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Tag: review

dEUS “How to Replace It” ([PIAS] Recordings, 2023)

Reinventarsi restando sé stessi

Undici anni di attesa sono tanti. Nel frattempo si cresce, si ingrigiscono i capelli, ci si trasforma in persone più mature. Ecco, questo nella musica non sempre succede, nel bene e nel male, e un esempio lampante sono proprio i dEUS. La caratteristica principale della band belga infatti, rimane intatta: essere in grado di sperimentare generi che apparentemente sembrano lontani miglia ma che nelle loro canzoni si amalgamano perfettamente. Dal rock classico a quello più sperimentale, al jazz passando dal blues, con influenze che vanno dai Velvet Underground ai Sonic Youth, fino a Captain Beefheart. Dopo poco più di una decade di assenza, fortunatamente, Tom Barman e soci tornano con un nuovo lavoro in uscita proprio oggi per [PIAS] Recordings.

Reinventarsi rimanendo fedeli a se stessi anche nel trovare nuovi modi per comporre, dato che raccontano di instancabili jam sessions, cinque giorni su sette, che hanno portato una nuova armonia nella band. “Stavo suonando il piano e ho chiesto al nostro batterista Steph (Stéphane Misseghers) di darmi un ritmo da valzer – afferma Klaas Janzoons –, mi sono saltati in testa subito gli accordi principali, Tom ha aggiunto una terza sezione a otto battute e abbiamo ottenuto il cuore del pezzo. Ma, con tipico stile dEUS, c’è voluto poi molto tempo ed energia per arrivare al risultato finale”.

L’album è stato anticipato dal singolo How to Replace It che dà il nome a tutto il progetto e si dimostra una splendida anteprima: delle percussioni profonde e ritmate vengono raggiunte da cori simil gospel che donano un’aria epica e maestosa. Il resto del disco mantiene quella creatività e ricerca costante, con brani sicuramente più tendenti al jazz (Man of the House) e altri più oscuri e ritmati (Dream is a Giver). Loves Breaks Down invece è una ballata profonda e introspettiva, quella che farà tirare fuori gli accendini durante i live e cantare a squarciagola. A chiudere il disco una canzone nella loro lingua madre, il francese, dal nome Le Blues Polaire, che racchiude perfettamente tutta la schizofrenia musicale della band, con un riff di chitarra blues e ritornelli splendidamente pop.

Impossibile definire un genere preciso a cui far corrispondere i dEUS, ma credo che neanche loro sarebbero entusiasti di essere rinchiusi in un unico compartimento stagno musicale. Questo nuovo disco conferma la capacità della band di continuare ad osare e a mettersi in gioco, mantenendo però il loro stile unico ed inconfondibile. Ritengo che specialmente dal vivo si possa apprezzare il caleidoscopio di generi che i dEUS sono in grado di creare – parlo per esperienza personale – e questo disco ha tutte le potenzialità per mettere in luce l’alta tecnica di ogni componente della band e, contemporaneamente, far emozionare e divertire la platea.
Il 29 Marzo saranno ai Magazzini Generali a Milano, nel corso del loro tour europeo, non fateveli scappare. 

 

dEUS
How to Replace it
[PIAS] recordings

 

Alessandra d’Aloise

Kerala Dust “Violet Drive” (PIAS, 2023)

La bellezza del suono

Edmund Kenny alla voce e strumenti elettronici, Harvey Grant alle tastiere e Lawrence Howart alle chitarre. Questa la fromazione dei Kerala Dust, band alternative rock britannica nata nel 2016 a Londra, ma che oggi si muove tra Berlino e Zurigo. Dopo tre anni di tour in Europa e sei pubblicazioni, è solo nel 2020 che esce Light, West il loro primo album in studio. Su Play It Again Sam, il gruppo pubblica Violet Drive, il loro secondo progetto di ampio respiro già anticipato dai singoli Red Light, Pulse VI e dalla title track. L’album si compone di dodici tracce dove i Kerala Dust confermano le influenze che il rock psichedelico, il blues e la musica techno hanno avuto sulla loro formazione. 

Per ascoltare Violet Drive è imperativo lasciarsi andare al suono, e seguirlo ovunque esso ci porti. Catturano subito i battiti incalzanti di una loop station ipnotizzante, mentre le tastiere creano trame dove la chitarra elettrica cerca e trova il suo spazio in modo graffiante, ma non per questo aggressivo. Da Moonbeam, Midnight, Howl si scivola così in un mondo di melodie suonate come un fiume in piena, dove i testi, estremamente essenziali, sono appigli a cui ci si aggrappa non per salvarsi, bensì per continuare a sentire il piacere di questa fluidità su di noi. La voce di Kenny è come un faro, ma non un approdo dove fermarci, solo la tappa di un percorso da continuare. Mentre viaggi con la band, ti chiedi dove stai andando, ma forse quella domanda è solo un riflesso incondizionato di una mente troppo abituata a esaminare la realtà che la circonda. Basta poco perché ogni titubanza venga meno. Senti dei colpi, sintetici, ma molto vicini al cuore. Pensi davvero che sia il tuo battito, anche se è diverso da come è sempre stato. Solo con un piccolo sforzo, ti rendi conto che sei circondato dalle suggestioni new wave di Pulse VI che rendono l’atmosfera robotica. Ignorate le inutili domande, la mente libera se stessa per creare immagini vive attraverso il gioco di synth, tastiere e suoni onomatopeici della strumentale Nuove Variazioni di una Stanza. Le emozioni che trasmette la musica dei Kerala Dust si amplificano di brano in brano. Nell’ascoltatore nasce un senso di bellezza sonora mentre viene raggiunto dalla dominante corda dell’onirica Salt e dalla elegante Fine della Scena; le parole si spogliano del loro senso letterale per essere solo suono avvolgente fino a che la chitarra si distorce, la batteria esplode e il progetto raggiunge quella potente delicatezza che solo il rock sa dare.

