Skip to main content

Tag: review

Death Cab for Cutie “Asphalt Meadows” (Atlantic Records, 2022)

I Death Cab for Cutie tornano nel loro venticinquesimo anno di attività con il decimo album Asphalt Meadows.

Il disco, scritto in periodo pandemico, è il risultato del lavoro solitario dei singoli musicisti che si ritrovano isolati a provare e riprovare le tracce fino ad arrivare al magico momento del ritrovarsi per registrare la stesura finale dell’opera, che viene descritta come “la nostra prova più affiatata da molto tempo a questa parte”.

Ben Gibbard, frontman della band, è lo stesso di sempre: la voce, inalterata, si mescola sempreverde e inconfondibile tra arpeggi, synth, suoni curati a livelli maniacale.

Gibbard, nonostante veterano del genere emo e un po’ nerd di cui i Death Cab sono stati pionieri in quel Pacific North West reduce dall’ondata del grunge degli anni ’90, non rinuncia a studiare nuovi suoni e melodie, in un mondo dove si pensa che ogni anfratto del suono sia già stato scoperto e finito.

L’album si apre con I Don’t Know How I Survive, brano che, nonostante l’andamento ridondante e pacato del main riff iniziale, descrive una scena di vita quotidiana molto comune per tanti di noi: un attacco di panico irrequieto, “Pacing across the room while she’s asleep / Tears raining down your cheeks / You’re trying to hold on.”
Il ritornello suggerisce la costante risposta di chi riesce a controllare questo angosciante stato d’animo e fisico, per cui ogni volta ci si rende conto come inconsapevolmente si sia sopravvissuti.

Proseguiamo con Roman Candles (uno tra i primi singoli estratti), che ricalca i passi del tipico brano emo, dove l’evidenza della realtà prende il sopravvento su aspettative e idee più astratte, dove l’amore, che viene solitamente mitizzato per essere perfetto ed eterno, si ritrova invece su un pianeta morente. È su questa desolazione che i Death Cab ci insegnano a lasciare andare tutto ciò che si è sempre cercato di trattenere.

Il disco spazia da sonorità indie pop al post punk della bellissima I Miss Strangers, fino al post-rock di Foxglove Through The Clearcut; non mancano brani in cui viene usato un tappeto di synth, che per chi conosce bene Gibbard, si riconosce la maestria dei giusti incastri dovuti alla poliedricità dell’artista maturata nel side project Postal Service.

Asphalt Meadows è la riconferma della band, una nuova tacchetta nella loro già conclamata carriera, e forse qualcosa di ancora più perfetto e raffinato rispetto agli ultimi due album pubblicati.
Mentre ascoltiamo questo disco, non possiamo non immaginarci un Seth Cohen (co protagonista nella fortunatissima serie O.C.), steso sul letto della sua dependance, a gustarsi ad occhi chiusi il nuovo album della sua band preferita.

 

Death Cab for Cutie
Asphalt Meadows
Atlantic Records

 

Roberto Mazza Antonov

The Afghan Whigs “How Do You Burn?” (Royal Cream/BMG, 2022)

Se hai il fuoco dentro, brucia con The Afghan Whigs

Sono passati cinque anni dal loro ultimo lavoro In Spades ma hanno ancora voglia di catturare il pubblico con la loro grinta attraverso la propria musica. Loro sono The Afghan Whigs ed escono ora con How Do You Burn?, che conferma l’appartenenza della band di Cincinnati al rock alternativo con il loro sound ossessionante e straziante. Un disco con una genesi non semplice, perché registrato con ogni componente della band a distanza durante il periodo pandemico. Un disco che è voglia di guardare al futuro, ma anche ricordo e omaggio a Mark Lanegan che ne aveva scelto il titolo.

L’attacco di chitarra elettrica di I’ll Make You See God è subito sferzante e si trasforma in un riff potente che si ripete come in una specie di allucinazione, mentre la voce di Dulli raggiunge timbri al limite dello sguaiato, ma che creano un sottile perfetto equilibrio con la complessità strumentale del brano.  Il disco si sviluppa poi in tracce dove il rock lascia spazio a atmosfere rarefatte di suggestione distopica tra cui domina proprio la chiusura In Flames. Lo spiccato uso del synth e la voce distorta si muovono come fiamme, in modo accattivante e seducente, con quel pizzico di sensazione di pericolo quel tanto che basta a catturarti fino all’ultimo, come se non volesse lasciare andare via l’ascoltatore, trattenerlo e avvolgerlo per “bruciare” con lui fino alla fine. Ed è questa la sensazione che ti accompagna durante l’ascolto, la voglia di rimanere che combatte con quella di andarsene perché in qualche modo il progetto entra dentro alle emozioni e te le fa mettere in gioco, ma non tutti siamo pronti per farlo. Concealer è una canzone dolce che parte in acustico per poi trasformarsi in un rock delicato quasi un abbraccio consolatorio, che ti cattura e ti culla fino a che non chiudi gli occhi. Altrettanto emozioante è The Gateway, che parte con un’atmosfera musicale sospesa per poi svilupparsi in sonorità psichedeliche e un testo non complesso, ma con parole forti che formano un dialogo immaginario tra un io e un tu o voi dove la voce di Dulli si leva in uno spietato “Waiting for the night as I destroy the day”. Attesa, volontà e fatalità riunite in una sola frase che ti prende e non ti lascia più.

