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Tag: review

Sinplus “Waiting for the Dawn” (Dream Loud Entertainment via AWAL, 2022)

Attendere l’alba con i Sinplus è musica

La Svizzera è spesso famosa per le sue innevate montagne, i fragranti formaggi e gli ineccepibili orologi, ma quando parliamo di musica e soprattutto di rock, non è sicuramente tra i primi paesi che possono venire in mente agli appassionati del genere. Eppure, in luoghi così apparentemente tranquilli, nascono i Sinplus, duo alternative rock formato dai fratelli Ivan e Gabriel Broggini di Locarno, e che a loro attivo hanno già cinque album in studio più il nuovo EP Waiting For The Dawn, anticipazione del progetto completo che uscirà in primavera. 

Come suggerito già dal titolo, il progetto propone cinque brani uniti dal senso di attesa, ma non inteso come una grigia passività di eventi che devono accadere e che sono fuori dalla nostra portata, bensì quell’attesa di un atleta fermo ai blocchi di partenza, ma che ha dentro di sé tutta l’adrenalina pronta a esplodere in energia per iniziare una nuova avventura. Così la title track al terzo posto nell’EP diventa il cuore pulsante di un movimento sicuro e forte come i primi break sincopati della batteria, che ospitano riff pieni di energia e soprattutto l’interpretazione di Grabriel forte e delicata, che libera lo spirito della canzone dall’inizio alla fine, per concedersi un breve passaggio dolce e accattivante che cattura l’ascoltatore. Un fascino che penetra nell’audience già con Dark Horse Running dove le chitarre abbracciano un testo fatto di immagini che prendono forma tra accenni di distorsione e coralità evocative, ma sempre decise e graffianti. Si guarda il mondo, si aspetta solo nuovamente il via per tornarne protagonisti, ma non si può scordare le proprie origini ed è così che i Sinplus propongono una convincente cover di Need To Believe, tributando così i trenta anni di carriera della band svizzera Gotthard. 

Waiting For The Dawn è un progetto che, nonostante racchiuso nelle semplici dimensioni di un EP, propone una profonda intensità tematica oltre che a un’interpretazione vocale e sonora che riesce a mantenere l’attenzione dell’ascoltatore dalla prima all’ultima canzone. Non sono brani che vogliono svelare chissà quale misterioso segreto nascosto nell’uomo oppure nel cosmo, né melodie che vogliono rompere con un passato musicale che in realtà omaggiano muovendosi tra sonorità new wave. Alternative rock e post-punk. Quello che passa dei brani e la voglia di intercettare quella voglia di ricominciare che vibra nell’aria dopo gli anni che ci hanno visto chiusi e divisi, il desiderio di parlare e condividere emozioni e pensieri attraverso musica cercata, creata, pensata e non abbozzata da qualche stratagemma digitale. Un EP che preannuncia un album altrettanto ben fatto e, se il buongiorno si vede dal mattino, provate ad ascoltare quest’alba. 

 

Sinplus
Waiting For The Dawn
Dream Loud Entertainmente via AWAL

 

Alma Marlia

The Smashing Pumpkins “Atum: A Rock Opera in Three Acts” (Martha’s Music/Napalm Records, 2022)

Act One: emozioni contrastanti  per un’opera da ascoltare nella sua completezza

Per la mia generazione gli Smashing Pumpkins sono tante cose. Sono un gruppo musicale alternative rock nato nel 1988 che dagli Stati Uniti è esploso sulla scena mondiale con album come Siamese Dream e Mellon Collie and the Infinite Sadness. Sono quella vena di dolore e di tristezza trasformati in parole e musica che accoglievi a braccia aperte mentre tornavi da scuola, mentre eri con gli amici, oppure dentro la cameretta a sognare di essere grande, ma a percepirne anche tutta la difficoltà. Sono la fake news di Billy Corgan co-protagonista delle serie statunitense anni ’80 Super Vicky, la voglia dei molti fans di crederci, e la soddisfazione di altri quando ti svelavano la verità come se ti avessero detto che Babbo Natale non esisteva. Ma gli Smashing Pumpkins sono soprattuto la voce di Corgan, che passava per la tua pelle e si insinuava nei tuoi pensieri per farti gridare con Bullet with Butterfly Wings che nonostante la tua rabbia, eri ancora un ratto in gabbia, o per cantare Landslide dei Fleetwood Mac in modo così dannatamente struggente da farti sentire nudo in mezzo al mondo, con il viso rigato di lacrime. 

Ed è quella voce che, come una freccia scoccata dal passato, arriva al nostro presente attraverso il primo atto di Atum: A Rock Opera in Three Acts, il nuovo progetto composto da 3 parti con uscite programmate anche per il 31 gennaio e il 23 aprile 2023.  Ma il passato rimane il passato e per quanto la voce di Corgan emozioni l’ascoltatore come sempre, la band non ha più voglia di manifestare la rabbia e la tristezza attraverso il sound che li ha caratterizzati e resi iconici per un’intera generazione, perdendo un po’ di mordente e adagiandosi in un uso forse eccessivo dei synth per tutto l’album, creando a volte atmosfere gigionescamente rarefatte, altre troppo rivolte a un vecchio pop. Se la strumentale title track propone sei corde elettriche distorte e ci anticipa sonorità sintetiche, questi suoni si propagano nell’album un po’ come onde non sempre ben distribuite, tanto da farsi poco amalgamate come in Hooray, mentre una canzone come Hooligan ha contrasti ritmici interessanti che però non riescono a svilupparsi e combinarsi in modo accurato. In Butterfly Suite, le variazioni che scaturiscono in un bridge, riportano il brano da un’inziale incertezza a una buona tenuta, anche sono proprio queste difformità che caratterizzano tutto l’album che rendono perplessi al primo ascolto. Un ascolto orfano del singolo Beguiled uscito a settembre con una buona accoglienza del pubblico. Un ascolto che in Steps in Time e The Good in Goodbye trova echi di riff potenti del passato e chitarre elettriche incisive che confermano il carattere della band e suggeriscono che forse non finisce tutto lì, anche se in fin dei conti lo sappiamo già, perché l’opera deve essere completata degli altri due atti per capire in pieno il progetto finale. 

