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L’ultimodeimieicani “Ti Voglio Urlare” (Pioggia Rossa Dischi, 2019)

Ballare sul pessimismo

 

Ti Voglio Urlare de L’ultimodeimieicani è un album strano, ovviamente in senso buono. 

È uno di quegli album che sembra voglia lanciarti addosso pessimismo un tanto al kg, ma lo fa con un sound che al tempo stesso ti fa venire voglia di ballare in modo casuale e senza riflettere. È questa la sensazione che si ha quando si ascolta Everest, ad esempio: un ritmo energico e incalzante su cui la voce canta “ogni volta che ti guardi allo specchio, ti senti un minuto più vecchio”. 

È anche un album onesto, che non edulcora niente, quindi è normale che dopo averlo ascoltato ti rimanga nelle ossa una sensazione di spossatezza, proprio come quando di colpo smetti di ballare e inizi a pensare.

Questo è il primo LP della band genovese, uscito sempre per Pioggia Rossa Dischi a quasi 3 anni di distanza dal loro EP di esordio, In Moto Senza Casco, e anticipato da ben cinque singoli. Il primo, Pensione a 20 Anni, è uscito l’8 marzo scorso e per l’occasione le strade della loro città sono state ricoperte di tanti volantini gialli. La provocazione dietro alla canzone è inequivocabile: esiste un rischio fondato di scegliere a vent’anni un percorso che non è quello giusto per noi, ritrovandosi così imprigionati in una vita monotona e che non sentiamo nostra. Da qui l’idea di iniziare a lavorare solo più avanti, forse con le idee più chiare e una testa più matura.

Pensione a 20 anni è stato seguito poi da Sirene, Gelato — singolo che conta anche la partecipazione del giovane rapper genovese Canca — e Ciao. Quest’ultimo vuole raccontare la fine di una relazione nascosta dietro a un saluto così banale, “quel momento in cui vorresti dire tante cose, ma ti escono solo quelle quattro lettere”, come scrive la stessa band su Instagram. Chiude la fila Cosa vuoi cambiare, uscito due settimane prima dell’album.

Particolare attenzione è data anche il rapporto con le proprie città, spesso definite provinciali e, sembra, a tratti soffocanti. È un rapporto di amore-odio, come quello che si sente in Sirene oppure Provincialismo, perché alla fine sono proprio loro, le nostre città, nonostante un certo disprezzo, che contribuiscono a renderci quelli che siamo.

Ti Voglio Urlare è quindi il ritratto di chi si ritrova fermo immobile in un presente insoddisfacente, di chi si sente “come macchine ferme a guardare i semafori verdi”, di chi desidera un cambiamento che spezzi la monotonia e che invece, purtroppo, pare non arrivare mai.

Ma forse riconoscere l’immobilità è già un primo passo per iniziare a muoversi.

 

L’ultimodeimieicani

Ti Voglio Urlare

Pioggia Rossa Dischi, 2019

 

Francesca Di Salvatore

Sunset Sons “Blood Rush Déjà Vu” (Bad Influence, 2019)

Esiste un luogo in Europa, una lunga striscia di terra bagnata dall’Atlantico, che è il paradiso dei surfisti del Vecchio Continente. Verso la fine degli anni novanta la mia grossa tavolona bianca e viola si muoveva lungo l’asse che da Hossegor, Francia, portava fino a Zarautz, Spagna, passando per Biarritz e San Sebastian. Erano anni spensierati, in cui il surf regalava alla storia della musica personaggi come Eddie Vedder e Anthony Kiedis, film come Point Break, e io trovavo la pace cosmica in un’adolescenza, ovviamente, travagliata.

Leggere che i Sunset Sons, ragazzoni di madrelingua inglese (un po’ aussie e un po’ brit), hanno preso casa proprio a Hossegor, mi ha subito incuriosito. Anzi, a dirla tutta hanno una storia degna di una pinta davanti a un caminetto. Comodi, per favore.
Una sera di una calda estate il batterista Jed Laidlaw incontra un amico maestro di tavola in un bar, Le Surfing (ma guarda un po’), dove sta tenendo un personalissimo show nientemeno che il lavapiatti. Il giovine però è dotato e viene notato. E strappato a un destino crudele e privo di gloria. Al secolo Rory Williams, entra in un mondo fatto di adrenalina e di musica. I due, insieme a Robin Windram (chitarra) and Pete Harper (basso), collezionano date nei posti più incredibili, macinano chilometri e concerti, tutto per finanziarsi una endless summer all’europea: in inverno si stabiliscono in Val d’Isere, per la stagione di snowboard, in estate tornano a ovest, a Hossegor, per il surf. Scendono dalle tavole per salire sui palchi e viceversa e questo ha, come effetto secondario, che diventano piuttosto bravi e nel 2016 esce un primo disco, Very Rarely Say Die, che riscuote un buon successo. Iniziano a viaggiare più per la musica che per lo sport e lentamente si trasformano in una band con alle spalle qualcosa come 250 live. Aprono i concerti degli Imagine Dragons e dei Nothing But Thieves, e poi capita anche che il materiale prodotto tra una data e una uscita in mare porti a produrre un secondo album, Blood Rush Déjà Vu.

Musicalmente sono molto affini alle band con cui hanno collaborato, anche se i Kings of Leon rimangono il riferimento più chiaro e evidente.
È un disco malinconico, che guarda al passato, soprattutto alle relazioni che finiscono , e che ci regala qualche momento di affettuosa redenzione e gioiosa nostalgia. Il batterista Laidlaw lo inquadra quasi in modo Felliniano: “In the summertime the population quadruples and it’s just the happiest place. But like a lot of coastal towns, in winter time it’s dark, rainy and there’s a real sense of isolation.”
Questi i confini dell’immaginario dei nostri ragazzoni. 

