Andrea Molteni, in arte Axos, è un artista milanese. Il suo primo lavoro in studio è Carne Viva EP, pubblicato nel 2014 sotto Bullz Records, ma esplode definitivamente nel 2016 con l’album Mitridate (dopo aver partecipato a progetti come Machete Mixtape Volume III e Bloody Vinyl 2) grazie a sonorità particolarmente hard e cupe e a testi scritti da una penna a volte violenta, a volte malinconica, ma sempre realistica e piena di riferimenti culturali. Nel 2017 pubblica alcuni singoli, quali Blue Room e 11, e l’EP Anima Mea. Nel 2018 escono i singoli Iron Maiden e Moonchild e un altro EP, Corpus: l’Amore Sopra. Nel 2019 pubblica i singoli Ci Puoi Fare un Film e Harem, dove la penna di Axos e la musicalità delle strumentali subiscono un’evoluzione decisa che traccia il sentiero per il cammino dell’artista. Il 2020 vede l’uscita del singolo Banlieue e dell’album Anima Mundi, che diventeranno poi corpo e spirito della crescita artistica di Axos, con sonorità che spaziano da influenze rock a linee melodiche più dolci. Nel 2022, dopo aver pubblicato tre singoli che saranno all’interno del disco, esce Manie: un album che percorre tutti i crucci dell’artista, in maniera sicuramente molto più introspettiva e personale rispetto ai lavori precedenti, senza abbandonare la penna e lo stile distintivo di Axos, graffiante e decisa, capace tanto di coccolare ed essere affine all’amore quanto di denunciare sia stati d’animo negativi che situazioni sociali discutibili. L’album viaggia moltissimo (se non più di Anima Mundi) su musicalità diverse, anche grazie alla collaborazione del produttore Jvli, passando dall’hip hop di Padri, alle chitarre di Ubriaco e Cosa Vuole Questa Musica Stasera, per arrivare alle influenze boogie e funky di Geloso.
Axos terrà due Live Trip, chiamati The*Experience, ai Magazzini Generalidi Milano il 14 e il 21 Aprile: non saranno semplici live, quanto piuttosto vere e proprie esperienze che vanno oltre la musica.
Ciao Andrea e benvenuto su Vez Magazine! Dai primi progetti all’ultimo disco è notevole e ben definibile l’evoluzione musicale e artistica di cui sei stato protagonista. L’Axos di Mitridate, magari anche dell’EP Carne Viva, continuano ad accompagnarti oppure sono figure ormai lontane?
“Ciao Vez Magazine! Sì, la figura di Mitridate e tutto quello che è il mio passato mi perseguitano, nel senso che ci sono alcuni miei fan che proprio non riescono ad accettare che io mi sia evoluto e che io stia meglio nella mia vita, ed è una cosa non bellissima. Da me, invece, sono figure abbastanza lontane, dico la verità. Sono così lontane che tante volte, quando risento Mitridate mi sento un po’ strano. Sono lontane perché mi sono evoluto tanto e sono andato avanti con la mia vita. Sono passati sei anni da quel disco e mi sento di aver fatto tante cose in questo tempo che mi hanno allontanato da quella realtà, ma proprio nella vita.”
Manie, dal punto di vista della scrittura, è un album più intimo e più introspettivo a livello personale rispetto ai progetti precedenti. Credi che la scrittura di questo disco in particolare sia stata, in qualche modo, terapeutica nei tuoi confronti? Ti ha aiutato a definire meglio quelle che sono le tue manie, e magari ad affrontarle?
“La scrittura di questo disco è stata terapeutica, soprattutto nel momento in cui mi ha fatto buttare fuori tante consapevolezze che, però, arrivavano da un mio viaggio introspettivo, un lavoro personale che andava fuori dalla scrittura, ma che in realtà, è stato molto legato ad altre forme artistiche. In questo viaggio introspettivo ho disegnato tanto, ho scolpito, ho creato tantissimo, perché avevo bisogno di vedere i miei cambiamenti interiori e poterli affrontare meglio. La scrittura ha fatto sì che io potessi poi buttare fuori tutto. Effettivamente questa volta ho avuto, e non mi succedeva da un po’, quell’approccio alla scrittura che avevo da bambino: un vero e proprio sfogo buttato fuori.”
Hai mai avuto, durante la carriera, momenti di blocco o momenti in cui pensavi di mollare la musica? Cosa consigli, anche ad artisti emergenti, quando ti viene voglia di lasciare tutto, oppure vedi tutte le porte sbarrate?
“Ho avuto nella mia vita voglia di mollare tutto, perché ho vissuto delle cose veramente brutte. Il mondo della musica è costellato di persone di dubbio valore morale, è umano, e io ci ho avuto a che fare e ci ho lavorato. Tante volte mi hanno fatto passare la voglia e tante volte la voglia mi è passata vedendo ciò che effettivamente fa successo, che è tutto un po’ contrario ai miei principi sotto determinati punti di vista, soprattutto quello artistico. Ho avuto, quindi, sì voglia di lasciare quando vedevo che i numeri non corrispondevano, quando vedevo che venivo eletto il “king” dei sottovalutati. Come affrontarlo? Semplicemente non lo so spiegare, perché di fatto sono una persona che non si arrende. Basta ammettere dove sono i gap e cercare di sistemarli in base a quello che stai vivendo, quindi alla realtà (non ci si può mettere i salami sugli occhi). Se delle cose non vanno c’è un motivo, quindi riuscire a mettere se stessi all’interno di dinamiche che non sono perfettamente le tue. Per farlo devi anche avere una forte personalità artistica, un controllo di quello che fai abbastanza deciso, perché se no vieni risucchiato dal mercato e, invece di fare qualcosa che possa andare bene sia per il mercato sia per te, fai qualcosa che magari può andar bene solo per il primo e che neanche funziona. Quindi rimani completamente vuoto e triste. Questa è una cosa che non voglio fare e che consiglio di non fare mai nella vita. In definitiva consiglio di cercare il connubio tra quello che sei e il mercato. Nel mio caso è stato difficile perché io sono il contrario. Chiaramente, secondo me ce l’ho fatta nel momento in cui con Manie sono riuscito a tirar fuori il sound. Forse mi sono anche appassionato a delle parti del pop e della musica che nel mercato funziona tantissimo, soprattutto a livello internazionale, vedi Adele e molti altri che fanno parte dei miei ascolti. Riesco a comprendere, molto più di prima che ascoltavo musica più di nicchia, come poter fare qualcosa di estremamente bello ma che piace alla “massa”.”
