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Tag: intervista

Musica, Pornostalgia e Willie Peyote

Al secolo si chiama Guglielmo Bruno, classe 1985, proviene da Torino, città della Mole, delle macchine, del caffè, della cioccolata e delle origini del cinema italiano. In arte si chiama Willie Peyote e il 6 agosto aprirà la prima edizione del Sogliano Sonica Festival, presentando al pubblico Pornostalgia, l’ultimo progetto che si è inserito quest’anno nel panorama musicale nostrano. Su Twitter si definisce “Nichilista, torinese e disoccupato, perché dire cantautore fa subito festa dell’unità e dire rapper fa subito bimbominkia”. Con VEZ Magazine si è rivelato un artista dalle idee chiare e dalla grande passione che unisce al divertimento per ciò che fa. 

 

Vorrei partire dal 6 agosto perché avrai l’onore di aprire la prima edizione del Sogliano Sonica Festival. Cosa ti aspetti da questa data e come ti trovi a suonare in Romagna?

“Mi trovo bene, ma, lo sai, è difficile trovarsi male in Romagna. L’anno scorso il tour iniziò da Cesena, quindi ho un legame molto stretto con la Romagna e con tutta la scena romagnola. Sono contento ed è un onore aprire il Sogliano Sonica. Spero di farlo al meglio.”

 

Quando il rap è uscito dai quartieri afroamericani degli U.S.A. e si è diffuso a livello mondiale, c’è stata una frattura tra i puristi della musica che lo disprezzavano e chi invece ne accoglieva la novità e la modernità. Sapendo che tu provieni da una famiglia di musicisti, come hanno reagito alla notizia che ti saresti dedicato al rap?

“In realtà bene, nel senso che non era tanto il genere musicale quanto i contenuti l’aspetto a cui è sempre stata interessata la mia famiglia. Non hanno mai posto limiti all’ascolto di generi anche diversi da quelli che ascoltavano loro, perché viviamo in un contesto in cui si apprezza la musica come condivisione. Quindi non avevano limiti dovuti al genere, era più una questione di contenuti, perché alcune volte il rap ha una modalità molto hardcore di scrittura ed esposizione dei pezzi. Comunque, non mi hanno mai posto limiti, ho una famiglia molto aperta sui gusti musicali.”

 

Nelle tue tracce tu parli in modo chiaro e schietto. Conviene sempre parlare in modo chiaro?

“Convenire no, perché come sai la convenienza è un concetto che dipende dalle situazioni e dalle persone che ti circondano. Convenire, no. Lo trovo opportuno, soprattutto quando si parla di rap. Mi sono avvicinato al rap proprio perché è un genere schietto e diretto, quindi lo trovo parte della sua stessa forma artistica. Non riesco a pensare a un rap che non sia in qualche modo diretto e hardcore. Parlare chiaro anche nella vita non sempre è conveniente, ma questo non vuol dire che non sia giusto.”

 

In Pornostalgia troviamo la traccia Robespierre dove tu dici “Come Robespierre taglio la testa ai re/Fino a che non taglieranno la testa a me”, che è una chiara sfida al sistema, la voce di chi vi si pone contro rischiando tutto, anche se ci vive dentro. Quanto può essere difficile opporsi a un sistema, come può essere l’industria musicale, facendone parte? 

“Opporsi a un sistema di cui si fa parte è un concetto che rischia di essere fine a sé stesso. Io mi pongo contro un certo atteggiamento. Di per sé l’industria musicale non è sbagliata, credo che sia sbagliato l’approccio di quegli artisti che si lasciano un po’ troppo trascinare da altri nelle scelte e non dal proprio gusto musicale. Ci si dovrebbe sempre ricordare i motivi per cui sogniamo oppure si inizia a fare i musicisti, perché si rischia di perdere il contatto con quelli che sono stati i motivi che ci hanno spinto a fare delle scelte nella vita. Anche perché, pur inserendosi nelle regole del mercato, ed è normale che sia così, si può proporre una cognizione che sia un po’ più profonda e non solo volta al raggiungimento di obiettivi molto veloci, perché più velocemente raggiungi un obiettivo, più velocemente devi trovarne un altro da raggiungere.”

 

Quindi secondo te l’artista, anche quando è arrivato, deve concedersi più profondità ed emotività? Oppure può e deve fare altro?