Il disco nasce inizialmente in uno studio creato nella casa del cantante Williams, dove, nell’arco di sei mesi, vengono composte un numero incredibile di canzoni, pare, con altrettanti stili diversi. I quattro hanno radici diverse e culture musicali che vanno “accordate”. Entrano in scena quindi Catherine Marks ( producer di Wolf Alice, The Amazons) e un nuovo chitarrista, Henry Eastham, e l’album prende forma, identità e infine vede la luce.

È un lavoro più maturo e più ricco, rispetto all’album di esordio. Il singolo che precede l’uscita dell’LP, Heroes, è in questo senso paradigmatico. E’ il frutto di una collaborazione tra i vari membri della band, ma anche delle ore spese sul palco nelle session live. C’è più gusto e mestiere e qualche astuzia di postproduzione.
Personal giudizio: band come questa vanno valutate in quello che sanno fare meglio, ossia stare su un palco, perché sono nate in un bar di surfisti e non in conservatorio, perché è gente abituata alle onde, alla neve, alla buona birra. Quindi, dopo aver apprezzato il disco, godeteveli dal vivo, quella è la vera dimensione dei Sunset Sons. 

 

Sunset Sons

Blood Rush Déjà Vu

Bad Influence, 2019

 

Andrea Riscossa

Bad Wolves “N.A.T.I.O.N.” (Eleven Seven Music, 2019)

(Lupacci metallari con un cuore malinconico)

 

Le persone si dividono in due gruppi: c’è chi pensa alla California come paesaggi mozzafiato, viali costeggiati da palme, mare fantastico e tramonti indimenticabili e poi c’è l’altro gruppo, quelli a cui vengono in mente Deftones, A Perfect Circle, Rage Against The Machine, System Of a Down, Incubus, Linkin Park, Papa Roach, Korn, Alien Ant Farm.

Terra buona o aria fresca, non si conosce ancora la ricetta per sfornare grandi artisti, sta di fatto che la California ci ha regalato una bella sorpresa anche stavolta, i Bad Wolves. 

Si son fatti notare nel 2018 con una cover metal di Zombie, de The Cranberries: alle parti vocali avrebbe dovuto partecipare Dolores O’Riordan, che sfortunamente ci ha lasciati troppo presto, e il gruppo ha così inserito nel video un tributo all’eterna cantante dei gruppo irlandese.

La prima bomba del nuovo album N.A.T.I.O.N. l’hanno lanciata ad agosto, I’ll be there: una presentazione in gran stile dei loro intenti. Disincanto e Metal Style since 2017, questi ragazzotti del Golden State vogliono dimostrare la loro crescita rispetto al loro primo album, Disobey, con un brano che incita a non arrendersi mai, non cambiare quello che si è per piacere agli altri.

Dopo il primo singolo hanno continuato a bombardare la scena metal con pezzi notevoli, sia a livello musicale (metal melodico/scream depresso, malinconico e incazzato) sia a livello di contenuti. Canzoni tipo Learn To Walk Again, che esprime massime tipo ride or die, cavalca o muori, affronta le difficoltà, cadi se necessario, ma rialzati sempre.

Come fossero consigli tra amici di una vita, con questo secondo pezzo dell’album tentano di entrare nella profondità dei disagi emotivi dei fans spaccando le barriere a suon di chitarre elettriche indiavolate, batteria dinamica, e parti vocali con deliziosi passaggi tra melodico e scream.

La loro anima rissosa e metallara esplode in No Messiah, rivendicando la loro appartenenza musicale e scagliandosi contro band che pur di inseguire la notorietà cambiano genere a seconda delle tendenze del momento.

Killing Me Slowly, racconta l’insicurezza di un amore, dove i nostri modi di reagire alle situazioni e la sfiducia verso quello che si è inficiano sulla nostra vita amorosa: l’amore che si trasforma in omicidio-suicidio, un tira e molla che lacera ogni parte della nostra anima.

La tematica dell’amore difficile prosegue in Better Off This Way, dove ci straziano il cuore con una melodia malinconica, una canzone per una storia finita che porta con sé il sapore amaro per la delusione e il dolore. Sanno emozionare, con un bell’assolo sul finire del brano, e la voce di Tommy Vext così delicata e in alcuni passaggi possente, per sottolineare la dualità dell’essere.

Da un’estremo all’altro. Balziamo in un metal pesante old school, rullanti caldi, chitarre elettriche e scream. Foe or Friend, entra a sfondamento in un’atmosfera malinconica e triste portando distruzione e desolazione, parlando di carcere, di droga e di vite spezzate. 

Sober, subito dopo, ci sbatte in una storia di alcolismo, con una ballata rock, melodica, che sfiora un po’ il melenso. L’onda pop rock contagia anche in Back in the Days, aperta critica verso il mondo del commercio e produzione della musica. 

L’album si inizia a riprendere dalla botta di malinconia con The Consumerist, in cui si scaglia contro il consumismo, come male fatale per la nostra società che tende a depersonificarci.

Anche Heaven so Heartless è marchiata dalla malinconia e dalla sensazione di essere intrappolati in un sistema nel quale non ci rispecchiamo, e preghiamo per una via d’uscita, già sapendo che non esiste.

Ma la tristezza è contagiosa, e inquina anche Crying Game, che rivela la sua potenza sul finire del brano con un assolo di chitarra godibile.

Fortuna che L.A. Song esce completamente da questo alone di malinconia. Ci lasciano con un bel pezzo metal, un brano omaggio-offesa a Los Angeles, ormai diventata la valle della falsità, la Terra Promessa degli artisti.

Nel primo album i Bad Wolves ci hanno dimostrato che sanno fare musica. Nel secondo, invece, che possiedono un lato malinconico (e forse anche romantico). 

 

Bad Wolves

N.A.T.I.O.N.

Eleven Seven Music, 2019

 

Marta Annesi

Saint Asonia “Flawed Design” (Spinefarm Records, 2019)

(I santi senza orecchio musicale)

 

Ci sono un cantante, un chitarrista, un bassista… No, non è l’inizio di una barzelletta, ma la formazione di un supergruppo (cioè una superband composta da musicisti già famosi in altri gruppi) canadese/statunitense che porta il nome di SAINT ASONIA.