Da sempre, nelle tue canzoni, ci sono stati riferimenti alla musica e alla letteratura. Quali sono i generi musicali e letterari e gli artisti e scrittori che apprezzi di più?
“I generi musicali, letterari, gli artisti e gli scrittori che apprezzo di più sono davvero tanti, fare una lista è impossibile. Sicuramente tra questi c’è Tolstoj, Jung, Baudelaire… Però come avrai già capito da questa risposta, variano sui generi, sia dal punto di vista letterario, ma anche dal punto di vista musicale, perché vado dagli Iron Maiden a Eminem e in mezzo c’è un mondo variopinto. Questa cosa si rivede nella mia musica: mi appassiona tutto, in base ai periodi. Proprio in base ai periodi vengo travolto da determinati generi, determinati scrittori e determinati autori. Mi piace tantissimo, ad esempio, scegliere i miei libri entrando dentro le librerie facendomi trasportare, come se loro scegliessero me. Ho sempre fatto così e credo mi abbia portato a una grande varietà.”
Questo progetto è nato durante il lockdown. Quell’assenza di pressione, quello spazio dilatato mi hanno portato a comporre dei brani diversi dal mio solito, forse più liberi… e proprio perché poco ragionati sono nati in lingue diverse: spagnolo, inglese e francese. È stato un progetto interessante per me, non sapevo neanche dove mi avrebbe portato – suonare tutto da sola, arrangiare e mixare è stato da una parte molto divertente e liberatorio dall’altra molto faticoso per la naturale mancanza di lucidità che si può avere dopo un po’ di tempo in cui si lavora senza un orecchio esterno. Comunque è un esperienza di cui vado fiera.
Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?
Non ci sono degli artisti fissi a cui mi ispiro per i miei brani ma di sicuro ci sono delle influenze più o meno consapevoli che cambiano in base agli ascolti del momento. Di certo posso dire che nella scrittura dei brani in spagnolo ha contribuito la mia passione per Lhasa de Sela così come quella per Chavela Vargas e in qualche modo anche per Bebe. Nei brani scritti in inglese invece ci sento un po’ di tutto rispetto a quelli che sono stati i miei ascolti: da PJ Harvey, ai Beatles, da Björk alle più recenti Lana Del Rey e Billie Eilish.
C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?
Si, mi piacerebbe moltissimo collaborare con Joan as Police Woman, un’artista che amo molto per la sua capacità di sperimentare e di muoversi nei vari generi mantenendo una personalità molto chiara. Adoro il suo modo di comporre, le armonie spesso insolite e così emotive. In generale la sua produzione mi colpisce sempre, c’è una grande ricerca legata a un’eleganza e un’originalità inusuali.
Il progetto è nato nel 2018, quando assieme a Luca, dopo lo scioglimento dei Vaio Aspis decidemmo di dar vita ad un nuovo progetto. Dopo alcune prove, sentivamo che mancava decisamente qualcosa ed il supporto di un terzo componente, diventava sempre più necessario. Da chitarrista, ho sempre cercato di curare il suono e lo stile, ma inevitabilmente, si sentiva la mancanza in primis di un bassista ed a seguire, di una voce.
Arrivammo dunque, un pò per conoscenze del circuito underground vicentino ed un pò per istinto del buon Luca, ad incontrare il perfetto completamento del progetto, Davide, bassista dei Polar for the Masses.
Fin dalla prima prova assieme, eravamo in perfetta simbiosi e la creatività, venendo da esperienze ed ascolti diversi, ma senza particolari chiusure mentali, non mancava.
In breve, grazie a Davide che, oltre ad essere non un bassista, ma il bassista di cui avevamo bisogno, diventò la voce della band, riuscimmo a mettere assieme un bel pò di brani, fino ad arrivare in circa un annetto di lavoro, alla stesura del nostro primo album.
Nascono così, i Fantasmi dal Futuro, power trio eterogeneo che, dopo un’intuizione di Luca, mescola suoni tipicamente rock a sonorità più eteree, strizzando l’occhio alla contemporaneità: arriva così, il rock con l’autotune.
Progetti futuri?
Per prima cosa non vediamo l’ora di presentarvi il nostro primo album nella dimensione che più si addice ad un gruppo rock: quella live.
Poi non vi nascondiamo che nonostante i due anni di pandemia, artisticamente non ci siamo mai fermati continuando a lavorare a distanza ed abbiamo diverso materiale pronto nel cassetto, ma per il momento, ascoltate e supportate il nostro album d’esordio!
Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?
Questa è una bella domanda, perché le canzoni sono indubbiamente più di una, ma se proprio dobbiamo sceglierne una, pensiamo che Non Torneremo Mai sia la più significativa.
Questo è stato il primo brano da noi composto, nato da una jam dalla quale Davide ha estrapolato delle parti da cui, successivamente, è praticamente nata la base per strutturare il brano.
Personalmente sono molto legato a quel brano, perché è praticamente la canzone che ha dato il via ai Fantasmi dal Futuro e la considero una svolta anche sul modo di lavorare all’intento di una band.
Essendo io un grandissimo esperto di “tempismo approssimativo”, i primi brani sono usciti nel pieno del primo lockdown. Ho iniziato a scrivere un po’ prima ovviamente, ancora ignaro di quel che sarebbe accaduto, attorno a fine 2019. Mi son avvicinato al progetto Ponee con la voglia di fare qualcosa di mio al 100% sul piano della scrittura, che fosse un modo per raccontarmi e senza pensare a vincoli particolari di genere, mood, sonorità. È un progetto molto in divenire; forse quando è nato non avevo ancora chiara la forma che avrebbe potuto prendere e, in qualche modo, se riascolto adesso quei primi brani, li trovo quasi parte di un altro capitolo, di alcune pagine che ho già girato. Ci resto legato ma ho voglia di fare dell’altro, di pensare con orecchie nuove.
Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?
Probabilmente l’ultima, e non per un fatto di “promo” ma semplicemente perchè è quella che ancora non mi ha annoiato e che sento più vicina. È come se ogni volta iniziassi a intravedere i difetti dei brani precedenti: cosa avrei potuto fare meglio, cosa avrei cambiato ad oggi; perciò c’è un pò di timidezza sulle cose passate e più entusiasmo su quelle nuove. Il rumore dei no è l’ultima e la trovo ancora attuale per la mia quotidianità e per come sono fatto; è rappresentativa di un mio modo di essere, che talvolta si evidenzia di più, altre volte rimane meno marcato ovvero quello di farmi mille domande, di guardare il futuro con un po’ di incertezza che, forse, è curiosità.
C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?
Diciamo che mi piacerebbe se fosse un evento con una location inedita o insolita, non importa quanta gente ci sia. Sarà che organizzo e partecipo a tantissimi eventi di musica dal vivo e non solo, ma quello che spesso mi colpisce, anche da spettatore, è l’originalità della location, la magia che si crea. Quindi suonare in un contesto del genere sarebbe sicuramente una bella ambizione; mi viene in mente Cercle che organizza djset in posti incredibili e poi li filma e li trasmette in streaming; loro fanno hanno un’impronta più “elettronica” appunto, meno da live…ma per capirci. Oppure anche qualche festival in cui ho partecipato come spettatore, tipo lo Sziget e altri. L’idea di passare da sotto palco a sul palco è qualcosa che mi divertirebbe
Incontriamo Paolo Roberto Pianezza e Francesca Alinovi al Santomato Live di Pistoia, dove stanno per esibirsi in un concerto. Loro sono i Lovesick Duo, un progetto musicale nato in Italia nel 2015, le cui radici attingono alla musica americana degli anni ‘40/’50 Rock n Roll, Western Swing e Country e che ha già riscosso molto successo sia in Italia che all’estero.
Benvenuti Francesca e Paolo, piacere di conoscervi; siamo curiosi di sapere quale è il percorso e quali sono le influenze che vi hanno portato a questo genere di musica che, nel nostro paese, non ha grande cultura e diffusione.
Paolo: “Ciao, siamo i Lovesick Duo, suoniamo come Duo dal 2015 e abbiamo all’attivo cinque dischi. Siamo partiti come tutti, dalle cover. Suonavamo le cover della tradizione, brani di Chuck Berry e Hank Williams; ci piaceva molto la musica degli anni ’50.
Abbiamo suonato con un quartetto per 5 anni, ma poi volevamo approfondire meglio questo genere e, dopo alcuni viaggi fatti negli Stati Uniti, con ancora addosso quell’entusiasmo del viaggio abbiamo deciso di dedicarci a questo percorso insieme. Dopo vari concerti in locali, ci siamo resi conto che in duo funzionava alla grande.”
Qual è stato il momento della svolta? Quando avete capito che c’era un progetto e che potevate fare quel passo in più?
Francesca: “L’abbiamo sempre saputo, in realtà, anche mentre suonavamo con la vecchia band. Non è mai stato un passatempo. Per noi che suoniamo insieme dal 2011 è sempre stata una professione, anche mentre facevamo altri lavori.”
Paolo: “Io studiavo all’Università e, contemporaneamente, all’Accademia di Chitarra, dove mi sono laureato; mi ricordo bene il momento in cui ho realizzato che non mi sarebbe servita una laurea in tecnica erboristica per fare il musicista. Non riuscivo a fare entrambe le cose insieme ed avevo bisogno di decidere. È stato tutto molto naturale.”
Francesca: “Io ho fatto mille altri lavori, sempre suonando; ho frequentato diverse Accademie per il Basso, due Conservatori per il Pianoforte e Contrabbasso. Nel 2010 sono cambiate molte cose nella vita, radicalmente, in diversi ambiti e alla fine ho pensato: se morissi domani quale sarebbe l’unica cosa che vorrei fare? Suonare.”
Le note di copertina del vostro ultimo disco A Country Music Adventure recitano: “Lo scopo di questo lavoro è anche divulgativo ovvero speriamo di suscitare un po’ di curiosità attorno a questo mondo che a noi continua a regalare tante emozioni”. Ci vuole davvero un grande amore ed anche un grandissimo coraggio per intraprendere un percorso come questo ed in maniera così rigorosa, in un paese che notoriamente non è mai stato troppo incline a questo genere musicale. Nei vostri live trovate un pubblico che conosce già le cose che proponete o incontrate anche gente che non conosceva ma si appassiona? Insomma, secondo voi questa curiosità che intendete stimolare, trova riscontro nel pubblico?
Francesca: “Si, in diverse forme, sia dal vivo che on line; l’idea di questo disco, abbinato al fumetto, è nata attraverso Lorenz Zadro, del nostro ufficio stampa.
Il pubblico che ci ha seguito in questi anni di pandemia era eterogeneo, gli piaceva quel sound, quell’atmosfera, quell’allegria che avevamo noi ma non aveva la conoscenza del genere o della lingua. C’erano tanti appassionati ma anche tanti che non conoscevano niente riguardo al genere.”
Paolo: “Questa cosa ci ha anche stimolato a scrivere cose nostre; ci siamo detti che se un pezzo che non conosce nessuno in cui noi mettiamo entusiasmo per le persone è come se fosse carta bianca, perché non lo conosce, perché non fare pezzi nostri? Perciò, abbiamo iniziato ad inserire sempre più brani nostri nei live.
Questo disco è di cover, ha uno scopo divulgativo, abbiamo pescato nel calderone della musica Country, abbiamo scelto i brani in modo specifico perché ricalcavano un fumetto, disegnato da Lorenzo Menini, ed abbiamo scelto la scaletta proprio per far sì che ogni personaggio importante nella storia sia presente anche nei brani.”
Francesca: “Il fumetto era la cosa fondamentale ed introduce le tematiche dei vari brani, incuriosendo, ed è servito molto.”