Violet Drive è il frutto di una forte sensibilità sonora ed emotiva. Non lascia niente al caso, eppure l’ascoltatore è libero di interpretare ciò che sente, senza alcuna costrizione. Nella loro musica si sente quella voglia di trasmettere le sensazioni senza imporle. I brani possono essere ascoltati nella sequenza stabilita nell’album, oppure in modo casuale, ed ogni nuova combinazione crea atmosfere sempre diverse, ma comunque accattivanti. Piegarli alla dittatura di una recensione è un peccato originale. Tuttavia è un peccato da commettere, perché quando li ascolti, descriverli e l’unico modo che hai per condividere l’esperienza che ti hanno regalato. Rimane però ancora un desiderio: la voglia di ascoltarli dal vivo, ma in Italia il loro tour non farà tappa. Peccato.

 

Kerala Dust
Violet Drive
PIAS

 

Alma Marlia

Paramore “This Is Why” (Atlantic Records, 2023)

Sono passati sei anni dall’ultimo album dei Paramore, After Laughter, che aveva dato il via a quella che aveva tutta l’aria di essere una nuova era per la travagliata band statunitense simbolo della scena emo-pop-rock dei primi anni duemila.

After Laughter rappresentava un’era fatta di colori pastello e sonorità synth-pop a tratti dance e infatti non tutti – me compresa – avevano apprezzato fino in fondo questo cambio di rotta. 

Un’era però che sembra già finita con This Is Why, loro ultimo album in studio. Si tratta di un’ulteriore evoluzione, ma stavolta dai toni un po’ più dimessi e meno colorata, anche solo a guardare la copertina. 

La band non ritorna di certo ai rabbiosi fasti di Riot! e Brand New Eyes, ma d’altronde come potrebbe? Sono passati quindici anni da allora e i suoi componenti sono diversi, più adulti, quindi non potrebbe essere altrimenti ed è giusto così, che ci piaccia o no. Ci danno anche un consiglio brutale nella prima traccia, che ha lo stesso titolo dell’album: “you’re either with us / or you can keep it / to yourself”.

Al primo ascolto si ha l’impressione di essere di fronte a un disco un po’ disilluso, come disillusa è adesso – soprattutto dopo anni di pandemia – la generazione cresciuta con loro. Ma non c’è solo disillusione: quella loro rabbia che abbiamo imparato a conoscere diventa più sottile, più ironica. Lo si vede anche nelle sonorità adottate, che si avvicinano più a un post-punk o a un alternative-rock, senza abbandonare le sperimentazioni e le contaminazioni.

Ascoltare quest’album può poi essere un’esperienza di autocoscienza. È infatti facile immedesimarsi in una persona che, pur di non essere sommersa da brutte notizie, vuole spegnere la televisione come in The News (forse il pezzo che più ricorda i Paramore del 2007); in una che annaspa costantemente contro il tempo come in Running Out Of Time oppure in una che sente di aver perso la propria direzione, come in Figure 8. 

This Is Why però non vuole essere solo un manifesto o un tentativo di fare da specchio alle preoccupazioni di una generazione. È prima di tutto un album estremamente personale, dove Hayley Williams dà voce in primis al suo vissuto di questi ultimi, folli anni e quelle tematiche sociali che le stanno a cuore.

Soprattutto le ultime tracce, da Liar a Thick Skull, si fanno più intime e diventano quasi una confessione della cantante. “I’m a magnet for broken pieces / I am attracted to broken people”, canta Williams all’inizio di Thick Skull come se fosse una sorta di j’accuse verso se stessa. 

La fine di quest’album mostra quindi un ripiegamento su di sé, un’espressione delle proprie emozioni e insicurezze con franchezza e senza autoindulgenza.

Probabilmente questi brani non suoneranno come le loro canzoni più note, quelle che hanno reso i Paramore famosi anni fa, ma, così come sono cresciuti loro, siamo cresciuti anche noi e forse questo atto di introspezione non è poi così male.

 

Paramore
This Is Why
Atlantic Records

 

Francesca Di Salvatore

Yo La Tengo “This Stupid World” (Matador Records, 2023)

Una sfida contro il tempo

Basta dire Yo La Tengo per parlare del trio Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew di Hoboken, New Jersey, protagonista della storia dell’alternative rock statunitense. Alla loro produzione costante nei decenni, si aggiunge ora This Stupid World, per Matador Records, un progetto di nove canzoni dove ancora una volta mettono in gioco loro stessi.

