Skip to main content

Tag: recensione

Mac DeMarco “Here Comes the Cowboy” (Mac’s Record Label, 2019)

Mac DeMarco è un tipo strano, altrimenti non si spiega perché mai un canadese dovrebbe realizzare un intero disco dedicandolo ai cowboy. Certo, cowboy bizzarri, come lui, fumettistici, ma pur sempre cowboy. Proprio lui, quello che di più lontano dall’immagine hollywoodiana del vaccaro con pistola, cappello a falda larga e speroni, possiamo immaginare. Probabilmente i cowboy che passano le giornate a bere nei saloon avrebbero voluto prederlo a calci nel sedere, uno come DeMarco: Mac è uno da t-shirt e cappello da baseball, da maglioni del nonno e da salopette. Non è un macho, non si prende sul serio e, soprattutto, non usa artiglieria pesante. Ma, cosa più importante, non salverà la situazione come ogni buon cowboy che si rispetti: la guarderà andare a rotoli e poi ci scherzerà su. Ed è per questo che lo amiamo così tanto. 

Here Comes The Cowboy è il suo quarto, ed insolito, album, che arriva cinque anni dopo Salad Days, il lavoro che lo consacrò a figura iconica della musica indie internazionale, e due anni dopo This Old Dog, dedicato alla relazione difficile con il padre. Questo lavoro è il primo prodotto dall’etichetta che lui stesso ha fondato, la Mac’s Record Label. Tutto fatto in casa, insomma, come confermato anche dalla scelta di suonare quasi tutti gli strumenti per conto proprio, ad eccezione delle tastiere affidate in certi casi ad Alan Meen, e avvalendosi soltanto dell’aiuto del fonico Joe Santarpia. Il fatto che DeMarco abbia deciso di auto-prodursi un album merita una riflessione: probabilmente dietro c’è il bisogno di avere maggiore libertà, la possibilità di essere veramente se stesso, di fare un po’ come vuole. Sacrosanto. E infatti Here Comes the Cowboy si spinge fino ai confini dell’iperuranio.

Solo per darvi la dimensione di quello che succede, la prima traccia, quella che dà il titolo all’album parte con una chitarra, che fa pensare al classico cazzeggio pre registrazione per scaldarsi un po’ le dita, ed è composta da un solo unico verso, ripetuto all’infinito: “Here comes the cowboy”. Eppure, nonostante queste premesse che potrebbero far presagire il peggio, il pezzo è caratterizzato da un perverso magnetismo. I suoi cowboys infatti non possono essere altro che personaggi strambi, niente di eroico, per carità, ma qualcosa che conforta in una società che ha sempre più difficoltà ad ammettere le proprie debolezze.

Quasi tutti i pezzi sono percorsi da una vena malinconica. Su questa atmosfera c’è Nobody, un pezzo laconico, tra i migliori del disco, una marmellata di suoni in stile californiano.

Preoccupied, invece, ci porta su un piano diverso, meno giocoso e meno dolce, più preoccupato, appunto. Non è difficile immaginarselo, Mac, mentre guarda pensoso, fuori dalla finestra. Tra le parti più interessanti del pezzo c’è la base con il cinguettio degli uccellini, che contribuiscono a dare consistenza al mondo surreale e sgangherato che DeMarco ci racconta; il testo è un blues disincantato, e sembra quasi criticare una cultura trumpiana in cui le menti sono “aperte” ma “piene di cazzate”.

Proprio l’aspetto dei testi è interessante in questo disco: molto più asciutti, a volte pervasi da un vero e proprio minimalismo linguistico, ma sempre con valutazioni sardoniche sul sogno americano. Come in All Of Our Yesterday, pezzo sarcastico che esplicita il concetto che molte delle cose migliori del nostro passato sono scomparse e non torneranno. Anche per questo motivo, è evidente che DeMarco è cresciuto. Questo è senza dubbio il suo disco più autentico e sporco. Se è vero, come aveva dichiarato in qualche intervista, che Salad Day era stato scritto in camera da letto, questo Here Comes The Cowboy è assolutamente stato composto in garage, o in una soffitta polverosa e invasa dalla luce del sole, che gli ha permesso di vedere meglio ogni singolo pulviscolo.

Quando arriva Choo Choo mi chiedo se sia uno scherzo. Forse sì. Su una base funk il fischio del treno fa da contraltare al falsetto di DeMarco, che ancora oggi si dimostra un artista accessibile e mai troppo serio, uno che fa musica – apparentemente – ingenua e che sembra immune dall’invadenza del mondo reale. È come se si fosse creato una bolla per proteggersi dalla tristezza di quello che succede. Forse, però, qualcosa sta cambiando. Su Little Dogs March, canta “spero che ti sia divertito, tutti quei giorni sono finiti ora”.

L’ultima traccia, Baby Bye Bye, è la più assurda di un disco abbastanza assurdo, ma è anche uno dei pezzi più memorabili. Non voglio rovinare la sorpresa a nessuno, quindi dirò solo che dentro ci si può trovare una chitarra slide, un treno che parte, una voce che parla giapponese e qualche sonorità funk.

Il bello di Mac è questo suo essere diventato oggetto di una sorta di strano culto, ovunque accolto come una grande star, un’icona insolita e sbilenca, e allo stesso tempo di fregarsene totalmente di quello che viene prodotto oggi nel mondo della musica. Quello che appare evidente da questo disco è che Mac DeMarco stia cambiando, forse sta diventando grande, chissà.

Here Comes The Cowboy sembra testimoniare il desiderio di trovare una nuova strada. Si tratta essenzialmente di un album più nudo rispetto ai precedenti, a partire dagli arrangiamenti, spesso composti da una chitarra, un piano e poco altro, fino ad arrivare ai testi.

Buono, ma a volte – ad eccezione di qualche pezzo – ci si ritrova a desiderare qualcosa di un po’ più divertente, un po’ più vivace, un po’ più DeMarco.

 

Mac DeMarco

Here Comes the Cowboy

Mac’s Record Label, 2019

 

Daniela Fabbri

Glen Hansard “This Wild Willing” (ANTI-, 2019)

Impressioni impressionistiche, tirar pennellate sull’argomento, risultato di una settimana di ascolto,
alla ricerca delle intenzioni, 
della trama e dei retrogusti, più che la disamina della grammatica del disco.
Correndo spesso ai taccuini per fermare un’idea, scrivendo dove capitava su quello che capitava. 