Come ogni recensione, anche questa ha una fine, e forse dovrei terminare con i consigli per gli acquisti o qualcosa di simile che la logica di mercato impone. Ma ammetto che la logica non è mai stata il mio forte, perciò vi dico solo di ascoltare How Do You Burn? lasciando aperti quei canali emotivi che permettono alla musica di rovistarci dentro e farne uscire nuove sensazioni o vecchi ricordi, oppure un bel mash up di entrambi. Sì, avete ragione, il rischio è che si può passare dal Nirvana al dolore nascosto in qualcuna delle nostre profondità, ma non è anche questo vivere, o meglio bruciare di vita? Come bruciate? Di fuoco nascosto sotto la cenere della quotidianità in attesa di spegnervi del tutto, oppure come fiamme che sono pronte a vivere in pieno le proprie emozioni? A voi la scelta di premere quel tasto che aiuti la musica a liberare ciò che avete dentro.

 

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

Royal Cream/BMG

 

Alma Marlia

Flogging Molly “Anthem” (Rise Records, 2022)

Avete presente Kevin Kline mentre si scatenava sulle note di I Will Survive cantata da Gloria Gaynor impersonando il professore Howard Brackett della commedia In & Out? Ecco quello è l’effetto collaterale, se così possiamo chiamarlo, dell’ascolto di Anthem, il nuovo album dei Flogging Molly pubblicato da Rise Records. Nonostante le origini irlandesi, il gruppo si è formato nel 1997 negli Stati Uniti, e più esattamente a Los Angeles, nel pub dedicato alla figura di Molly Malone, e ha continuato negli anni a seguire il suo stile celtic punk che unisce la tradizione del folk irlandese con la voglia di modernità del punk rock. A distanza di cinque anni dall’uscita di Life Is Good, la band capitanata da Dave King ritorna sulla scena con un nuovo progetto di undici canzoni e un tour mondiale che li ha portati anche in Italia al Bay Fest 2022 di Bellaria Igea Marina. 

Ascoltare l’album per una creatura danzereccia come me non è stato affatto semplice. Non che non sia ascoltabile e godibile, anzi, tutt’altro. L’unico problema è stato cercare di resistere a muovermi e saltare come un grillo ad ogni nota, per concentrarsi sulla tecnica musicale, ma già la canzone di apertura These Times Have Got Me Drinking dal canto iniziale leggermente melanconico si trasforma in un turbinante reel fuso con sonorità rock che trascina via i piedi e tu non puoi fare altro che seguirli. Ed è a passo di danza e un po’ di pogo tra gighe e reel rock che balli per immaginarie strade al sapore di Guinness e giubbotti chiodati, mentre ti scateni sulle note di canzoni come A Song of Liberty e A Road of Mine, dove il violino folk di Bridget Regan è talmente veloce da dare l’impressone di diventare ardente e lanciare fiamme che fanno saltare sempre più in alto, come in una vera danza irlandese, mentre un banjo lontano evoca anche gli spazi aperti delle sonorità country. Non c’è niente da dire, i Flogging Molly con questo lavoro confermano di essere coinvolgenti e divertenti, ma non per questo privi di spessore e profondità, come dimostra la struggente ballata These Are The Days dove il canto diventa a tratti corale ed evocativo, la batteria riecheggia lo spirito di malinconia per uno sguardo spietato verso il passato e il presente miste all’incertezza verso il futuro. Se volete invece sentirvi avvolti dalle luci di Temple Bar a Dublino, fermate il ballo e prendete fiato quell’attimo che basta per cantare a squarciagola The Croppy Boy ’98, praticamente un’ode alle canzoni ribelli irlandesi dove l’esecuzione strumentale e vocale hanno l’intensità che evoca The Pogues, e mentre le liriche hanno il sapore amaro della sconfitta e di una certa fatalità della vita che va avanti nonostante si rimanga un passo indietro perché “Nothing more is what’s left to me”.

Anthem è un progetto che fa abbassare le difese di chi alza le sopracciglia superbe e si sente paladino della musica cantautoriale, lo prende per mano e lo induce a ballare, che lo voglia o no. Come vuole la tradizione irlandese, ci racconta che i problemi ci sono, esistono e vanno visti per quello che sono, ma non per questo dobbiamo morire di spirito e corpo, anzi è proprio muovendoci e stando insieme che si combattono le paure, si esorcizzano i fantasmi e possiamo darci coraggio per andare avanti. I Flogging Molly non vogliono svelare chissà quali verità nascoste nella realtà né iniziare una nuova corrente musicale, vogliono solo confermare che due mondi musicali lontani come la musica tradizionale e il punk possono avvicinarsi per creare uno strumento con cui stare insieme per condividere i bei momenti e combattere quelli più difficili, anche solo alzando un boccale di birra. Guinness, naturalmente.

 

Flogging Molly

Anthem

Rise Records

 

Alma Marlia

Mått Mūn “Lux” (Beautiful Losers, 2022)

Note di stelle e beat infiniti attraverso il cosmo musicale di Mått Mūn

Mått Mūn, pseudonimo del padovano Mattia Menegazzo, è un musicista che ha sviluppato il suo percorso come cantante e chitarrista in vari gruppi rock del panorama musicale underground nostrano. L’incontro con Andrea Liuzza che lo porta ad avventurarsi nella carriera solista con il progetto Cosmography del 2019 dove emergono la sua passione per l’astronomia e l’amore della new-wave e la musica cyberpunk anni ’80, con un forte richiamo a gruppi come i Depeche Mode. Con il nuovo progetto Lux, l’artista conferma il suo sguardo rivolto verso una frontiera che trascende la quotidianità, ma non per questo la ignora. Il viaggio ora è verso la luce, vista oppure solo desiderata, in atmosfere spaziali dove i pensieri fluttuano senza peso. 