Paolo: “Siamo già in stampa con la versione inglese ed il vinile; abbiamo avuto molte richieste dall’estero, tant’è che è stata venduta la versione italiana in tutto il mondo per cui adesso lo stiamo stampando in inglese.”
Francesca: “Abbiamo anche un pubblico relativamente giovane, che scopre un Country moderno; in America ci sono una serie di indie Country e pop Country oltre ad un Country di nicchia e tanti giovani, conoscendo noi, arrivano ad una serie di playlist che li portano a scoprire un sottobosco che in Italia non esiste, ma che nel resto del mondo c’è. Ci sono moltissimi ragazzi di 20/25 anni che suonano questo genere, che non è vecchio, anzi ha sonorità super moderne.”
Paolo: “Una cosa importante del Country, sono i testi; al di là del sound che può essere più vecchio o più nuovo, più glitterato, più pop ma ci sono sempre delle storie molto belle, c’è tanto songwriting, composizione ed è tutto sempre attuale.”
Il vostro album La Valigia di Cartone era interamente cantato in italiano, come parte del successivo. Pensate di ripetere ancora questa cosa in futuro?
Paolo: “Questo è uno dei nostri crocevia. È stata una sfida quell’album ed è andato molto bene perché abbiamo avuto un bellissimo riscontro che è quello che cercavamo di ottenere dal vivo come ottenevamo all’esterno quando facciamo i brani in inglese ma in Italia con i nostri pezzi in italiano. Continuarlo? Non so…In realtà abbiamo molti pezzi già pronti, da decidere se e quando pubblicarli.
In questo momento abbiamo preso la strada dell’inglese perché avevamo tante cose all’estero. Volevamo metterci alla prova con l’inglese e vedere come andava; sta andando molto bene e quest’ estate avremo un bel tour europeo che si sta delineando sempre più ma mai dire mai.”
Potete dirci qualcosa della vostra esperienza a New Orleans e negli States in generale?
Francesca: “Ne La Valigia di Cartone c’è tanto di New Orleans perché è là che Paolo ha scritto molti pezzi, vivendo da un musicista che spesso suona qui in Italia e con cui c’era un grande scambio di pensieri e riflessioni su come trasmettere certe cose nella nostra lingua.
New Orleans è una città super stimolante ma i viaggi in America sono stati diversi ed ogni volta super stimolanti sia per poter riparlare la lingua ma anche per ricaricarsi e prendere il più possibile dalla loro cultura; tante esperienze pazzesche, tipo registrare un album, tante jam sessions e concerti nati così, per caso.
La velocità di connessione negli States è impressionante. Quando sei un musicista, se hai una certa attitudine, ti capita davvero molto velocemente di poter fare qualcosa. Una cosa tira l’altra. Poi viverci sarebbe tutt’altra cosa.”
Paolo: “Avevamo trovato la nostra dimensione, due mesi là e poi qua in Italia ma la pandemia ci ha bloccati. Probabilmente questo autunno ci torneremo. Ci piaceva stare qua ed andare là ed avere questa doppia possibilità.
Ma ci piace molto anche viaggiare infatti questa estate viaggeremo molto in tutta Europa e ne siamo felici.”
Visto che avete una presenza costante sui social, ci piacerebbe entrare un po’ di più nel vostro privato, in particolare ci piacerebbe sapere cosa ascoltavano Paolo Roberto Pianezza e Francesca Alinovi?
Francesca: “Ascoltavo vinili dei cartoni, perché i miei me li compravano; durante il periodo del Conservatorio non ascoltavo troppo musica classica, ma qualcosa si. I miei non erano appassionati ma mio zio si e da lui vedevo TMC ed i vari live ed aveva dei vinili Metal. A sedici anni ho scoperto la musica Punk e da lì il mondo Hard Rock e Metal, tutti gli anni ’90, passando per lo Ska e poi il Blues, che ho conosciuto tardi, e il Jazz, tardissimo. I grandi come Beatles, Stevie Wonder, Jackson io non avevo nemmeno idea di chi fossero. Avevo una cultura underground musicale perché stavo dietro ai locali, facevo fanzine, avevo un furgone col quale portavo le band, per cui avevo più un tessuto di questo tipo ma dei grandi nomi…zero! Totalmente! Poi si è tutto evoluto. Adesso ascolto di tutto anche i dischi che ci mandano, li ascolto tutti quanti! Ascolto qualsiasi cosa e vado a periodi.
Paolo invece in macchina ha playlist su playlist.”
Paolo: “A me piace scoprire ma un po’ alla volta certe cose per cui quando prendo l’infilata con un artista lo ascolto a ripetizione prima di passare ad altro o faccio anche tante playlist ma ho bisogno di ascoltare tante volte la stessa cosa.
Sono un grande fan dei Beatles. Mio papà mi ha fatto sentire davvero tanta musica quando ero piccolo e adoravo ascoltare la musica in macchina. Mio papà era Beatles fanatico. Sento dei dischi di Paul McCartney che non ho mai sentito, ma in realtà conosco già tutto il disco. Loro, gli AC/DC, Stevie Ray Vaughan, Stevie Wonder, tutto questo mondo l’ho scoperto grazie a lui.
Sono sempre stato sveglio, suonavo il piano, ho imparato la chitarra da solo ma il legame con la musica vecchia è nata in realtà dal ballo. Io ballavo Lindy Hop e Boogie-woogie.
Un giorno mia mamma mi ha portato a lezione di Boogie ed è stato impiantato questo semino che è rimasto lì fino a che, verso i 18/19 anni, mi è tornato e, insieme ad una ragazza – che è stata campionessa italiana, tra l’altro – abbiamo fatto due anni intensissimi. A quel punto Elvis è diventato il pane.
Questo, unito al fatto che suonavo e con l’incontro con Francesca, ha fatto sì che tutto si riconnettesse ed è avvenuto il tuffo nella cultura americana.
L’altro snodo importante sono stati i viaggi in America perché hanno fatto fare un’impennata vertiginosa al mio inglese ed hanno fatto sì che potessi capire bene le parole delle canzoni che non conoscevo. Il mio insegnante di chitarra era americano, ho studiato là con lui. L’inglese è davvero importante nella Country music essendo i testi importantissimi.”