 

Notte. C’è un uomo che cammina per le strade di Parigi.
Quinto arrondissement, torna verso un letto, non verso casa sua.
Mani in tasca, collo incassato, la barba struscia sul bavero, alzato. 

Gli occhi sono puntati sulla strada bagnata, ma tradiscono l’altrove in cui si trovano i suoi pensieri. Sta portando a spasso per il quartiere idee e ispirazioni, con la chiara intenzione di contaminarli o, volgarmente, di concimarli.  Respira forte l’aria di una città che non è la sua, per trovare una inquadratura che non sia scontata, usurata o, semplicemente, la solita. 

La geografia di un pensiero è un atto inconscio, ma è figlio, almeno in questo caso, di un piano ben congegnato.
Prima che l’ordine del mondo venisse appaltato al monopolio delle religioni monoteiste esisteva una consapevolezza sana che delegava ai luoghi, al mondo, il ruolo di attore comprimario. Mentre le ninfe presiedevano alla sacralità della bellezza della natura, Il genius loci era l’antica divinità protettrice di un luogo, in genere di una casa, di una famiglia. Lentamente, nel corso dei secoli, il suo ruolo è mutato, estendendo, per sineddoche, il proprio ruolo di protezione e rappresentazione  a comunità più estese. La storia ha conservato l’idea del genius e l’estetica prima e l’architettura in un secondo momento l’hanno adottata, trasformandola in un approccio metodologico alla propria materia di studio. Rimane tuttavia una parola antica, carica di significati sovrapposti, stratificati, e nasce come un’entità viva, senziente e panica.
Il genius loci lo sta cercando un uomo che cammina per strada, a Parigi.
È irlandese, di Dublino, quarantotto anni.
Lui lo sa bene, certi uomini sono più propensi a farsi influenzare dai luoghi e dai loro demoni. Parigi traccia i confini del suo pensiero e del suo lavoro. Entra nei testi, nelle amicizie, nelle collaborazioni. L’humus della città fa fiorire le idee. E ci sono città che riescono in questo compito meglio di altre. Alcune, come Seattle, funzionano da catalizzatore. Altre vanno semplicemente cantate, come fece Bowie a Berlino.
Il nostro uomo camminava per altre strade, appena un anno prima, esattamente quelle di Chicago. Quello che nacque dall’altra parte dell’Atlantico è un’opera piena di genius locale. Quasi il portarsi fisicamente altrove funzioni come un atto volontario per sperimentare e contaminare, nonostante migrare, anche solo artisticamente, sia attuale, ma non di moda.
Parigi ha una biomassa estetica piuttosto elevata. Stratificazioni di secoli di vite, di arte, di artigiani, di storie. È impossibile camminare per quelle strade e non avere una vertigine. E no, non è labirintite, è una carezza di Stendhal.   

C’è un irlandese che cammina per le strade di Parigi. Le mani in tasca sono rosse  e doloranti.
La testa corre, pulsa, a dirla tutta fa anche un po’ male. Quello che nessuno racconta, nella costruzione della mitologia di un cantante è la fatica, fisica, del comporre. Lo si trova nei racconti degli amici e colleghi di Springsteen, ad esempio, quando ricordano l’incessante lavoro di cesello in sala di registrazione, il broncio perenne e l’insoddisfazione come condizione necessaria alla produzione artistica.
Il nostro irlandese, come Bruce, ha scelto un approccio artigianale alla propria arte. Se si vuole contestualizzare, per meglio rendere e far ballare (anche) le parole, possiamo definire tutto questo come approccio analogico alla creazione musicale. Ci dice il nostro:

“Sometimes when you take a small musical fragment and you care for it, follow it and build it up slowly, it can become a thing of wonder”.

È l’artigiano che sa individuare un frammento utile, anche solo dal punto di vista estetico e valorizzarlo. È un punto di partenza, ma già solo per individuarlo serve essere artigiani. E da lì inizia un lavoro analogico, fatto cioè di analogie, di similitudini, di vicinanze, fisiche e culturali.
Non c’è posto per il digitale nel pensiero del nostro uomo. Il digitale è uno o zero, è vero o falso. È campionatura, non citazione. L’essere o non essere digitale si dissolve nel pensiero analogico fatto di infinite sfumature, fossero anche solo di grigi.
L’analogico è un pensiero a cascata, anche per quello che si lega alla musica, ossia i testi delle canzoni. I temi sono quelli da lui già trattati, già cantati, ma se la materia è ben nota quello che cambia è il modo in cui viene trattata. Il fantomatico genius che va cercando gli servirà proprio a questo. Parigi gli regala testi vicini quasi alla tradizione del troubar clus medievale, citazioni bibliche, ma anche, e forse soprattutto, una multiculturalità che prende vita nelle collaborazioni del suo ultimo lavoro. Irlanda e Iran si intrecciano, inaspettatamente, in un disco di un busker di Dublino. È il pensiero analogico che permette a mondi così distanti di parlarsi, dando vita ad atmosfere veramente particolari e a colpi di scena musicali. E’, nelle intenzioni e nelle parole, una ricerca continua, di amore, di strade e di identità, un flusso di coscienza mormorato sui marciapiedi di Parigi.
Il nostro irlandese che cammina è figlio dell’Ulisse di Joyce, quantomeno della sua forma, così instabile e fragorosa e densa. E’ figlio dei cieli della sua isola e delle sue birre, della sua storia e della sua forza. Un centro stabile e coerente, portato volontariamente in terra straniera alla ricerca di nuove sfumature. Un piccolo demone parigino che gli sussurra nelle orecchie e un gruppo di amici dediti al particolare musicale.
Gli ingredienti ci sono tutti. 