La chitarra elettrica distorta di Sinatra Drive Breakdown accoglie la voce di Kaplan che canta l’essere umano nella sua autoreferenzialità, mentre osserva un mondo desolato intorno a sé. Kaplan parla con nostalgia a chi vorrebbe vicino, ma l’inglese you ci lascia nel dubbio che si possa rivolgere a un singolo tu oppure a un molteplice voi. Solo nella chiusura “until we all break down” percepiamo un senso di ineluttabile collasso corale, avvolto dalla continua distorsione sonora che ci ha accompagna per tutto il brano.
Più industrial è l’atmosfera di Tonight’s Episode: i loop melodici profondi del basso di McNew sostengono un ritmo e una voce incalzanti. L’ascoltatore non può fare altro che seguire questo movimento melodico arrivando ad un momento surreale di rivelazione dell’anima che caratterizza l’album.
L’apice di questa intimità è raggiunto, però, nella ballata Aselestine: gli accordi della chitarra si allontanano dai suoni ansiosi dei brani precedenti per respirare insieme al suadente timbro vocale della Hubley. Le parole compongono immagini da cui nascono pensieri ed emozioni; le sensazioni trascendono un tempo ormai non più schiavo di ticchettii di orologi, perché ormai tutto sembra sospeso sul confine della morte.
Brain Crapers ha, invece, melodie più cupe, ben scandite da altri loop di basso e dai punch della batteria. Con le loro voci, Hubley e Kaplan creano un turbine di ricordi simili a crepe di luce nate dalle semioscurità notturne.
Il tempo è ancora astratto, un luogo da lasciare e a cui tornare seguendo solo le tracce dei pensieri. Come ascoltatori, rimaniamo intrappolati in questo gioco, ma non scappiamo, perché preferiamo rimanere dentro queste stanze di un io spesso trascurato.
Persi nelle sensazioni, siamo catapultati nella lunga This Stupid World, dove la band si lascia andare a suoni distorti e suggestioni psichedeliche. Il cantato è un confessione di dolore e amore per un mondo letale, ma che, paradossalmente, è l’unico che sappiamo amare. Un amore tossico da cui ci possiamo salvarci solo sfidando noi stessi ad uscirne, combattendo tutto ciò che non va. 

Con This Stupid World gli Yo La Tengo confermano la loro longevità artistica nello spazio dell’alternative rock americano e la loro voglia di sperimentare creando un progetto di contenuti musicali e lirici ben curati. L’intensa atmosfera intima e riflessiva dell’album li rende adatti a chi vuole ascoltare la musica veramente. Il gruppo affascina ancora perché si muove tra melodie e parole con la consapevolezza compositiva data dall’esperienza e la freschezza nata dalla passione per ciò che fanno. Hanno la capacità di arrivare al pubblico con il loro messaggio che non stravolge l’anima, ma vi si ancora dentro per rimanerci. 

 

Yo La Tengo
This Stupid World
Matador Records

 

Alma Marlia

Pearl Jam “Yield” 25 anni dopo

“How cool to have a yield sign where there’s nothing to yield to”
Jeff Ament

È il tre di febbraio del 1998.
Un martedì.
È appena uscito il quinto album dei Pearl Jam, ma l’ho lasciato sul tavolo, incartato, intonso.
No Code mi aveva annoiato, i Soundgarden si erano sciolti, il Seattle Sound si era perso, pochi mesi prima era uscito un certo OK Computer.
Un aereo militare statunitense ha appena tranciato i cavi della funivia del Cermis. 

Era la fine del Secolo. Il Novecento, non un secolo qualunque.
La musica che amavo stava morendo (male), dopo un decennio di gloria e sovrabbondanza, di esplosione globale di fenomeni, correnti, movimenti. MTV era lo specchio deformante in cui la mia generazione trovava conforto, e io ero attaccato ai miei Pearl Jam come naufraghi sulla zattera della Medusa.
Vedder, l’uomo che ha cantato il proprio giovane Werther interno in almeno tre dischi stupendi, decide di fare otto passi indietro (Gossard ne fece solo due), e propose una terza via, in zona cesarini, per dare a me, a noi, a tutti i giovanicariniedissocupati del pianeta, una proposta diversa da quella di autocommiserarci e autoflagellarci tra millenium bug e mille non più mille parte II.
I Pearl Jam misero in musica la suddetta proposta, lasciando come unico segnale preventivo un cartello di precedenza, laddove, di cartelli, ma soprattutto di precedenze, non ve n’era bisogno. Ament sogghignava, sottolineando la meraviglia del paradosso in diverse interviste. Vedder la prendeva (ovviamente) più alta, ma lo vedremo più avanti.
Quello che sembra perfettamente centrato, quello che allora ha riallacciato il mio cordone ombelicale con loro, furono le domande e le risposte che questo disco portava con sé. È un inno alla fine del mondo, che contiene le istruzioni per sopravvivere, nonostante tutto, nonostante noi. 
Già.
A fine febbraio 1998 inizierà la guerra in Kosovo. A metà mese diverse nazioni si esprimeranno contro la clonazione umana. In marzo Pakistan e India giocano con le atomiche. E Titanic vince undici statuette, un costosissimo e edonistico naufragio, a simboleggiare il genius saeculi.