Live e streaming. La pandemia e la chiusura di locali e live theatre hanno aperto la strada ai concerti in streaming che, anche se non hanno la stessa immediatezza emotiva dei live, sono riusciti ad aiutare gran parte del pubblico ad affrontare un periodo così difficile, ma anche a far conoscere realtà artistiche e musicali che spesso rimangono localizzate. Pensate che i concerti in streaming potranno comunque avere un futuro ora che la situazione si sta aprendo? Pensate che sarà possibile integrare queste due forme di concerto oppure fate parte della corrente “purista” che aspira a un ritorno al solo concerto live? Quali vantaggi o svantaggi potrebbe portare quella eventuale integrazione al vostro genere musicale, che ancora ha difficoltà a diffondersi nel nostro Paese?
Francesca: “Per un po’ li abbiamo fatti. Per la maggior parte dei musicisti è fondamentale avere un momento catartico; ricordo che quando studiavo pedagogia musicale si parlava proprio del processo dall’inizio, dallo scrivere musica all’arrivo sul palco e se non arrivi a quel momento lì, in cui c’è lo scambio diretto con l’altra persona e quindi anche il volume, le luci, i riflessi che il corpo mette in atto, è paragonato ad un rapporto sessuale che non arriva alla fine e quindi il corpo ne soffre. Secondo me arrivare fino allo schermo non basta. Manca il viaggio, la conoscenza di tutte le nuove situazioni, il volume. Non c’è la stessa soddisfazione per cui torni al punto di partenze ed il ciclo non si chiude per cui secondo me non potrà mai cambiare.”
Paolo: “Abbiamo fatto un sacco di streaming da casa, son andati bene in quel momento c’era un pubblico che ci seguiva ed abbiamo prodotto un sacco di contenuti e quindi facevano parte di quei contenuti; se uno prendesse solo l’estratto dello streaming sarebbe una cosa diversa, nell’ottica di quel momento avevano un altro significato. Il concerto trasmesso in streaming invece è un’altra cosa, che è una figata! Anche non in streaming, anche se fosse registrato. Ma lo streaming a casa no. Preferisco comunque il video allo streaming in modo da avere delle belle riprese in quanto mancherebbe la forza dell’interazione perché saremmo su un palco e non potremmo rispondere nell’immediato. Allora se voglio vederlo voglio belle immagini ed un ottimo audio.”
In concomitanza con l’uscita di Threads nel 2019, Sheryl Crow ha dichiarato di voler abbandonare il mondo della musica perché, citiamo letteralmente, “Non c’è più voglia di ascoltare dall’inizio alla fine l’album di un cantautore. Il pubblico si crea il disco che vuole mettendo insieme delle semplici playlist. Il concetto di album appartiene al passato”. I vostri album sono dei viaggi musicali da vivere nei singoli brani, ma che nascono, comunque, per un ascolto completo del progetto: siete d’accordo con l’affermazione dell’artista statunitense? Pensate che questa attitudine a spezzettare i progetti per poi ricomporre delle playlist personalizzate sia il futuro della fruizione della musica oppure pensate che ci sarà un’inversione di tendenza? Come vorreste che fosse ascoltato un vostro progetto?
Francesca: “Penso che un personaggio così grande può dire che si è stufata e che adesso creare queste playlist fa parte del nostro mondo, che in qualche modo è sempre esistito. Ma non ascoltare un album intero no. Sentire solo singoli di un artista mi deluderebbe tantissimo. Mi stupirei del fatto che sia andato in studio ad incidere i singoli e non album.”
Paolo: “Se c’è una cosa che ti piace ne vuoi ancora e mettere tutto nello stesso contenitore un po’ alla volta fa anche sì che se ti piace così tanto ce n’è ancora, in quel disco lì! Ad esempio l’altro giorno ho messo su John Prine di John Prine e l’ho ascoltato due volte dall’inizio alla fine.”
Francesca: “Parlando con due mie cugine adolescenti, so che ascoltano YouTube e quindi passano ad artisti simili e scoprono. Seguono comunque un filone, non vanno a caso.”
Paolo: “Per noi che abbiamo un pubblico di nicchia credo che l’album sia fondamentale.”
Francesca, abbiamo visto dai video che hai una sorta di “appendice” montata sulla tavola del contrabbasso, che suoni ad incastro allo slap con una spazzola da batteria. È un’idea tua o ti sei ispirata ad altri bassisti che usano questa soluzione?”
Francesca: “È partito tutto da Paolo, tornato da Nashville mi ha fatto vedere un video di Kent Blanton, un musicista che suonava un rullante applicato al contrabbasso e mi ha chiesto di provare. Io non ne avevo nemmeno l’intenzione. Circa due anni più tardi, sono andata anche io a Nashville e quando sono tornata sono andata mi sono decisa ad andare da un liutaio e provare a ricreare quello strumento.
Ho cercato video su YouTube ma nessuno mi ha aiutata per cui abbiamo proceduto per tentativi, cercando di capire quale fosse il modo migliore.
Da quando ho visto suonare Blanton a Nashville a quando sono riuscita a suonarlo è passato circa un anno!
Con il liutaio abbiamo poi pensato di fare un modello più sottile con i piedini regolabili per qualsiasi contrabbasso e fatto sta che adesso in molto lo hanno comprato. Io ho anche fatto dei video in cui spiego come suonarlo.
Ho anche fatto lezioni in America a degli americani che volevano suonarlo perché non sapeva come fosse. Oppure a qualcuno che ci aveva già provato ma non riusciva a capire come si facesse, come stava su o il suono o il tipo di pelle.
Ognuno ha il suo modo di suonarlo, adattato alla tecnica che hai sul suo strumento, per cui i movimenti saranno diversi per tutti.”
Vi incastrate a perfezione ed avete un rapporto che sembra bello anche al di fuori, come è nato tutto?
Paolo: “Noi siamo una coppia e ci siamo conosciuti in un bar. Lei suonava in un posto ed io suonavo con un altro ragazzo e siamo andati lì a bere una birra e ci siamo presentati. Quel giorno siam saliti sul palco a fare un pezzo insieme, immediatamente sul palco e così è nato tutto, compresa la prima band.”