C’è Glen Hansard che cammina verso l’Irish Cultural Centre, dove alloggia da un mese. Ha concluso il suo ultimo lavoro, This Wild Willing, da poche ore, grazie al suo amico David Odlum, con cui collabora da anni. Ha suonato e cantato con connazionali e con musicisti provenienti da mezzo mondo, ha lavorato duramente su piccoli frammenti musicali che tra le sue mani sono diventati grandi pezzi. Ha cantato piano, sottovoce, perché ha inciso un album che va ascoltato dedicandoci del tempo, senza strepiti, senza fretta, richiede merce rara, l’attenzione. Sette canzoni su dodici superano i cinque minuti.
Cammina l’Hansard musicista, consapevole di aver fatto un buon lavoro da artigiano e un ottimo lavoro come artista.
Cammina, Glen, verso un’altra città, verso un nuovo genius loci, verso nuovi amici con cui condividere una pinta di Guinness e qualche accordo, sia mai che ci scappa un altro gioiello come questo This Wild Willing.

 

Glen Hansard

This Wild Willing

ANTI-, 2019

 

Andrea Riscossa

Cage the Elephant “Social Cues” (RCA Records, 2019)

C’è una buona e una cattiva notizia sul ritorno dei Cage The Elephant. La buona notizia è che Social Cues è un bel disco. La seconda è che per qualche giorno, da quanto è orecchiabile, sarà impossibile ascoltare altro.

L’ultimo e quinto album della band del Kentucky è uscito il 19 Aprile 2019 per RCA Records. Ad averci messo le mani sopra, questa volta, il Re Mida della produzione: John Hill, già celebre per aver lavorato con Florence + The Machine e Santigold.

I Cage the Elephant hanno alle spalle una carriera decennale, ma sono diventati grandi senza mai farsi notare troppo. Nella loro produzione non esiste qualcosa di assolutamente eccezionale in termini di scrittura o audacia sonora, ma la loro formula è rimasta comunque fortemente caratteristica e piacevole.

Dal 2008 ad oggi hanno attraversato un’enormità di generi: dal blues al garage, passando per il funky con una punta di elettronica. Nelle tredici tracce che compongono Social Cues la metamorfosi sembra finalmente essersi compiuta: dal rock più sporco e viscerale degli esordi ad un suono più elegante e sofisticato, per un disco di certo meno rumoroso dei precedenti.

Broken Boy è l’urlo iniziale dell’album. Non poteva esserci apertura migliore. Un pezzo abrasivo, con una produzione lo-fi, che piacerà ai fan della prima ora. Tutto il disco sembra convergere sul tema dell’alto prezzo del successo, che spesso viene pagato dagli artisti in termini di ansia, esaurimento nervoso, senso di inadeguatezza e psicopatie varie.

Tutto questo unito a una buona dose di automedicazione messa in pratica da Matthew Shutlz, in seguito al recente divorzio dalla moglie. “Tell me why I’m forced to live in this skin, I’m an alien”, canta Matt. E preparatevi: è solo l’inizio.

Infatti, il testo della canzone successiva che porta il nome dell’album Social Cues recita “sarò nel retro, dimmi quando è finita”, con Shultz che canta “non so se posso interpretare questa parte molto più a lungo”.

Black Madonna, insieme a Ready to Let Go, è tra i pezzi più pop. Eccessivamente elaborata, ma allo stesso tempo più apatica rispetto al resto. Lo stesso vale per Love’s the Only Way e What I’m Becoming, che sembrano pezzi già sentiti altre volte dai Cage the Elephant. Quello che si avverte è un fastidioso senso di familiarità che contribuisce solo a renderli meno brillanti rispetto al resto dell’album.

Uno dei pezzi migliori è Night Running, con Beck. La canzone ha una vena reggae, sia nel suo backbeat che nella produzione, oscura e con effetti sonori simili a quelli della dub. Il suono è pieno e arioso, e anche il cantautorato richiama alla mente quello più tradizionale dei Cage the Elephant.

Skin and Bones è seducente e sembra perfetta per diventare un singolo radio.

La vera bomba a mano dell’album però è House of Glass, che al primo ascolto potrebbe essere un pezzo cantato da Tricky. Qui la progressione della chitarra di Brad Shultz, fratello del cantante, sembra abbracciare alla perfezione i testi di Matt sull’isolamento e la mutilazione, e sostenere i suoi continui tentativi di convincersi dell’esistenza dell’amore.

L’album termina con Goodbye, una delle canzoni più tristi e spettrali del disco. “Non piangerò, il Signore sa quanto ci abbiamo provato”, si tratta di una ballata accompagnata da un pianoforte echeggiante, in continuo crescendo.

“Tante cose che voglio dirti, così tante notti insonni ho pregato per te” recita il testo, ed è in questo preciso momento che i Cage the Elephant svelano il loro grande potenziale nel toccare le corde più fragili e commosse della nostra anima.

In Social Cues il suono è molto stratificato, complesso, ma compatto. Tutto ben amalgamato con la voce di Matthew Shultz. I testi sono più oscuri rispetto al passato, complice anche il recente divorzio del cantante, ma nel complesso i Cage the Elephant rimangono gli stessi ragazzoni spavaldi di sempre.

Non siamo di fronte ad un lavoro rivoluzionario o che passerà alla storia, ma allo stesso tempo, di certo, Social Cues non deluderà i fan. Questo album è da intendersi più come colorare fuori dalle righe, anziché inventarsi un disegno nuovo, ma bisogna ammettere che i Cage the Elephant hanno dimostrato di essere, una volta in più, una band tra le più ecclettiche e divertenti in circolazione.

 

Cage the Elephant

Social Cues

RCA Records, 2019

 

Daniela Fabbri

Frigo “Non Importa” (La Clinica Dischi, 2019)

Arriva da Firenze il nuovo progetto firmato FRIGO.

Dopo aver aperto una lunga serie di live di vari artisti della musica italiana come Lo Stato Sociale ed Elio e le storie tese, la band torna a farsi sentire, ma questa volta lo fa diventando la protagonista assoluta e facendosi largo nella scena pop con Non importa, il loro nuovo album pubblicato da La Clinica Dischi.

Le nove tracce che compongono il disco sono state prodotte da Pietro Paletti (Sugar, Woodworm) e da Francesco Felcini (Motta, Le Luci della Centrale elettrica, Giorgio Canali) tra Firenze, Sarzana e Brescia e sono un concentrato vero e proprio di vita, diviso e descritto in maniera impeccabile.

Ogni canzone lascia qualcosa addosso: sono tutti testi che offrono la possibilità di fare un passo indietro, di riflettere su ciò che è stato e di riportare l’attenzione sulle piccole cose che sembrano essere l’unica strada diretta alla felicità.