Il Maestro e Margherita di Bulgakov forse è l’ultima nota che ci si aspetterebbe di trovare a piè di pagina in un disco dei Pearl Jam. Eppure.
Colpa fu di Jeff Ament, bassista del gruppo, che rimase folgorato dai capitoli del romanzo dedicati a Ponzio Pilato.
Nota: la storia raccontata nel romanzo non è esattamente fedele a quella dei Vangeli, e il Pilato rappresentato nella canzone è quello della parte finale del libro: stanco, solo e dimenticato dalla Storia, vive in una montagna con il suo cane, triste per le occasioni perdute e per la solitudine di cui è prigioniero. In Pilate Ament tratta di tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso, di come quel gomitolo di non-fatto possa trasformarsi in rimorso e follia.
I Pearl Jam – tutti i membri della band –  hanno raccontato in diverse interviste precedenti all’uscita del disco di quanto il gruppo fosse sfilacciato, esausto, disunito. I tour, la querelle con Ticketmaster, le frizioni interne, la precarietà esistenziale del ruolo del batterista della band, la difficoltà nel relazionarsi con un Vedder sempre più chiuso, tutti questi fattori avevano minato la stabilità della band.
C’è un cartello di precedenza, nella storia dei bivi che i Pearl Jam hanno preso. E sta lì per ricordare a tutti che esistono molte vie per ritrovare la strada e se stessi.
Una di queste è una sana chiacchierata con un gorilla senziente e di sconfinata cultura.
È ciò che Daniel Quinn racconta in Ishmael, un libro dei primi anni novanta, che si basa sulla relazione tra un gorilla e un uomo. Il primo, attraverso un dialogo filosofico, presenta al secondo una rilettura della storia dell’umanità, in particolare della civiltà del progresso e del suo destino, pare ineluttabile, fatto di autodistruzione. Il libro propone vie alternative, ma la parte più nera e critica del testo convoglia in quel capolavoro che sarà Do The Evolution, cui spetterà l’onore di diventare un video musicale di rara bellezza e forza comunicativa.
Ma l’Ishmael che rilegge la storia dell’uomo, la Bibbia e che illumina i finali possibili della Storia, è solo una parte dei molti riferimenti usati per tracciare la mappa disegnata dalla band.
Yield è un manuale con diversi capitoli, un po’ figlio di quel Vitalogy-pensiero di qualche anno prima, che ha l’enorme pregio di non prendersi troppo sul serio. Sarà la maturità, saranno le botte prese, quello che traspare è uno sguardo più lucido e sereno. E così la traccia iniziale Brain of J. ci pone subito nel mezzo della querelle tra noi e il mondo, mentre è la seconda canzone, Faithfull, a introdurre un elemento fondante del disco: un nuovo umanesimo, una nuova via ripulita da ciò che ha macchiato i secoli precedenti. E i nostri iniziano dalla religione, spazzata via in poco più di quattro minuti, liquidata come inutile illusione. L’unica entità cui dovremmo essere fedeli è seduta a fianco a noi, (ri)partiamo da qui.
Sfruttando questo primo assioma, Gossard riesce a far cantare a Vedder: 

‘Cause I’ll stop trying to make a difference
I’m not trying to make a difference
I’ll stop trying to make a difference
No way

No Way, terza traccia, è sintomatica del nuovo modo di lavorare della band: Yield è un disco corale, in cui tutti hanno portato un contributo, in cui tutti hanno il nome tra gli autori. L’io di Vedder diventa un noi, e l’amico Stone decide di farglielo giurare al microfono, ponendo le basi per la seconda legge di Yield: ammettere di aver bisogno dell’altro. Più umanità che umanesimo, ma siamo ancora alla casella di partenza.
Con un gioco di montaggio alla Tarantino, Given to Fly ci racconta qualcosa che potrebbe stare alla fine della nostra storia, non a metà album. La canzone ha dato vita a fiumi di interpretazioni, nonostante Vedder abbia dichiarato si tratti solo di una fiaba. Ma l’uomo che dall’onda spicca il volo e li libra in cielo è un’iconografia che potrebbe riempire libri di citazioni. Personalmente? Icaro, Prometeo q.b., ma soprattutto, a pelle, una “normale assurdità”, alla Mr.Vertigo, Paul Auster, 1994.
Sempre il duo McCready-Vedder firma la seguente Wishlist, la lettera d’amore scritta come avessimo ancora un Babbo Natale come musa, ma anche la lettera d’amore che vorremo ricevere domani stesso. Del resto, nel nuovo millennio, vorremo portarcelo, il nobile sentimento?
Di Pilate e del suo messaggio abbiamo già affrontato temi e radici, nonché di Do The Evolution, anche se meriterebbe menzione il riff di chitarra più goloso del disco.
MFC è la chiave dell’album. È la X sulla mappa. E di nuovo, per un gioco di montaggio, abbiamo la soluzione prima del dramma. Perché le canzoni seguenti, Low Light, In Hiding, Push Me/Pull Me, sono criptiche, sono oscure, parlano di cambiamento, di trasformazione, ma anche di chiusura al mondo ed eremitismo (pare suggerito da Sean Penn su pratiche apprese da Bukowski, ma è altra storia).
Saltelliamo su temi escatologici in Push Me/Pull Me fino al gran finale di Gossard, che nel nuovo millennio pare volesse portare soprattutto l’ironia e la sottile metafora. La ninnananna finale di All Those Yesterdays non serve a mettere a dormire i propri figli, come accadeva con il pargolo di Irons in No Code. Qui a nanna ci vanno i Pearl Jam, almeno nella loro versione adolescenziale, rabbiosa. Gossard stacca dal traliccio il Vedder-bambino, lo cala in un gruppo aperto al dialogo e mostra a tutti la strada, puntellandola qua e là, senza troppo senso, con segnali per rallentare la corsa.
Parere di pancia: Yield sfiora il concept album.
Anzi, compio un atto di coraggio e ammetto che più sprofondo nei testi, più mi perdo nei contenuti e più mi ritrovo tra le canzoni di The Wall, Pink Floyd, 1979. Lungi dal paragonare i due album, lungi ancor di più accostarli per peso specifico e importanza storica. Ma il lavoro di Waters è un viaggio (circolare) che inizia a esistere nel momento in cui il suo autore decide che il suo rapporto con il mondo, con il pubblico, con lo showbiz, deve cambiare. Il muro è isolamento, il muro è l’incertezza, è la paura. Il viaggio che Waters ci regala, fuori e dentro il suo muro, serve a mostrare a sé stesso e a noi che siamo liberi di isolarci, di perderci in atti creativi autoriferiti, liberi di goderci la nostra solitudine. Ma è soltanto uscendo dai nostri confini che otteniamo la completezza. Siamo umani solo attraverso una continua e consapevole condivisione.
Yield è un disco con una missione, almeno con un messaggio.
In MFC Vedder ci regala la classica metafora del viaggio in automobile. Ma tra le righe ci insegna a rimappare quello che ci sta intorno, a lavorare su come e cosa osserviamo. È un inside job, è un modo per ridistribuire le proprie risorse interne. Se in Rearviewmirror il futuro era nello specchietto retrovisore, nel lasciare il passato scappando, qui è il presente che viene modificato, con un atto creativo.
Libero arbitrio in libero incrocio.

