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Tag: recensione

Grayscale “Nella Vita” (Fearless Records, 2019)

Dipinto emotivo in scala di grigi

 

L’estate sta volgendo al termine, portandosi via la tipica voglia di far baldoria, inneggiando ad una vita gioiosa e senza pensieri.
Le giornate si accorciano, l’inverno è alle porte e con esso il malessere tipico del ritorno alla vita quotidiana: clima perfetto per l’uscita del nuovo disco dei Grayscale, che tornano con Nella Vita, titolo tutto italiano per questo quintetto pop punk americano.

Musicalmente nati nel 2011, a distanza di quattro anni esce il loro primo EP, Change, ma l’anno del debutto ufficiale è senza dubbio il 2017, con l’album Adornement per Fearless Recording.

I Grayscale sono una miscela di emozione pura e grezza, con elementi del rock alternativo, radici punk ben assestate, e una combinazione di hip hop moderno.

Attraverso la musica ci restituiscono un’immagine emotiva in scala di grigi, iniziando dal nero della depressione, passando per il grigio della consapevolezza e arrivando al bianco candido della redenzione di sé stessi.

I Grayscale sono reali come le nubi, come la pioggia.
Sono reali come la sofferenza, come la perdita.
Parlano di morte, di amore tossico, di depressione, di droga e di sesso.

Con Nella Vita realizzano un album molto pop rock punk, con il quale riescono a comunicare dolore e disperazione con un ritmo orecchiabile e ritornelli indie. Canticchiando queste canzoni si finisce con l’empatizzare con le tematiche tragiche descritte nei testi.

La morte conclamata, in In Violet, primo singolo che accompagna l’uscita del disco, è un brano molto personale, come ammette il frontman del gruppo, il quale, durante un periodo tormentato, ha pensato al suo funerale dove avrebbe voluto che tutti i presenti fossero vestiti di viola, cantando e sorridendo alla vita. Fa riflettere su come noi occidentali consideriamo la morte come fine del percorso, un evento negativo. Con questo pezzo invece, i Grayscale ci propongono una nuova chiave di lettura, un’interpretazione della morte non come l’epilogo, ma piuttosto come un’esperienza di rinascita e un presupposto per gioire della vita stessa che è stata.

L’insieme di circostanze complesse che ci propina la vita prosegue in Painkiller Weather, dove si affronta una complicata storia di amore e droga, arduo conflitto amoroso tra sentimento e dipendenza. Questo pezzo descrive quanto sia penoso e complicato essere impotente di fronte alla distruzione pacata della propria amata e quanto questo conduca alla disintegrazione di sé stessi.

Temptations won, yeah, they always won” – neanche l’amore può nulla davanti all’assuefazione dal eroina. 

La tematica dell’amore malato è toccata anche in Baby Blue, dove viene decantato un sentimento depredato dall’oscurità intensa della malinconia che spazza via tutte le emozioni. Tutto intorno è annebbiato da un disagio talmente radicato che rende vuota e insignificante ogni sensazione.

I loro riff pop punk descrivono in modo schietto la depressione e la solitudine in Old friends, una ritmata ballata che colpisce nel profondo. Tutti noi ci siamo sentiti sbagliati, privi di importanza e senza futuro almeno una volta: indossare una maschera sorridente quando l’anima invece sta cadendo lentamente a pezzi, quando vorresti solo bussare alla porta di qualcuno sotto la pioggia per parlare, quando l’unico modo che hai per uscirne è confidarti e invece rimani solo, seduto sul tuo letto, colmo di odio verso te stesso.

Nella Vita è un viaggio catartico, una collezione di brani che rappresentano una cronaca di vita, di esperienze dei componenti del quintetto, con cui ci accompagnano nella scoperta della rinascita. Ascoltare questo album è esplorare la caverna umida e cupa che è in noi, il posto più nascosto che celiamo al mondo, entrare nelle viscere di noi stessi e riuscire ad uscirne più forti di prima.

Come scrive Chuck Palahniuk nel suo romanzo Fight ClubÈ solo dopo che hai perso tutto che sei libero di fare qualsiasi cosa”: solo arrivando a toccare il fondo possiamo darci la spinta per risalire, solo entrando a contatto con la solitudine e la disperazione possiamo tornare a risplendere.

 

Grayscale

Nella Vita

Fearless Records, 2019

 

Marta Annesi

Tool “Fear Inoculum” (RCA Records, 2019)

Anni novanta, Torino

Una Opel Corsa rossa percorre strade lastricate di pavé, umido di nebbia. Si è appena concluso un dialogo quasi ritualizzato tra due postadolescenti, universitari per vocazione, amici, e molto, anche se di gusti musicali assai lontani. Uno, il sottoscritto, ha abbracciato il grunge, ha già pianto i suoi primi martiri e ha definito i confini delle sue esplorazioni artistiche. L’altro, chiamiamolo Elmer per rispetto della privacy, è il Babbo Natale del mio subconscio musicale. Lui esplora, insaziabile golosone culturale, e poi pontifica. Ah, quanto pontificava. C’era terreno comune, anche perché i generi, allora, si incrociavano, si imbastardivano, si mescolavano in modo programmatico. Erano gli anni in cui in quella Opel si passava dai Primus a Ummagumma, dai Fishbone a Vitalogy. E poi Elmer si bloccava quando arrivavano loro. E si blocca ancora adesso, come i cani di Up davanti a uno scoiattolo, quando qualcuno cita i Tool. Il suo sguardosi perde all’orizzonte, la bocca pende di lato, a trattenere un ricordo appeso all’acquolina. Il suo neurone preposto all’estasi musicale è entrato in forte sintonia con quello dedicato alla goduria culturale. Si, perché Elmer è affascinato dalla cultura, quella alta, quella che segna un solco tra chi la comprende e chi no. Quella che anche Maynard James Keenan, cantante dei Tool, usa come uno scudo e come uno strumento, e che, inevitabilmente, sottintende un discreto livello di misantropia. Elmer vede nei Tool non un poeta-vate, vede l’incarnazione, o meglio l’unione, un po’ pornografica e un po’ magniloquente, tra una musica potente, violenta, stridente e testi e citazioni alte, a volte altissime.
Da Jung a Fibonacci, i substrati culturali nei loro testi sono tanti quanti i cambi di ritmo. La ricchezza di riferimenti, unita alla sovrabbondanza musicale e alla continua ibridazione di generi e stili, sono i tratti che definiscono la loro essenza.