Mentre Atum: A Rock Opera in Three Acts si muove nell’ascolto digitale, il web esplode in opinioni di chi li preferiva agli esordi, e chi ci vede una protesi di Cyr, tra synth che spadroneggiano su canzoni prive di personalità. Non possiamo negare che il primo atto del progetto lascia perplessi, eppure si percepiscono tracce di un gruppo che ha ancora da dire e, in alcuni momenti, ti chiedi se è vero oppure se nel tuo cuore si nasconde una sorta di riconoscenza emotiva per chi ti ha fatto provare alcune tra le più belle sensazioni della tua giovinezza. Le domande si affollano nella mente e sgomitano per farsi spazio in un crogiuolo di ricordi ed emozioni, mentre nel sottofondo riecheggia quella forte chitarra elettrica che ti chiede di aspettare fino alla fine per capire cosa voglia dire quest’opera, perché potrebbe ancora sorprenderti. Fiducia mal riposta? Lo scopriremo solo ascoltando.

 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

 

Alma Marlia

Elephant Brain “Canzoni da Odiare” (Libellula Music, 2022)

Un inizio strumentale non scontato e inaspettato: 43 secondi di chitarra e un po’ di malinconia. Così si presenta Canzoni da Odiare, secondo album della band perugina Elephant Brain uscito a quasi tre anni di distanza dal loro primo lavoro Niente di Speciale e di cui rappresenta a tutti gli effetti la naturale prosecuzione. 

L’introduzione pt. 1 (canzoni) apre così un cerchio e, parallelamente sul finale (ma questa volta a base di tastiera), pt. 2 (odiare) ne costituisce intuitivamente la chiusura. E quando sulla coda i suoni si distorcono, non si può fare a meno di pensare a dove la band potrà spingersi in futuro, dopo aver chiuso questo cerchio.

All’interno di questo anello troviamo sette tracce accomunate da un fil rouge: l’errore e la paura, l’insicurezza e la precarietà, tutti temi piuttosto cari e – a tratti forse anche spaventosi – per chi sta diventando adulto nel 2022 e che sono stati riuniti emblematicamente nel primo singolo Anche Questa È Insicurezza. 

Lo stile rimane simile a quello già sperimentato nel loro lavoro precedente, dove le chitarre sono preponderanti ma sanno anche lasciare spazio a sonorità più malinconiche e quasi introspettive, come nel caso di Rimini. Tuttavia, non è detto che queste due anime debbano escludersi a vicenda, anzi, possono anche coesistere nello stesso pezzo, come nel il caso di Come Mi Divori, terzo singolo pubblicato. D’altronde, questo modus operandi, che parte in maniera più intimista per poi esplodere, è funzionale alle sensazioni e soprattutto alle paure che vengono raccontate in questo album, dove la musica resta uno – e forse il solo – punto fermo di chi canta. 

Se in una delle loro prime canzoni, Ci Ucciderà, la musica si nutriva di dolore e richiedeva lividi per poter essere realizzata, adesso in Mi Sbaglierò diventa antidoto per non sentirsi morti, qualcosa che si contrappone e ci salva dagli altri, troppi, errori che si sono commessi e si commetteranno. 

Le canzoni sono quindi da odiare, come ci suggerisce il titolo: per la loro franchezza, per il loro potere, per il dolore che richiede realizzarle. 

Ma allo stesso tempo, sembra che non se ne possa proprio fare a meno. 

 

Elephant Brain
Canzoni da Odiare
Libellula Music

 

Francesca Di Salvatore

Phoenix “Alpha Zulu” (Loyaute/Glassnote Records, 2022)

Nell’immaginario, spesso la Francia è un paese di arte, moda e cucina dove la baguette regna sovrana, ma per la musica, il primo pensiero va a sonorità languide e canzoni che sanno di bistrot parigini. Perciò non può non stupire la presenza di un gruppo come i Phoenix, un gruppo musicale pop rock nato a Le Chesnay e formatosi a pochi chilometri da Parigi, più esattamente a Versailles, che deve il suo successo a un lavoro minuzioso fatto sul suono e le sfumature musicali trasformandoli da una band di quartiere a star del pop sintetico con già sette album in studio all’attivo e il nuovo progetto Alpha Zulu per Loyaute/Glassnote Records.

Il synth domina l’album, con un forte richiamo alla new wave, ma con un uso così sapiente e combinazioni sonore calcolate talmente nel dettaglio che la band è riuscita ad evitare l’omologazione tra i brani per farli vivere della loro peculiarità. La title track Alpha Zulu apre l’album esplodendo con la forza di un beat potente come un martello, ma chiunque si lasciasse fuorviare dal titolo per trovare qualche richiamo tribale in questi suoni rimarrebbe deluso; quei colpi così decisi non sono altro che la riproduzione della potenza degli elementi naturali, o meglio della tempesta, la stessa in cui si è trovato durante un volo il frontman Thomas Mars che della frase di emergenza pronunciata dal pilota ne ha creato una canzone. L’emergenza diventa quindi bisogno creativo e filo conduttore del brano e di tutto il progetto attraverso un ritmo incessante di musica e parole. Il beat diventa più cupo e ovattato per Winter Solstice, mentre Mars crea della sua voce un sussurro leggermente robotico, per una canzone emozionante, dalle note più lunghe, che quasi si adagiano per poi ripartire e non fermarsi mai. La sensazione di ipnosi pervade l’ascoltatore mentre il solstizio invernale ci avvolge in un profondo mistero. Altrettanto eterea, anche se con un ritmo più veloce è All Eyes On Me dove, attraverso il flusso sonoro, l’ascoltatore si perde in un loop di sguardi. Con Tonight, invece, i Phoenix si muovono, per la prima volta nella loro carriera discografica, in un featuring con lo statunitense Ezra Koenig dei Vampire Weekend per una melodia disinvolta ed accattivante di un brano semplice e ricercato al tempo stesso. 