Il progetto è composto da dieci tracce, tra loro distinte, ma unite dalla sensazione di trovarsi in un flusso cosmico, dove musica e parole si fondono grazie a beat sintetici per diventare un’unica esperienza sonora, senza tradire, però, la voglia di lanciare messaggi verso la Terra. Divine apre l’album con i suoi tratti distintivi di sonorità decise ed elettroniche dove la voce di Mūn acquista forza evocativa che, come una divinità, diventa trascendete e acquista una luminosità che continua in Iridescent, un brano che si avvale non solo di note, ma anche di parole a tratti dilatate come a riprodurre una luminosità diffusa che abbraccia l’ascoltatore. Mentre lo ascolti gli occhi si chiudono senza che te ne accorga, e la mente si apre a luci che forse fanno parte della memoria, oppure la creano partendo dalla sensazione di leggerezza provocata dalla musica stessa. L’impressione è quella di galleggiare nell’aria. Waves ha invece una ritmica più forte e cadenzata, dove il canto “I know what is coming now” diventa un tutt’uno con le onde sonore e in quelle onde, che tu lo voglia o no, ci devi nuotare. Ogni beat si infrange contro l’ascoltatore che si muove tra l’elettronica e una batteria che ad ogni colpo è uno schiaffo sulla pelle, mentre un’eco vocale distorta ci guida verso un vascello spaziale che ci attende in infinite nebulose. Ammetto che mi piace perdermi in questa sensazione di spazio infinito, e gioco con il nome dell’artista che mi ricorda la luna come viene pronunciata in inglese, mentre l’atmosfera rarefatta che abbraccia il progetto si fonde con il beat elettronico che ne caratterizza ogni passo. Scopro che l’album si arricchisce di featuring interessanti come quello con Emilya NdMe in Red Shift oppure con l’esordiente Isevril in Neon Dreams, e Are You Real?, progetto di Liuzza, nell’eterea Soulprism. Nel frattempo, arrivo all’ultima canzone, Cosmic Kiss che saluta l’ascoltatore con suoni dilatati di synth e un canto sussurrato come un bacio rubato, di saluto o di addio, questo sta a noi deciderlo, mentre la melodia da bassa si apre a note alte, a un timbro vocale che diventa sempre più evocativo come una luce che si irradia e viaggia attraversando la nostra anima verso l’universo pieno di colori. 

Come il telescopio spaziale James Webb e le sue immagini che ci hanno fatto vedere le sfumature dell’infinito, Mått Mūn usa la musica per cantarci del cosmo e ce ne fa percepire i suoi colori, le sue infinite sospensioni dove noi nuotiamo nell’aria, e se non possiamo farlo fisicamente, attraverso i suoi suoni possiamo farlo con la mente. Le sue atmosfere sonore attraversano come un raggio di luce, ci trafiggono per poi portarci lontano con loro, e questo che si voglia essere trascinati oppure no. Quando pensi che forse sia il caso di tornare con la testa sulla terra, lui ti chiede di rimanere ancora un po’e di goderti quel momento in ogni sua sfaccettatura. Non sai se vale la pena assentarsi o no quel tanto che basta ad ascoltarlo, ma non sono domande che riesci a farti tanto di cattura, rimane solo una sensazione di morbidezza anche quando madre Terra ti richiama all’ordine. E tu torni con la tua emozione sospesa nel vuoto ancora pieno delle note appena ascoltate.

 

Mått Mūn

Lux

Beautiful Losers

 

Alma Marlia

The Kooks “10 Tracks to Echo in the Dark” (Lonely Cat / AWAL Recordings, 2022)

Il post punk nasce, poeticamente, dalla delusione che la generazione punk provò nei confronti del genere che gridava “No Future” a squarciagola. Quella tanto agognata rivoluzione non ebbe mai davvero luogo e dopo una manciata di anni di furore, del “No Future” rimase solo il “No”. Il post punk prese su di sé la delusione e la disillusione di una generazione che si sentì lasciata sola, abbandonata, e le diede uno spazio tutto suo.

Il sesto disco dei The Kooks nasce da una delusione molto simile, seppur temporalmente dissimile. 10 Tracks To Echo In The Dark è il sesto album della storica indie rock band, un disco molto atteso e che per certi versi supera l’ottimo predecessore Let’s Go Sunshine. Luke Pritchard, frontman della band, rimane molto deluso quando il suo paese, l’Inghilterra, decide di staccarsi dall’Europa attraverso l’arci nota Brexit.
Dopo i tour trionfali di Let’s Go Sunshine, Pritchard e i suoi si rendono conto di essere ormai tra i big e di avere un pubblico che si rinnova automaticamente ma soprattutto di avere un pubblico davvero internazionale, squisitamente europeo. Sapere di vivere in un paese dichiaratosi estraneo rispetto un continente non va a genio a The Kooks, specialmente al frontman, il quale si ritrova a viaggiare spesso nella capitale emerita dell’Europa, Berlino. Non è raro che musicisti, artisti e creativi in generale trovino rifugio nella capitale teutonica ma è proprio li che prende forma 10 Tracks To Echo In The Dark.

Con questo disco la band cerca e trova un sound che si riconosce nel suo essere genuinamente internazionale, europeo, sempre con i piedi ben piantati nell’indie rock. Si respira un’atmosfera cosmopolita, quasi libertina nel disco ma ciò che più stupisce è l’inserimento della parte elettronica che si amalgama gioiosamente con le loro caratteristiche chitarre e ritmiche.