Alla voce il già conosciuto Adam Wade Gontier (fondatore dei Three Days Grace), Mike Mushok alla chitarra (Staind), al basso Corey Lowery (Seether, Eye Empire) e fino al 2017 alla batteria era presente Rich Beddoe (Finger Eleven).

Nel 2015 debuttano con l’album Saint Asonia, stilisticamente post-grunge, e mantengono questa tendenza anche nel nuovo lavoro Flawed Design. Ci sono voluti due anni per il completamento, ma come asserisce il cantante, ha passato delle situazioni spiacevoli e ha condensato nei brani tutto il suo dolore. Questo ha contribuito a rendere l’album migliore, più personale, e stilisticamente più maturo del primo. L’aria che si respira è totalmente post-grunge, o alternative rock (come la si vuol chiamare). Il loro modo di fare musica è consolidato, chiaro e armonico, non sono ragazzini che si approcciano per la prima volta, ma possiedono esperienza e carisma. 

Singolo di debutto è The Hunted, in collaborazione con Sully Erna (Godsmack), brano molto intimo, nel quale ci troviamo a vestire i panni del cacciatore e della preda, fuori controllo, ma consci dei difetti con i quali conviviamo, cerchiando una tregua alla guerra che noi stessi abbiamo iniziato con il mondo. 

Ci fanno entrare nel loro universo con Blind, storia di un’amore finito. Descrivono quella situazione amorosa in cui l’altro/a riesce ad accendere una luce in noi, e quando il sentimento finisce rimaniamo accecati da tutta quella luce che man man si spegne, consegnandoci alle tenebre della cecità.

Sirens, secondo brano, viene da un’idea di Steve Aiello (Thirty Second To Mars) e Dustin Bates (Starset) e deve  la sua potenza emotiva anche alla partecipazione nei cori di Sharon Den Adel (Within Temptation); con questo brano ci fanno intravedere un amore coraggioso, forte, che se ne frega dell’imminente fine. E forse la morale della vita è proprio questa: trovare qualcuno con il quale cadere, perché siamo tutti in caduta libera, ma farlo in due non è poi così male. (We were born to resist if it falls\ Come with me, we will rise\ Can I believe it tonight?)

A rendere l’album molto intimo ci pensa This August Day, personale monito dello stesso cantante ad un sé stesso del tempo passato. Alla nascita di suo figlio lui era ricoverato in un centro di riabilitazione, essendo dipendente da alcol e droghe: con questo brano cerca di esorcizzare questo rimpianto, con il quale dovrà convivere con il resto della sua vita.

In Ghost troviamo ancora lo zampino di Dustin Bates, brano in cui la band rende ancora più reale questo bisogno di essere capiti, di avere qualcuno accanto per cui valga la pena cadere e frantumarsi. Ma alcune volte sono proprio le persone a cui ci aggrappiamo che svaniscono, lasciandoci il ricordo, un fantasma che si ostina a guardarci senza offrirci aiuto.

La canzone più rappresentativa di questi due anni di lotte contro la dipendenza dalle sostanze è Beast, descrizione perfetta della lotta contro la bestia presente nella vita cantante, bestia che cercava in tutti i modi di sopraffarlo, della sua voglia di riabilitarsi al mondo e di vivere a pieno gli affetti che contano davvero. The Fallen, dedicata a chi come lui è caduto, ha perso tutto quello che era importante e rimangono solo i ricordi.

Dopo Another Flight, in cui perdere alcune occasioni della vita è rappresentato dal perdere un volo, troviamo Flawed Design, che da il nome all’album ed esplora il motivo per cui le persone sentono il bisogno di presentarsi come quello che realmente non sono. La ricerca di perfezione in cui la gente disperde la propria personalità è il cancro della società e l’unica arma che possediamo per contrastare questo modus operandi è essere sé stessi, con tutti i nostri difetti, perché sono proprio essi a renderci particolari.

Adam canta per i caduti, i reietti, per chi ha toccato il fondo. Cerca di portare speranza a chi non ne ha, come un moderno Babbo Natale dei perdenti. Con la sua voce pulita ci canta di battaglie perse, rimpianti, design imperfetti, giustificazioni che cerchiamo di dare e martiri contemporanei. Lui è stato sul fondo del pozzo, è riuscito a risalire lasciandosi alle spalle i cadaveri dei rimpianti. 

 

SAINT ASONIA (SΔINT ΔSONIΔ)

Flawed Design

Spinefarm Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Norma Jean “All Hail” (Solid State Records, 2019)

(Sempre sia lodato il metalcore!)

 

Le cose non sono mai come le vedi. La filosofia (o follia?) dietro ai Norma Jean è intrigante. 

No, non si parla della famosa Norma Jean (in arte Marylin Monroe) ma di una band cresciuta nei sobborghi di Atlanta. Iniziano a farsi notare nel 1997, all’attivo contano sei album, e hanno sempre posseduto un’anima profonda con la quale filtrano la loro visione del mondo, rendendocela attraverso la musica e i testi per condurci in un universo fatto di riflessi, di complotti e di pseudo-utopia.

All Hail, rappresenta un’idea, un pensiero derivato dalla loro crescita, uno strumento per comunicare un messaggio attraverso il metalcore.

Cosa c’è dietro allo specchio? È solo un riflesso oppure ha vita propria? E se esistesse una vita all’intero, parallela alla nostra? Oppure siamo noi il riflesso, e la realtà è dall’altra parte?

Questa la filosofia alla base dei nuovi brani, che dona un’aurea di inquietudine e dannazione al disco.

Ci scaraventano in un bel trip, impattando con l’intro di Orphan Twin, primo brano dell’album, battaglia di batteria e chitarra elettrica, accompagnata da una voce calda, confortante. Il ritmo degli strumenti si scatena, ed il tono del brano cambia, l’eterna lotta tra bene e male, tra il canto delicato e uno scream graffiante. Il riflesso, e il mondo dell’altra parte.