Quella felicità che sembra sempre inafferrabile e che magari è proprio accanto a noi, nelle nostre giornate, nella semplicità che a volte dimentichiamo di vedere e quindi di vivere.: forse è perché siamo talmente presi dal voler immaginare tutto in grande che spesso tralasciamo i dettagli. Cerchiamo di insabbiare il nostro passato senza avere il coraggio di guardarci dentro o semplicemente di guardarci allo specchio, che poi, a pensarci bene, sono gli unici due modi per camminare sereni nel nostro presente e andare incontro al futuro con un paio di scarpe nuove.

Non importa è una sorta di: “Fermati un secondo” perché importa eccome, perché ci sono cose che contano ed è giusto non dimenticarle.

Conta chi sei, cosa vuoi, cos’hai perso, cos’hai, cosa senti.

Conta di cosa sono fatti i tuoi ricordi e in cosa riponi le tue speranze.

Conta quanto ti soddisfa il tuo lavoro e se hai qualcuno a cui raccontare com’è andata la tua giornata o semplicemente conta avere un proprio equilibrio e conta persino la ricerca continua di quel buon vento capace di sistemare ciò che nel tempo si è spostato e ciò che è giusto lasciare andar via. Infatti siamo tutti un po’ quell’isola di cui si parla in Vento dei maiali, in balia di eventi che si susseguono e persone che s’incontrano. 

Siamo tutti un po’ parte di Quando tu non ci sei perché inevitabilmente abbiamo provato almeno una volta quella sensazione di nostalgia verso qualcuno che è andato via dalla nostra vita e quella solitudine che, a volte, per quanto possa esser desiderata, in realtà appare spesso come sinonimo di vuoto senza quel qualcuno accanto. 

Abbiamo camminato tutti almeno una volta per Via dei Bardi, dove riemergono ricordi, passioni svanite, voglia di tornare indietro e voglia di ritrovarsi, di ritrovare la strada giusta.

Siamo tutti un po’ sognatori come Pamela e vorremmo tutti liberarci da tante convinzioni e paure per fare spazio alla gioia, proprio come succede in La gioia e l’ansia.

La punta di diamante del disco è Leoni da cortile, brano vincitore del concorso “Mai in Silenzio” sulla violenza di genere, organizzato dalla Regione Toscana e Controradio, per la giornata sui diritti umani del 2018. La canzone racconta quel momento in cui ognuno di noi scopre una parte brutta di se stesso, quella parte che a volte per fortuna o sfortuna emerge, quei lati oscuri che vorremmo non vedere mai e che spesso condanniamo negli altri, ma che in realtà basta un niente per far sì che diventino anche nostri.

“Perdonami, se non ti ho detto che cos’ero e l’ho scoperto insieme a te”.

Forse è vero che non si smette mai di conoscere una persona, ma è anche vero che non smettiamo mai neanche di conoscere noi stessi, soprattutto grazie alle persone che incontriamo.

Questo disco aiuta molto in questo e in tanto altro.

Buon ascolto.

 

Frigo

Non Importa

La Clinica Dischi, 2019

 

Claudia Venuti

Deproducers “DNA” (Ala Bianca Records, 2019)

Dopo essersi avventurati tra le stelle con Planetario (2012) e aver fatto ritorno sulla terra, tra le meraviglie del mondo vegetale in Botanica (2016), i Deproducers firmano DNA, il nuovo capitolo del progetto Musica per Conferenze Scientifiche, in collaborazione con AIRC. Lo straordinario collettivo artistico formato da musicisti, cantautori, produttori del calibro di Vittorio Cosma, Riccardo Sinigallia, Gianni Maroccolo e Max Casacci accoglie come frontman d’eccezione il filosofo e bio-evoluzionista Telmo Pievani per raccontare la storia dell’antenato comune di tutte le forme viventi, il DNA. 

Nella comunicazione tra musica e scienza, nel loro scambio reciproco, si sviluppa la narrazione dei temi cardini dell’evoluzione, dalla formazione delle prime cellule, alla comparsa dell’Homo Sapiens, fino alle nuove conquiste della genetica e della ricerca oncologica, sottolineandone il valore culturale ed umano. 

Un’opera innovativa, ambiziosa ma allo stesso tempo accessibile, che permette di trasformare un convegno scientifico in uno spettacolo live coinvolgente, immersivo che punta sulla sinergia tra brani inediti, immagini suggestive e una scenografia costruita ad hoc (la data zero del tour è prevista per il 9 aprile al Teatro Grande di Brescia, la Prima andrà in scena l’11 aprile al Parco della Musica di Roma). 

In una alternanza tra concetti esposti da un cantato semplice, al limite del “parlato” nelle voci di Pievani e Sinigallia, e atmosfere delineate dalla sola musica, vagante tra ambient, acustica, neoclassica e rock, Abiogenesi dà il via a questo viaggio, elevandosi a colonna sonora introduttiva, come una nuova Così parlò Zarathustra in 2001 Odissea nello spazio. Storia compatta della vita introduce la figura di Carl Segan, astronomo che nel 1966 inventò il calendario cosmico: l’intera storia dell’universo, dal big bang ad oggi, comparata ad un anno solare. Miliardi di anni compresi tra il primo gennaio e la mezzanotte del 31 dicembre. Un crescendo musicale che va di pari passo e sfocia in una pura traccia elettronica, dominata da una voce computerizzata che elenca, tappa dopo tappa, le scoperte fondamentali nella storia dell’uomo, ricordando i Daft Punk in Harder Better Faster Stronger.

Sullo stesso impianto sonoro si snoda DNA, la title track, in una successione di bassi potenti, suoni taglienti e la ripetizione delle iniziali delle basi azotate che compongono la doppia elica: A per adenina, C per citosina, G per guanina, T per timina. Suite cellulare è l’opera lirica del disco. Divisa in quattro movimenti, accompagna le fasi evolutive con solennità. Dalla ritualità di un coro iniziale, il ritmo cambia, si riempie e si completa. Monofonia e polifonia che rappresentano, in musica, il passaggio dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari, giungendo al picco di massima intensità nella nascita del sesso. Quest’ultima, definita in termini evoluzionistici come prevenzione naturale che allontana dal pericolo dell’omologazione e dell’uniformazione, si colora di tinte romantiche e ammiccanti nella melodia lontana di un sassofono. L’energia e la vitalità di L.U.C.A. celebrano l’ultimo antenato comune universale (Last Universal Common Ancestor) e si contrappongono allo scenario inquieto di Cancro, in cui le percussioni cupe e il timbro tipico dell’organo riecheggiano la Cavalcata delle Valchirie di Wagner. La chiusura è affidata a Serendipità, termine coniato dall’inglese Horace Walpole nel 1754 per indicare la fortuna di fare scoperte casualmente, trovando qualcosa di inaspettato nella ricerca qualcos’altro.