Fin da Connection, la prima traccia, si ode quel qualcosa che ti fa dire “si sono The Kooks, ma c’è qualcosa di nuovo”, da qui poi è tutta discesa.
Piace e colpisce il synth “francese” di Jesse James, rapisce la cavalcata synthpop di Closer ma non poteva mancare il pezzo alla Bowie, Sailing on a Dream che guarda dritto in faccia il Duca Bianco, ricordandoci che anche lui ha vissuto nella mitologica Berlino. Con Modern Days The Kooks tornano ad essere The Kooks ma con una consapevolezza diversa, forse più matura, forse solo più espansa.
25 merita una nota dedicata perché ci avviciniamo a territori cari a gente come Beach House ma con un giro di basso più deciso. I synth tacciono sul finale per lasciare spazio a una ballad che sarebbe un magnifico pezzo di chiusura per una serie Netflix su giovani disadattati e disagiati che alla fine ce la fanno, Without A Doubt.

10 Tracks To Echo In The Dark è in ultima analisi un disco ben fatto, un lavoro che sa guardare davvero il presente per capirlo e farlo proprio. La colonna sonora ideale per una banda di dandy disadatti e disagiati che alla fine ce la fanno.

 

The Kooks

10 Tracks To Echo In The Dark

Lonely Cat / AWAL Recordings

 

Fernando Maistrello

Interpol “The Other Side of Make-Believe” (Matador Records, 2022)

“C’è sempre una settima occasione per una prima impressione”. Ci dice così Paul Banks, frontman e cantante degli Interpol, alla viglia dell’uscita di The Other Side of Make-Believe, settimo disco della band newyorkese. A quattro anni dall’ultimo lavoro –  Marauder (Matador Records, 2018) – gli Interpol si riscoprono la band indie rock che erano ai tempi del mai troppo amato Antics (Matador Records, 2014),  proponendo un album vivace, ispirato e preciso.

Quello che ha sempre contraddistinto la produzione degli Interpol è l’attenzione alla composizione, sempre sobria ed elegante, dei pezzi dove la chitarra dialoga sapientemente con la parte ritmica. Come è diventato un marchio di fabbrica la distorsione tagliente delle corde, inimitabile è anche la voce di Banks, seria, compunta e mai fuori posto. The Other Side of Make-Believe fa pensare ai primi dischi con pezzi come Fables o Renegade Hearts, anche se l’ispirazione si coglie nel vivo con i riff di Mr Credit, un pezzo squisitamente alla Interpol ma con una marcia in più. La vena darkwave non manca e si fa possente in brani come Greenwich o Into The Night, il cui giro di basso ammicca ai Joy Division.

Banks e soci sono sempre stati affini al post punk evocativo e nostalgico, senza perdere mai l’occasione di ricordare a chi ascolta la tragedia del vivere. Nota di merito va al pezzo di chiusura, Go Easy (Palermo), breve ma intensa ode alla malinconia.

Tornando alle parole di apertura, il nuovo modo di scrittura del disco – scritto e composto in isolamento per cause note sui monti – ha portato un’ispirazione diversa alla band, una vena compositiva che guarda al passato per riscoprirsi nel presente.

Il disco piacerà alla vecchia guardia dei fan, contenti di ritrovare le origini della band ma, non di meno, accontenterà anche chi si avvicina per la prima volta, forse per sentito dire. Con The Other Side of Make-Believe, l’oscurità si mette giacca e cravatta e sfila accanto ai suoi interpreti, gli ultimi veri gentlemen dell’indie rock.

 

Interpol

The Other Side of Make-Believe

Matador Records

 

Fernando G. Maistrello

Superorganism “World Wide Pop” (Domino, 2022)

La storia dei Superorganism non è decisamente quella canonica che abbiamo sentito milioni e milioni di volte, degli amici dell’infanzia che passavano ore ed ore a suonare nel garage di qualche zio e si esibivano alle feste del liceo. I nostri beniamini infatti provengono non solo da Paesi diversi, ma proprio da emisferi differenti (UK, Giappone e Australia) e sono entrati in contatto grazie a diversi forum online di musica, coltivando una sincera amicizia basata su scambio di canzoni e meme. Il legame virtuale diventò così profondo che nel 2017 si trasferirono quasi tutti (la cantante giapponese Orono Noguchi all’epoca studiava negli USA ma mandò la registrazione della sua voce ovviamente online) a Londra nello stesso appartamento per lavorare sulle loro produzioni psychedelic indie pop e postandoli ovunque nel mondo del web, finchè non arrivarono alle orecchie della Domino, che decise di scritturarli immediatamente. Così nel 2018 uscì il primo disco omonimo dei Superoganism che li impegnò in una tournèe mondiale e milioni di dischi venduti. 

Ora, a distanza di quattro anni, tornano con un secondo attesissimo disco, in uscita sempre con la stessa etichetta. La band ha subito alcune variazioni nella composizione ma lo spirito è rimasto invariato. La forza di questo gruppo sta tutta nell’estetica peculiare che li caratterizza, ricca di uno stile hipster un po’ sfigatino ma che oggi risulta cool, accompagnato da balletti che spopoleranno su TikTok e video musicali pieni di meme, unicorni ed arcobaleni. In tutto e per tutto figli di internet e la loro musica trasuda questo stile caleidoscopico ad ogni nota. 