Yield è un disco sulla fine del mondo.
E degli anni novanta.
E di un’umanità che deve cambiare.
Loro non potevano saperlo, ma da lì a un anno sarebbe arrivata la tragedia di Roskilde. Un anno dopo sarebbe cambiato per sempre il mondo, dopo gli attentati dell’11 settembre. E io ringrazio di aver ricevuto la mappa che Yield contiene prima che i Pearl Jam, come tutti noi, dovessero fronteggiare le difficoltà dei primi anni del nuovo secolo.
È stato un disco importante, perché ha un peso specifico enorme, ed è stato un regalo averlo nel 1998.
Il mondo andava a rotoli, come adesso.
Ma ero innamorato. Avevo amici, avevo ventuno anni.
E uno Yield in più a proteggermi.  

…All that’s sacred comes from youth…

 

Andrea Riscossa

The Smashing Pumpkins “Atum: A Rock Opera in Three Acts” (Martha’s Music/Napalm Records, 2022)

Act Two: l’aspettativa dolce-amara dell’anima rock.

Solitamente una recensione si compone di tre parti: un preambolo per introdurre l’artista e il progetto, un corpo centrale per focalizzarsi su alcuni dettagli del progetto stesso e una chiusura dove si tirano le fila del tutto condite da qualche considerazione. L’occasione dell’uscita del secondo atto di Atum – A Rock Opera in Three Acts può farci saltare un’altra presentazione di un gruppo come gli Smashing Pumpkins, che si presentano da soli, e ci proibisce di volgere nuovamente lo sguardo ai nostalgici ricordi della gioventù in cui Mellon Collie and the Infinite Sadness faceva da colonna sonora a inquietudini adolescenziali. Un secondo atto è un passaggio tra un primo e un terzo, che può convincerci a restare all’ascolto, oppure ad abbandonare senza mezzi termini, ma sempre un passaggio è. Così sarà questa recensione. 

La band aveva definito Atum come il seguito di quel Mellon Collie ancora tatuato nella pelle di tante generazioni. E quando dici così a chi ha ancora voglia di provare certi brividi sonori, l’aspettativa che crei è talmente alta che corri il rischio di passare dai fremiti di piacere al freddo più intenso in un solo accordo. Così è ascoltare questa seconda parte. Non possiamo dire che non sappiano suonare, né che la voce di Corgan non ci provochi quella stretta allo stomaco che ancora c’era tempo fa. Potremmo dilungarci sulle atmosfere elettro wave di Neophyte oppure quelle industrial di Moss. Anche l’evoluzione dal pop alla dance di Every Morning potrebbe attirare la nostra attenzione, così come potremmo confrontarci con la chiusura acustica di Springtimes. Tuttavia, quello che pervade dall’inizio alla fine è quella sensazione dolceamara che prova l’anima in attesa da tempo di ciò che aveva desiderato, così attaccata al ricordo del tempo che fu da rimanere sorpresa quando si accorge che invece il tempo è passato, così come rimane stupito Florentino, protagonista di L’amore ai tempi del colera di G. G. Marquez quando dopo anni vede finalmente il seno di Fermina non più giovane, ma solo per quello che è: il seno di una donna invecchiata dal tempo. Si rimane incastrati nello stupore, comunque circondato dall’amore che porti nel cuore per chi le emozioni te le ha fatte provare davvero, eppure qualcosa ormai sembra non esserci più.  

Se nell’attesa siamo vissuti, nell’attesa ci troviamo, perché l’opera non è ancora conclusa. Le aspettative sembrano diametralmente opposte rispetto all’uscita del primo atto, i “se” si affollano nella mente, un po’ come quando si gira in moto e sei nel dubbio nell’affrontare o no una curva in un certo modo: quel dubbio contiene già la risposta. Rimane però il fatto che un’opera non può essere ascoltata solo in parte, perché è solo nella sua globalità che ha senso e parcellizzarla sarebbe tradire la musica stessa. Quindi non ci rimane che aspettare senza aspettarsi niente, e semplicemente continuare ad ascoltare. 

 

Smashing Pumpkins
Atum: A Rock Opera in Three Acts
Martha’s Music/Napalm Records

 

Alma Marlia

Joe Henry “All The Eye Can See” (earMUSIC, 2023)

La voce che apre le crepe dell’anima

Cantautore. Joe Henry è un Cantautore, di quelli che ancora ti fanno provare emozioni profonde che resistono al tempo che scorre e alla modernità che aggredisce tutto, anche la musica. Trent’anni di carriera come cantautore e produttore discografico dalle molte collaborazioni tra cui possiamo contare nomi come Solomon Burke, Shivaree, Elvis Costello e molti altri. Ci si può perdere nell’elencare i suoi progetti tra album ed EP, tra cui ricordiamo il tagliente Civilians del 2007 e The Gospel According To Water del 2019, scritto dopo una diagnosi di cancro. Dominato dalla sua vena creativa, l’artista esce ora con All The Eye Can See, un album composto da dodici tracce che lo confermano ancora tra i più interessanti cantautori statunitensi della nostra epoca. 