Grazie mille per la disponibilità a Francesca e Paolo, Lovesick Duo.
Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?
Bella domanda! Se dovessimo scegliere tre parole per descrivere la nostra musica sarebbero: Viaggio, Pace, Rivoluzione. Viaggio non inteso “La nostra musica è un viaggio! La nostra musica ti fa viaggiare!”
No, no, intendo: “Quanto costa il biglietto dell’autobus? Sei mai stato in Marocco? Minchia come spinge il tuo furgone in salita!”.
Raccontare di viaggi parlando di jet lag e contando i timbri sul passaporto è una narrazione che troviamo molto autoreferenziale se non addirittura un po’ finta. Quello che invece ci interessa e che cerchiamo di raccontare è un immaginario che nasce dai particolari: dai rapporti umani, dalle stonature, dagli imprevisti che capitano durante i viaggi. Piuttosto che raccontare di Buenos Aires o Madrid, raccontiamo di come perdersi lungo la strada costiera 106 che collega Taranto a Reggio Calabria o di quanto cazzo di freddo c’era a Bremerhaven. Non sai dov’è? Cercala su Google Maps!
Oggi più che mai scegliamo anche la parola Pace. Come diceva Spinoza: “La pace non è solo assenza di guerra: è una virtù, uno stato d’animo”. La pace è un modo di essere e di porsi. Quando vogliono chiudere i porti, quando si discrimina un profugo in base alla provenienza o al colore della pelle, quando si stringono alleanze con paesi liberticidi non si vuole la pace. Quando, nel quotidiano, ci voltiamo dall’altra parte di fronte ad atteggiamenti razzisti o sessisti, quando ignoriamo chi ci chiede aiuto, quando smettiamo di cercare “qualcosa di più bello” allora smettiamo di cercare la pace. La pace è azione! La pace è lotta quotidiana. La pace va creata e mantenuta, non è una condizione ma un obiettivo, è una missione. Per questo nelle nostre canzoni parliamo di pace.
Poi ovviamente una parola a cui siamo molto legati è Rivoluzione, che è Amore… o forse l’Amore è la Rivoluzione… non ci ricordiamo mai bene la formula.
Come vi immaginate il vostro primo concerto live post-pandemia?
Il nostro primo concerto quest’anno sarà una festa pazzesca! Così ce lo immaginiamo. Ci stiamo preparando al nuovo live in maniera famelica, attenta e paziente. Ogni giorno immaginiamo tutto il percorso di quella giornata quando faremo finalmente il nostro primo live: il risveglio la mattina, il carico del furgone, l’autostrada, la colazione in autogrill, l’arrivo, il soundcheck, la cena e la salita sul palco… e poi… e poi un volume altissimo, col primo accordo di chitarra che riuscirà a cancellare questo periodaccio, quest’anno di merda.
Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?
La canzone che più ci rappresenta oggi è Prosecco, uscita il 25 febbraio 2022, in una fatale concomitanza con l’inizio della assurda e atroce guerra in Ucraina. Prosecco è un inno alla pace, alla fratellanza, alla curiosità verso chi vive altrove, si veste e mangia cose diverse, ma spera e ama proprio come noi. Prosecco è la voglia di scoprire cosa c’è oltre la quotidianità, oltre la provincia, oltre la routine. L’evasione dalla quotidianità non è solo curiosità, è un atto di libertà e rivoluzione quotidiano, è un atto di amore verso chi è come noi anche se vive a migliaia di kilometri di distanza.
Chitarre, banjo, testi cantati da voci da pelle d’oca che raccontano di antieroi e antagonisti: stiamo parlando del gruppo folk-bluegrass The Dead South. L’ensemble, formatasi nel 2012 a Regina, Saskatchewan, in Canada, vede come membri Nathaniel Hilts (voce, chitarra e mandolino), Scott Pringle (voce, chitarra e mandolino), Danny Kenyon (violoncello e voce) e Colton Crawford (banjo). Il gruppo ha debuttato nel 2014 con l’album in studio Good Company. Attualmente, contano all’attivo tre EP, fra cui The Ocean Went Mad and We Were To Blame, EP d’esordio pubblicato nel 2013 e gli EP Easy Listening for Jerks Pt. 1, Easy Listening for Jerks Pt. 2, entrambi pubblicati nel 2022. Hanno inciso tre album in studio, quali Illusion and Doubt, pubblicato nel 2016 e Sugar & Joy, del 2019, oltre all’album di debutto citato precedentemente. Si esibiranno all’Alcatraz a Milano il 18 aprile e abbiamo avuto il piacere di intervistarli.
A livello personale, come avete affrontato questi due anni di pandemia? Hanno avuto qualche effetto sulle dinamiche della band, ad esempio distanziamento emotivo o piccoli attriti causati dall’essere stati inattivi musicalmente?
“Crediamo di aver affrontato la pandemia abbastanza bene. Abbiamo avuto tutti il tempo di fare cose personali per un po’, il ché è stata una cosa carina, almeno per i primi mesi. Abbiamo avuto tempo per lavorare su altri progetti personali, Scott è diventato papà. Abbiamo speso buona parte del tempo libero esercitandoci e registrando i nostri due nuovi EP, perciò non sono stati un anno e mezzo di blocco totale. Quando siamo tornati alla normalità, ci è sembrato di non esserci mai fermati. Siamo tornati come prima molto facilmente.”
Presto verrete a suonare in Italia: come vi sentite a tornare a fare dei concerti? Vi piace l’Italia? Pensate che il vostro genere musicale sia apprezzato di più o di meno, rispetto ad altri paesi?
“Non siamo mai stati in Italia, quindi siamo davvero entusiasti di poter suonare qui! È sempre difficile dire quale paese apprezzi la nostra musica. Le persone sono pur sempre persone, e ogni paese al mondo ha gente che apprezza il nostro genere e gente a cui non piace. Sarà interessante vedere come reagirà il pubblico italiano rispetto ad altri.”
Una delle vostre canzoni più famose è In Hell I’ll Be in Good Company: con chi vi vedete all’inferno, sempre che ci crediate? Come vi relazionate con la religione e la spiritualità?