Alpha Zulu è un progetto di eleganza e ricercatezza, ma non per questo un inutile giro di note che ripetono e finiscono se stesse. Si vive nel ritmo a cui ci si può lasciare andare per ballare, oppure per vedere come i testi sono perfettamente incastonate nei suoni, quasi a diventare melodia della melodia stessa, senza languide sospensioni, solo cadenze che giocano su combinazioni senza sbavature, anche se con una certa sfumatura naif che rende la loro produzione fresca e godibile in qualsiasi momento. I Phoenix non sono una banda per chi cerca gigioneschi suoni oscuri, qualche rantolo che gratta il microfono e pose da artisti compassati. Loro sono semplici e diretti, eppure molto minuziosi in ciò che fanno, per questo motivo possono soddisfare chiunque desideri farsi trascinare dalla musica.

 

Phoenix
Alpha Zulu
Loyaute/Glassnote Records

 

Alma Marlia

Ásgeir “Time On My Hands” (One Little Independent Records, 2022)

Cronache emotive di lande gelide

 

Scritto sulla sabbia

Fuori attende la sabbia nera
sottile e umida
Il dito si ghiaccia un poco
a scrivervi
Il corpo si scalda un poco
e anche il groviglio che si chiama
spirito
mente
anima
Le onde si avvicinano
il respiro
pieno di mestizia
di gioia di vita
Le onde si avvicinano

Sigurður Pálsson

 

Uno dei più grandi poeti Islandesi descrive appieno il clima in cui si diventa grandi in quest’isola glaciale.

Con le nostre caotiche metropoli, la bellezza dei piccoli centri storici, le distese verdeggianti a perdita d’occhio, la brulicante gioia di vivere delle nostre spiagge, il profumo del nostro cibo, la particolarità dei paesini arroccati nelle montagne è davvero arduo anche solo immaginare di vivere in un luogo così sperduto e quasi surreale.

L’ambiente che ci circonda influisce sulla percezione di noi stessi, sui nostri bisogni e sulle nostre priorità. Così, in uno dei paesi meno popolati del nostro continente, si resta a casa, si coltiva la propria individualità. Un popolo di introversi; nel tempo libero spesso poeti, scrittori, musicisti o cantanti.

Come se il gelo infiammasse i loro animi e li spingesse a scavare sempre più a fondo, a sviscerare ogni emozione, aprendo una finestra su sé stessi e vedere colori vivi e rigogliosi, quando ogni altra finestra affaccia sul grigio dei paesaggi appiattiti da un inverno pressoché perenne.

Una landa quasi desolata, tra ghiacciai, montagne, vulcani e fiumi gelati, ma abitata da esseri umani che mantengono il loro sangue caldo e il cuore pulsante.

Questa piccola isola glaciale ha donato varie gemme musicali tra cui Björk, Sigur Rós, i Múm e gli Of Monsters and Men per citare i più conosciuti.

Dal 2012 è apparso un ulteriore diamante grezzo, Ásgeir, diventato subito famoso nella sua terra, riuscendo a vendere più di Björk, e nel 2014, traducendo i suoi pezzi in inglese, ha intrapreso la conquista verso il mondo. 

Ora prova a rivendicare il suo spazio e la sua identità con un nuovo album, Time On My Hands, sperimentando e tentando di portare il suo stile ad un livello nettamente superiore rispetto ai suoi primi lavori.

La sua natura introversa e riflessiva lo ha portato a sfornare un album eccelso, lontano dal “classico” folk melodico con cui  è stato in passato etichettato. Una crescita di questo giovane uomo concreta, riscontrabile nella ricercatezza delle parole, delle melodie e nella potente sfumatura malinconicamente introspettiva, solenne, che assume ogni testo.

Mescolando l’acustica con l’elettronica, riesce a rendere anche i pezzi più intensi più eleganti.

Già dal primo brano, Time On My Hands, che porta il nome del disco, la delicatezza nella voce di Ásgeir colpisce come il vento gelido islandese; un pezzo molto classico, chitarra morbida e batteria che accompagna senza spezzare il brano. Il secondo brano Borderland ci mette subito in difficoltà, accostando la finezza della voce con la sfrontatezza di un synth e una base più elettronica.

Il terzo pezzo Snowblind è il primo singolo estratto dall’album è il matrimonio perfetto tra elettronica e sonorità ricche di sensibilità. In Waiting Room il suo falsetto leggero riesce ad emozionarci, e, socchiudendo gli occchi, ci troviamo esattamente dove lui vuole portarci: una stanza con vista su una terra di nessuno. Giantess è un pezzo altisonante, dove Ásgeir si avvale di un ritornello folk molto orecchiabile, mentre in Limitless riesce a dare davvero l’idea di qualcosa di illimitato con la dolcezza della sua voce, facendoci planare sull’eternità di un ghiacciaio immacolato.

Time On My Hands non è solo l’ultimo album di questo cantautore, non è solo un connubio tra falsetto, synth ed elettronica, è molto di più. Un lungo viaggio nella sua interiorità, un lungometraggio di terre lontane, di venti gelidi che sferzano le acque, di paesaggi impervi. 

Un riassunto di anni di lavoro e impegno sulla sperimentazione con vari suoni, che riesce egregiamente a padroneggiare per creare qualcosa di davvero caratteristico.