Per questo l’acquolina. Per questo Elmer si bloccava.
I fan dei Tool sono un esercito, per numero e compattezza. Sono devoti ai mille echi e alle reminiscenze generate dalle cattedrali sonore dai quattro californiani.
E hanno atteso tredici anni.

Fear Inoculum è il quinto lavoro in studio, il quinto in quasi trent’anni di carriera e arriva dopo un’era geologica, se pensiamo in termini musicali e di mercato. L’hype generato da quello che, probabilmente, sarà un successo mondiale rischia di inquinare un giudizio sereno e oggettivo su questo lavoro.
Non si critica la parusia, la si ammira in estasi silenziosa.
Magari con le cuffie.

Premessa: le tracce sono sette. Tutte superano abbondantemente i dieci minuti, tranne Chocolate Chip Trip, delirio strumentale. Siamo quindi davanti a un’opera complessa, da comprendere col tempo, da gustare con la dovuta e rispettosa attenzione.

L’album inizia con la title track, ed è subito distillato di Tool, nel coro:

Exhale, expel
Recast my tale
Weave my allegorical elegy

L’elegia greca prevedeva che gli spettatori fossero esortati dall’io narrante a immedesimarsi. E’ una overture in cui si cita la mitosi. È il manifesto di un ritorno, sono le chiavi per decifrare quanto accadrà successivamente. Ma è anche un rassicurante primo capitolo di una saga che rimane coerente con il proprio passato.
Pneuma è la seconda traccia e nuovamente siamo davanti a richiami arcaici e alti. Il soffio vitale, profetico nella tradizione ebraica, è qui usato per destarci, per svegliarci dal sonno della mente. Magari durato tredici anni. Il pezzo è lento, trascinato, quasi recitato, sembra accompagnare il lento incedere del Maynard-vate nella caverna di platonica memoria, per liberarci dal mondo delle ombre e rivelarci il Vero.
La triade dei tre pezzi successivi (sia chiaro, mia personale interpretazione), è il fallimento dell’invocazione precedente, una lenta presa di coscienza dell’impossibilità di vittoria per il guerriero/uomo. Siamo dalle parti dello stoicismo, in Invincible, terzo brano. Prosegue il tema (anche musicale, i due pezzi sono quasi gemelli) in Descendingma la consapevolezza della nostra debolezza è ormai dato di fatto, si prega:

Mitigate our ruin
Call us all to arms and order

Ma arriva la follia di Culling Voices, in cui noi stessi siamo gli artefici dell’inganno in cui viviamo. Follia che ci porterà alla consapevolezza del trucco, abile e mirabile, autoindotto e autocastrante. È 7empest, ultimo pezzo, che ci lascia con la promessa che la tempesta arriverà, sia essa ekpýrosis stoica, fatta di fuoco e rigenerazione, sia essa apocalisse e fine del tempo.
Non c’è messaggio salvifico, c’è una traccia iniziale che è labile e serpeggia tra richiami e labirinti caleidoscopici.
È la meraviglia di trovarsi di fronte a un testo, meglio un ipertesto, profondo e dalle molteplici letture. E non solo. I Tool suonano immagini, cantano universi paralleli, montano musica. Sono dissonanti armonie, sono ordine dalla frizione. È un’opera enciclopedica, analitica, che parte da una costruzione estremamente razionale e iniziatica per arrivare a sentimenti ombelicali. Come un caro e vecchio film di Kubrick.
Lasciate che i Tool vi portino via e vi elevino, ne vale la pena. Altrimenti potreste aspettare altri tredici anni.

 

Tool

Fear Inoculum

RCA Records, 2019

 

Andrea Riscossa

“Night club” di Jacopo Et: l’avanguardia del dance pop contemporaneo

Nato a Forlì, ma formatosi nell’ambiente musicale bolognese, Jacopo Ettorre, in arte Jacopo Et, riporta in auge la sfrontantezza tipica del ragazzo di provincia.

Cresce infatti a San Ruffillo, in quel bar dove le giornate scorrono fra motorini, discussioni sul calcio e litri di birre industriali.

Jacopo Et nasce musicalmente l’11 maggio del 2018 con l’uscita di “Fulmini”, che nei mesi successivi viene seguita da “Fuori”, “Golf”,“Grattacieli” (feat. Kharfi) e “Buio”.

Ciò che gli preme è esprimersi liberamente, raccontando quello che lui ama chiamare “il lato oscuro della provincia”, in cui si scovano personaggi tutt’altro che politically correct e viene scansato arduamente ogni falso buonismo.

Lo scorso 19 luglio, distribuito dall’etichetta Fulmini Records ed edito da Sony ATV, è uscito il suo nuovo singolo “Night club”, prodotto da Gabry Ponte, che lo ha affiancato anche nella stesura degli arrangiamenti. Ai mix & master c’è invece la mano di Patrizio Simonini, già noto per il sodalizio con artisti del calibro di Tiziano Ferro, Jovanotti, Franco Battiato.

Non passa affatto inosservato l’artwork, che è stato abilmente realizzato dall’eclettico fumettista Maurizio Rosenzweig.

Il pezzo, “orgogliosamente tamarro”, da un lato richiama uno dei film più cari all’artista, ossia “Fight club” di David Fincher, dall’altro mette in evidenza il tema della notte, uno dei fili conduttori del progetto.

Jacopo Et, in quanto figlio musicale degli 883, ci tiene a sottolineare come questo brano sia inoltre una risposta alla domanda “Come sarebbe stata la regina del Celebrità se fosse stata al Pepe nero?”. Per chi infatti conosce “La regina del Celebrità” degli 883, non può non saltare all’occhio la citazione, che diventa esplicita nel verso che recita“Senza pietà”.