Dipingono un mondo decadente, che sta per collassare, una terra maledetta, dove gli eroi sono dei bugiardi, e la loro presenza non serve per salvarci, ma per sottolineare quanto gli esseri umani siano perdenti, malvagi, nel brano Landslide Defeater.

Questo clima di insoddisfazione e crisi si ripercuote anche in [Mind Over Mind] in cui la morte è una rinascita, dove lottare per un futuro migliore è un’utopia. Tutto è circolare, ci porta all’abbattimento morale, e questa è un’arma pacifica per stroncare la nostra anima.

I testi presenti in questo ultimo album sono molto complessi, quasi dei saggi sull’interpretazione del mondo da parte del gruppo, dove esplicano la loro personale visione di situazioni specchio (Cosa c’è dentro? Che cosa è fuori?), riflessi dannati che tramite la morte risorgono alla vita, ad una nuova possibilità di essere. Esempio di questo è Safety Last, in cui sogni e incubi sono reali, e distruggere tutti i rapporti velenosi è l’unica soluzione per allontanarsi, per non incontrarli di nuovo.

Attraverso uno stile metalcore melodico ci trasportano attraverso lo specchio con /with_Errors, dove incontriamo la nostra nemesi, cioè noi stessi, e ci invitano a far pace con il nostro avversario, dimostrando che il peggior nemico siamo proprio noi stessi. 

L’apice di questa interpretazione distopica è per l’appunto raggiunto in Trace Levels of Dystopia, manifesto della band, la quale crede fermamente di un futuro con risvolti negativi sia sul piano sociale che politico. L’umanità sta andando verso una catastrofe, tutto si sta distruggendo, e lo comunicano con un brano estrememante metalcore, colmo di scream, chitarre elettriche, batterie  pesantemente pistate.

Nel disco troviamo anche una canzone dedicata alla scomparsa, il giorno dell’inizio della registrazione dell’album, di una loro fan poi diventata loro amica, Anna: un brano turbolento e malinconico, tributo alla memoria di una ragazza simbolo delle centinaia che popolano i concerti del gruppo.

L’intenzione della band è gettarci nella loro concezione di realtà, di confondere le nostre sicurezze, fino ad instillare nelle nostre menti un dubbio, usando il metalcore per rendere tutto estremamente spiazzante e reale. 

 

Norma Jean

All Hail

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

La Scala Shepard “Bersagli” (Cubo Rosso Recording, 2019)

Canzoni d’autore distorte

 

Parole in sottofondo e poi uno scoppio improvviso di energia, tra chitarra e batteria: esordisce così Bersagli, il primo LP della band alt-rock romana La Scala Shepard, registrato presso gli studi della Cubo Rosso Recording.

L’album è stato anticipato da due singoli, Potesse Esplodere Questa Città e Camera con Vista, molto diversi nella forma – il primo caratterizzato da un ritmo quasi ossessivo mentre il secondo ricorda più una ballad – ma non nella sostanza. Sono infatti la paura e una solitudine declinata in varie forme a dominare, ma non solo in questi due brani: esse ci prendono infatti per mano e ci accompagnano lungo tutte le dieci tracce del disco.

C’è la solitudine di Paranoia, quella che usiamo come scudo quando tenere le distanze dagli altri ci sembra più sicuro che apparire vulnerabili, ma c’è anche quella di Groove 2 o Via Dupré, dove l’assenza della persona fa stare male, ma nonostante tutto non si riesce – o forse non si vuole – dimenticare, perché questi ricordi sono tanto dolorosi da tenere quanto da lasciare andare.  

Ma non solo di solitudine si nutre il disco: emergono anche un forte sentimento di smarrimento, di immobilità nei confronti di una vita che non si riesce ad affrontare. In Giro di Giostra si affaccia, inoltre, l’idea del crollo e tuttavia dover resistere, ma questa resistenza non viene esattamente apprezzata. Anzi, viene definita una sconfitta, come se lasciarsi andare, provare anche odio o comportarsi da stronzi ogni tanto sia proprio ciò che ci rende umani.

Quelli di Bersagli sono dunque testi che scavano nel profondo di ognuno di noi, ma a cui spesso e volentieri si accompagna un sound elettronico, distorto e sintetizzato a regola d’arte, anche se non mancano melodie più classiche come quella intonata alla fine di Dall’Altra Parte. Probabilmente è proprio questo mix particolare ed equilibrato di cantautorato e distorsioni, il tutto accompagnato da influenze direttamente dall’alt-rock inglese, a far distinguere La Scala Shepard sulla scena indipendente italiana.

La chiusura dell’album è affidata alla traccia che fa anche da titolo, Bersagli. 

Ma cosa sono, alla fine, questi bersagli?

Siamo noi quando decidiamo di non mostrare i nostri veri sentimenti, quando piuttosto che mostrarci vulnerabili creiamo una corazza di orgoglio che ci sembra inscalfibile ma in realtà fa solo danni. 

In dei conti, “sbattere il cuore in faccia” a chi ci ferisce può soltanto che aiutarci a guarire.

 

La Scala Shepard

Bersagli

Cubo Rosso Recording, 2019

 

Francesca Di Salvatore

The Softone “Golden Youth” (Self Released, 2019)

Dalle pendici del Vesuvio arriva un album carico di emozioni, di sonorità delicate accompagnate da una voce particolare e rilassante.

Giovanni Vicinanza in arte The Softone torna sulla scena musicale dopo cinque anni di pausa ed emozioni (positive e negative) da condividere. Autoprodotto, questo album è stato ispirato dai paesaggi vesuviani, ma mixato e chiuso a Milwaukee, negli USA.

Un cantautore vecchio stampo, che ci regala un album colmo di sensazioni reali, uno spaccato di vita vera.