 

Ásgeir
Time On My Hands
One Little Independent Records

 

Marta Annesi

Dry Cleaning “Stumpwork” (4AD, 2022)

Ho ascoltato questo disco una ventina di volte.
In cuffia, come da prassi, con aria da consumato sommelier, a cercar profumi e angoli nascosti.
Mentre lavoro, per stupirmi di quante volte il sopracciglio destro si potesse alzare, in totale distrazione.
Sdraiato in un prato, in solitudine, da pastorello dell’Arcadia.
Poi mi sono illuminato. Avevo un piano. E una sera libera. 

Stumpwork, questo il titolo del secondo album dei Dry Cleaning, merita una serata tutta sua, un viaggio vero veramente, lui, io e una strada. Una statale verso le montagne, dove posso fermarmi e scrivere, dove ci sia buio e ci siano chilometri facili, dove posso guidare in automatico e intanto perdermi nelle note e nelle parole di Florence Shaw, perché, sono sicuro, proprio nei testi sta la chiave di lettura di questo album.
Perché è un disco fatto di solitudini, di spazi chiusi, di viaggi distratti, di pensieri nati seguendo goccioline di pioggia che scappano su finestrini. È un monumentale flusso di coscienza, sembrano mille pensieri scritti velocemente su post-it e poi lanciati in aria. Non c’è un ordine, non c’è un metodo, c’è solo una forma, uno stile, un messaggio di fondo.
Si parta, dunque. Scriverò come fossi intrappolato nei titoli di testa Lost Highway di Lynch.

L’album inizia freddo, gelido, ritmo che sa di macchina industriale. Anna Calls From the Arctic sembra il risveglio da un letargo mentale (o reale), è costruito su un crescendo, su cui si affollano pensieri rapidi, banali, a volte singole parole. È un gioco a evocare, ed è una pena godere dell’arrivo di una scarpiera, unico sollievo della giornata. Tutti i brani avranno questo disegno di fondo: nel disastro post-pandemico e post-industriale, il sollievo è effimero e materiale. Anche i pensieri che portano serenità, nati in ascensore mentre si esce di casa, sono di una superficialità imbarazzante. Piccole gioie, mentre l’ascensore precipita, a nostra insaputa.
Salva chi canta e salva chi ascolta una sana dose di cinismo, di intelligente distacco e di caustica visione. I Dry Cleaning nel pezzo che apre il disco sembrano più morbidi ed eleganti. Così sarà lungo tutto l’album.
Gary Ashby, terzo pezzo in tracklist, era la tartaruga di famiglia. Scappata durante il lockdown, dove, non si sa, come, non è dato saperlo. Ma perdere un animale come Gary non è da tutti, considerando che si era tutti a casa. Brani come l’orecchiabile Kwenchy Kups, al limite della schizofrenia, sembrano una degustazione di parole e ricordi, così come la seguente Driver’s Story.
La chitarra di Tom Dowse si lancia nel funky in Hot Penny Day, mentre viene affrontato il tema amoroso per la prima volta. La perfida metafora qui sta nell’accostare i rapporti umani al penny day, tradizione antichissima del South Devon, dove le famiglie ricche si divertivano a lanciare dalle finestre monete arroventate. Lo spasso nell’osservare i poveracci che si ammassavano ustionandosi le mani pare fosse ineguagliabile. Così sarà l’amore? Chi può dirlo. Intento si tratta si spazi vuoti e di conti correnti a rischio. E galleggiamo ancora sui temi della superficialità e della solitudine.
Stumpwork, title track da metà tracklist, entra sottopelle con un ritmo lento e cadenzato, un elegante dialogo tra sezione ritmiche e chitarre, una Shaw che quasi canta e una serie di immagini evocate senza filo logico, sembrano incipit di dialogo, approcci da aperitivo, fotogrammi di un cortometraggio in bianco e nero, pezzi di sogno che riemergono tornando a letto. 

E mentre guido sento musica e parole sempre più intrecciate alla notte, ai chilometri. Anche se non riescono a descrivere qualcosa mettendolo a fuoco, in bocca si sente un gusto preciso, nelle orecchie ho la batteria di Nick Buxton, nel diaframma il basso di Lewis Maynard, mentre le parole delle canzoni, come piccole magie, evocano ricordi, scene, fantasmagorie. 

No Decent Shoes for Rain è un picco altissimo. Forse la parte in cui i Dry Cleaning trovano davvero l’insieme perfetto e pretendono tutta l’attenzione dell’ascoltatore. L’amore ai tempi dello shopping compulsivo, delle relazioni via webcam in cui è più facile vedere il culo di qualcuno prima della bocca. Lockdown senza tempo, di nuovo, autoindotti, permanenti, elevati da riff sporchi, lo-fi, slow-core.
E di nuovo la superficialità in Don’t Press Me, in cui un mouse da gioco è questione di litigio. Il tutto rinchiuso in 1’50’’ in cui sembrano scendere in campo i Sonic Youth al completo. 

Io guido, ma inizio ad avere un sorriso di traverso dipinto in faccia.

Micotico. Sporco. Etereo. Un basso con note lunghe e presenti in Conservative Hell, il cui titolo è programmatico. Liberty Log è un altro piccolo capolavoro. Siamo di nuovo in una stanza, siamo di nuovo alla solitudine. Qui però parole e musica si rincorrono, prima in linea retta, poi in circolo che diventa presto una trappola, un loop, di immagini e di note. È una meta-canzone che canta con un trucco da poco del registro delle libertà, che non esiste, che non c’è, che non vogliamo, che non meritiamo. Il tutto strizzando l’occhiolino ai Radiohead.
E tutto termina con un colpo di scena: Icebergs chiude l’album, che a sua volta ci lascia un messaggio (quasi) di speranza: 

“For a happy and exciting life
Locally, nationwide or worldwide
Stay interested in the world around you
Keep the curiosity of a child if you can
Resuscitator”

“Mo’ me lo segno”, aspetta che accosto.
Finiti i lockdown rischiamo comunque di “vedere prima il culo di una bocca” e di ritrovarci chiusi in casa e/o in noi stessi. Collezioniamo viaggi senza passione, abbiamo reso lo shopping una terapia. L’immagine che abbiamo di noi, una volta usciti dalle nostre caverne, è distorta. Così questo è un disco di disequilibri, storto e sghembo, con una dialettica interna tra tappeto sonoro e il recitato. È una lunga poesia musicata, uno sprechgesang e un responso di sibilla, impresso su instax mischiate a caso. 