Il fil rouge che lo unisce agli altri brani è decisamente la musica elettronica e l’evidente passione per la retrowave e per la synthwave, per Kavinsky e Perturbator.

Il suo è un progetto che è difficilmente ricollegabile a qualcosa di già presente sulla scena musicale, infatti l’artista rifugge qualsiasi etichettatura o categorizzazione.

Molto atteso è l’EP, che, in uscita venerdì 26 luglio, conterrà anche tre brani inediti: “Benzinaio”. “Luci”, “Cani randagi”.

Si conclude così il primo ciclo del percorso artistico di un ragazzo che, con un mix letale di provincialismo applicato ad un accenno di musica pop elettronica e una buona dose di arroganza benevola, tenta di fare del pop senza parlare di lacrime, abbandoni o addii.

 

Greta Samoni

 

 

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Sum 41 “Order In Decline” (Hopeless Records, 2019)

Order In Decline é il nuovo LP dei canadesi Sum 41.

L’album, il nono dal 1996, rappresenta un punto di svolta rispetto alla loro produzione precedente: dimenticate le musicalità di Into Deep e Fat Lips, dimenticate la band punk-rock che scimmiottava i colleghi musicisti. I Sum sono diventati grandi e Order In Decline ne è la prova lampante.

Le avvisaglie di un cambiamento erano già arrivate nel 2016 con 13, ma oggi la trasformazione è arrivata a compimento. Un disco più riflessivo in cui i toni punk si sposano e si intervallano a sonorità più pesanti, serie e cupe.

Con questo album i Sum prendono spunto dai cambiamenti che stanno succedendo nel mondo, dalle teorie del complotto e ci regalano 10 brani che sono in grado di prenderti e rapirti fin dal primo ascolto. Melodie, riff e ritornelli che ti rimangono in testa. Fin da subito.

Immancabile la ballata Never There, una lettera a cuore aperto dedicata ad un padre assente… Un brano orchestrale, che ricorda un po’ Pieces, ma che ti fa venire i brividi.

Non mancano i brani movimentati: Out for Blood, il singolo che ha anticipato l’uscita del disco, ci fa venire in mente i Sum di una volta, un brano che é stato come un ruggito per annunciare al mondo che stavano per tornare.

Nonostante vi sia una canzone dedicata a Donald Trump, 45 (a matter of time), non si tratta di un album politico ma sicuramente é una riflessione generale sul mondo.

Un album maturo in cui si mescolano ed emergono diverse influenze musicali dai Muse ai Deftones, in questi anni i Sum hanno ascoltato e rimescolato riuscendo a regalarci un album maturo e non scontato.

Dopotutto anche loro, come noi, sono diventati grandi.

 

Sum 41

Order In Decline

Hopeless Records, 2019

 

Laura Losi

Allusinlove “It’s Okay To Talk” (Good Soldier Songs/AWAL, 2019)

Rock is not dead: a rianimare la scena rock mondiale ci pensano gli Allusinlove, quattro ragazzi inglesi, direttamente da Castleford, con assoli micidiali, spiccate doti vocali e batteria martellante.

Una vita da vere rockstars, la loro. Giovani difficili, amanti delle droghe e della vita portata all’eccesso che li ha proiettati in un percorso di introspezione e di crescita personale, il cui risultato è un cambio nel nome della band e un utilizzo diverso della loro musica come mezzo di comunicazione per temi più profondi, con un sound totalmente rock’n’roll.

Gli Allusinlove (già conosciuti come Allusindrugs) debuttano con il loro primo album It’s ok to talkuscito il 7 giugno e non sono più una band adolescenziale, ma un fenomeno rock.

Questo esordio è totalmente autobiografico: è palese il graffiante dolore di chi, in quelle storie narrate nei testi delle loro canzoni, c’è passato realmente ed è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri come delle bellissime fenici inglesi.

È un viaggio attraverso le loro esperienze negative, per condividerle con l’ascoltatore, essere d’aiuto a chi si sente solo e dimenticato.

Il primo estratto All Good Peopleè basato sulla positività, sull’amore verso il proprio corpo, sul vivere delle sensazioni che la corporeità altrui ci regala, prendere coscienza della fisicità. Il tutto in pieno stile rock’n’roll, vocalizzi puliti, batteria potente, assoli di chitarra da brividi e un ritornello spaccacranio.

Esteticamente possono sembrare classici bad boys, tatuati e capelloni, tipi tosti insomma, ma con un cuore di panna.

Espongono tutto il loro delicatissimo mondo interiore fatto di amore non ricambiato, dolore, incomprensione, rabbia, solitudine ed alienamento.

Musicalmente ricalcano le vecchie glorie del rock, come nel pezzo Full Circlein cui ritroviamo accenni ai Black Sabbath, un perfetto connubio di chitarre basse, circolari, e assoli magnetici, che tratta di abbandono e incomprensione.

Gli assoli compaiono in quasi tutti i brani, potentissimi e seducenti. Uno dei migliori, in All my love, brano che concretizza la loro voglia di scendere in profondità nei rapporti, e di non arrendersi mai.

Testimoniano la fragilità e la superficialità dei rapporti moderni, in Bad Girls, dove espongono un classico esempio dei problemi nei rapporti moderni, un tipo di amore malato (amami/feriscimi come se ne avessi bisogno), un attaccamento morboso a qualcuno nonostante il dolore che ci provoca. Corriamo per raggiungere il nostro amore, mentre lui si allontana portando via pezzi di noi.

Nell’album è presente anche un loro vecchio brano, uno dei primi, Sunset Yellow, ed è in questo pezzo che risulta palpabile il cambiamento della band a livello sia di testi che di esecuzione, lasciandosi alle spalle gli atteggiamenti fortemente collerici e rancorosi degli esordi.

Attraverso la loro musica curativa, in It’s ok to talk(brano che dà il nome all’album), incoraggiano l’ascoltare più delicato, più problematico, a parlare dei dilemmi della sua anima, senza paura di essere giudicato debole, perché quello che più spaventa è aprire i canali del cuore e sentirci rifiutati.