“Nessuno di noi è una persona religiosa, la maggior parte dei nostri testi racconta soltanto una storia, di solito a proposito di antagonisti piuttosto che di eroi. Se esistesse un inferno, siamo sicuri che passeremmo tutti e quattro un sacco di tempo insieme.”
Chi sono gli artisti che vi hanno ispirato di più, sia a livello personale che musicale?
“Quando abbiamo formato la band ascoltavamo tanto i Trampled By Turtles, The Devil Makes Three, e Old Crow Medicine Show. Personalmente, sono cresciuto ascoltando molto metal, genere che tuttora ascolto di più. Lamb of God, Trivium, The Black Dahlia Murder sono probabilmente i miei preferiti. Siamo cresciuti tutti con punk e classic rock, e credo che questi generi ci abbiano influenzato tanto a livello di scrittura dei testi.”
Qual è l’origine del nome The Dead South?
“Avevamo un batterista nella band, e se n’è uscito con il nome The Dead Souths. Non ci piaceva il plurale Souths, così abbiamo troncato la “s” e siamo diventati The Dead South. Dovevamo fare la nostra prima esibizione e avevamo bisogno di un nome, quindi abbiamo dato per buono quello e così è rimasto. Pare si sposi bene anche con il genere che facciamo, ma se avessimo anticipato di una decina d’anni la battuta“The Dead South?? Ma siete CANADESI!!” sicuramente ci avremmo ripensato.”
Il successo ha cambiato, in qualche modo, la percezione e visione che avete della musica? Avete sperimentato qualche cambiamento nel modo in cui scrivete o componete? Se si, è stato un cambiamento positivo o negativo?
“Non credo ci abbia cambiato, se non altro è più difficile uscirsene con idee originali rispetto a quando avevamo appena iniziato a suonare, perché stavamo tutti imparando a suonare e a scrivere. Non vorremmo mai scrivere due canzoni identiche, né tantomeno cambiare gli strumenti che suoniamo, quindi è più difficile scrivere canzoni originali rispetto a prima. Oltre a questo, tutto è rimasto esattamente come prima. Ci esercitiamo e componiamo ancora nei seminterrati, non abbiamo qualche posto stravagante dove riunirci e suonare, e il nostro “successo” non ha cambiato davvero nulla. Ci sentiamo ancora gli stessi quattro ragazzi di Regina che provano a scrivere belle canzoni.”
È nato con me e il mio tastierista ed ex-compagno Vincenzo Parisi che suonavamo pezzi di PJ Harvey, LaurieAnderson, EinstürzendeNeubauten, o improvvisavamo con basso, tastiere e voce, in una stanza in affitto sui Navigli. Poi sono successe molte cose, altre persone sono entrate nel progetto, abbiamo cambiato più nomi, ma è partito tutto da quei pomeriggi e serate chiusi in camera noi due a suonare. Io avevo idee molto sperimentali, lui mi incoraggiava a seguirle, a fare di più. Il legame tra noi ci ha permesso di osare molto, perché ci siamo sentiti molto al sicuro, e credo che questo sia rimasto e si sia esteso anche a chi, come GiacomoCarlone, il nostro batterista e produttore, è entrato a fare parte del progetto in seguito: questo poter rischiare perché sai che puoi sempre contare sul supporto reciproco.
Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?
Ho appena citato PJ Harvey e Laurie Anderson, loro sono sicuramente figure a cui mi ispiro, soprattutto per l’uso della voce e le linee melodiche – che si muovono poco, ma quando lo fanno sono efficacissime, travolgenti. CarlaBozulich ultimamente è una mia grandissima ispirazione, soprattutto per l’arrangiamento e la produzione. Ma nell’EP che uscirà sentirete molte influenze mischiate, anche perché ognuno di noi ha portato contributi diversi: io il rock alternativo anni ’90, il post-punk, Vincenzo il Minimalismo e la musica per film, DannyElfman, EnnioMorricone, Giacomo lo stoner e il post-rock, Lorenzo D’Erasmo, che ha suonato le percussioni in Big Boy e in altri due brani dell’EP, la musica mediorientale…
Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?
Questo credo non dipenda da noi, ognuno ci trova quello che vuole, quello che le o gli serve, quello che è, un po’ come nelle figure di Rorschach. Mi piacerebbe poter dare a qualcuno quello che molta musica ha dato a me, aiutandomi in momenti in cui ne avevo bisogno: il sentirmi compresa, “ista in un modo profondo, il ritrovarmi nella voce di qualcun altro.
Come vi immaginate il vostro primo concerto post pandemia?
Il primo nostro concerto post pandemia per fortuna ha già una data e un luogo: suoneremo live per il raster festival, evento organizzato dall’associazione Mare Culturale Urbano il 26 Marzo insieme ad altri musicisti fantastici.
Ci immaginiamo tante persone sotto al palco che ascoltato e ballano la nostra musica, una situazione molto classica, ma per niente scontata. Far ballare ed emozionare le persone che ci ascoltano è la nostra missione, e poi chiaramente tornare a divertirci noi quattro tutti insieme sopra lo stesso palco.
Stiamo preparando uno show nuovo e siamo sicuri verrà apprezzato.
Quanto puntate sui social per far conoscere il vostro lavoro?
Puntiamo tanto sui social, diciamo che puntiamo tutto o quasi tutto su Instagram, prima o poi sbarcheremo anche su TikTok…
In questo momento stiamo lavorando con Tommaso Manca (in arte TOKYOTOMMY) che ci sta curando tutta la parte grafica e di comunicazione sui social.
Tommaso ha fatto un totale re-branding del nostro profilo instagram e di tutta la nostra estetica creando un mondo pongoso in 3D tutto per noi, sposandosi perfettamente con le nostre canzoni.
In generale comunque crediamo che sia indispensabile essere attivi sui social cercando di trovare il giusto modo di comunicare.
Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?
Questa è una domanda molto divertente, capita spesso nelle interviste e ogni volta discutiamo perchè non siamo mai d’accordo.
Diciamo questo perchè è il nostro punto di forza, se dovessimo rispondere singolarmente di sicuro uscirebbero risposte differenti, ognuno si ispira e ascolta cose differenti.