Sono innamorato di Florence Shaw, delle sue fricative e dentali, al limite dell’ASMR. Mi ha fulminato con parole legate in analogie. I Dry Cleaning mi hanno trascinato nella buca del Bianconiglio, galleria laterale, dove un’Alice è chiusa in una stanza davanti a una webcam e il cappellaio compra online bustine di tè. 

Un album da ascoltare sempre. Che poi è il valore vero di un album che merita: il ritornarci, o il volerci ritornare. Come un buon libro, come un posto che ci stimola.
Ecco. Forse è lo stimolo il valore aggiunto in questo lavoro. Davvero eccezionale.

Il mio premio è un cielo stellato come quelli da lockdown.
Fa fresco.
Perché ho smesso di fumare?
Torno, vediamo se verso casa questo album cambia senso anche lui.

 

Dry Cleaning
Stumpwork
4AD

 

Andrea Riscossa

The 1975 “Being Funny in a Foreign Language” (Dirty Hit, 2022)

Prima che potessi ascoltare l’ultimo album in studio de The 1975, era stato il titolo ad attrarre maggiormente la mia attenzione: Being Funny in a Foreign Language. 

Essere divertente, far ridere in una lingua straniera, è forse la cosa più difficile che si possa fare in una lingua che non è la propria e che magari nemmeno si padroneggia alla perfezione. Richiede delle capacità e delle conoscenze notevoli. Quindi la prima domanda che è sorta nella mia testa ancora prima di ascoltarlo è stata: “cosa ci sarà di così difficile, di così complicato in quest’album?”

E forse la risposta è la sincerità.

La sincerità che serve per dire “ti amo” nella programmatica I’m in Love With You e la stessa sincerità necessaria ad ammettere di aver bisogno di sentirsi dire lo stesso nella ballad All I Need to Hear. Oppure ancora la sincerità nell’autocritica e nel mettersi in discussione, chiedendosi se certe idee sono più una posa che non una posizione, come in Part of the Band. 

Rispetto al loro precedente lavoro, Notes on a Conditional Form – uscito nel 2020 – Being Funny in a Foreign Language sì sperimenta, ma segue comunque un fil rouge comune di indie-pop che strizza un occhio, a volte due, al passato e in particolare alle sonorità degli anni ‘80 (tanto che alcuni passaggi di Wintering mi hanno pericolosamente ricordato Dancing With Myself di Billy Idol). 

Come definito dallo stesso frontman, Matty Healy, l’album rappresenta più un insieme di polaroid che un unico quadro, come se fosse dato da tante immagini separate ma che rimangono comunque coerenti tra loro. Al massimo, in alcune tracce come Happiness e Looking for Somebody (to Love) si può intravedere un po’ l’effetto “meme delle due case colorate” (che potete trovare qui per capire di cosa sto parlando): i testi – che non raccontano storie esattamente felici – sono la casa nera; la parte strumentale, con un tripudio di synth e ballabilità anni 80, la casa colorata. 

Ma soprattutto Being Funny in a Foreign Language è, oltre a un album di tracce-polaroid, un lavoro estremamente personale e in cui i riferimenti alla vita privata della band e di Healy stesso si sprecano. Un disco che cerca disperatamente di essere empatico ma di mantenere comunque allo stesso tempo una vena di sarcasmo. 

Tutte cose, come da titolo, parecchio difficili da fare. 

 

The 1975
Being Funny in a Foreign Language
Dirty Hit

 

Francesca di Salvatore

Pixies “Doggerel” (BMG, 2022)

Il gioco perverso della storia propone e ripropone duelli infiniti.
Nella Provenza del XII secolo infuriava il derby tra i rappresentanti del trobar clus, forma allegorica, chiusa, fottutamente indie, e i piacioni del trobar ric, una sorta di brit pop ma coi testi di Biagio Antonacci, che in Italia (derivativi già allora) sfociò nel movimento degli stilnovisti.
I bei tenebrosi vs. i cantori d’amore. Testi iniziatici, metafore appena accennate vs. spiegoni sulla beltà. 

Il dualismo sopracitato ha percorso secoli di letteratura e arti varie e sembra continuare a vivere felice nella meccanica dei Pixies, in cui i testi vengono serviti con abbondanti asterischi e le linee melodiche partono dal punk e terminano in territori ibridi, in questo disco particolarmente antitetici, tra Morricone e gli Who, tra un Neil Young e Beatles.

I Pixies sono inaccessibili, sfocati, un gomitolo di generi e attitudini eppure un loro disco ha una filigrana perfettamente riconoscibile. Sarà per il basso e la voce di Paz Lenchantin, che da anni ha sostituito Kim Deal, o per le ritmiche di David Lovering, sarà per il graffio alla chitarra di Joey Santiago o per la perversa, geniale voce (e penna) di Black Francis.
Quest’ultimo ha presentato ai colleghi qualcosa come quaranta pezzi pronti e impacchettati, che sono stati rivisti e scremati negli studi in Massachusetts, con il produttore Tom Dalgety in cabina di regia.

Dal giorno della loro reunion questo è il disco migliore. Partiamo da questo punto.