Un riassunto di tutte le vibrazioni precedenti, un’aria melodica di apertura e progressione. Quello che prima era un coro serioso, quasi gregoriano, ora sono voci illuminate dallo stupore. La sintesi del percorso di riflessione che si intraprende, spesso, anche grazie alla musica e alle sue capacità di introspezione. Il potere di unire questo strumento essenziale con la ricerca scientifica, fonte inesauribile di domande e risposte, metafora del processo di miglioramento di se stessi e dell’umanità, attraverso la conoscenza.

 

Deproducers

DNA

Ala Bianca Records, 2019

 

Laura Faccenda

Lupo “To the Moon” (Riff Records/Grand Tree House Records, 2019)

Lupo è il progetto acoustic-folk di Enrico (Chicco) Bedogni, polistrumentista reggiano ex voce, chitarra e synth della band post-rock AmpRive (Fluttery Records, USA), da cui fu costretto ad allontanarsi per un problema all’udito. Inizia così per Chicco Bedogni un periodo di sofferta astinenza dalla musica che lo conduce proprio alla realizzazione di questo EP solista To the Moon. La paura di non poter più far parte del fascinoso mondo musicale si riflette in queste sei ballad songs, contorniate da un’aurea lenta e malinconica. Tra folk americano e bluesman meravigliosi e tormentati ci si ritrova coinvolti nello sfogo dell’autore, in un lamento disperato ad una luna distante ed assente. 

Il nome stesso del progetto riecheggia il concetto, coinvolgendo gli ascoltatori in questo ululare notturno, cupo ed inquieto, invocato da un’umanità impaurita e troppo sola. Gli individui si ritrovano abbandonati a se stessi in un mondo insensibile che non lascia scampo. L’unica via di fuga sembra essere la musica con il suo immenso potere di infondere la speranza di un riscatto. Un nuovo inizio per gli individui di cui narrano le canzoni e allegoria di una rinascita personale e professionale per l’artista. “La musica era il mio rifugio. Ho potuto strisciare nello spazio tra le note e dare la schiena alla solitudine” (Maya Angelou). 

L’EP comincia proprio con Brother and I, che porta a riflettere su come la condivisione di un’origine e di una fine comuni non basti a rendere gli uomini fratelli. Rimaniamo uomini soli e impauriti, gettati in un mondo privo di compassione. La nostra inadeguatezza e debolezza di fronte alla perfetta immensità dell’universo viene ribadita in Slow Big Crunch. La voce potente dell’artista, accompagnata dalla chitarra e dal suono originale del banjo, si rivolge al cielo colmando un infinito imprevedibile e spaventoso. 

Allo stesso modo The Bluesman Blues toglie dal disincanto giovanile, peccatore ma ingenuo allo stesso tempo, svelando la verità di una vita futura piena di insidie. Il brano, duro e diretto, enfatizza l’essenza folk dell’EP grazie all’energia trasmessa dall’armonica.

Una critica verso la sterilità dell’animo umano prosegue in Whispers To The Wind, in cui si considera come l’altezzosità e l’orgoglio, perseguiti tanto spesso dagli individui, conducano solo a solitudine ed inquietudine. 

Uomini, sempre più distanti tra loro e distratti da una vita troppo frenetica e caotica, caratterizzano il mondo di oggi: emarginazione, superficialità e distacco vengono continuamente giustificati dalla convenienza e dalle circostanze portando ad una società in cui, sempre più, si perdono i veri valori umani. Proprio in questo modo, in Like a Picture, un padre egoista e assente si trasforma in un professionista impegnato e devoto, da rispettare e prendere a modello. Dove ci sta trasportando questa vita frenetica e imperturbabile? Che futuro avrà un’umanità così viziata ed instabile? Un sentimento di insoddisfazione si libra nell’aria, trasformandosi in un lamento cupo e straziante come il pianto di una bambina capricciosa raccontato in Blue Inside.

Le ballate, con grande forza e folklore, conducono l’ascoltatore ad una forzata presa di coscienza e una profonda riflessione sulla condizione umana, nelle sue debolezze e insicurezze. Un EP da ascoltare con una forma mentis aperta a nuovi orizzonti ed interpretazioni della realtà. Accettate la sfida?

 

Lupo

To the Moon

Riff Records/Grand Tree House Records, 2019

 

Martina Boselli

Jack Savoretti “Singing to Strangers” (BMG, 2019)

«Ci ho preso gusto ad essere italiano. Quando vado in giro, saluto con “Ciao!” o “Buongiorno!” nemmeno fossi Roberto Benigni. Ho riscoperto la mia italianità.» – ha dichiarato Jack Savoretti, artista nato da padre italiano e madre tedesco-polacca, in merito alla sua vita nella campagna inglese, dove si è trasferito ormai da tempo con moglie e figli, lontano dalla caotica Londra. E questa italianità ritrovata contribuisce alla riuscita del suo sesto lavoro in studio, Singing to Strangers, pubblicato per BMG il 15 marzo e caratterizzato da un’atmosfera vestita di un doppio ed elegante abito: quello pop della nostra tradizione e quello soul anni ’50, tanto francese quanto d’oltreoceano. 

Registrato proprio a Roma al Forum Music Village, lo studio fondato da Ennio Morricone, Piero Piccioni, Armando Travajoli e Luis Bacalov, il disco, nella produzione di Cam Blackwood, si ispira ai preziosi arrangiamenti della forma-canzone del bel paese. L’impalcatura sonora si erge su una duplice struttura costituita dalla band e dall’orchestra. Linee di basso massicce si fondono con le dolci armonie degli archi e con la vocalità così intima e riconoscibile di Savoretti. Un timbro rauco e un graffiato dolceamaro che attingono da sorgenti emotive profonde e da una grande tecnica.