Questi quattro ragazzi di Leeds sono l’emblema di una gioventù all’insegna dell’esagerazione, rappresentano chiunque di noi abbia passato un’adolescenza sopra le righe, in puro stile rock punk, quando non si ha la consapevolezza che si matura poi col tempo. Quando abusare di ogni sostanza sembra l’unica soluzione, annebbiare la mente per far zittire i demoni che popolano la nostra testa, pur di non comunicare, di non confidarci, di non guardarci dentro.
Gli Allusinlove sono maturati, crescendo hanno capito che l’unica via di salvezza da noi stessi è manifestare la nostra interiorità, esprimere i nostri sentimenti per esorcizzare tutte le nostre paure. L’unica cura è l’amore e la comprensione, perché la rabbia non è costruttiva, ma distrugge tutto ciò che di più buono è stato creato.

Attraverso questo loro primo album mettono al servizio di chi è più sensibile, debole, la loro personalissima esperienza, usando il rock come terapia ai dolori dell’anima.

“The world’s gone mad and it’s getting divided, let’s stand for unity”
Solo restando uniti, facendo squadra e non lasciando i più deboli indietro possiamo andare avanti degnamente.

 

Allusinlove

It’s Okay To Talk

Good Soldier Songs/AWAL, 2019

 

Marta Annesi

Duff McKagan “Tenderness” (Universal Music Enterprises, 2019)

Nel 1956 esce nelle sale Sentieri Selvaggi di John Ford. Il film western classico muore nella scena finale, quando il buon John Wayne indugia davanti alla porta di casa e rimane sul portico, poi si gira e se ne va. Il futuro, per lui, sta nel passato, il mondo che sta in quella casa non gli appartiene. Il porch, il portico, è terra di nessuno, tra esterno e interno, tra passato e futuro, tra noto e ignoto.
Il portico è quello di Springsteen di Thunder Road, un luogo che anticipa la fuga di due ragazzi, alla ricerca della libertà e del futuro.
Di Porch cantano i Pearl Jam e nel loro portico suonano e accolgono gli amici The Black Keys in quel di Nashville.

La prima immagine che mi ha raggiunto ascoltando questo album è stata quella di un McKagan in canottiera, su un dondolo con una steel guitar sulle gambe, due birre fresche su un tavolino sotto un portico a Nashville, Tennessee.

E’ un disco strano, questo Tenderness, sembra un luogo da cui osservare la realtà, sembra un tempo in cui condividere un’idea o una visione sia un dovere, oltre che un’occasione. Perché è un atto sincero, di ricerca, di scoperta, di condivisione.

Quella di Duff McKagan è una delle più belle storie di redenzione che la storia del rock ci abbia regalato. E’ una storia fatta di città, di inferni personali, di resilienze, di cicatrici. 

Qualcosa di particolare, di magico, di unico la capitale dello stato di Washington deve pur averlo. McKagan nasce a Seattle da una famiglia irlandese, lui, ultimo di otto figli, iniziato alla musica dal fratello Bruce. Il punk, in ogni sua declinazione, è il primo genere con cui Duff si confronta, suonando di tutto, dalla batteria alla chitarra. Ma è l’humus della città, il fermento musicale che ribolle nei quartieri della musica che forma il giovane McKagan. Nel 1983 parte per Los Angeles, quattro anni dopo uscirà Appetite for Destruction, il resto è storia della musica. Fin qui, una parabola mirabolante, ma nel 1994 viene ricoverato d’urgenza a Seattle, con una pancreatite gravissima. I medici non gli danno molti mesi di vita, nel caso avesse continuato a bere. E qui, proprio in questo punto, abbiamo il nostro colpo di scena. Duff comprende, la sua vita svolta di colpo. Si ripulisce, e inizia un percorso di vita e di carriera completamente nuovo e, dati i presupposti, insperato. Crea diversi gruppi, suona con musicisti provenienti da mezzo continente, collabora con Stone Gossard, Scott Weiland, con gli Alice in Chains e i Janes’s Addiction. Nel mentre scrive libri, si dedica allo sport e alle arti marziali. Duff McKagan è nato due volte, e dopo la seconda ha una fame di vita insaziabile. 

Questa storia, unita a questo album, mi ha fatto arrivare a questo portico dove incontro virtualmente Duff McKagan. Mi sono accorto cosa legava l’immagine della vita di uomo a quella di un portico grazie a una reminiscenza, uno di quei collegamenti tra ricordi o neuroni che ti bloccano qualunque cosa tu stia facendo, riallineando l’universo e dando un senso, almeno a te che scrivi, a un articolo.

Baricco, in City, parla così del portico:

In definitiva – proseguì il prof. Bandini – quell’uomo e quel porch, insieme, costituiscono un’icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell’umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all’indistinto essere del semplicemente esistente.
[…]
Tutta la condizione umana è riassunta in quell’immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.

Quell’ultima frase è Tenderness. Quell’ultima frase è il senso del disco. Ma è anche la sua intenzione, la sua finalità, la sua fisicità.

Essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso è anche il “never look back” di Don’t look behind you, canzone che chiude l’album. La luce è davanti a te, stai su questo portico a suonare la chitarra, petto al mondo, spalle al passato. Il percorso compiuto da McKagan porta al rovesciamento di testi e visioni dei Guns. Dell’ira di gioventù, dell’intolleranza, del santificare le feste qui c’è poco. C’è piuttosto un osservare il mondo dai templa serena di Lucrezio, inteso come regno della conoscenza. Le esperienze hanno reso quest’uomo più forte e saggio, adesso è il momento di cantare del mondo con serena e consapevole spensieratezza.