Il precedente Beneath The Eyrie aveva trovato un nuovo territorio in cui far sfogare i quattro folletti: un rock “creepy”, gotico e fantasmatico, popolato di strane creature e che portava atmosfere da film horror di serie B, condito con surfisti morti e strani pesci gatto. Sembrava un disco “di maniera”, invece era evidentemente un passaggio, una visione laterale che non viene scartata dai Pixies: la prima parte del loro nuovo album riprende temi e stilemi del precedente lavoro. Siamo in zona conosciuta, siamo nella terza parte del vecchio disco. O forse no, perché strani echi iniziano a vagare per il disco, piccoli fantasmi di note che si aggiungono a quelli evocati nei testi: Dregs of the Wine evoca gli Who con una certa precisione, emerge qualcosa dei Beatles in Pagan Man, sfiorano il folk rock quando la chitarra acustica diventa protagonista, arrivano a ricordare i Weezer in Get Simulated, testo geniale in cui una intelligenza artificiale esalta la propria immortalità lamentando mancanza di contatto fisico. Sono proprio i testi a far la differenza, a segnare una tacca verso l’alto nella scala di valutazione dell’album: è un disco di anime perse, di metafore nascoste, di fantasmi, di vinti, come il protagonista di Vault of Heaven, perso in una canzone mariachi e in un 7Eleven che è un portale verso il nulla. È un disco che piacerebbe a Tim Burton e a tutti i suoi personaggi. Canta di loro, passando dal folk-pop al noir-indie. C’è surf music, alt-pop, qualcosa di grunge old-school e poi ho finito le etichette, perché alla fine è semplicemente un disco dei Pixies, che i generi li attraversano con una discreta semplicità. 

La title-track che – colpo di scena – chiude il disco è l’apice del nuovo lavoro: il testo sembra scritto da un Ungaretti con fini iniziatici mentre la parte musicale scivola su un tappeto sonoro elegante e quasi edibile. 

Riassunto: prima parte vicino all’ultimo lavoro, seconda parte del disco esplora nuovi ambienti, coi piedi ben saldi nella follia dei folletti. E alla fine ci si accorge di aver ascoltato un bel disco, nonostante lo stupido assioma che prevede la noia crescere parallelamente al numero di album pubblicati. 

E invece, ottavo disco dei Pixies, promosso.

 

Pixies
Doggerel
BMG

 

Andrea Riscossa

Editors “EBM” (PIAS, 2022)

Il confine sottile tra malinconia e piacere

Completamente immobile su una panchina, assisto alla danza malinconica delle gialle foglie. Si tratta di un duetto, il vento le sospinge, le accompagna in questo loro ultimo viaggio che è unico, non esistono due foglie che ballano allo stesso modo.
E la loro fine non è solitaria, anzi, entrano a far parte di un collettivo, un infinito tappeto dalle sfumature cromatiche eccezionali. Ogni tappeto emette un suono, una musica tutta particolare. Ci sono tappeti secchi, che scricchiolano come vecchie porte arruginite; vi sono tappeti morbidi e accoglienti, come l’abbraccio di un’amica cara, oppure ci sono tappeti umidi, di foglie bagnate, scivolosi e precari.
Sto lì, persa in questo infinito danzare di colori che mi circonda. Il sapore agrodolce della nostalgia estiva, di occasioni perse e vacanze terminate rende l’autunno una stagione che tutti percepiscono come transitoria e malinconica.
Il grigio velo del ritorno alla vecchia e stantia routine cala inesorabile, accompagnato dalle prime battenti piogge dà la percezione alle persone che non possa esistere gioia, che tutto sia fermo.
Eppure il mondo si sta preparando.

In attesa dell’inverno tutto si trasforma e mi assale la voglia di fare anche io parte di questo mutamento, un’insolita voglia di alzarmi e ballare.

Questo mio sfrenato bisogno è soddisfatto dalla nuova uscita degli Editors, con EBM.

Il gruppo che fu additato come gli Interpol Inglesi, che dai primi anni 2000 calca la scena new wave, dalle sonorità fortemente influenzate dai Joy Division, sforna un disco autentico, decisamente in linea con il loro stile, ma con sferzate pop e elettroniche. Le tonalità dark dei primi anni vengono riscontrate anche in EBM, la loro vena drammatica è sempre presente, anche se ravvivata da sound innovativi per il loro genere.

La loro natura londinese, fumosa e malinconica, contribuisce alla particolarità del loro stile; una personale rielaborazione di gruppi inglesi (e non solo) come i sopracitati Joy Division (anche se il gruppo nega somiglianze), gli U2, Snow Patrol e Radiohead.

L’ottava meraviglia degli Editors ci viene presentata con l’uscita del signolo Heart Attack, in cui realmente il nostro cuore viene messo a dura prova dall’intro elettronica e con sonorità anni ‘80. La voce di Tom Smith ci conduce in un universo di ossessione, in un amore tossico e morboso.

Il secondo singolo sparato sul mercato è Karma Climb, dal testo disperato che si scontra con il suono ritmato del pezzo.

Con l’ingresso ufficiale di Benjamin John Power (Blanck Mass) si dà il via ad una nuova era per il gruppo, e tutto l’album è incentrato sul creare un rapporto fisico con il pubblico, servendosi di un sound elettronico anni ‘80 che divampa nei nostri cuori portandoci a chiudere gli occhi e a smarrirci nella tristezza dei testi.

L’epicità data dai synth è qualcosa che ci riporta indietro nel tempo come in Kiss, quarto brano dell’album. In Silence i toni si abbassano, e la voce profonda di Tom si trasforma in un’emergenza emotiva, una ballad romantica e memorabile, piena di malinconia. Strawberry Lemonade, Vibe ed Educate sono i pezzi che più rappresentano il concept del disco, ossia la voglia di instaurare un collegamento emozionale e fisico con i fans. 

EBM è sconcertante proprio per questo motivo: hanno architettato un album che è in grado di farti ballare grazie al sound molto anni ‘80, ma nel momento in cui ti soffermi sul significato di ogni singola parola puoi assaporare la disperazione e la malinconia tipica degli Editors. 