«L’idea di Singing to Strangers è nata da mia figlia. Mi ha detto: “Papà perché non parli del tuo lavoro?”. Cantare per sconosciuti, appunto. Il tutto è legato dal tema dell’amore che si sviluppa all’interno di una colonna sonora di un film immaginario. Dell’Italia ci sono anche il cinema e lo scenario di Roma». 

Candlelight, traccia d’apertura e primo singolo estratto, nelle inflessioni rhythm and blues ricorda le liriche dei primi film di James Bond, mentre con Dying for you love, nella chitarra vibrata dell’attacco, ci si ritrova seduti sul divanetto di un caffè retrò ad ascoltare il crooner che canta d’amore. Magari in una scena di una pellicola di Tarantino. What more can I do e Things I thought I’d never do si inseriscono, cronologicamente, in richiami anni ’70, la prima sulla scia di Marvin Gaye e la seconda su quella dei brani più famosi di Elton John dello stesso periodo. Di grande spessore è la titletrack: un monologo recitato sul sottofondo delle corde pizzicate. Una domanda identitaria, una confessione tra la consapevolezza e il grido interiore. Che dire poi di Touchy situation, tra i cui crediti si legge il nome di Bob Dylan, autore di questo dipinto al femminile scritto nella fase di Time out of mind, musicato e sapientemente personalizzato da Jack Savoretti. 

La chiusura dell’album è affidata al potente effetto “live” delle due bonus track registrate alla Fenice di Venezia. Music’s too sad without you, appassionato duetto con Kylie Minogue, potrebbe benissimo rappresentare il brano cardine di un musical romantico, di quelli dal lieto fine, che fanno sognare. Vedrai Vedrai di Luigi Tenco che sfuma in Oblivion di Astor Piazzolla è l’omaggio accorato e definitivo a tutto il panorama melodico e melodrammatico. Su queste note, è come se apparisse il frame di un film in bianco e nero. Film di cui siamo protagonisti o spettatori, in un vecchio cinema dalle poltroncine di legno. Ecco le vie di una Roma notturna, illuminata dalle file dei lampioni. Attraversata, vissuta, mano nella mano con qualcuno. O con un sorriso malinconico, nel suo ricordo.

 

Jack Savoretti

Singing to Strangers

BMG, 2019

 

Laura Faccenda

THO.MAS “Variations” (Macchiavelli Music, 2019)

A circa un anno di distanza dall’EP Fire, esce Variations, il primo album del giovane producer e dj THO.MAS, all’anagrafe Thomas Costantin, prodotto sotto la supervisione di Francesco Pistoi (Motel Connection) per Machiavelli Music.

Il titolo è un elegante riferimento alle Variazioni Goldberg di J. S. Bach, caposaldo tra le cose che Thomas Costantin ama più ascoltare. Variations conta quattordici tracce che nascono dal desiderio naturale di legare i suoi gusti sonori maturi e mostrarci quanto riescano a spaziare in generi differenti.

Il suo animo raffinato lo avvicina a diverse arti creative come si denota anche dal fatto che per la copertina di Variations abbia scelto un lavoro del pittore metafisico Gian Filippo Usellini.

La dedizione di Thomas alla consolle nasce dall’esigenza di voler ascoltare e ballare quello che a lui piace di più e di diventare, con questo fine ultimo, il protagonista degli eventi ai quali prende parte: dalle serate allo storico Plastic di Milano agli eventi di moda per cui gli stilisti lo scelgono per disegnare, insieme alle scenografie, lo sfondo musicale perfetto per le loro sfilate.

La sua ricerca musicale guarda al futuro, imbattendosi di continuo nell’ascolto di sonorità originali e di artisti inediti, ma anche con scelte sensibili verso il passato, attraverso l’inserimento sapiente nelle sue creazioni di pezzi vintage e samples di vecchi film.

Variations è un viaggio elettrizzante su un treno d’epoca in cui ogni scompartimento racconta una storia dalla tappezzeria prima cupa, poi scintillante. La probabile direzione o il punto di partenza, come ci suggerisce il singolo che anticipa l’album, Trip to the moon, è la luna, da dove Thomas dichiara scherzosamente, in un’intervista, di provenire.

Dagli altoparlanti vengono trasmesse via via le tracce e l’incedere del treno sulle rotaie dà ritmo a questa avventura. 2930 rimanda ad uno spy theme hollywoodiano, nel quale gli eleganti passeggeri si scambiano occhiate furtive inseguendosi per i vagoni.

Procedendo nell’ascolto dei quattordici brani risulta impossibile non immaginare scenari maestosi e spettacolari: Waltz of the Cauliflower è incalzante, imponente, gli archi e le forti percussioni si alternano magnificamente come le mosse in un passo a due.

Per l’ultima fermata di questo affascinante viaggio, THO.MAS affida la conclusione dell’LP ad un featuring con uno degli artisti contemporanei che stima di più: Leo Hellden (Tristesse Contemporaine). Futuramour viene accompagnata da una voce femminile suadente e da una futuristica impronta elettronica Nord europea. 

Con Variations, THO.MAS coglie senza alcun dubbio l’obiettivo di trasportarci insieme a lui in un luogo dove l’estetica del “bello” è il tema centrale. Chiunque può attingervi e, finito l’ascolto, avere la sensazione di essere arricchito e attraversato da questa bellezza.

 

THO.MAS

Variations

Macchiavelli Music, 2019

 

Rachele Moro

Just Dance, la crossmedialità e un film di cui, forse, non avremo alcun bisogno

Inevitabile e ricorsa con sempre più foga da major e publisher di tutto il mondo, la crossmedialità è il nuovo Santo Graal di chi è in possesso di un brand dal forte richiamo.

Strategia commerciale sdoganata dalle potenzialità poliglotte di internet, dei social network e di industrie culturali sempre più interconnesse, è ormai una sorta di rito di passaggio, una prova del fuoco per testare la reale solidità, e (ri)vedibilità, di un marchio.

Il videogioco, medium per antonomasia difficile da limitare, definire e descrivere attraverso un tipo specifico ed univoco d’esperienza, negli ultimi anni sta abbracciando con sempre più efficacia e profitto questo trend.