Ascoltare l’album è un piccolo viaggio tra narrazioni sonore, dove il timbro dell’artista non sempre è perfetto, ma sono proprio queste imperfezioni che si ficcano come chiodi nella nostra anima creando crepe da cui possiamo dare uno sguardo a ciò che siamo, che potremmo essere o che non vogliamo essere più. Così colpiscono brani come il gioco di sola chitarra e voce di God Laughs, un canto che è richiesta di essere ascoltato da un Dio troppo spesso spettatore del destino dell’uomo. I brani si sviluppano musicalmente accogliendo oltre venti musicisti tra cui il figlio Levon Henry al sassofono e al clarinetto, David Pitch al basso, Patrick Warren al piano e John Smith alla chitarra acustica. Sono narrazioni di semplici quotidianità che svelano all’ascoltatore momenti speciali in cui entriamo quasi in punta di accordo come la nostalgica Kitchen Door o la melodia drammaticamente innamorata di Karen Dalton. Piccoli squarci nella tenda del quotidiani, fratture necessarie attraverso le quali la musica ci penetra per raggiungere l’amigdala delle sensazioni e dalle quali noi facciamo uscire le nostre reazioni emotive alle narrazioni che Henry fa accompagnandosi con la sua musica. E poi vieni colpito in pieno petto dalla title track che riassume tutto quello che l’artista ci vuole comunicare come con la semplicità di chi vuole solo descrivere senza giudicare la vita che ci scorre addosso “Trouble begins at waking / the weight of the world near-breaking / its wave on the heart’s undertaking / of all the eye can see”. Un momento di confidenza intenso, atteso per quasi tutto l’album. 

Joe Henry non crea musica di sottofondo per serate languide, né divertenti canzonette simili a jingle per festeggiare eventi, ma neppure un gioco di note fine a se stesso, perché le trame che crea sono un tessuto dove ricama storie sfumate dai colori scuri, ma sempre colori restano. Colori sonori che l’ascoltatore può usare come preferisce, portandoli con sé e attraverso le ombre farne uscire toni brillanti oppure vivendoli oscuri come sono. Un progetto questo che non si merita un ascolto casuale, bensì un’attenzione piena e consapevole delle melodie semplici e fluide ma ben studiate, in armonioso contrasto con i testi densi e spigolosi, ma, proprio per questo, assolutamente necessari. 

 

Joe Henry
All The Eye Can See
earMUSIC

 

Alma Marlia

The Coral Sea “Golden Planet Sky” (Trees They Move, 2023)

Ed eccola qui, fresca fresca, la prima vera bombetta di questo 2023 in musica. 

Da qualche giorno è infatti ufficialmente fuori Golden Planet Sky, ultimo album del gruppo/progetto solista di Rey Villalobos, che a qualcuno – non a me sia chiaro – potrebbe essere capitato di ascoltare già in passato in quanto alcuni suoi brani, riporto paro paro dalla sua pagina Wikipedia, sono apparsi in alcune serie TV, vedi Californication, Grey’s Anatomy, altre.

La musica dei The Coral Sea, questo il moniker scelto dal nostro, al primo ascolto mi ha illuminato istantaneamente la casella relativa agli Antlers di Burst Apart, un rock vagamente sognante, sospeso, dove la voce in bilico tra un falsetto che tale non è e i momenti più spaziali di Wayne Coyne, poggia ora su tastiere kosmische (il brano d’apertura Golden Planet Sky, ma anche Hero per dirne un paio) ora su arpeggi di chitarra quasi folk (Peace Of Mind). C’è spazio per un paio di accelerate, sempre guidate dal particolare canto di Villalobos (qualche rimando ai Dream City Film Club qua e là lo noto solamente io?), Your Feathers Up e la conclusiva Broken Circle, ma tra le nove tracce che compongono questo splendido Golden Planet Sky ce n’è una che brilla più delle altre, Love Is No Sacrifice: poco meno di quattro minuti di poesia altissima che il musicista californiano dedica alla madre. “Decorate your emotions with the current landscapes” canta, dove da un fondo di tastiere e batteria si sviluppa un crescendo di rara bellezza che vede un ipnotico arpeggio di chitarra avvolgere la delicata voce, quasi tremante, in un invito che altro non è che un monologo, una preghiera forse al vento, “Meet me outside, meet me outside, ‘cause, I know that you’re already there”.

Ad oggi dubito possiate trovare in giro trentasei minuti, perchè tanto dura il disco, migliori di questi.

 

The Coral Sea
Golden Planet Sky
Trees They Move

 

Alberto Adustini

Måneskin “RUSH!” (Epic/Sony, 2023)

“C’era una volta una band che passò da Via del Corso a Las Vegas ad aprire il concerto dei Rolling Stones.”

Quante volte abbiamo sentito paragonare la storia dei Måneskin a una favola? Più o meno un’infinità. 

Delle novelle Cenerentole, che cominciano suonando tra le strade di Roma e, grazie alla spavalderia tipica degli animali da palco e a una buona dose di talento, passano prima da X-Factor (pur non vincendolo), poi al Festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest (questi, vincendoli entrambi).

Il resto, come si suol dire, è storia: Rolling Stones, valanghe di premi, tour mondiale.

Però, in questa favola, qualcosa si è incrinato.

Il loro ultimo album, RUSH!, si discosta nettamente dai loro lavori precedenti e in particolare da Teatro d’ira – Vol.I, che, anche se non un secondo volume, quanto meno lasciava presagire un proseguimento su quella strada. 

Invece RUSH! è un album frutto della foga degli ultimi due anni, della contaminazione statunitense e dell’apertura al mercato internazionale, ma forse dai singoli pubblicati in questi ultimi mesi – da Mammamia a Supermodel – potevamo aspettarcelo. 