Come l’autunno, sono qualcosa che sembra immutabile, statico, ma in realtà in continua evoluzione. Nostalgici e sognatori, depressi ma con una sfrenata voglia di passionalità.

 

Editors
EBM
PIAS

 

Marta Annesi

The Mars Volta “The Mars Volta” (Clouds Hill, 2022)

L’arte di giocare con un prisma di sonorità

La categorizzazione è un processo della mente umana mediante la quale idee e oggetti sono raggruppati in categorie per renderli riconoscibili, differenziati e compresi, per poterci muovere al meglio nella realtà che ci circonda. Così, come ogni aspetto del quotidiano, anche la musica è soggetta a una divisione in generi per facilitare il nostro approccio, anche se per sua stessa natura non sé divisibile in compartimenti stagni. The Mars Volta sono una dimostrazione di tutto questo, con la loro storia caratterizzata fin dalla loro nascita nel 2001 da numerosi cambi di formazione, tranne per i due fondatori il chitarrista e compositore Omar Rodríguez-López e il cantante Cedric Bixler-Zavala, e per la loro passione per la sperimentazione e l’utilizzo di generi diversi che vanno da rock alla salsa, dal jazz al prog sperimentale, per passare da miriadi sfumature sonore di un curioso prisma musicale. Dopo dieci anni di pausa da Nocturniquet del 2012 e il loro scioglimento l’anno successivo, la band torna sulla scena con l’album omonimo The Mars Volta, che segue la pubblicazione dei singoli Blacklight Shine, Graveyard Love e Vigil, l’ultimo in ordine cronologico. 

L’ascolto di The Mars Volta con le sue ben quattordici tracce non è certo un impegno da poco, in una società dove il tempo dedicato all’ascolto è sempre minore. Eppure, il vantaggio di un album come questo sta proprio nella varietà di sound che propone, perché non rischia di annoiare o anche solo abituare l’ascoltatore e perché può essere ascoltato come un progetto unico visto nei suoi aspetti molteplici, oppure in ogni singolo brano senza che rimanga un senso di incompiutezza del messaggio trasmesso. Così stupisce, ma fino a un certo punto, la presenza della spensierata e danzereccia Que Dios Te Maldinga Mi Corazòn di netta ispirazione salsera in un album con atmosfere rarefatte da synth come Shore Story e la quasi acustica melanconica Tourmaline. L’influnze caraibiche si fondono invece con un prog sperimentale in Blacklight Shine, dove Bixler-Zavala canta in spagnolo e racconta di un flusso di blackout ondulati che trascinano i ricordi sulla riva della memoria, e le percussioni riflettono il battito di un cuore che ancora ricorda tutto e non smette di provare emozioni. Sempre sperimentale, ma più suggestiva e sofisticata è Vigil, che si sviluppa in sonorità più pop e dolci, ma per cantare vite logorate da forze più grande di lui, un vortice che ti prende, e anche se pensi di avere il controllo su ciò che ti circonda, secondo Bixler-Zavala ,“Ottieni quello che ottieni quando è la vita stessa a girarti intorno”.

L’album è un ottimo ascolto per chi non vuole adagiarsi su sound troppo simili tra loro e ama lo spirito di sperimentazione che lo pervade. La band lo ha reso un percorso che riflette la propria identità musicale confermando la loro indole a non farsi chiudere in definizioni da mercato o in algoritmi sintetici, un modo per parlare di sé esorcizzando un panorama personale e artistico non sempre semplice. Viaggiare tra suoni e stimoli di vario genere, che si incontrano per unirsi e dividersi, un po’ come le persone che fanno parte della nostra quotidianità: melodie e dissonanze, semplicità e complessità, tutte insieme in un solo disco, così come nella vita. 

 

The Mars Volta
The Mars Volta
Clouds Hill

 

Alma Marlia

Suede “Autofiction” (BMG, 2022)

Il fascino dell’elegante rumore degli Suede

La loro storia inizia con la formazione del gruppo nel 1989 e con un progetto che recuperava le fascinazioni glam-rock della scena britannica in un periodo in cui il grunge americano lo aveva reso praticamente fuorilegge, contribuendo alla maturazione del rock contemporaneo. Riescono a raggiungere i vertici delle classifiche anglosassoni solo nel 1993 con il progetto omonimo, forse non innovativo musicalmente, ma sicuramente pionieristico nella sfida agli standard di genere con la copertina che ritraeva un bacio tra due donne. Sono gli Suede, band made in UK nata, cresciuta in un’aurea di compiaciuto maledettismo, scioltasi per poi riunirsi quando i membri hanno capito che la loro musica aveva ancora molto da dire. Il nuovo album si chiama Autofiction, il nono della storia del gruppo, che lo stesso Brett Anderson definisce come “Il nostro disco punk”.

I brani che compongono Autofiction sono ben undici pezzi di un mosaico di rumore elegante così come lo confermano i primi due brani She Still Leads Me On e Personality Disorder, entrambi caratterizzati da riff ben strutturati di Richard Oakes, ma mentre il primo si muove con delicata disinvoltura tra le note narrative del rapporto emotivo di Anderson con la defunta madre, il secondo è arrabbiato e arruffato, con una chitarra elettrica aggressiva che non trova pace, così come la complessità delle percezioni umane. C’è voglia di fare rumore, di farsi sentire, ma anche di attirare l’ascoltatore in una tela sonora pronta per lui, e scuoterlo per fargli perdere ogni riferimento e fargliene trovare di nuovi.