“Ognuno deve fare le proprie scelte. Spero solo che siano tutti in pace con loro stessi per le scelte che fanno, che non si lascino troppo trascinare dalle leggi di mercato e dalle scelte altrui, perché penso che l’arte nasca soprattutto dalla libertà di esprimere sé stessi. Nel momento in cui ci si trova vincolati nell’esprimere quello che viene chiesto e non quello che provi, si perde il senso dell’arte.”

 

A proposito del mercato musicale: cosa ne pensi dei featuring in generale? Cosa possono portare agli artisti e cosa al pubblico?

“I featuring a me piacciono molto, li apprezzo, li faccio io per primo. Anche lì, dipende dalle logiche con cui si fanno certi progetti. Le persone che chiamo nei miei dischi sono artisti che stimo, persone che, prevalentemente, conosco umanamente, con cui condivido anche discussioni sui temi che poi andiamo ad affrontare nelle canzoni. Quando i featuring, invece, vengono creati a tavolino, credo che si perda il senso della collaborazione artistica perché effettivamente si perde il concetto artistico. Trovo interessante veder collaborare artisti diversi. Più diversi sono, più il lavoro è interessante.”

 

Sempre lo stesso film è una dedica a Libero De Rienzo dove emerge, però, anche un racconto autobiografico. Puoi dirci qualcosa di più?

“Il pezzo racconta gli ultimi mesi prima dell’uscita del disco, quindi questo ultimo anno che ci ha portato fino a qui, anno in cui c’è stata anche la scomparsa di Picchio. Per me lui è sempre stato un riferimento prima di tutto artistico perché io sono cresciuto guardando Santa Maradona, volendo essere lui, traendo ispirazione anche dal suo personaggio. Poi ho avuto modo di capire che non era un personaggio, che era proprio lui, che era sempre così, una splendida persona, un grande artista che ho apprezzato tanto anche lavorandoci insieme. Nelle conversazioni notturne mi ha dato anche un modo di vedere, un approccio che cerco di raccontare nel disco e in quella canzone in particolare: il discorso per cui il coraggio vale più del talento, le scelte difficili che hanno influenzato anche la sua fama. Se avesse fatto scelte più facili, sarebbe stato anche molto più riconosciuto dal pubblico, invece ha fatto sempre scelte coraggiose e coerenti con la sua visione artistica. Poterlo vedere da vicino, conoscerlo, condividere certi momenti mi hanno dato la conferma che si può fare anche così, si deve solo essere consapevoli che questa cosa non porta ad essere il bisogno di tutti, ma non tutti dobbiamo essere il bisogno di tutti.” 

 

Cosa è per te la Pornostalgia?

“Guarda, Santa Maradona presenta piuttosto bene il concetto di pornostalgia, nel senso che poi è un film che per me è stato formativo tra i diciotto e i venti anni, un film che ancora mi porto dentro. Ho anche potuto conoscerne i protagonisti, non solo gli attori, ma anche chi ha composto la colonna sonora, che per me è stata epocale. Inoltre, oggi mi trovo a vivere in una casa che si affaccia su uno dei luoghi in cui è stata girata una scena del film, e quando l’ho comprata non lo sapevo. In qualche modo è un film che mi accompagna sempre. Quindi se mi chiedi cosa rappresenta la pornostalgia ti direi Santa Maradona, oppure la trattoria, andare allo stadio con mio padre. Quella è secondo me la pornostalgia.” 

 