Ecco allora Last September in cui si affronta il tema della violenza sulle donne, Parkland i cui viene trattato il dramma delle sparatorie nelle scuole e Feel, dedicata all’amico Chris Cornell, ma che, sono quasi sicuro, in fondo è per tutti gli amici persi durante il cammino, compreso quello Scott Weiland con cui ha condiviso il palco. In Feel si parla di ricordo, di amore, di rise up, e non è un caso che molto del vocabolario del disco peschi nell’immaginario springsteeniano. Del resto chi meglio e più di Springsteen ha cantato di redenzione e di resilienza? Le catene, che si spezzano, la strada come metafora tangibile del percorso verso il cambiamento. McKagan cita quasi letteralmente lo Springsteen di Darkness on the edge of town in un verso: l’originale I lost my money, I lost my wife, per Duff diventa lost my job, lost my wife, lost my way. Sempre climax verso l’inferno rimane, ma in entrambi i casi toccare il fondo è l’unico modo per battere i piedi e risalire.

Ma più che nel New Jersey, il nostro McKagan sciacqua i panni in quel di Nashville, grazie all’amico Shooter Jennings, che regala un impronta outlaw country all’intero album, che scivola via piacevolmente tra steel guitar, archi ariosi e inaspettati e sezioni di fiato degni di una big band. Il caleidoscopio dei riferimenti continua con i Rolling Stones (e quasi un primo Bowie) in Chip Away.

E’ un viaggio tra i ricordi e tra temi attuali, da cui trarre insegnamenti e massime (his mama didn’t rise a man), è un tracciato compiuto seguendo una mappa di cicatrici. Ma proprio le ferite passate sono i migliori insegnamenti, se adesso, ancora adesso, possiamo cantarne sorridendo sul portico. In fondo, quello che ci vuole, è solo un po’ più di Tenderness.

 

Duff McKagan

Tenderness

Universal Music Enterprises, 2019

 

Andrea Riscossa

Agnello “Il Minotauro” (Garrincha Dischi, 2019)

Per definizione l’agnello è la creatura più docile del regno animale. Agnello è anche il nome (nonché il cognome del cantante e fondatore del gruppo) di una band palermitana nata nel 2016 e, ascoltando l’album, risulta essere un appellativo appropriato per questa band carica di sensibilità, dolcezza e irrequietezza verso il mondo.

L’obiettivo primario del gruppo è una crescita costruttiva e la conseguente tutela del suo stile, una ricerca estetica musicale, linguistica e spirituale, per regalare all’ascoltatore un’esperienza totalmente nuova, il più possibile distante da quello che si può trovare sul mercato musicale attuale.

Il loro album d’esordio Il Minotauro, composto da singoli usciti tra il 2017 e il 2018, è traboccante di atmosfere romantiche e commoventi, scaturite da animi nobili che sembrano cozzare con la superficialità che ci circonda oggi.

Funamboli contemporanei alla ricerca di un equilibrio tra ritmi tipici della musica italiana anni ‘60, indie e surf, adottano testi delicati e nostalgici, grazie all’uso smodato del sax, che colora di tinte malinconiche tutto l’album.

La figura fragile e riflessiva de Il Minotauro primo brano e titolo dell’album, esplode in tutta la sua angoscia ed emarginazione, la quale sembra essere il mantra della band. Emblema della società evoluta, dove ci ritroviamo più spesso lontani gli uni dagli altri, chiusi nella nostra personale disperazione (come lo è il Minotauro del suo labirinto), alla ricerca di un/a compagno/a che divida con noi l’onere di questo massiccio fardello.

Altra questione che viene valutata è la paura nei suoi più intimi aspetti: paura dell’abbandono da parte della persona amata, come nel brano Marta, dalle sonorità morbide e armoniose, fino ad arrivare alla paura delle relazioni stesse. Il terrore di impegnarsi che impregna le generazioni moderne nel pezzo Casa Tua, dove ricorre la paura di imbarcarsi in una situazione troppo grande, troppo importante — come potrebbe essere salire a casa dell’amata — ipotizza la fine del sentimento, quasi per codardia, e il raggiungimento di qualcosa con l’ansia di non esserne poi all’altezza.

Il loro intento è dar spazio e voce alle emozioni, utilizzando un registro pop per analizzare la collettività come in Sulla sdraio nato dall’unione creativa con Nicolò Carnesi. Si servono delle classiche retoriche del cantautorato indie a tratti ripetitivo e circolare per esprimere l’insoddisfazione di una generazione mentalmente relegata su una sdraio, schiacciata dalla realtà che ci scorre dinanzi come un film, nella quale non possediamo potere decisionale ma siamo solo spettatori non paganti. 

Come ammette il gruppo stesso, “il brano è volutamente più monotono, per trasmettere una percezione di tempo perduto e del fatto che vivere in dipendenza dal mondo esterno ti condanna all’infelicità”.

La critica verso la società moderna è contestualizzata in Tutto questo penare, dall’intro fresco, estivo, estremamente pop, in forte contrasto con il testo amaro, improntato sulla solitudine e sulla discordanza degli schemi sociali (sposarsi, far figli, sistemarsi) in rapporto alla vera felicità. 

Come astronauti esploratori di un universo parallelo, questa band vuole parlare di amore, di solitudine ma soprattutto della paura di una generazione, il terrore nelle relazioni interpersonali e della gestione dell’emotività in un momento storico interamente incentrato sull’avere, più che sull’essere.

 

Agnello

Il Minotauro

Garrincha Dischi, 2019

 

Marta Annesi

La Tarma “Usignolo Meccanico” (LullaBit, 2019)

Parte il primo brano del nuovo disco de La TarmaUsignolo Meccanico, e si viene subito catapultati in una atmosfera da Battiato anni ’70, ricca di synths, bassi lasciati suonare in primo piano, drum machines, vocalizzi vocali retrò e testi onirici che raccontano esperienze sensoriali attraverso immagini poetiche.

Da un punto di vista della produzione musicale, il sound che viene fuori, seppur volutamente retrò, è interessante e particolare. Le sonorità che si delineano hanno uno stile ben definito, non scontato, che prende spunto, come già detto, dal Battiato anni ’70 fino ad arrivare ai contemporanei Baustelle, passando per certe sfumature che fanno ricordare le melodie di Alberto Camerini.