Serie come Halo, Resident Evil e Mass Effect hanno incontrato fortuna e simpatie di un pubblico lieto di seguire le vicissitudini dei propri beniamini anche tra le pagine di un romanzo o tra quelle, ben più colorate, di un fumetto.

Nonostante la qualità altalenante delle opere tirate in ballo, il fenomeno non sembra conoscere alcun rallentamento. La serie televisiva dedicata all’FPS di Microsoft, il già citato Halo, sembra che prima o poi si farà.

Nonostante l’insuccesso al botteghino di Assassin’s Creed, film che ha persino avuto per protagonista il talentuoso Michael Fassbender, il sequel viene già dato per scontato, pronto a rimediare agli errori di gioventù di una saga che, senza mezzi termini, ha molto da dare e da dire anche al cinema.

Non è un caso, lo ammettiamo, se abbiamo citato l’action a sfondo storico edito da Ubisoft.

Sì, perché il publisher francese ha recentemente annunciato di essere a lavoro su un adattamento cinematografico di Just Dance, gioco di ballo che ha debuttato nell’ormai lontano 2009, inizialmente solo su Nintendo Wii, diventano negli anni una saga capace di registrare milioni di copie vendute per ogni edizione indirizzata sul mercato.

Per chi non fosse a conoscenza del videogioco, parliamo di un titolo in cui si deve riprodurre la stessa coreografia eseguita da un avatar digitale sullo schermo.

Il software, per rivelare la correttezza dei movimenti compiuti dall’utente, si avvale, a seconda della versione e della console su cui si gioca, di controller muniti di accelerometri, telecamere in grado di tracciare la sagoma del videogiocatore, persino il proprio smartphone equipaggiato di apposita app.

Non c’è trama, né una vera e propria campagna. Semplicemente una playlist di brani che si possono ballare in qualsiasi momento, attraverso diverse modalità, sfidando amici o altri utenti pescati dalla rete all’highscore più alto.

Viene insomma da chiedersi il motivo di un film su Just Dance. Laddove il recente Tomb Raider, Warcraft:

L’Inizio e Silent Hill, il bellissimo Silent Hill, si sono basati, oltre che su gameplay ben tratteggiati, soprattutto su universi narrativi delineati e corposi, in gergo si parla di “lore” parola derivata dal ben più noto folklore, la saga di Ubisoft non possiede nulla di tutto ciò.

Non è un caso isolato. Anche del famoso Dance Dance Revolution, probabilmente il cabinato arcade più distribuito al mondo, è previsto un adattamento cinematografico.

Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile a Step Up? Una versione più trendy e cool di Flash Dance? Un film romantico in stile Dirty Dancing? O addirittura un musical?

Non manca chi è pronto a scommettere che si tratterà di un film sulla scia de Il Mago dei Videogames in salsa rhythm game, con un torneo di Just Dance a sostituire quello di Super Mario Bros. 3 per decretare il nuovo campione del momento, con tanto di strizzatina d’occhio agli e-sport che, nel mentre, registrano fatturati da capogiro.

Sia, quel che sia, tutte queste ipotesi sembrano attualmente accomunate da un unico fattore: l’assoluta assenza di continuità, narrativa ed artistica, del materiale di partenza, condizione sine qua non per dare un volto coerente e riconoscibile all’ormai prossimo lungometraggio.

Anche il target verso cui il film è rivolto sembra tutt’altro che ben delineato, visto che parliamo di una saga capace di vendere milioni di copie, certo, ma priva di una fan base vera e propria o di un’utenza, per lo più casuale, generalmente informata su ciò che accade nel mondo dei videogiochi e dintorni.

Magari verremo smentiti dai fatti, una volta che il film su Just Dance vedrà effettivamente la luce, ma allo stato attuale non possiamo che biasimare questa crossmedialità unicamente votata al profitto e senza alcuna cognizione di causa.

 

Lorenzo “Kobe” Fazio

Telekinesis “Effluxion” (Merge Records, 2019)

Dieci anni fa, nel 2009, un giovanotto di nome Michael Benjamin Lerner pubblicava un album intitolato Telekinesis! sotto lo pseudonimo, appunto, di Telekinesis. Era un album fresco, un indie pop interessante, fortemente influenzato dalle sonorità di quei Death Cab for Cutie di cui il suo mentore, amico e produttore Chris Walla faceva parte, ma che lasciava intravedere un potenziale notevole.

Dieci anni e altri tre album dopo, arriva Effluxion, quinta prova in studio della one man band Telekinesis, in cui Michael Lerner suona, balla e canta di tutto e di più, dalla sua amata batteria al trombone ai campanacci da mucca.

In questi anni abbiamo avuto il piacere di seguire l’evoluzione di questo talentuoso ragazzo dai modi gentili e l’abbiamo visto passare dagli esordi indie rock all’esplorazione e ricerca in uno spazio fatto di synth come nel penultimo lavoro Ad Infinitum del 2015. Con Effluxion invece, ritroviamo quelle sonorità pop familiari, riff di chitarra confortevoli, che suonano inequivocabilmente Telekinesis senza però risultare ripetitive.

 

DSC 0666 1

Telekinesis @ Sonic Boom Records – Seattle, WA (2011)

 

La prima metà dell’album ha dei rimandi fortemente beatlesiani: nella cadenza della traccia di apertura Effluxion così come nella ritmica di Like Nothing ritroviamo degli elementi di pop molto classico, ma emergono anche una maturità ed una pacatezza compositiva che rendono l’ascolto facile e contemporaneamente intrigante.

Queste sonorità piacevolmente senza tempo persistono in Running Like a River fino ad arrivare a Set a Course. Qui, a metà canzone, l’album ha una svolta: Michael sembra ricordarsi di essere anche e soprattutto un batterista ed ecco che potente e preciso arriva a mettere il suo marchio di fabbrica al resto dell’album, portandolo in quel territorio di power pop ed indie rock che rendono i suoi lavori così accattivanti.

Da How Did I Get Rid of Sunlight? fino a A Place in the Sun non potrete fare a meno di sbattere un piede o muovere la testa per tenere il ritmo: batteria e chitarra entrano nelle orecchie e vanno a stimolare il nostro sistema nervoso provocando questa reazione tanto involontaria quanto liberatoria e spensierata.