Alma Marlia

Tre Domande a: Rough Enough

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

Ci sono tantissimi artisti a cui ci ispiriamo, più o meno direttamente. Diciamo che per questo disco l’influenza principale è stata tutta nella corrente dell’alternative rock anni ’90 e inizio anni 2000, in particolare a band come Queens of the Stone Age e Shellac. Fabiano apprezza moltissimo Jack White, io invece mi sono molto ispirato in particolare a Dave Grohl per lo stile della batteria del disco, anche se poi ha fatto molto il lavoro in fase di produzione di Franz Valente, batterista de Il teatro degli orrori, altra band che adoriamo e il cui ascolto ci ha molto ispirato in tutti questi anni.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Principalmente il messaggio testuale delle canzoni e dell’ultimo disco, l’idea che viviamo in un periodo storico in cui il culto della perfezione e della competitività sociale smette di essere credibile e che ogni persona combatte con sé stessa e non deve sentirsi inferiore agli altri solo perché non raggiunge gli stessi obiettivi o lo fa con più tempo. Siamo esseri imperfetti e dobbiamo accettarlo, cercando di mostrarci fragili per quello che siamo in realtà.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Beh, se parliamo di featuring musicali la scelta è ampissima. In questo disco abbiamo già collaborato con nomi importanti del panorama musicale italiano come Franz Valente e Ufo de The Zen Circus. Penso che ci piacerebbe continuare su questa scia e collaborare con qualche artista che stimiamo e seguiamo da tanto tempo, come ad esempio i Verdena. Più realisticamente ci piacerebbe davvero tanto un giorno lavorare a un disco la cui produzione sia affidata a Steve Albini; stimiamo molto il suo lavoro e pensiamo sarebbe la persona perfetta per far emergere al meglio la nostra musica.

Tre Domande a: KIHM

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Beh, partirei con il sottolineare che i tempi difficili per il mondo della musica si son delineati prima della pandemia.
Penso che, specialmente in Italia, sia stata sempre più penalizzata col passare del tempo, la musica non per forza mainstream e poi, da quando Sanremo è diventato un “Concertone Indie” con qualche innesto della vecchia musica leggera, non c’è stato quasi più spazio per tutto quel che esiste ed è reale al di fuori di tali categorie. Il Covid c’ha poi messo il carico finale: tutti quei musicisti, sconosciuti ai più e che non vivevano di notorietà e di numeri “pompati” ma che sopravvivevano grazie ai live nei club, teatri, locali ecc… o son spariti o sono dei reduci come me.
Io, come tanti altri, ho cercato di sfruttare i periodi di chiusura scrivendo nuova musica, studiando, provando a crearmi numerosi appigli inerenti all’arte in generale. Ad esempio, ho scritto un album di colonne sonore con Paolo Vivaldi, uno dei più noti compositori di colonne sonore per film in Italia (Non essere Cattivo di Claudio Caligari), disco finito sul catalogo APM di Los Angeles. Ho aperto uno studio di registrazione e produzioni musicali, il KRH Studio a Taurianova, dove attualmente vivo. Ho intrapreso gli studi in Conservatorio a Reggio Calabria, insomma, non son rimasto fermo ad aspettare. Di sicuro tutto ciò, da un certo punto di vista, mi ha salvato.
A noi, ai cosiddetti musicisti di nicchia, non rimane che creare, suonare, proporci, ma ahimè il nostro destino musicale non dipende dalla qualità e dalla mole di lavoro che ci sta dietro. Dipende probabilmente dai numeri. La musica oggi è numeri.
Detto ciò e lasciando da parte i grandi “volumi” (numeri), per fortuna è pieno di musica interessante che ovviamente va scovata, io sono uno di quelli che la cerca e che spesso la trova.

 

Come e quando è nato questo progetto?

KIHM è ufficialmente nato nel 2021, ma è figlio del mio precedente progetto KIM REE HEENA (2016).
Vengo dalla musica rock alternativa e ho pubblicato il primo disco da solista nel 2009 (Alessio CaliviForme e stati), seguito da un altro  nel 2015 (Alessio CaliviSirene, vetri, urla e paperelle).
Nel 2016 ho iniziato a sperimentare con la sintesi e la musica elettronica, che iniziai a studiare nel 2010. KIHM, arriva dopo 12 anni di attività musicale. Ho scritto le mie prime canzoni a 13/14 anni, quasi 23 anni fa, assieme ai ragazzi delle band che frequentavo in quel periodo.
KIHM deriva da un omaggio a Kim Gordon dei Sonic Youth, è il resoconto di tutto il mio background musicale, quello degli ultimi vent’anni. 