Non che questa svolta pop-punk con velleità sempre più trasgressive (ma comunque senza abbandonare qualche elemento più melodico e stile ballad) sia brutta tout court. Anzi, ci sono tracce pregevoli – Gasoline e Timezone su tutte – ma non mi azzarderei a dire che hanno portato quella rivoluzione alla musica italiana che ci stavamo tanto immaginando.

RUSH! è infatti un album che di italiano ha molto poco: si vede già nella distribuzione linguistica, dato che solo tre tracce su 17 sono in italiano. La sensazione che si ha è quella di un album fatto a uso e consumo del pubblico americano e/o abituato a sonorità di questo tipo già da tempo, che quindi non percepisce nulla di nuovo e men che meno di rivoluzionario. 

Ed è un po’ un peccato, perché ci si poteva aspettare qualcosa di più dalla band che sembrava stesse riportando il pop-rock nostrano in auge anche all’estero senza il bisogno di conformarsi a modelli già noti. Ci stavano provando e avevano raggiunto già bei risultati con quel grande pezzo che era Coraline nel disco precedente (e a cui cercano di avvicinarsi timidamente con Il Dono della Vita).

Hanno fatto bene? Hanno fatto male? Non sta a me giudicare, ma sicuramente resta un po’ di amaro in bocca per quello che poteva essere e – evidentemente – non è più.

 

Måneskin
RUSH!
Epic/Sony

 

Francesca Di Salvatore

Ladytron “Time’s Arrow” (Cooking Vinyl, 2023)

Ladytron. Una parola che se scandita a punta di lingua sa di anni ’70 del secolo scorso, e più precisamente del 1972, di canzone di un album di debutto e soprattutto dei Roxy Music. Un tuffo nel passato che diventò presente nel 1999, quando quattro ragazzi britannici originari di Liverpool, in Inghilterra, decisero di far sentire la loro passione nel panorama musicale. E anche se non si chiamavano Paul, John, Ringo e George, ma Helen, Mira, Daniel e Reuben, decisero che il mondo li avrebbe ascoltati al di là di ogni confine fatto di tè delle cinque, gossip reali e mirabolanti scogliere. Così fu, e i Ladytron attirarono l’attenzione del pubblico su di loro con la loro musica fatta di chitarre, percussioni e strumenti elettronici, combinando sonorità new wave con lo shoegaze, sottogenere dell’alternative rock, e l’elettropop. 

Dopo l’eponimo album Ladytron del 2019, il gruppo esce ora con Time’s Arrow, il settimo album in studio, in Italia per Cooking Vinyl. Un lavoro di dieci tracce di melodie ben curate e testi che non vogliono semplicemente seguire la musica oppure dominarla, bensì semplicemente farne parte come un compagno di viaggio. Le atmosfere si caricano di distorsioni leggermente noisy per un effetto onirico ma anche futurista come nell’introduttiva City of Angels e la leggera ed evocativa We Never Went Away. Contrariamente alle fantasie più malinconiche dell’album precedente, il nuovo progetto sembra prendere più respiro e le melodie, per quanto tutte caratterizzate dallo smodato uso di suoni synth-pop, non si omologano con il rischio di diventare un gioco di ripetizioni, bensì emergono ognuna con una propria identità, come la rarefatta ma pulsante Fight From Angkor, dove le chitarre distorte diventano sensazione per l’ascoltatore che ne rimane intrappolato. Ipnotica è, invece, Faces, dove la ripetizione a loop della parola che dà il nome al brano crea un’atmosfera di ossessione ma anche di liberazione dall’ossessione stessa, come una liberazione emotiva da un contesto in cui ci si sente soffocare da volti da guardare per tenerli con sé e al tempo stesso lasciarli indietro per continuare ad andare avanti. La chiusura dell’album è lasciata alla title track Time’s Arrow, dalle sfumature più oscure, con bassi presenti e vocalità che rimangono oniriche ma scendono nel timbro per poi risalire e trascinare l’ascoltatore dietro la scia di una freccia melodica che, quando scoccata, non si può più fermare, che sia esso il tempo o semplicemente i Ladytron. 

Il disco non sorprende, perché conferma la cura del gruppo nella propria produzione musicale e la volontà di mantenere costante la propria identità, sfidando mode e rimanendo fedeli a ciò in cui credono. Potremmo definirlo di nicchia, ma sarebbe riduttivo per un progetto che si fa ascoltare e anche molto bene, non annoiando mai. Certamente non lo troverete tra le colonne sonore di spumeggianti festeggiamenti con fuochi di artificio, ma questo non vuol dire che non vi porterà altrettanto lontano, né che la loro musica non arrivi dentro per farvi muovere vivendo emozioni speciali, come le sue melodie, sintetiche sì, ma piene, seducenti e vibranti. 

 

Ladytron
Time’s Arrow
Cooking Vinyl

 

Alma Marlia

Gazebo Penguins “Quanto” (To Lose La Track / Garrincha Dischi, 2022)

Partendo dall’assunto, incontrovertibile, che Nebbia sia il miglior disco dei Gazebo Penguins, i quali a loro volta sono una delle migliori band nate in Italia negli ultimi diciamo vent’anni, quando appresi la notizia qualche mese fa che avremmo avuto un quinto lavoro in studio, pensai subito “Eh, non sarà facile mantenere le (mie) attese. Vi aspetto al varco, cari miei”.

Ebbene, al boh, decimo ascolto di Quanto (così s’intitola il nuovo disco) negli ultimi venti giorni devo dire che ce l’hanno fatta. Con margine. A mantenere le attese intendo.

Non che ci fossero grossi dubbi in effetti, lo hanno mai sbagliato un disco Capra, Sollo, Piter e Rici? La risposta è no. 