Le dieci canzoni scorrono tra temi esistenziali e d’amore che vengono cullati da una musicalità piuttosto intrigante e piacevolmente fuori moda. Il genere musicale potrebbe definirsi come cantautoriale per quanto riguarda i testi, e come elettropop per quanto riguarda il sound complessivo.

Tuttavia, l’intrigante sound ed i particolari testi (segnalo, tra i brani, Amsterdam) non sono sostenuti da un altrettanto efficace lavoro di mix e mastering, soprattutto per quanto riguarda la voce. La cantante ha indubbiamente una buona capacità vocale, un timbro particolare che può piacere o non piacere, vista l’impostazione molto retrò, ma che comunque rimane in testa. Purtroppo, però, la sua voce non viene valorizzata dalla fase del mixing: manca infatti un riverbero adeguato, una equalizzazione corretta e una correzione efficace in fase di editing delle imperfezioni (visti i molti vocalizzi della cantante, qualche volta le parole in coda alle frasi perdono la nota). L’impressione, quindi, è quella di trovarsi davanti ad una registrazione della voce un po’ amatoriale, quasi come se fosse stata registrata in cantina. 

Da un punto di vista della struttura delle canzoni, La Tarma dimostra buona capacità negli arrangiamenti e nella scelta degli strumenti, ma non eccelle nella costruzione dello sviluppo temporale  strofa-ritornello-variazione: difatti, talvolta, il ritornello arriva troppo tardi e le canzoni si dilungano troppo nelle strofe, perdendo in questo modo in orecchiabilità ed immediatezza all’ascolto.

Per concludere, siamo davanti ad un album con spunti interessanti, soprattutto per quanto riguarda la ricerca stilistica del sound e dei testi, questi ultimi mai banali e ricchi di belle immagini lessicali. Resta l’amaro in bocca per non godersi appieno questo discreto tentativo artistico, inficiato da una produzione musicale che non si può ancora definire del tutto professionale.

 

La Tarma

Usignolo Meccanico

LullaBit, 2019

 

Michele Mascis

The Winstons “Smith” (Tarmac\Sony, 2019)

“Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unica che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica vera preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’n’Roll. Altri semplicemente vita.”

Non è una frase di Bukowsky né di un qualche santone indiano, bensì di tre fratelli lombardi, The Winstons (Linnon, Rob e Enro, pseudonimi) i quali scagliano così la bomba del loro ultimo lavoro discografico, a distanza di tre anni da The Winstons (album d’esordio nel 2016).

Stiamo parlando di Smith (probabilmente da Winston Smith, protagonista di 1984, di George Orwell; ma anche un gioco di pronuncia con The Winston’s Myth band jazz/soul americana anni ‘60) uscito il 10 maggio per le piattaforme virtuali, oggi 31 maggio invece, in formato fisico.

La loro misticità verbale è accompagnata da abiti bianchi, contrapposti ad uno spirito canterburiano, una voglia matta di mischiare le carte (musicali) in tavola e stravolgere così la concezione stessa di musica. 

Bassi graffianti e striduli, tastiere dal sound penetrante e batterie martellanti, accostati ad atmosfere classiche contraddistinguono questo disco del power trio più enigmatico della scena indie italiana.

Impossibile “etichettare” questa band, poiché il loro lavoro è un amalgamarsi di stili e di generi musicali.

Ci fanno salire su una DeLorean, catapultandoci direttamente negli iconici anni ‘60/’70: le nostre ossa scricchiolano per l’umidità del Kent e il nostro cuore è stravolto dal fango di Woodstock, in piena rivoluzione musicale.

La loro peculiarità risiede nella bravura di non scadere nella cover, o nel revival; piuttosto possiedono la capacità di modernizzare le origini del Rock, trasportandolo nel 2019. Lo stravolgono e lo fondono con generi lontani dal progressive rock, come può essere la musica classica o jazz, il tutto infarcito con del buon vecchio grunge di Seattle.

Mokumokuren, primo brano dell’album, in Giapponese identifica un fantasma casalingo che nasce dagli squarci nelle pareti di carta, tipiche delle abitazioni di questo paese. Gli occhi dello spettro appaiono dalle fenditure, spaventosi, i quali si limitano a esaminare l’interno della vostra abitazione. 

Ecco l’intento di questa band: attraverso l’intro psichedelico e in crescendo, crea pertugi nel tessuto della musica contemporanea dai quali noi possiamo spiare all’interno, regalandoci l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, fungendo da Ciceroni in questo viaggio psichedelico al di fuori della normalità a cui il mercato musicale è abituato.

Pezzi come The blue traffic light ci danno l’impressione che i Beatles si siano cimentati in un ménage a trois con i King Crimson e i Pink Floyd. E nella mischia si sia ritrovato invischiato anche Nicola Piovani.

L’album alterna pezzi melodici, dove vengono musicalmente chiamati in giudizio i Ragazzi di Liverpool come Blind o Not Dosh for Parking Lot, decisamente in stile beat anni ‘60, o Around the Boat dove abbandonano per 2 minuti e 9 secondi l’atmosfera psichedelica per regalarci una pausa malinconica, a pezzi più cazzuti come Tamarind Smile/Apple Pie, che presenta cambi di registri improvvisi e passaggi psichedelici non tradizionali.

Ci destabilizzano con l’uso di strumenti datati, poco pertinenti con lo stile rock della band come il sax in Soon Everyday, donando al brano un’atmosfera esoterica, e cori in pieno stile Ennio Morricone.

Il Canterbury Sound si palesa nella cooperazione con Richard Sinclar (bassista, chitarrista, compositore nonché fondatore dei Caravan) in Impotence, che combina il jazz rock, il pop al rock psichedelico, dando una connotazione surreale. 

Nic Cester (cantautore australiano frontman dei JET) firma Rocket Belt, impregnato di rock anni ‘60, con sprazzi vocali degni di Mick Jagger, tastiere impazzite sul finale,  pezzo allucinogeno e coinvolgente.