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Posso dire che l’artista con cui ho sempre sognato di collaborare (in Italia) o magari semplicemente voluto conoscere, è stato il Maestro Franco Battiato.
Nutro una passione sconfinata per i Bluvertigo e i Subsonica, ecco dovessi scegliere, sceglierei loro.
Ci sono altri musicisti nel panorama internazionale con cui mi piacerebbe collaborare un giorno, ad esempio Mogwai, Blonde Redhead, Moderat. Credo che il mio modo di sviluppare i brani (struttura, dinamica, armonizzazioni), forse anche un po’ il tipo di sound (tipologia di suoni utilizzati), sia abbastanza vicino al loro. Tornando all’Italia un’altra band con cui suonerei volentieri sono i Planet Funk. Dipende anche dal contesto musicale nel quale si intende collaborare, io non faccio solo elettronica, mi piace sfruttare determinati strumenti per ottenere i suoni che voglio, chiaramente questi ne determinano anche un po’ il genere. Partendo da quest’ultimo punto di vista direi che Giulio “Ragno” Favero è proprio il musicista, ingegnere del suono con cui miscelerei mille suoni.

Una chiacchierata punk con Amyl and the Sniffers

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Amyl and the Sniffers è una band punk rock/pub rock, fondata a Melbourne. È composta da Amy Taylor (voce), Bryce Wilson (batteria), Dec Martens (chitarra) and Fergus Romer (basso). La band è famosa per le loro esibizioni dal vivo e il loro stile particolarmente frenetico e dinamico, proprio come le loro canzoni. Hanno vinto diversi premi, come il Music Victoria Awards nel 2020 come miglior band, miglior musicista (vinto personalmente da Amy Taylor) e miglior esibizione dal vivo, vinto di nuovo nel Music Victoria Awards del 2021. La band ha vinto anche ARIA Music Award per il miglior album rock, nel 2019. Attualmente contano due EP, quali Giddy Up (2016) e Big Attraction (2017) e due album, Amyl and the Sniffers (2019) e Comfort Me (2021). In occasione del loro concerto per acieloaperto a Cesena, abbiamo avuto il piacere di intervistare Amy.

 

Siete ben conosciuti per i vostri live dinamici ed esplosivi. Ti senti più a tuo agio sul palco o in studio? Che relazione hai con i tuoi ascoltatori?

“Probabilmente mi sento più a mio agio durante un’esibizione dal vivo piuttosto che registrare in studio. Sul palco ti senti libero e senza inibizioni. 

Adoro i miei ascoltatori. È bello vedere ragazze giovani o donne o, sai, ragazze di sessant’anni che fanno una foto con me, o piccole attività che condividono il loro prodotto con me o mi regalano un vestito, giusto per essere gentili. È fantastico sapere che la mia musica arriva alle persone e gli fa provare qualcosa.”

 

Come hai preso la vittoria del premio ARIA Music Award e la conseguente ascesa al successo? Hai rimpianti sugli esordi della vostra carriera?

“Non saprei, è stata una sorpresa enorme quando l’abbiamo vinto, quindi eravamo tipo “Ma che cazzo, è fantastico!” e poi abbiamo tirato dritto. Essere riconosciuti è stato davvero speciale. Non ha corrotto troppo l’umiltà, in generale.

Non ho mai pensato ai rimpianti prima d’ora. Sono sicura che li avrei se ci pensassi su, ma non voglio pensarci ancora, altrimenti mi sentirei male. Credo che se potessi tornare indietro direi alla me più giovane di leggere più libri e più notizie, iniziando a diventare più cosciente perché è come se vivessi sotto una roccia abbastanza grande, cosa che fa parte di chi sono e non cambierei, ma mi è piaciuto ciò che i libri hanno fatto al mio cervello quando ho iniziato a leggere.”

 

Dal debutto fino all’ultimo album, le vostre canzoni sono molto vivaci ed energiche. Qual è la ricetta per una canzone perfetta?

“Non so se esistono cose come la canzone perfetta, perché a volte non ascolto neanche le mie canzoni preferite se non sono nel giusto stato d’animo. Non ho una risposta. Se stessimo parlando di ricette e io fossi uno chef, probabilmente starei facendo toasts e non so perchè sono gustosi, ma a volte lo sono.”

 

I vostri testi sono spesso volgari e fuori dall’ordinario, senza limitazioni o censure. Cosa pensi del moralismo estremo unito alla cancel culture che oggi sfida sia la libertà di espressione che la libertà artistica?

“Credo che la cancel culture sia complicata. Penso che la call-out culture possa essere una cosa buona. Online può essere pericolosa perché è tutto dietro una tastiera, ma in generale la call-out culture significa marginalizzare persone, tipo che le loro voci vengono sentite da chi ha un po’ più di potere ed è complicato perché se hai più potere è più difficile essere messi in discussione e può sembrare di essere sempre sotto attacco, ma a volte è semplicemente qualcuno senza voce che alza un po’ la propria voce.”