E sapete quale potrebbe essere il loro segreto? Che sanno scrivere, hanno idee, tante, i testi sono sempre più curati e danno l’impressione di divertirsi e amare enormemente ciò che fanno.

Nel tempo è poi cresciuta la componente della consapevolezza, della cura per l’arrangiamento (l’inserimento del sax è una chicca non da poco), l’affiatamento, quello che volete, ma ad ogni giro in studio i quattro ne escono con degli album che vivono di vita propria, con una propria identità e credibilità.

Sì perchè, se è vero che di Senza di Te ne nasce una nella vita, l’effetto live di una Nubifragio è clamoroso (ne sono stato testimone qualche giorno fa a Bologna), una detonazione che poco ha a che invidiare a Il Tram Delle 6 per dirne una, così come la potenza di una Cosa Fai Domani (che richiama lontanamente, come andamento, Pioggia), o l’immediatezza di Cpr14, il crescendo di Se Non Esiste Un Vuoto, ormai quasi un marchio di fabbrica della band di Correggio, cioè delle sette tracce che compongono questo Quanto faccio fatica a trovarne una più debole delle altre, uno di quei brani messi a mò di riempitivo per arrivare alla durata ideale.

Qui tutto conta e tutto è funzionale, e non a caso i testi di Gabriele CapraMalavasi sembrano seguire questo mood, questo andazzo, nell’evitare la sovrabbondanza, il molto, l’affettato, ma ricercano con grande abilità le parole misurate, giuste, per scavare sempre più a fondo negli affetti, nelle relazioni, nell’io.

Bravi.

E bravi.

 

Gazebo Penguins
Quanto
To Lose La track / Garrincha Dischi

 

Alberto Adustini

Loren “Uniti” (Garrincha Dischi, 2022)

Siamo a dicembre, ma possiamo sempre cantare e ballare sulla spiaggia. E non mi riferisco all’atto concreto di andare al mare in inverno, che per chi vive in Liguria come me è normale: parlo di vivere emozioni estive, ma fuori stagione.

I Loren (Francesco Mucè, Richard Cocciarelli, Gabriele Burroni, Marco Ventrice e Dario Fischi) sono una band fiorentina, hanno esordito con il primo album nel 2018 e sono tornati sulle scene con Uniti, un disco perfettamente riassunto nel suo titolo. Per quanto io abbia un debole per il fascino dell’enigmatico (momento di auto-denuncia che potrebbe costarmi caro), sento la necessità di ascoltare anche musica trasparente, che racconta con semplicità la mia esistenza ordinaria e che sappia farmi sentire al posto giusto. 

Uniti è pieno di vita e ha la capacità di sbrogliare molti nodi, riconnettendosi a un concetto quasi primordiale: la musica serve per ritrovarsi insieme. Il disco esplora diversi generi e ospita numerose collaborazioni artistiche, come Nicola Manzan, i Vocal Blue Trains e la Galantara Marching Band, rafforzando ancora di più la coesione tra gli individui, il filo rosso di tutte le canzoni.

Partiamo con il singolo più esplicativo di tutto l’album: Viva La Paura. “Ma siamo qui e siamo vivi / E non importa se non ci hanno capiti / Fanculo gli schemi / Le corsie preferenziali / Evviva la paura / Di essere ordinari”. Contiene uno dei miei messaggi preferiti in assoluto: basta performatività a ogni costo, basta gare, basta dimostrazioni, basta avere paura di non distinguersi. Non è necessario essere eccezionali per essere amati e ricordati e noi moriamo se non mettiamo radici; i Loren ce lo ricordano con il coro gospel potente dei Vocal Blue Trains. 

E se l’unione è la forza da cercare, la competizione esasperata e l’odio sono la nostra debolezza. Buio è un brano che scardina i principi secondo cui dovremmo dimostrarci forti e racconta la bellezza di avere dei lati oscuri, attraverso i quali possiamo trovare la luce. Ci carichiamo con i nostri successi, proviamo soddisfazione quando chi non credeva in noi e ci ostacolava si ricrede: ma non è forse un vortice “tossico” inutile? Il bello della musica è cantare le nostre prospettive utopiche. “Vorrei che questa volta / Tu ci fossi davvero / E avessimo la forza / Di non dimostrare niente a nessuno / Vorrei che questa volta / Tu ci fossi davvero / E avessimo la forza / Di mostrare il nostro lato oscuro / Non dirmi che hai paura del buio / Non dirmi che hai paura se è tutto nero / Lo sai che è solo nel buio che puoi illuminarti e brillare davvero.”

La titletrack Uniti raccoglie un messaggio quasi politico e, con un ritmo indie rock inglese che ricorda una melodia dei Vaccines, ci racconta che la nostra resistenza sta nella capacità di stare insieme e amare gli affetti che ci circondano. Ci vogliono soli, ma noi siamo “uniti per resistere”.

Adesso, immaginatevi di essere seduti a gambe incrociate su una spiaggia e indossare una felpa con il cappuccio tirato su per ripararvi dal leggero vento che solleva qualche granello di sabbia. State cantando canzoni per tutti i gusti insieme alle persone che vi piacciono, immersi in un’emozione corale. Vi alzate in piedi per ballare e siete consapevoli che il mondo intorno a voi privilegia la competitività e che le sue idee di solidarietà, amicizia e famiglia sono solo maschere che celano l’individualismo. Voi lo sapete, ma nel vostro piccolo state cambiando e lo raccontate davanti al mare con la musica. 

Ecco i Loren.

 

Loren
Uniti
Garrincha Dischi

 

Marta Massardo