Imperdibile e stravagante, questo nuovo album è un ritorno al passato attraverso gli occhi (e le orecchie) di ragazzi che non hanno vissuto i mitici anni ‘60 dal vivo. Ci scaraventano in un universo di sonorità arcaiche, un calderone di spiritualità e trasgressione.

Una band completa, con uno stile forsennato, capaci di mischiare il Rock’n’Roll nella sua forma più pura ad un clima malinconico degno di Ennio Morricone.

 

The Winstons

Smith

Tarmac\Sony, 2019

 

Marta Annesi

Ponzio Pilates “Sukate” (Brutture Moderne, 2019)

“Una band di avventurieri dell’elettrosamba, improvvisatori carichi di effetti speciali” così si definiscono questi eterogenei e colorati filibustieri romagnoli dagli abiti sgargianti.

I Ponzio Pilates, parlando del loro nuovo album Sukate, pubblicato da Brutture Moderne grazie ad una campagna di crowdfunding su Musicraiser, dicono:

“Non c’è un genere in grado di definire tutto il disco Sukate, non c’è nemmeno una frase che possa dare un’idea che sia condivisa in ogni brano. Ogni brano è indissolubilmente legato agli altri, ma ha totalmente un’identità e forse anche un genere diverso, se vogliamo parlare di generi.

Quello che abbiamo fatto è riprodurre le nostre improvvisazioni furiose e istiganti alla danza ferina, ancora, ancora, e ancora fino a che non si sono plasmate in una forma più definita e concreta”.

Il disco è stato registrato in totale isolamento dal mondo moderno, in una villa sperduta nella campagna Romagnola (loro patria natia) durante l’autunno e l’inverno del 2017, di ritorno da un’estate “caliente” per lo sconvolgente “Pizza e Vongole tour” e per la partecipazione al Pflasterspektakel a Linz (Austria) dove hanno esportato la tipica sventatezza romagnola.

L’album, in totale 33 minuti e 15 secondi di sfrenatezza e goliardia, conferma nettamente la loro visione e interpretazione di musica che non si allontana molto da quello presente in “Abiduga”, loro primo disco uscito nel 2016 (un singolare crossover musicale sicuramente unico nel loro genere).

Mescolanza di stili (afrobeat/samba/elettronica), testi provocatori e irriverenti, ad un primo ascolto sembrano nonsense, scritte e pensate al solo scopo ludico. 

L’ecletticità di questa band, però, si percepisce anche per il suo intento involontario nell’abbattere i confini culturali e musicali, portando scompiglio e disagio, intervenendo nei processi di globalizzazione sociale, oltre che musicale.

Sprezzanti del comune senso del pudore, il disco contiene pezzi sarcastici, quasi beffardi, come L’Insalata: pungente attacco verso i vegetariani o critica contro l’abuso di carne nella società moderna?

Vogliono sconcertare, usando ogni mezzo in loro possesso, non solo con la melodia ma anche attraverso i nomi dei brani, come Disagio e Camagra (Kamagra, il noto farmaco generico del Viagra), il quale ha il solo scopo di raddrizzare la nostra voglia di ballare e liberare il nostro lato più primordiale.

Il loro traguardo è slegare la parte inconscia di ognuno di noi, e per fare ciò si servono di pezzi come Bagarre o Salomone, che presentano intro plagiate dall’elettropop, passando per il funk carioca con chiarissimi cenni alla mazurka romagnola.

L’album è impregnato di multiculturalità, dall’Africa al Giappone, passando per il Brasile e approdando nella Riviera Romagnola., quasi ad affermare che la diversità non riguarda la musica, che essa deve unirci e stringerci in un abbraccio materno e corale.

Un giro del mondo in 9 brani, destinato a far ballare tutti, dai grandi ai piccini, e non solo. Per chi possiede un’anima questo album rappresenta l’umanità e il bisogno di sentirci tutti appartenenti allo stesso Mondo.

 

Ponzio Pilates

Sukate

Brutture Moderne, 2019

 

Marta Annesi

The National “I am easy to find” (4AD, 2019)

Sono passati solamente due anni da Sleep well beast, un disco così bello che tutt’ora è fatica toglierlo dallo stereo, che The National sono pronti a dare al mondo il loro ottavo album I am easy to find.

Come ogni album de The National, il primo ascolto non è mai facile ma è quello che rivela al subconscio dell’ascoltatore le atmosfere e il contesto: se Sleep well beast era un album notturno, cupo, introspettivo, prodotto tra le quattro mura di casa, questo nuovo I am easy to find è un album fresco e femminile, la cui produzione abbraccia Europa e Stati Uniti.

Con gli ascolti successivi, si prende invece coscienza di qualcosa di diverso dai precedenti album e una domanda prende forma: com’è possibile che i National siano riusciti a fare un album così tanto tipicamente loro ma allo stesso tempo così non loro?

Che cos’è che definisce l’identità musicale del gruppo? Il timbro baritonale e sexy della voce di Matt Berninger o gli arrangiamenti e le melodie dei gemelli Aaron e Bryce Dessner?

Tante domande, ma tutte lecite dal momento che nella maggior parte dei brani la voce di Berninger è affiancata, se non del tutto sostituita, dai contributi vocali delle artiste che hanno partecipato alla realizzazione dell’album, tra cui Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Mina Tindle, Gail Ann Dorsey e Kate Stables, mentre le melodie si avvalgono degli strumenti di un numero cospicuo di musicisti e membri d’orchestra, incluso l’amico Justin Vernon.

Eppure, questa famiglia allargata non solo non ha messo a repentaglio l’identità musicale del gruppo nel risultato finale, ma l’ha esaltata. Togliere per dare valore: quando viene a meno la connessione immediata voce-di-Berninger = The National, allora l’orecchio cerca e trova in altri elementi l’identità del gruppo, ed ecco che emerge l’intro al pianoforte di Oblivions o il rullare di Rylan, elementi identificativi che farebbero riconoscere una canzone de The National anche ad un sordo.

I am easy to find è un esercizio corale sapientemente diretto, una costellazione di brani come palloncini che fluttuano in cielo, legati al nucleo dei cinque membri del gruppo da nastri colorati.