Il nuovo disco, infatti, è farcito di basi pop prettamente stroboscopiche, autotune e chitarrine sghembe che lo rendono un ascolto piacevole e leggero, ricordando degli acerbi Tame Impala. Il primo singolo Teenager è un’ottima anteprima del mood di tutto l’album: sound melodioso ed orecchiabile con un video colmo di galassie iper colorate, delfini, e la band che cavalca un hot dog gigante mentre l’attore Brian Jordan Alvarez (ve lo ricordate in Will and Grace?) balla come se nessuno lo stesse guardando. 
Non fatevi ingannare dagli arcobaleni e dagli animaletti pucciosi, i testi della band spesso raccolgono alla perfezione i momenti di confusione e di solitudine che la nostra generazione sta attraversando, basti ascoltare Black Hole Baby oppure Everything Falls Apart, dove la sensazione che il mondo faccia acqua da tutte le parti è descritta con ritornelli soavi e post su instagram.  

Questo secondo disco conferma l’anima pop psichedelica della band senza cadere nello scontato e nel ripetitivo, pronto a diventare un trend glitterato da un momento all’altro.

 

Superorganism

World Wide Pop

Domino

 

Alessandra D’Aloise

Deaf Havana “The Present Is A Foreign Land” (SO Recordings, 2022)

I Deaf Havana tornano con un nuovo album, l’atteso The Present Is A Foreign Land, dopo quattro anni dall’ultimo disco Rituals, con un nuovo volto che vede la line up ufficiale ridotta ai due fratelli James e Matthew Veck-Gilodi.

I cambi di formazione sono stati frequenti per questa band, tanto quanto i loro cambi di stile all’interno del macro cosmo Rock.

Hanno iniziato da giovanissimi con un impetuoso Post Hardcore – Screamo che li ha portati a farsi le ossa sui palchi europei e facendosi piacere ai più.

Dopo l’abbandono da parte dello screamer Ryan Mellor (2005-2010) è quindi James a prendere completamente posto sotto il riflettore. Qualche anno dopo verrà finalmente introdotto suo fratello Matthew, tassello fondamentale per una sterzata decisiva, dando la chance alla band di vertire su un genere più melodico, iniziando le prime sperimentazioni di ibridazioni con il Pop, ma mantenendo comunque un forte carattere alternativo.

Negli anni, le parole sudano copiose tra chitarre che dialogano armoniose attraverso delay e riverberi, un loro trademark fondamentale, ed emozionano il pubblico che non può non rivedersi in scene quotidiane di relazioni complicate, di amicizie profonde suggellate negli anni, e rivalutate nel tempo che passa.

Il tema del tempo che passa per James è molto ricorrente e serve spesso come retrospettiva per confrontarsi sulla propria maturazione, ciò che il tempo gli ha portato via o ciò che nel tempo è riuscito a conquistare.

È proprio in Kids, uno dei singoli estratti dall’album, in cui possiamo notare questo aspetto di malinconia nel rivedere in maniera critica eventi passati e con la volontà di non voler perdere quella leggerezza del vivere tipica dei giovani, leggerezza persa nell’esorabile presa di coscienza di divenire adulti.

“Was it all in my mind? (we were just kids)
‘cause everyone else grew older in time (we were just kids)
I’ll be alone forever (we were just kids)
together (we were just kids)”

In Going Clear i Deaf Havana sviscerano il problema della dipendenza da stupefacenti, più volte trattato da James in maniera alle volte sottile, alle volte più esplicita.
In questo brano viene descritto l’aspetto della dipendenza  attraverso impatti fisici e psicologici descritti così limpidamente tanto da procurare i brividi a chi ascolta.
La sofferenza e il senso di alienazione è palpabile, come la sensazione di arresa o di conseguente rassegnazione.

“I don’t know what’s happening to me
I wake up soaking in my sheets
I do lines on the weekend
I do lines with my real friends
don’t you say a prayer for me
sometimes I pray I die in my sleep”.

Il carattere più forte e personale che ne emerge è l’ammissione di quanto sia difficile uscire da certe situazioni, e che ricaderci costantemente sia quasi un sintomo, alla fine, di rendersi conto di non essere del tutto convinti o pronti a seguire un percorso atto alla svolta conclusiva di distacco dalle sostanze 

“I fall back behind my lies
maybe I don’t wanna be sober”.

Non mancano in questo album, come in quelli precedenti, brani acustici o produzioni più introspettive alimentate dall’ausilio di un sempre più presente utilizzo di elementi derivanti dall’elettronica, come Nevermind, Trying-Falling e Somewhere (ft. IDER).

Il sound prevalente tende verso un orizzonte decisamente più Pop ma con radici salde nella cultura Rock dalla quale proviene, testimone principale la ricorrenza di riff decisi e assoli che danno quel kick in più di colore ai brani donandogli carattere.

A tratti si sentono comunque suoni ripresi da Rituals e dal meno recente All These Countless Nights, quasi a presagire di aver saputo già da anni quale fosse la nuova rotta per i nuovi lavori e di voler scommettere nuovamente sulla stessa formula.

L’alternanza tra brani con una buona dose di potenza e brani dai bpm più contenuti e sound prevalentemente acustici, ne bilancia uno scorrimento che porta all’ascoltatore sino alla fine dell’album senza mai annoiare. E si sa che la scelta della scaletta dei brani all’interno di un album è probabilmente uno degli ultimi lavori di post produzione con un carico elevato di responsabilità.