That Boy On The Stage propone ancora riff possenti al limite dell’hard, mentre la voce quasi demoniaca disegna un personaggio al limite del borderline, dove essere cantante è quasi una forza oscura incontrollabile. E tu ascolti, e rimani avviluppato da quel buio che alla fine affascina sempre tutti. Simon Gilbert è invece l’indiscusso protagonista di Black Ice, dove picchia con forza a convinzione, quasi a simulare un martello che scalfisce ciò che si trova attorno a lui, certezze comprese. Drive Myself Home è un brano struggente e talmente intriso di emozione che la tecnica passa veramente in secondo piano. Trasmette tutta la fragilità dell’essere umano, la voglia di tornare a casa, vista nell’insieme delle sicurezze e degli affetti, la voce non è più solo l’interpretazione di un cantante, bensì l’espressione dei tuoi pensieri e della voglia di concedere alla vita la possibilità di essere nuovamente dolce con te.

Nel disco, Anderson non canta più la rivalità con il rock d’oltremanica tenendo stretti l’accento e lo stile britannico ispirati a Bowie; il frontman della band ora è un artista maturo, che si affida al rock per guardare dentro l’anima e farne uscire incertezze e dubbi esistenziali come in Turn Off Your Brain And Yell che chiude l’album e, attraverso un tripudio di suoni esplosivi, incita a lasciarsi andare al liberatorio urlo primordiale che soffochiamo dentro di noi con la logica del quotidiano. 

Autofiction è un album ben studiato e strutturato che però contiene tutta la forza di un flusso di emozioni sempre più potente, come fosse un album d’esordio, caratteristica, questa, di chi è stato protagonista della storia della musica, ma non ripiega comodamente su sé stesso, anzi va avanti con estrema decisione senza la necessità di accontentare le mode. Ci sono slanci musicali audaci, visioni dell’animo umano che sono in bilico tra la paura e la seduzione, ma proprio per questo comprensibili e vicini all’ascoltatore. In alcuni momenti credi pure che ti capiscano, poi sorge il dubbio che non sia così, ma in fondo non importa, se quello che senti in qualche modo parla di te con te. Oppure è possibile anche che dica niente, o almeno così sembri, e va bene così. In fin dei conti è questa la bellezza della musica, come sa parlare o tacere in modo diverso a ognuno di noi. 

 

Suede
Autofiction
BMG

 

Alma Marlia

Turin Brakes “Wide-Eyed Nowhere” (Cooking Vinyl, 2022)

Si intitola Wide-Eyed Nowhere il nono lavoro in studio dei Turin Brakes.
Scritto in epoca pre-pandemica, è stato registrato nello studio di casa di Olly Knights.
La band racconta di un disco nato di parto naturale, nel giardino dove la band si ritrova spesso per improvvisare. Bambini che scorrazzano, qualche accordo, il sole di Londra (?), in questa atmosfera rilassata i Turin Brakes hanno dilatato tempo e serenità, si sono abbandonati a una malinconia più dolce che amara e gli è scappato un disco. 

Disco che inizia con When You’re Around, una canzone fatta di atmosfere rarefatte, ma ritmate, sussurrate e dondolanti quasi R&B.
Up For Grabs segue questa linea. westcoastissima, al limite del patinato, tra cori-tormentone e un uso criminale di percussioni esotiche. Siamo lontani dagli ultimi lavori dei Turin Brakes, se sia cosa buona o no dipende dai gusti personali.
Si ritorna, invece, a casa con il terzo brano, World Like That, primo singolo del disco. Qui tornano arpeggi e una costruzione più tipiche dei nostri, anche se rimane un senso di fondo di artificiale, soprattutto nelle ritmiche, forse troppo lineari e ripetitive. Anzi, ridondanti.
Into The Sun esplora l’ennesima variatio sul tema del disco, aggiungendo un momento mistico, con voci raddoppiate, triplicate, viaggiando verso una lisergicità appena accennata, quasi un’eco. All’ingresso della batteria questa punta di novità si perde, rientrando in canoni più classici.
The Ride nulla aggiunge a quanto sentito, mentre Isolation sembra scuotere un po’ il ritmo del disco, aumentando i bpm, ma senza mai esagerare. Un pò b-side dei Kings Of Leon, il classico pezzo che farebbe inconsapevolmente battere la mano sul volante, in piena tangenziale, in coda, lunedì mattina. Uno sprazzo di Nevada nella nebbia.
This Love vanta l’unica cassa non-dritta dell’intero album, ma riesce anche nell’arduo compito di non avere un solo cambio di ritmo in quasi quattro minuti. Risultato finale: nessuno.
Rain And Hurricanes scivola via senza scossoni, Solid Ground promette di essere una ballad piacevole, ma non sale mai lo scalino e rimane piuttosto anonima.
Wide-Eyed Nowhere è forse il pezzo più interessante dell’album, un crescendo che si porta dentro tutte le sfumature della band. Un po’ un accento che cambia il senso al disco proprio sull’ultima sillaba. 
No Rainbow inizia con chitarra acustica ed effetti laser. Slide guitar ed ufo. Il pezzo che chiude l’album sembra un eastern egg della produzione, un esercizio di stile che chiude il disco senza particolari acuti. 

Wide-Eyed Nowhere è un disco che è un tappeto sonoro perfetto per una grigliata estiva, lieve brezza a centrocampo, amici e sole. Mancano le tavole da surf di Jack Johnson, manca qualcuno con un ukulele e uno sguardo da martire cristiano, ma il mood è quello lì. Serenità di sottofondo, magari un pelo ovattata, ogni tanto un picco di originalità, che però riporta al 2001, più che a un radioso e promettente futuro. 

È un disco che non verrà ricordato per aver spostato gli equilibri nella discografia del gruppo, né sembra aver l’intenzione di farlo. È un buon disco e i Turin Brakes sono un’ottima band, che offre una musica coerente. L’essere coerenti ventuno anni dopo il primo album però mette un po’ alla prova l’amore verso di loro. Diciamo che adesso è più affetto. 

 

Turin Brakes
Wide-Eyed Nowhere
Cooking Vinyl

 

Andrea Riscossa