Più che ispirarci a singoli artisti o gruppi ci ispiriamo tanto all’attitudine con cui i nostri miti fanno musica, quindi magari una settimana produciamo elettronica super nerd al computer e la settimana dopo andiamo in sala prove e facciamo del rock.
Citiamo alcuni artisti o gruppi a cui siamo molto legati: Bill Evans, Jimi Hendrix, Nu Genea, Pino Daniele, Flying Lotus, Chet Baker, Miles Davis, Gorillaz, Kendrick Lamar, Childish Gambino, Neffa, Thundercat, Youssef Kaamal, Steve Lacy, Tony Allen, BADBADNOTGOOD, Tyler,the Creator, Kanye West, Mac DeMarco, Pufuleti, Post Nebbia, The Clash, Beatles, Kaytranada, KaliChis, Radiohead, Kiefer, D’Angelo, MacMiller, JDILLA, RobertGlasper, Anderson.Paak, JeffBuckley e BruceSpringsteen.
Premi Play nasce dalla fine di una storia d’amore, dall’esigenza di raccontare la mancanza. Ritrae perfettamente la crisi nell’animo di un giovane innamorato.
Grazie all’incontro con Fabio De Sanctis, produttore della mia città, ho avuto la fortuna di poter lavorare da subito in studio registrando i primi brani dell’album che sono Timbrami le Labbra, Tra le Dune e Oceania, poi sono arrivati tutti gli altri.
Il primo singolo Camini è uscito il 5 febbraio del 2021, seguito da altri tre singoli e a distanza di un anno abbiamo fatto uscire tutto l’LP.
Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?
Vorrei far vivere le stesse emozioni che ho vissuto io durante la scrittura dei testi di Premi Play, ovvero tutto quello che l’amore riesce a dare, non solo la parte dolce, ma anche tutta le spine, le incertezze, le sofferenze, le fragilità.
Vorrei che le persone che ascoltano l’album si sentissero parte viva dell’album.
Dico sempre che la mia missione è proprio entrare nel cuore della gente, questo è il mio sogno e metterò tutto me stesso per realizzarlo.
Progetti futuri?
Innanzitutto pensiamo a far arrivare a più gente possibile l’album e se la situazione attuale lo permetterà non vedo l’ora di esibirmi in live in giro per l’Italia.
Per il futuro già stiamo lavorando a nuovi brani, Giovanni Neve è in produzione costante e non vede l’ora di sfornare pagnotte fresche.
Mi sono avvicinato alla musica a 18 anni ma il vero progetto Anima nasce propriamente nel 2019 con il mio primo singolo Borderline individuando un suono ed un immaginario ben delineato.
Nella crescita e nello sviluppo del progetto sono state fondamentali le figure dei producers Dr.Wesh e Pi Greco.
Ad oggi mi ritengo un artista con una propria identità che ben si inserisce nel panorama musicale.
Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?
Partendo dal mio nome d’arte Anima ciò che voglio è comunicare con l’anima, con il cuore in modo sincero, senza filtri o scudi per le mie emozioni. Quello che racconto nei brani, spesso attraverso l’utilizzo di metafore ed immagini, corrisponde a situazioni, pensieri ed emozioni della vita di qualsiasi giovane.
Quindi racconto la mia esperienza filtrata dai miei occhi e pensieri e in molti ci si ritrovano.
Progetti per il futuro?
Da Ottobre ad oggi sono usciti cinque brani. Il 4 Marzo uscirà il mio album Photogallery che è un progetto a cui sono fortemente legato perché i brani che lo compongono sono letteralmente pezzi della mia vita. Considero questo album come il primo mattone di una casa della mia discografia. In passato ho avuto delle battute d’arresto nel mio percorso al livello di uscite Nel 2022 ci sarà davvero tanta musica.
Eravamo a X Factor, subito dopo il soundcheck dei BootCamp c’era sto ragazzo biondo che si incamminava verso l’hotel a piedi, non era vicinissimo e gli abbiamo dato un passaggio.
Nei giorni successivi abbiamo iniziato a parlare e, quando abbiamo visto l’esibizione durante le registrazioni del programma, siamo rimasti a bocca aperta.
Quando siamo tornati a Napoli stavamo riascoltando alcuni provini dei Riva ed è riuscito fuori questo pezzo, buio, che abbiamo arrangiato in almeno cinque versioni; abbiamo subito detto: “Che bello se lo cantasse Edo”.
Alla canzone mancavano delle parti e gli abbiamo chiesto di scriverle, ci ha rimandato il file con delle robe fighissime e il pezzo per magia era completo. Lo abbiamo fatto ascoltare a Futura Dischi, che ha proposto il feat.
Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?
Potrei dirti i nomi che diciamo sempre quando ce lo chiedono, da Lucio Dalla a Frank Ocean, da Enzo Carella a Son Lux. In questo periodo però stiamo ascoltando moltissimo Lucio Battisti. Ci sta aiutando a concepire il disco che stiamo preparando, e di cui siamo molto orgogliosi.
Il sound e le canzoni dei Riva derivano dalla commistione del cantautorato italiano con cose più nuove non italiane. Almeno questo è il nostro obiettivo. Siamo in tre, e abbiamo ascolti diversi; quando lavoriamo ai nostri pezzi ovviamente si mischia tutto.
Lavorare in studio per noi vuol dire non soltanto scrivere, arrangiare, produrre, ma soprattutto ascoltare musica insieme, da quegli ascolti poi traiamo ispirazione.
Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?
È una domanda a cui non so se posso dare una risposta: forse vorrei venissero fuori dei concetti e delle riflessioni che facciano sentire meno sole le persone.
Ho sempre immaginato la musica come un grandissimo abbraccio fra le persone; quando un pezzo diventa cultura popolare, si canta allo stadio, nelle piazze, sulle spiagge, è un sentirsi parte di qualcosa di più grande.
Quando ci scrivono che una nostra canzone “è servita”, quando capiamo che in qualche modo ha aiutato qualcuno, per noi è la cosa più bella che possa esistere: ci spinge a fare sempre di più, ci fa sentire utili.