Negli scritti, come nel sound, i Deaf Havana registrano un livello di maturità dove i due elementi si comportano con un andamento inversamente proporzionale: se in passato le casse proponevano ruggenti chitarre e batteria acida e spezzata, accompagnando testi più superficiali e talvolta meno diretti, ora i pezzi suonano più introspettivi a favore di una comunicazione decisamente più diretta e consapevole.

Sono lontani i tempi di quando erano Smiles All Around o In Desperate Needs of Adventure ad accompagnami tra le fredde strade d’inverno tra Yonge Street e Victor Avenue di Toronto, ormai 12 anni fa.

Ma il bello di essere affezionati ad una band che ha saputo tenere vicini vecchi fan e nuovi (in Germania di recente stanno collezionando fans come margherite a primavera), sta proprio nel guadagnarsi la fiducia di lasciare agli utenti di potersi creare nuovi ricordi da legare a nuovi canzoni, piuttosto che continuare ad esaltare solo i grandi classici.

Nel complesso The Present Is A Foreign Land è uno spiraglio di speranza perché questo progetto continui e che non si strascichi ulteriormente, poiché ad oggi i Deaf Havana non hanno mai deluso.

 

Deaf Havana

The Present Is A Foreign Land

SO Recordings

 

Roberto Mazza Antonov

Greg Puciato “Mirrorcell” (Federal Prisoner, 2022)

C’è stato un periodo nel quale mi divertivo a trovare ricorrenze, coincidenze, corrispondenze tra musica e numeri. Il 6, il 17, il 3. Se si inizia a scavare, a fare collegamenti, si costruiscono delle storie pazzesche.

Come quella volta nel 2017 quando sarei dovuto andare a vedere il concerto d’addio dei Dillinger Escape Plan a Bologna, live che saltò per un incidente occorso alla band in Polonia. La data venne poi recuperata cinque mesi dopo, l’1 luglio, ma senza di me, perchè il caso volle che fossi ad un matrimonio di amici, che si sarebbero poi separati nell’arco di poche settimane.

Ma questa è un’altra storia.

A cinque anni da quel, per me, nefasto giorno, esce a cercare di rimarginare una ferita ancora aperta, il nuovo disco di Greg Puciato, frontman di quella che, per esperienza personale, è stata la più grande live band che mi son fregiato di vedere dal vivo, i Dillinger Escape Plan.

Da quel tour d’addio Puciato si è dato molto da fare, tra un altro disco solista del 2020, i Black Queen, i Killer Be Killed, è diventato anche il chitarrista di Jerry Cantrell, esatto quello degli Alice In Chains.

E sapete una cosa? In questo Mirrorcell siamo decisamente più in zona grunge che in zona math-core e dintorni.

Già il riffone di Reality Spiral, Rainbows Underground, la batteria e le seconde voci di No More Lives To Go odorano di Seattle, anche se quando il nostro nel finale di quest’ultima decide di accelerare tornano a fare capolino reminiscenze di quindici e più anni con quell’arma di distruzione di massa altresì nota come DEP.

Never Wanted That potrebbe essere ascritta nel novero delle “ballad”, la successiva Lowered 1644 (che ospita la cantante dei Code Orange Reba Meyers) è quasi radiofonica, e non a caso è stata scelta come singolo di promozione del disco), mentre nella successiva We entra prepotente anche l’elettronica. 

È la fase più compassata, contenuta, per certi versi srtaniante/spiazzante del disco, nel quale emerge forte il gran bel finale di I Eclipse.

Tuttavia è in fondo che il disco ci consegna il pezzone,nella conclusiva All Waves To Nothing, quasi nove minuti ora spettrali, ora incalzanti, ora emo (lo potevo dire?), il travolgente finale in coda.

Mirrorcell ci consegna una versione di Puciato meno estrema, spigolosa, anche rispetto al precedente Child Soldier: Creator of God, maggiormente rivolto alla forma canzone, alla melodia per certi versi, come se volesse mostrarci di sapere fare molto altro, oltre ad aver invaso i nostri peggiori incubi per molto tempo.

Ma noi questo lo sapevamo già.

 

Greg Puciato

Mirrorcell

Federal Prisoner

 

Alberto Adustini

Billy Howerdel “What Normal Was” (Alchemy Recordings, 2022)

Suoni e parole che avvolgono per metterci a nudo

Avete mai pensato a cosa può essere la normalità? Oppure se il concetto di anormalità è assolutamente inesistente e creato dall’uomo stesso per sentirsi in dovere di giudicare il prossimo come meglio crede? Se non lo avete mai fatto prima, potete farlo ora con dieci tracce. Dieci tappe di un percorso verso una musica forte e profonda. Dieci passi in avanti per interrogarsi su ciò che è la normalità o come può apparire guardando attraverso occhi diversi. Di queste suggestioni si compone What Normal Was, per Alchemy Recordings, il debutto da solista di Billy Howerdel polistrumentista e produttore discografico statunitense, fondatore del gruppo alternative metal A Perfect Circle. 