Un full length di 12 pezzi che si apre con un’Intro (tema armonico del quinto pezzo I Wish), e chiude con un’Outro, in cui affronta varie tematiche con uno stile pop folk, acustico, e con l’ausilio di vari strumenti (violino, pianoforte, chitarra acustica) che conferiscono un’atmosfera intima, privata.

Il secondo pezzo è Alone and Weird, in pieno stile pop, il quale possiede un ritmo e una positività derivante dalle lacrime degli angeli caduti, che ripuliscono l’anima dell’artista per purificarlo e permettergli di  intraprendere questo viaggio (dell’album), infondendo la forza e l’incoraggiamento per comunicare all’ascoltatore le sue più profonde emozioni.

Vicinanza ci spiega subito che questa forza da cui attinge proviene da un lutto recente, la morte della madre, alla quale dedica una preghiera straziante e al contempo dolcissima, Sweet Mom, resa ancor più malinconica dall’assolo di sax.

In contrapposizione alla perdita e al dolore, ci propone però anche la gioia di un dono sceso dal cielo per alleggerire questa perdita inestimabile, Little Star, in cui ci trasmette la felicità della paternità usando uno stile blues.

La nostalgia per il passato, per una giovinezza perduta, la brutalità del diventare adulti, è espressa intensamente in Golden Youth, pezzo che da nome all’album. Il concetto della malinconia per l’adolescenza, i bei ricordi e la leggerezza di questa età è presente anche in The Place. L’era della spensieratezza lascia una scia di tristezza però quando ci rendiamo conto delle scelte che abbiamo fatto, delle situazioni che ci siamo lasciati sfuggire e di quel tempo che non tornerà più.

L’età adulta arriva senza quasi che ce ne accorgiamo, portando con sé perplessità sulle decisioni che abbiamo preso, sulla strada che abbiamo imboccato: spesso ci domandiamo se potevamo fare di più, essere di più, e l’artista, in Still Believe, mette in evidenza questi dubbi esistenziali, cercando rassicurazioni. Sulla stessa tematica di insicurezze esistenziali è Lost Memories, un monito che il cantante fa se stesso, per tutte quelle volte che ha preferito la vita effimera, allontanandosi dalle cose concrete.

Psycho Visions, sul finire dell’album, è un pezzo a metà strada tra i Pink Floyd e Brian Eno, un viaggio mentale per sfuggire dalla realtà, una visione extracorporea dell’anima intenta a vagare nello spazio-tempo.

In questo suo album, Giovanni Vicinanza crea un universo di emozioni composto da pianeti di sofferenza, via lattee di malinconia e soli di felicità. Il tutto immerso in un’atmosfera pop-folk-rock dove lascia intravedere la sua anima umana, colma di dolore e sazia di gioia.

 

The Softone

Golden Youth

Self Released, 2019

 

Marta Annesi

Toothgrinder “I AM” (Spinefarm Records, 2019)

Mascelle serrate e denti digrignanti

 

La notte non porta sempre consiglio, alcune volte provoca forti attacchi di bruxismo, soprattutto in periodi stressanti o in condizioni patologiche di abuso di sostanze eccitanti (fumo, alcool, droghe, caffeina). 

I Toothgrinder volevano comunicare questo con la scelta del loro nome: un metal graffiante, velenoso, virulento; un’offensiva al nostro sistema nervoso, con uno stile che ci getta in un mondo fatto di growl, batterie incalzanti e assoli allucinogeni.

Nel 2010 cinque ragazzi in una high school del New Jersey decidono di metter su una band per urlare il loro disagio generazionale, e nel giro di un anno esce il loro primo EP Turning of the Tides, seguito da altri due EP prima di arrivare alla svolta, nel 2016 con l’album Nocturnal Masquerade e nel 2017 con Phantom Amour.

I brani con cui hanno esordito sono colmi di scream e di testi duri, puro posthardcore, per subire una trasmutazione con l’avvento dell’età adulta e della consapevolezza di sé. 

Come un fiume nasce dalla fonte e affronta anse tortuose e rapide improvvise prima di sfociare nel mare, questa band ha acquisito una maturità stilistica che ha permesso di sfruttare questo genere musicale non solo per comunicare rabbia e frustrazione, ma soprattutto per trasmettere una visione di cambiamento e di crescita passando gradualmente a toni più pacati, più melodici, senza però modificare la loro natura metalcore.

Questa trasformazione li ha portati alla produzione di I AM, un album complesso, composto da undici brani che sembrano ripercorrere i vari stadi della loro evoluzione. 

Il frontman Justin Matthews lo ha definito come un viaggio per l’accettazione di sé, un percorso ad ostacoli, costellato di errori, di scelte sbagliate, di cattive abitudini nelle quali riversare il disprezzo e la disillusione adolescenziale.

Le intenzioni sono chiare sin dal primo brano, The Silence of a Sleeping WASP. Le doti vocali del cantante ci trasportano nella loro visione di progressive metal, fatta di growl mista a passaggi melodici delicati accompagnati da un sottofondo musicale fortemente posthardcore.

La dolcezza della voce di Justin è straziante nei brani ohmymy e My favorite Hurt, ed unisce testi intimi che parlano di solitudine, di dolore ma anche di amore. Con un timbro che, in alcuni passaggi e soprattutto nel terzo brano, scade nel pop,  riprende lo stile heavy sul ritornello con assolo di chitarra a dir poco sbalorditivo: una bivalenza che ricorda molto Corey Taylor (Slipknot e Stone Sour), unito ad uno stile molto Deftones. 

L’album continua alternando pezzi melodici a brani dalle sonorità coriacee. Una montagna russa di emozioni dove si passa dalle lacrime al pogo sanguinolento, come per The New Punk Rock e too soft for the scene, TOO MEAN FOR THE GREEN, pezzi ritmicamente metalcore, caratterizzati da  growl e headbanging a volontà. 