Ogni singola traccia del disco ha un elemento di originalità al suo interno che non la fa assomigliare a nient’altro della produzione de The National, però allo stesso tempo, proprio quando l’originalità potrebbe far spaventare l’ascoltatore, arriva quell’elemento peculiare, unico e familiare, che conforta e dà sicurezza.

Questa dinamica di spingere un po’ più in là il confine di ciò che è la sonorità National e poi tornare in territori conosciuti, espansione e contrazione, non-aver-paura-ad-allontanarti-io-sono-qui, non è solo a livello dei singoli brani, ma anche proprio a livello dell’intero album.

La sensazione, ascoltando tutti i 63’ e 35’’, è che il disco respiri: la tripletta di brani di apertura — inspira — continua il discorso dove Sleep well beast l’aveva lasciato; Oblivions, The pull of you e Hey Rosey — espirasono diverse, tentano ognuna qualcosa di nuovo, e ci riescono con grazia; I am easy to find — inspira — riporta l’ascoltatore nella zona di comfort, per poi lasciare spazio ad altre due tracce — espira — che aprono a nuovi ritmi e nuove sonorità. Arriva e se ne va Not in Kansas — inspira — tipica ballata che dipinge paesaggi assolati da Midwest; altri due brani — espira — diversi, dagli altri e tra di loro: So far so fast è rarefatta e femminile, Dust swirls in strange light sembra quasi composta per una funzione religiosa. Hairpin turns e Rylan — inspira sono tutto quello che amiamo dei National; Underwater — espira — è un inframezzo strumentale che prepara alla commovente chiusura dell’album — inspira — con Light years.

Dopo vent’anni di carriera, possiamo dire che The National con questo loro lavoro abbiano tentato qualcosa di nuovo, in modo cauto forse, e ci siano riusciti con l’armonia e l’eleganza che li contraddistingue.

 

The National

I am easy to find

4AD, 2019

 

Francesca Garattoni

Redh “Torneremo EP” (Artist First, 2019)

Torneremo di Redh è un EP di sei brani che strizza l’occhio completamente al pop italiano indie. Sonoritá, riferimenti testuali, riverberi, tastiere: ogni elemento ci porta a pensare che l’obiettivo dichiarato sia finire sulla playlist Spotify “Indie Italia”, o quantomeno sulla playlist “Scuola indie”.

Già dall’apertura del primo brano Dormi veniamo proiettati in atmosfere da tastiere new-anni ’80 stile Thegiornalisti. Poi parte la voce, e ci togliamo ogni dubbio: molto riverbero, voce molto eterea alla Tommaso Paradiso.

Scorrono i brani e le caratteristiche di cui sopra si confermano passo dopo passo. Le canzoni scorrono tra sonorità orecchiabili, synth retro e testi che trattano di amori post adolescenziali-pre ingresso nei 30. 

Tutte e sei le canzoni infatti raccontano storie d’amore (spesso finite male o mal corrisposte) dal punto di un vista di un ragazzo giovane, presumibilmente universitario. I toni non sono mai però drammatici e i riferimenti linguistici che raccontano le sensazioni del cantante sono molto concreti e di facile comprensione.

Da un punto di vista strumentale, vengono elette come protagoniste le tastiere. La chitarra ha un ruolo marginale, usata quasi sempre per aggiungere colore piuttosto che per dettare la linea armonica, eccezione fatta per il malinconico brano Ci credi, in cui le chitarre escono fuori come protagoniste. La parte ritmica delle canzoni è dominata invece dalla scelta di utilizzare la drum machine elettronica al posto della batteria acustica. Scelta condivisibile che rende le sonorità dell’album complessivamente fresche e moderne.

Riguardo alla produzione musicale da un punto di vista tecnico, possiamo affermare, come detto sopra, che la scelta stilistica dei mix e dei master dei brani riflette anche in questo caso la tendenza a volere seguire le sonorità dell’indie italiano. E, quindi, si accentua molto l’utilizzo del riverbero sia nelle tastiere che nella voce, il basso non viene fatto uscire troppo nel mix e le chitarre lavorano molto sulle note singole spesso messe in delay. Ma, se nella parte strumentale questa scelta stilistica è premiante e rende il sound fresco e coerente con il mondo indie italico, nella voce il risultato non è altrettanto apprezzabile. Infatti, la voce risulta essere troppo appesantita da un eccesso di riverbero che le fa perdere un po’ di chiarezza, portandola a non amalgamarsi completamente nel mix complessivo dei brani e nascondendosi tra le frequenze dominati delle tastiere, anch’esse, come già detto, molto riverberate.

Per quanto riguarda la struttura delle canzoni — strofa, ritornello, variazioni — Redh mostra una buona consapevolezza e maturità compositiva: i brani scorrono tutti fluidi e arrivano alla fine con leggerezza, senza cadere in inutili barocchismi. Gli intro durano il giusto, le strofe conducono correttamente ai ritornelli, i quali entrano puntuali e assumono la giusta importanza nell’equilibrio dei brani. Anche da un punto di vista armonico, i ritornelli sono ben valorizzati e spesso risultano essere ben orecchiabili.

Per concludere, Redh ha creato sei brani leggeri, abbastanza maturi da un punto di vista della produzione — eccezione fatta, forse, per la scelta sbagliata nel missaggio della voce — e con un’apprezzabile capacità nel creare melodie orecchiabili e piacevoli accompagnate da un sound moderno ed azzeccato.

La parte debole dell’album sono, invece, i testi delle canzoni: da un lato troppo monotematici (si parla sempre e solo di storie d’amore) e dall’altro lato privi di spunti interessanti nella scelte stilistiche e lessicali. Mancano infatti quelle metafore, quelle parole giuste, quelle frasi apparentemente idiosincratiche che ti fanno dire “wow” mentre le ascolti. Forse, manca anche un po’ di ironia nel modo di raccontarle, queste storie d’amore.

 

Redh

Torneremo EP

Artist First, 2019

 

Michele Mascis