Il progetto, che vede anche la collaborazione di Josh Freese alla batteria, si caratterizza per combinare gli elementi dell’alternative rock con l’industrial rock e il post-punk che richiamano le influenze di gruppi cari a Howerdel come i Depeche Mode e i The Cure creando un’atmosfera sonora densa ma combinata a sfumature più aperte ed elettroniche che già percepiamo in Free and Weightless, brano uscito alcuni mesi fa come singolo. Howerdel si circonda di sfumature elettroniche per sussurrare e poi gridare il desiderio di libertà e leggerezza che prende forma in attimi di sospensione, momenti quasi impercettibili, ma che ti fanno volare via dalla realtà, come aria, senza peso. Howerdel si muove nelle canzoni senza titubanze, attraversando le atmosfere rarefatte di Ani dominate dal synth a quelle più leggere ed evocative di Bring Honor Back Home, dove la tastiera rende il brano etereo e la batteria di Freese richiama all’ordine la struttura. Diventa voce narrante di canzoni che sono combinazioni di conversazioni quotidiane, di una vita “normale”, cioè una vita in cui ci sono cose belle e brutte, giornate buone e meno buone, dove possiamo essere felici ma anche soffrire. Una vita in cui possiamo agire nel modo giusto o sbagliato, oppure combinare entrambe le cose e renderle intense come la melodia di A Beautiful Mistake. 

What Normal Was crea domande e fugge dagli assoluti che solo certe risposte posso dare. Howerdel stesso non aspira al ruolo di vate, ma solo a quello di un musicista che parla attraverso strutture ritmiche e testi precisi per colpire un perbenismo conformista di alcuni dovuto paradossalmente alla mancanza di valori, all’interesse personale, alla superficialità di molti. I brani si alternano tra sonorità tonde e piene ed altre più dure e decise come in Poison Flowers dove il basso arricchisce la ritmica di tonalità gotiche che si intrecciano al synth. Questo non deve far pensare a brani che vogliono ferire, ma solo ad atmosfere che ti prendono e ti chiudono in un guscio che non è fatto per proteggerti, bensì per darti un luogo in cui metterci a nudo, guardare, sentire, forse anche comprendere. Cosa comprendere, però, dipende da voi.  

Questo è un disco che va ascoltato, mentre rimanete in silenzio in attesa di vedere cosa succederà nel vostro viaggio personale. Vi troverete completamente avvolti tra parole e suoni che risvegliano vecchie sensazioni accantonate in chissà quale angolo, oppure nuove e semplicemente pronte, lì, per sorprendervi. Qualcosa che vi farà paura e vi cullerà al tempo stesso, nell’ascolto di un progetto pieno di ottime composizioni sorrette da un’efficace scrittura che non può far altro che farci applaudire questo debutto. 

 

Billy Howerdel

What Normal Was

Alchemy Recordings

 

Alma Marlia

Cris Pinzauti “Moonatica” (self, 2022)

Sotto l’abbraccio etereo di una luna pallida e striature nere e blu, c’è un corpo di donna che galleggia divisa tra cielo e terra, un corpo senza peso, i capelli lunghi trasformati in piante acquatiche. Si tratta solo di un’immagine, eppure ne senti l’acqua fredda che l’accarezza, la voglia di toccarla si fonde al timore di svegliarla dal suo sonno infinito, dal suo essere archetipo di un’umanità dolcemente folle e fatalmente spezzata. Lei è l’Ofelia dell’artista livornese Enrico Guerrini che si staglia sulla copertina di Moonatica il nuovo progetto di Cris Pinzauti, classe 1971, cantautore del panorama underground pop rock fiorentino. Dopo il debutto da solista con Black del 2015, Pinzauti esce ora con il suo secondo lavoro totalmente indipendente da ogni definizione e ogni etichetta per potersi esprimere liberamente, senza sottostare ad alcuna dinamica che non sia quella essenziale della musica.  

Anticipato dai singoli Parafulmine e Non Andar Via, Moonatica evoca nel titolo la pazzia e la volubilità che nel passato erano visti come frutto degli influssi lunari, giocando con l’italiano e l’inglese, lingua d’adozione musicale, per un effetto accattivante. Così come nel titolo, il progetto si compone degli stessi brani cantati nelle due lingue per diventare un viaggio di nove tracce speculari per parlarci di un’umanità spesso difettosa e fragile. Parafulmine è il tormento di chi ha vissuto una storia di amore come un rifugio sicuro contro le tempeste della vita, illudendosi di potersi creare una difesa dove rimanere per sempre. Pinzauti canta con un timbro alto e pulito, l’attacco della canzone è come un grido dell’anima che si confessa a suono di una chitarra elettrica graffiante, mentre il basso avvolge l’ascoltatore in un sottofondo cupo, di battiti, forse passi, oppure entrambe le cose. Il cuore è in gola, oppure se ne va chissà dove, forse verso la versione inglese Ghost che risponde allo spaesamento di chi ha visto il suo parafulmine sparire diventando graffio come la musica e dicendo, senza troppi complimenti, che quando si smette di amare, davanti vediamo solo un fantasma. 

Pinzauti non giudica l’umanità, bensì la osserva per come essa è: chiusa nelle sue paure, cristallizzata dentro labirinti creati dalla mente per intrappolarci in gabbie di paranoici mostri. Una struttura ritmica forte accoglie l’intreccio delle corde sapienti di Giuseppe Scarpato con il kick potente della batteria di Marco Confetti di Non Andar Via/Don’t Walk Away, una voce senza incertezze parla di amori malati e violenti attraverso gli occhi del carnefice, il ritmo martella ogni sbarra di quella ossessione arrabbiata dove la vittima è attirata e sedotta con false promesse. La musica accarezza e insieme colpisce come schiaffi su un volto, le parole vanno oltre l’emozione, arrivano alla mente, e ti chiedi se la vittima è solo una donna abusata nel corpo e nell’anima, oppure se c’è qualcosa di più, forse un mondo che offre ogni giorno seducenti speranze, mentre per ogni delusione si apre lo squarcio profondo in una fiducia bambina dove qualcosa muore per lasciare posto a un estraneo che non sei più tu. Sta a noi decidere se credere a quelle promesse o ribellarci come novelle Ofelie, uomini o donne indistintamente, rischiando anche di essere spezzati pur di non piegarsi. 