Gli ultimi due brani (Can Ü Live Today? e The Fire of June) sono un ritorno alle loro origini, un progressive metal che sfocia nel nu metal, come per ribadire il forte attaccamento allo stile con cui sono nati. Si cresce, si cambia, ma quel che siamo stati non ci abbandona mai. 

I AM è l’ultimo pezzo dell’album. Scelta tattica del gruppo, forse, visto che in esso risiede il senso più profondo di tutto il loro lavoro. Il testo incarna un mantra, “io sono…”, che spinge a far pace con il passato, con gli errori commessi; porta a concedere un’ulteriore possibilità a noi stessi, imparando dalle debolezze a essere più forti. Quello di cui abbiamo bisogno risiede già dentro noi, dobbiamo solo trovare un modo per riscoprirlo. Tutti possiamo raggiungere il riscatto emotivo che meritiamo solo attraverso l’amore (Love will conquer all). 

Attraverso uno stile musicale notevole e mutevole l’album trabocca di tutte le emozioni umanamente concepibili, una catarsi personale coinvolgente che dona speranza e sano metalcore spaccatimpani.

 

Toothgrinder

I AM

Spinefarm Records, 2019

 

Marta Annesi

 

The Devil Wears Prada “The Act” (Solid State Records, 2019)

Sacro & Profano

 

Mai giudicare un libro dalla copertina, sia in senso metaforico, che in senso pratico.
The Devil Wear Prada, gruppo originario di Dayton, in Ohio, hanno l’aspetto tipico dei metallari ribelli: capelli lunghi, tatuaggi, abiti neri, rabbia che sprizza da tutti i pori. Eppure, sono uno dei maggiori esponenti del Christian metal. Ferventi cristiani, hanno intitolato un loro album 8:18 come riferimento ad un passo biblico della Lettera ai Romani di Paolo di Tasso.

La scelta del nome è nata come una cantonata: ispirati dal titolo del libro dell’autrice statunitense Lauren Weisberger, volevano comunicare un messaggio anti-materialistico, peccato però che ne abbiano frainteso completamente il senso. Una volta scoperto di aver preso un granchio, si sono però rifiutati di cambiare nome decidendo di creare un nuovo significato dietro al nome della loro band.

Formatisi nel 2005, hanno subito riscosso successo sia nell’ambiente del metal cristiano che nella scena metal in generale, fondendo due mondi apparentemente sconnessi, portando la dottrina cristiana all’interno dei loro testi e usando questi insegnamenti per combattere la depressione e lo scoraggiamento verso la vita.

(Certo è che se mia nonna, durante la messa domenicale, trovasse questi quattro tipacci coi capelli lunghi e pieni di tatuaggi intenti a cantare Osanna rimarrebbe un pochino sconvolta)

Dopo sei album registrati in studio, un live e due EP all’attivo, tornano con un album nuovo, The Act. Sperimentale, innovativo, molto diverso dal loro stile primitivo. Non si parla solo di crescita personale dei componenti e del loro modo di intendere la musica: qui troviamo una voglia di intraprendere strade nuove, di cimentarsi in un nuovo progetto allontanandosi dalla comfort zone del metalcore per addentrarsi in uno stile più melodico. E non solo nella composizione musicale: i testi presenti in questo nuovo album sono poetici, profondi, trasformandosi più in una lettura di poesia con aggiunta di growl e assoli di chitarra. 

La presenza di due voci, quella scream di Mike Hranica e quella melodica di Jeremy DePoyster (che imbraccia anche la chitarra ritmica) riescono a comunicare la bivalenza del gruppo.

L’album è il risultato di una sovrapposizioni di generi: hardcore punk, heavy e nu metal fusi insieme da passaggi electronic che producono in alcuni brani una sorta di electronicore melodico.

Il primo singolo, Lines Of Your Hands, mantiene le solide radici metalcore a livello di sonorità, ma il testo è una disperata preghiera, una richiesta di attenzioni e di amore verso qualcuno che si sta allontanando. La dolcezza delle parole in forte contrapposizione con l’uso dello scream e del growl tende quasi a mettere a disagio, come in generale per le band metal: non si capisce mai se stiano parlando di amore o di omicidio.

L’album tocca la delicata tematica della depressione con Chemical, chiamata così in quanto per alcuni questo stato mentale è derivato da uno scompenso chimico a livello cerebrale. Il testo e la melodia sono delicatissimi e colpiscono nelle zone più intime dell’anima: una descrizione dettagliata della depressione, come star seduti a fissare il soffitto senza trovare una motivazione sufficiente che ci faccia alzare dal letto, congelati, immobili, quando anche urlare non aiuta. Accusare una voragine nel petto e nella testa, e sentirsi ripetere che è solo chimica. Di certo non ci fa star bene, è una bugia che preferiamo raccontarci, ma mentire non ci preserva dalla sensazione di avere una belva che ci divora dall’interno. 

La loro cristianità si fa notare in Please Say No, brano contro l’abuso di droga, e in un certo senso contro ogni forma di abuso, mentale e fisico. Musicalmente presenta una base  elettronica soft, con aggiunta di chitarra e batteria, ma come classico di questo album, la canzone si fonde tra poesia e preghiera, intramezzata da picchi scream che creano un’ambiente particolare in cui sguazzare.

La bivalenza di questo gruppo lascia interdetti: si passa da una preghiera ad un potente attacco metalcore in The Thread, dove si parla della voglia di cambiare e della sensazione di non poterlo fare, come se fossimo tutti intrappolati dentro stereotipi che noi stessi creiamo. La fusione tra le voci scream e melodica è un’esperienza mistica.

Come moderni Colombo alla scoperta delle Americhe, sono riusciti ad attraccare su terre a loro sconosciute, si sono messi in gioco, producendo un album fuori dai loro schemi, abbattendo lo stereotipo stesso del metallaro.