Out for Blood chiude l’album con un ulteriore cambio di atmosfera rispetto alle tracce che l’hanno preceduta, con le tastiere a scandire il ritmo e a dare una sferzata di ossessività che si sposa alla perfezione con l’urgenza del testo.

Effluxion si esaurisce in 31 minuti di piacere per le orecchie e di svago per la mente, avvincente nei suoi cambi di ritmo e così compatto da non poter fare a meno di ascoltarlo un’altra volta ancora.

 

Telekinesis

Effluxion

Merge Records, 2019

 

Testo e foto: Francesca Garattoni

Bring Me The Horizon “Amo” (RCA Records, 2019)

Quando pensiamo ai Bring Me The Horizon la prima cosa che viene in mente è un camaleonte. Si tratta di una band in grado di stupire e di cambiare per stare al passo con i tempi e non soccombere in un mondo, come quello della musica, in continua evoluzione.

La band dei cinque di Sheffield, formatasi nel 2004, ha iniziato la propria carriera influenzata dalle tendenze grindcore ed emo tipiche del periodo, successivamente sono passati al nu metal per poi approdare, con gli ultimi album, ad un alternative rock e ad un metal influenzato dal pop.

Ma nel 2019 hanno deciso di stupire tutti. Il 25 gennaio è uscito Amo il loro sesto album, un lavoro di difficile catalogazione perché al suo interno troviamo generi completamente diversi.

Nei suoi testi la band continua a trattare le tematiche che le stanno più a cuore come l’isolamento, la depressione e il nichilismo: tutte problematiche che caratterizzano la società moderna ma lo fa in un modo completamente nuovo.

Ascoltando le tredici tracce che compongono Amo ci ritroviamo quasi spiazzati dai continui cambi di genere.

Il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album è stato Mantra, una delle canzoni più hard rock del disco.

Mantra è una parola, o una frase, che secondo le filosofie orientali è in grado di migliorare la condizione dell’uomo, ma la canzone in realtà è una riflessione sull’amore e sulla religione, sul darsi completamente e sul fidarsi incondizionatamente di qualcuno.

La traccia seguente Nihilist Blues non ha nulla a che fare con il rock: è un pezzo puramente elettronico che però strizza l’occhio alla dance anni ’90.

Ma i Bring Me The Horizon non si sono fermati qui. Abbiamo il nu metal di Wonderful Life, l’alternative rock con un pizzico di blues di In The Dark, le influenze tecno di Ouch, qualcosa di punk in Sugar Honey Ice & Tea. In un album così sperimentale non poteva mancare una traccia influenzata dal genere più in voga in questo momento: la trap. Ebbene si i BMTH si sono lanciati anche in questo filone con Why You Gotta Kick Me When I’m Down? e il risultato è sorprendente. Rap, trap e rock si fondono in questa canzone che è una critica a tutti quelli che desiderano solo il peggio per gli altri.

Nella canzone Heavy Metal, a cui ha preso parte anche il beatboxer Rahzel, i Bring Me The Horizon rispondono in anticipo alle critiche che colpiranno l’album proprio a causa del loro cambio di genere: ma questo a loro non importa.

Ascoltando questo album ci saranno sicuramente due scuole di pensiero: da una parte ci saranno i difensori dei BMTH che sosterranno che con Amo hanno raggiunto una maturità artistica che permette loro di spaziare da un genere all’altro. Dall’altra parte della barricata invece troveremo gli haters che li accuseranno di essersi venduti per cavalcare la moda del momento.

Ma non basta avere dei bei vestiti per essere alla moda… bisogna anche saperli portare e ascoltando Amo ci siamo resi conto che i BMTH sono riusciti a sentirsi a loro agio con tutti i generi e gli stili con cui hanno deciso di sperimentare.

 

Bring Me The Horizon

Amo

RCA Records, 2019

 

Laura Losi

Le Butcherettes “bi/MENTAL” (Rise Records, 2019)

 

Le Butcherettes sono un gruppo punk rock al femminile fondato nel 2007 da Teri Gender Bender.

Il gruppo, originario del Messico, non sente tanto le influenze centroamericane ma bensì quelle del vicino Texas, attirando agli esordi l’attenzione di Omar Rodriguez-Lopez degli At The Drive In con un garage punk elettrizzante.

A distanza di quattro anni dall’ultimo A Raw Youth, Le Butcherettes tornano con un nuovo disco dal titolo bi/MENTAL. Prodotto per la prima volta senza Omar Rodriguez-Lopez a cui hanno preferito Jerry Harrison (Violent Femmes, Crash Test Dummies, Live, No Doubts), la band abbandona ulteriormente i suoni punk in favore di atmosfere più noisy.

La canzone di apertura Spider/WAVES si arricchisce nei cori della voce di Jello Biafra dei Dead Kennedys; nel disco partecipano anche la cantante e attrice cilena Mon Laferte e la punk rocker Alice Bag.

Le canzoni di Teri Gender Bender prendono l’ascoltatore e non lo lasciano più come succede con il brano Strong/ENOUGH, con il suo mix perfetto di pop e soul.

struggle/STRUGGLE è uno di quei brani che dimostra come la band sia cresciuta negli anni, da un classico e rude garage rock ad un rock più maturo e moderno, sperimentando anche con nuove sonorità come in Little/MOUSE.

Concettualmente, l’album può essere interpretato uno sfogo personale della cantante riguardo al difficile rapporto con la madre affetta da bipolarismo: l’esternazione di sentimenti a lungo repressi si sente in brani come in/THE END, che sottolinea come un difficile rapporto madre/figlia possa arrivare anche al punto di nascondersi dalla persona che ti ha donato la vita.

Mother/HOLDS è forse il momento più alto del disco, ma anche il più triste, con le urla strazianti della cantante che esprimono la sofferenza che l’ha accompagnata in tutti questi anni.

Nel brano /BREATH, chiusura del disco, si è così confusi dal bipolarismo di sentimenti che caratterizza l’intero album che si accarezza persino l’idea di liberarsi della propria esistenza seppellendosi nel mare.

Teri Gender Bender però è un animo battagliero, come si può vedere anche dalla copertina del disco: con questi tredici brani di bi/MENTAL non si arrende, lotta e ad ogni ascolto dell’album sconfigge i propri demoni. E noi con lei.

 

Le Butcherettes

bi/MENTAL

Rise Records, 2019

 

Carlo Vergani