Presi da queste emozioni, trovare un luogo sicuro dove vivere una quotidianità felice diventa un imperativo, ma la strada è un vicolo cieco, perché l’uomo è un animale con un destino di dipendenze. Strega/Witch è un incontro di chitarre che circondano le voci di Cris Pinzauti con Eleonora Comemipare che si rincorrono tra parole e vocalizzi di un rapporto da cui puoi solo uscirne spezzato. La variazione ritmica dal pop al rock riproduce i contrasti dell’anima, fino a che la melodia della chitarra acustica svela a sorpresa l’intimità di un animo messo a nudo che parla per essere compreso, dal pubblico, ma forse, soprattutto, dal suo gänger.  Pinzauti ci offre una nuova definizione di uomo più vicina all’idea di pluralità di modi di agire, di pensare, di “funzionare”, o più semplicemente di essere. Il musicista unisce la sua voce a quella più bassa e decisa del fratello Marzio Pinzauti in Normalità/Come Back To Me, dove la diversità dei timbri diventa un interrogativo aperto a chi vuole rispondere: se le differenze sono inevitabili e fanno parte dell’essere umano perché ci ostiniamo a inseguire il mito della normalità quando alla fine la realtà è fatta solo di contrasti, disarmonie, di “Catrame che cade sulle fragole”? 

Moonatica è un progetto a volte scomodo, anche se non vuole mettere alle corde nessuno tranne il nostro coraggio nell’affrontare chi siamo quando veniamo messi alla prova con la realtà. Non usa uno sguardo compassionevole perché non vuole commiserare, né altero perché non guarda dalla distanza di uno scranno. Vuole semplicemente descrivere senza avvalersi di contorti synth od inutili distorsioni per parlare con suoni schietti, melodie strutturate da strumenti chiari e puliti che possano arrivare a chi le ascolta così come lo fanno le parole. Parole pronunciate da una voce ben modulata che canta l’uomo come esso è, né angelo né demonio. Solo un essere umano, con ombre e luci. Come tutti. 

 

Cris Pinzauti

Moonatica

self

 

Alma Marlia

The Zen Circus “Cari Fottutissimi Amici” (Capitol / Universal, 2022)

Tempo di bilanci

Per gli Zen Circus sembra arrivato il momento di tirare alcune somme e qual è il modo migliore per fare un bilancio se non con i tuoi amici più cari? Con gli amici di una vita, con quegli amici che potrebbero essere i tuoi fratelli minori e anche con gli amici che sono appena arrivati nel gruppo, perché è importante ascoltare anche le voci delle nuove generazioni.

Cari Fottutissimi Amici – e già il titolo mostra quanta confidenza ci sia in questa cerchia – è un disco immerso tra passato e presente, tra ricordo e consapevolezza. Ci sono picchi di nostalgia che vengono subito ridimensionati da uno sguardo verso il futuro sia nel sound, come si rivela ad esempio nella lunga coda strumentale di Caro Fottutissimo Amico (feat. Motta), sia nella scelta degli amici con cui condividere il microfono: da Speranza a Ditonellapiaga passando per Emma Nolde, classe duemila. 

Questo bilancio di quasi mezza età si esprime con i toni e con i generi più disparati, ma sicuramente predomina la consapevolezza di essere invecchiati. Si arriva a capire che la giovinezza ormai è passata, che i giovani d’oggi non si capiscono più, che si è diventati come i propri padri. Si guarda al passato con una nostalgia a metà strada tra il patetico e il romantico, come cantano in Ok Boomer (feat. Brunori Sas), traccia che apre il disco e serve da dichiarazioni di intenti: qui si parla anche di ciò che spesso non vogliamo sentirci dire.

E in questa consapevolezza non c’è rancore, quanto piuttosto disillusione. Una gran disillusione che accompagna quasi tutte le tracce del disco con immagini piuttosto nitide. Tre esempi su tutti: Voglio Invecchiare Male (feat. Management), Johnny (feat. Fast Animals and Slow Kids) e 118 (feat. Claudio Santamaria). In quest’ultima emerge proprio la stoica amarezza degli ultimi, di chi ha toccato il fondo e sa di essere usato dagli altri come termine di paragone per sentirsi meglio con se stessi. La voce di Claudio Santamaria è un contributo perfetto e rende la canzone particolarmente toccante e in un certo senso inquisitoria. 

Insomma, un disco eclettico ed eterogeneo accompagnato da un unico fil rouge che apre la strada a diverse riflessioni e si conclude con un finale inaspettato ma incredibilmente azzeccato. Salut les Copains (feat. Musica da Cucina) è una traccia esclusivamente strumentale in cui una serie di suoni prodotti con strumenti musicali e strumenti culinari creano un’immagine evocativa. Provate a immaginare mentre l’ascoltate: siamo in un salotto, o in un giardino se preferite, già che si avvicina l’estate. Si sta facendo tardi e dopo una bella serata passata insieme i nostri amici devono andare a casa. Si sparecchia, si tolgono le posate, i bicchieri, le bottiglie. I suoni di questo scenario sono esattamente questa musica qua. 

Perché in fin dei conti anche le serate più belle, con la miglior compagnia, prima o poi finiscono.

 

The Zen Circus

Cari Fottutissimi Amici

Capitol / Universal

 

Francesca di Salvatore