(Però io il metal cristiano non lo capisco. Ogni volta che ne sento parlare nella mia testa parte sempre l’intro dell’ Ave Maria di Schubert versione metal, con tanto di batterie che scendono magicamente sull’altare, statue che prendono fuoco, fonti battesimali che si prosciugano e crocifissi che si capovolgono)

 

The Devil Wears Prada

The Act

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Sleepwait “Sagittarius A*” (Self Released, 2019)

L’Album de Loin

 

XII secolo, Francia.
Il poeta e trovatore Jaufré Rudel regala al mondo uno dei primi componimenti su un topos che arriverà intatto, per forza evocativa e diffusione di esperienza, fino ai nostri giorni. Lui lo chiama L’Amour de Loin, ovvero L’Amore di Lontano, quello che un quattordicenne qualunque esperimenta a settembre, quando deve separarsi dalla conquista estiva, sfortunatamente domiciliata in altra regione.

La lontananza, in amore, è un’arma ben affilata. E’ una sana palestra per l’esplorazione del sentimento nella sua essenza, ripulito e alleggerito dal peso di quotidianità, dispiaceri, fatiche. L’assenza è meditazione, la negazione diventa sublimazione.

Partiamo da qui, per parlare di un altro tipo di esperienza, nato e vissuto in e con lontananza. Un progetto che prende vita nel 2015, quando un biologo evoluzionista, Filippo Bravi, e un ingegnere meccanico, Mauro Chiulli, si trovano, rispondendo a un annuncio sul web. Inizia una collaborazione a distanza, di Udine il primo, a Bologna il secondo, che vede i Nostri lavorare al loro primo disco per quattro lunghi anni. La lontananza tra i due però è solo geografica. Hanno un terreno comune, che non ha fisicità e che si nutre di passioni e culture condivise e che è possibile rendere materico, con devozione, con lavoro, con volontà. La stessa forza che Rudel profuse nel raccontare quell’amore lontano, che lui raggiungerà partecipando alla II crociata (e, ovviamente, morendo tra le braccia dell’amata, ça va sans dire).

Qui non ci sono crociate, ma un lavoro ben confezionato, con strumenti e liriche coerenti rispetto ai riferimenti citati dagli Sleepwait nella presentazione dell’album, Tool, Mastodon, Alice in Chains. Ecco, questo disco ha il pregio di essere figlio di quel gusto, di quelle linee matematiche e quell’iconografia musicale. Ha però il difetto di essere in qualche modo chiuso in confini fin troppo definiti. Le prime due tracce ci introducono molto bene in questa strana dicotomia interna, perché se per un lato, per come è stato costruito, questo disco è un piccolo miracolo, dall’altro è a fuoco da subito. Sia chiaro, può essere un pregio, ma il gioco dei riferimenti è fin troppo palese, io amo l’ellissi.

La terza traccia è già la title track, e ci regala una fotografia piuttosto precisa di quello che poi è l’humus cui attinge l’intero lavoro: richiami alle ritmiche dei Tool, anche a livello di cambi e passaggi all’interno dello stesso pezzo. Un sapiente gioco di altalena tra l’aggro e il progressive, giocando sulle sfumature, arpeggi che sono promesse non mantenute e liquidissimi giri di basso. Il cantato passa dalla litania al gridato, giocando a nascondino tra livelli ed emotività. Maynard James Keenan docet. 

Poi accade che gli Sleepwait, dichiarati gli intenti e messe le carte in tavola, inizino a sciogliersi, come fosse un live. Curioso per un lavoro in remoto, però la mia pancia dice che le tre tracce successive, da Virgilio a Istanbul, sono le più interessanti, perché hanno più variazioni, perché sembrano aprire il ventaglio di citazioni. Giuro, ci ho sentito Tyler Bates della colonna sonora di 300.

Il lavoro prosegue poi tornando sui binari cari a Tool, A Perfect Circle, Kyuss. Il disco si appesantisce nella costruzione dei brani, forse si avvita sull’esposizione. Questo però spiega anche perché lavori come Fear Inoculum difficilmente verranno scelti per accompagnarvi in ascensore. Salvo non siate in un condominio di Ballardiana memoria.

Scrivere a distanza un album è impresa ardua, soprattutto per un’opera prima. Ai due autori il merito di aver impiegato il giusto tempo e la necessaria pazienza per confezionare un album con riferimenti chiari e di indiscutibile coerenza. La qualità c’è, si sente, si ascolta, si vede anche, nel gioco di immagini che evocano i testi. 

 

Sleepwait

Sagittarius A*

Self Released, 2019

 

Andrea Riscossa

 

Nick Cave and the Bad Seeds “Ghosteen” (Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019)

Se il termine resilienza è uno dei più abusati nel linguaggio corrente, e spesso anche nella narrativa afferente al rock, mai è stato più calzante, per contro, nel caso di Nick Cave.

L’eterno Nick Cave del dolore di vivere, della lotta alle dipendenze, il Nick Cave che suo malgrado pochi anni fa ha incontrato il vero dolore e più terribile, lancinante ed irrimediabile come quello della perdita di un figlio, era riuscito a tradurre la disperazione nel capolavoro precedente, Skeleton Tree.

E se le tracce di Skeleton Tree, già comunque scritte al momento della morte del figlio (precipitato da una scogliera di Brighton nel 2015 all’età di quindici anni) una volta riadattate sono state il mesto e silenzioso grido di dolore (ossimoro voluto) a seguito di quella sconvolgente perdita, Ghosteen pare essere l’elaborazione di quel lutto. Talmente aulica e magnificente, l’ultimo lavoro del poeta australiano-britannico d’adozione, diventa difficile anche da descrivere e recensire, perché tocca corde, nodi emotivi più o meno irrisolti che tutti abbiamo.

Lo stesso titolo, Ghosteen, allude neanche tanto velatamente ad un giovane uomo che si è fatto fantasma.

Alla vigilia dell’uscita del disco, Nick Cave ha descritto questo lavoro come un punto di arrivo nella propria maturità artistica: “Il primo album sono i bambini, il secondo i genitori. Ghosteen è uno spirito migrante”. 

