albe Meccaniche, la voce di Aimone regala quel quid in più.
Grande delusione per Willie Peyote (il cui talento e la cui capacità espressiva non vengono qui messe in discussione) che, dopo un tour con la band, in Sonderende molto meno delle aspettative. Per gli altri rapper ci si aggira intorno alla sufficienza, a volte risicata. Non fanno gol nemmeno i Coma Cose, Lo Stato Sociale e – per assurdo – Coez, nettamente surclassati dall’imponenza delle canzoni.
Microchip Temporale è un album da sufficienza, sufficienza che c’è tutta, non fraintendetemi. Certo che la sufficienza, quando viene presa dal più bravo della classe, alimenta più delusione di un due e alla fine quello che torna è che forse tutti avevano una paura reverenziale nei confronti di questo gigante, tanto che, stavolta, su Davide ha vinto Golia. Forse, ancora, ricordavamo troppo bene il capolavoro e questo rifacimento resta troppo abbozzato. Quello che sappiamo per certo è che se questo album doveva rubare il posto al suo genitore ovvio, non ce l’ha fatta. Perché non toglie, certo, ma non da’ quanto dovrebbe. E noi, dai più bravi della classe, volevamo la lode.
È arrivato il secondo atteso lavoro da solista di Cappadonia, musicista e cantautore che, dopo anni di tour con nomi importanti della scena alternativa del calibro di Pan del Diavolo e Sick Tamburo, ha deciso di esprimere la sua arte in un progetto solista in grado di dare libero sfogo al suo immaginario. Dopo il primo capitolo pubblicato nel 2016 e la parentesi del progetto Stella Maris, esce per Brutture Moderne il suo nuovo album, Corpo Minore.
Interamente prodotto e arrangiato dallo stesso Ugo Cappadonia, il disco è relativamente breve, nove tracce, ma questo è molto probabilmente un punto di forza. Infatti, una maggior compattezza sonora permette all’opera di essere estremamente incisiva, priva di riempitivi, ogni cosa è essenziale ai fini del racconto. La coerenza del sound si percepisce fin da subito, tutte le composizioni sono guidate dalle chitarre, siano esse acustiche o elettriche, che si stratificano in arrangiamenti curati nel dettaglio. Qua e là troviamo sprazzi di sonorità noise a colorare il tutto, basti pensare alla title track, dove compare come ospite Alessandro Alosi dei Pan del Diavolo, capace di donare al pezzo un’atmosfera decisamente particolare. Il suo sodale compagno di band, Emanuele Alosi, invece, compare in tutto il disco come batterista, e la cosa si fa sentire. Le rullate e i tocchi percussivi sono raffinati e potenti allo stesso tempo, ottimi per accompagnare il crescendo emotivo dei pezzi. Un ulteriore ospite illustre è Federico Poggipollini, storico chitarrista di Ligabue, presente in Sotto Tutto Questo Trucco con un assolo di chitarra immediatamente riconoscibile. Il pezzo è uno dei più rock e tirati del lotto, ha una vera carica esplosiva. In generale, Cappadonia è stato abile nel mantenere nella totalità dell’album un’atmosfera in bilico tra il cantautorato classico e un sound più prettamente rock, piacevolmente calibrato per alternare momenti riflessivi ad altri di maggiore forza e impatto. L’autore è un musicista a tutto tondo e non lesina sul sound design, estremamente a fuoco grazie ad inserti di synth, hammond e piano mai scontati.
I testi sono piuttosto intimi e personali, riguardano principalmente esperienze di vita dell’artista ma con l’uso di immagini universali in cui è facile riconoscersi. È percepibile grande sincerità creativa, l’insieme tocca le corde emotive giuste fino a farsi quasi catartico. Ciò è possibile grazie alla potenza granitica conferita da Cappadonia ai brani, in un continuo gioco di rimandi fra passato cantautorale e contemporaneità sonora.
Il lavoro sembra seguire un concept legato al mondo dell’universo e delle galassie, utilizzati come punti metaforici di partenza per descrivere esperienze puramente umane. Ogni elemento, nel suo complesso, è messo al punto giusto, dalle parole ai suoni. Dunque, nonostante il forte impeto, vi è anche una intelligente spazialità, che rende il progetto di totale gradevolezza per l’ascoltatore. A tal proposito, si passa dalle chitarre distorte e fuzz di Stelle Latenti alle dolcissime acustiche di Fango con grande facilità e coerenza. La canzone di chiusura, l’emblematica Siamo in Tempo, è senza dubbio la più originale, basandosi per gran parte della sua durata solo su un intreccio di chitarre elettriche e voce che esplode in un muro di suono finale, perfetta conclusione dell’opera.
Insomma, Cappadonia si dimostra essere un artista completo, capace di raccontare se stesso e il mondo con estrema attualità e contemporaneità, inseguendo, però, sempre la sua visione sonora, libera da vincoli e barriere di mercato. Se già in passato la sua produzione ci aveva fatto ben sperare, Corpo Minore è l’ennesima conferma che siamo di fronte a un autore di grande talento, dall’attitudine coraggiosa e indipendente, una gemma rara nel panorama italiano.
C’è un equilibrio perfetto tra rabbia e introspezione in Madre Nostra, primo LP de La Gabbia. Con otto pezzi che nell’insieme ricordano un giro sulle montagne russe, grazie all’alternanza tra un sound incendiario ed uno più tranquillo, la band bolognese riesce a scavare a fondo nella nostra natura e a metterci davanti agli occhi un’ampia gamma di sentimenti autentici, positivi o negativi che siano, ma tutti spaventosamente umani.
Il giro di giostra inizia con Ilaria, dove è un risentimento senza filtri e quasi cattivo a fare da padrone. Il pezzo ricorda nello stile e nei suoni decisamente rock i due singoli pubblicati dalla band, Ho Bisogno e Violenza, dove troviamo anche una sorta di spiegazione a questi sentimenti più bassi e istintivi. “Violenza sei madre nostra, ma non ci hai mai riconosciuto”, ma, come con tutte le madri, arriva prima o poi la fase della ribellione nei suoi confronti.
Paradossalmente, in questo disco, la ribellione a “madre nostra” sembra proprio un abbandono a suoni più tranquilli e a testi che mantengono una certa tenerezza di fondo nonostante i ritmi ben scanditi delle chitarre o le esplosioni di batteria. È il caso di La Luna e i Falò, chiaro omaggio al romanzo di Cesare Pavese che ruota attorno alla necessità di mettere radici, oppure di Memorie di una Prostituta, il racconto molto sentito di una storia di dolore e riscatto.
Più ci avviciniamo alla fine della corsa, più il disco fa emergere quella vulnerabilità che tendiamo a tenere nascosta. È un esempio Non Esisti, penultima traccia dell’album, che, inizialmente solo con voce e chitarra, ci racconta una storia d’amore tra due persone che si avvicinano senza raggiungersi mai. È quindi anche una storia di paure, di fughe e di rimorsi, perché la fine è inequivocabile: “non c’è più nessuno”, un grido triste che continua finché non sopraggiunge il silenzio.
Quindi, dopo otto canzoni, cosa rimane alla fine di questo giro di giostra?
Forse la consapevolezza che non si può ridurre la natura umana ad un solo polo, solo al bianco o solo al nero. Non a caso, Madre Nostra è un melting pot, una scala di grigi.
Ma forse è un’altra consapevolezza che, soprattutto in questo periodo storico, vale la pena ribadire. La stessa espressa anche da Pavese quando nel suo romanzo scrive che “il sangue è rosso dappertutto”.
Nel bene e nel male, facciamo tutti parte della stessa umanità.