Sembra esserci un filo conduttore tra le atmosfere di Skeleton Tree e Ghosteen, con quei pezzi con pochissima batteria ed atmosfere evanescenti, quasi lunari, ma questo album riesce ad essere, comunque — e qui sta l’incredibile abilità di Nick Cave — un’ulteriore novità.

Apre Spinning Song, per poi virare su una meravigliosa Bright Horses, che richiama Mermaids di Push the Sky Away, passando, tra le altre, dalle ipnotiche Leviathan e Ghosteen, fino all’ultima traccia, Hollywood: più di quattordici minuti di grido disperato ma sommesso, in cui si racconta, come in una novella straziante, come se si fosse davanti ad un camino, la perdita di un figlio invocando talvolta la propria — “I’m waiting for my time to come”, con il basso che, nel sottolineare la cupezza dell’atmosfera, diventa quasi marziale. In questo lavoro Nick osa, anche vocalmente, spingendosi su falsetti piuttosto inediti (ma non per questo meno riusciti) e il violino di Warren Ellis cede talvolta il proprio ruolo usuale al pianoforte e tastiere.

Nick Cave non è un artista facile e meno che mai lo è questo lavoro, ma è l’artista che riesce a toccare le corde più profonde, qualora un animo sia predisposto all’ascolto.

La sensazione è simile a quella che si prova ad un suo live, pur senza l’impeto dei live degli ultimi anni, dove il contatto con il pubblico è voluto, cercato, fisico, necessario. Durante queste messe in cui Cave assume il ruolo di ieratico celebrante in chiave dark, spesso gruppi di fan vengono invitati sul palco ed abbracciati, persi per mano, toccati un po’ come chi, dopo avere affrontato la più tremenda delle perdite, deve sincerarsi di avere sempre, così fisicamente presente, chi è in grado di raccogliere quel dolore così meravigliosamente sublimato. Speriamo succeda molto presto, perché assistere ad un live di Nick Cave è una esperienza quasi mistica. E noi no, non ti lasciamo, Mr. Cave.

The King is back.

 

Nick Cave and the Bad Seeds

Ghosteen

Ghosteen/Bad Seed Ltd., 2019

 

Katia Goldoni

 

Jennifer Gentle “Jennifer Gentle” (La Tempesta International, 2019)

La band Jennifer Gentle, progetto musicale di Marco Fasolo, vanta una storia musicale e professionale molto complessa, fatta di saliscendi e di cambi di formazione frequenti a cui si aggiungono le recenti esperienze di Fasolo come produttore per band del calibro di Verdena, Bud Spencer Blues Explosion e I Hate My Village. Queste ultime possono essere considerate il valore aggiunto di questo lavoro, il quale sembra porsi come il manifesto di una maturità cercata e quindi finalmente conquistata.

Jennifer Gentle è un disco corposo, sia per quantità di materiale – 17 tracce per un’ora piena di musica – che per complessità di struttura sonora, nonché concettuale: accompagna l’ascoltatore in un viaggio fatto di molti mondi musicali diversi. Ad un certo punto forse lo abbandona, tradisce le sue aspettative, lo fa sentire smarrito, gli lascia addosso un senso di incompiutezza, lo respinge quasi. Gli chiede scusa, lo riconquista, per poi schiaffeggiarlo ancora.

Questo album è un lavoro contraddistinto da una triplice natura: sono di genere ethereal wave i primi due brani, un’intro intitolata Oscuro e Just Because, il primo vero e proprio brano dell’album; dopodiché, da Beautiful Girl in poi, ci si sposta in uno spazio ritmico completamente differente. Si ha come la sensazione di entrare letteralmente in un club della Swinging London e lo stesso avviene per il brano immediatamente seguente, Love you Joe.

Con Temptation, invece, il gioco comincia a farsi un po’ più intricato: si assiste ad una vera e propria dichiarazione di intenti musicali, di una band i cui musicisti prediligono gli strumenti, la ricerca e la costruzione del sound, forse a discapito dei testi. Il ritmo del brano è martellante, ti fa dondolare su e giù la testa, oscillare il piede di una gamba accavallata; al contempo è come se questo sound, ben connotato nei suoi stilemi di genere – British Rock degli anni ’60 – fosse soffocato da una nebbia grunge, che eleva il tutto quasi a metafora. È come se ci fosse una cupa minaccia da temere, pronta a mettere in discussione le atmosfere spensierate che risiedono alla base del brano.

Guilty, il singolo che nei mesi passati ha anticipato l’arrivo dell’album, segna un cambio di atmosfera: il sapore si fa decisamente più giocoso e il tutto è impreziosito da un gradevole giro di basso, so fucking groovy.

Arriva poi la traccia Argento, breve e solo strumentale, che fa da spartiacque tra la prima metà dell’album e la seconda. Da qui in poi le due nature, da un lato quella dreamy e dall’altro quella tamburelleggiante da british invasion, si intrecceranno per un po’ fino poi ad arrestarsi bruscamente con le tracce What in the World, More Than Ever e My Inner Self. Il tono da qui in poi si fa più esistenzialista, a tratti angosciante.

Tutto questo corredo sottolinea un album dall’identità molto sfaccettata, dotato di molte anime e non si fa in tempo a pensarlo che tutta la parte finale dell’album si pone come un concreto omaggio alla tradizione musicale per film, propria a questa band. In questa dimensione si viene accompagnati dolcemente: è Swine Herd, con la sua lunghissima coda, a svolgere infatti questo compito e a lasciarci il tempo di apprezzare la parte finale del lavoro. 

Tirando le somme, questo disco si presenta ben strutturato in ogni sua singola unità, eccezionalmente suonato, ma in conclusione disconnesso e frammentario nel racconto di se stesso, come distratto da mille piccoli e grandi stimoli circostanti.

 

Jennifer Gentle

Jennifer Gentle

Bianca Dischi/Artist First, 2019

 

Bruna Di Giacomo