 

Credi che il punk (sia come attitudine che come genere musicale) sia morto? 

“Credo che come genere sia definitivamente vivo. Il punk anni settanta è probabilmente morto. È un ambiente diverso e c’è una cultura diversa, ora. Ma è cambiato, esiste ancora. Non so dire quale sia la migliore versione del punk, ma rimane sempre punk, quindi potrebbero essere morti ma esistono diverse versioni. Tante persone hanno una visione molto limitata di cosa è punk, quindi per loro se la loro versione di punk è morta allora tutto il resto è sbagliato. Spesso è soltanto diverso e non riescono a vederlo, perché non vogliono. Dappertutto, nel mondo, è pieno di fan del punk. Può sembrare diverso e può sembrare che ognuno suoni diverse versioni del genere, ma la gente va pazza per la musica e sono sicura che a molti punk non piaccia, ma non c’è niente di più punk di non avere un lavoro quotidiano!”

 

Riccardo Rinaldini

Tre Domande a: Secondomé

Come e quando è nato questo progetto?

Il mio primo album, MALE DAVVERO, è nato come sfogo personale dopo la fine di una relazione tossica, piena di negatività e nella quale non eravamo in grado di vedere le cose come stavano davvero. Dopo tutto quello che è successo, mi sono sentito malissimo per mesi e tutt’ora accuso il colpo, sentendomi da un lato un forte senso di colpa, dall’altro un infinito ed incolmabile vuoto.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Energica – Malinconica – Consapevole.
Non sono le tre parole a fare la differenza per me, ma i gap tra una parola e l’altra. L’energia potenziale che si trasforma e ti urta non appena succede qualcosa che non ti aspetti. Nel mio album, MALE DAVVERO, ho cercato di essere davvero me stesso, con tutta la mia imprevedibilità.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Le canzoni sono come la luce delle stelle: il momento in cui le ascolti arriva molto dopo il momento in cui sono state generate. Come canzone identificativa del mio progetto per il pubblico, sicuramente un’ottima proposta sarebbe Mantieni le Distanze, ma come canzone identificativa per me, al momento vi direi Long Island.

Tre Domande a: Cassio

Come e quando è nato questo progetto?

Finito il primo lockdown, in cui trascorrevo le mie giornate a giocare a pallone in giardino e a pensare, ho ripreso in mano tutto.
Venivo da anni di letargo musicale, dove il solo passare davanti alla chitarra appoggiata in un angolo del mio studio in casa, era per me deleterio. Non la volevo guardare né toccare.
Da quando s’è sciolta la mia band – La Maison – nel 2016, non ho più scritto né desiderato niente, apparte essere invisibile e silenzioso.
Dopo il primo pezzo scritto per gioco, il resto del disco è scivolato giù in un attimo, come quando dopo una cena in rosticceria cinese ti gonfi di spaghetti di soia e sake e poi corri al bagno a svuotarti e in un attimo è tutto finito.
Comunque il disco è finito e sono contento.
Bella per me.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Probabilmente sceglierei pioggia, fegato e dolore, e lo farei solo per dire il contrario di sole cuore amore.
Mi piace andare contro alle cose, quasi a prescindere… vedere come reagiscono le persone agli stimoli avversi ti dà la misura del tipo di persona che hai davanti.
Comunque non era completamente una cazzata quella storia del fegato…

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Io non sono un tipo da messaggi sociali impegnati… o perlomeno non ancora.
La musica di Cassio, la mia musica, racconta la storia e i pensieri di Cassio, di me, senza lieto fine, senza morale.
Non ho addosso niente in più di voi e non sono di certo il tipo giusto a dare lezioni di vita alle persone… anche perché altrimenti sarebbe un disastro!
Secondo me il messaggio dietro alla musica lo deve trovare chi l’ascolta, a seconda del momento di vita in cui l’ascolta.
Se il senso che le persone ci trovano è lo stesso che mi ha mosso a scrivere, avrò fatto un buon lavoro, ma se ce ne trovano un’altro a me va bene uguale.

Fast Animals And Slow Kids: da Perugia a Bologna in quattro domande

Dopo un tour primaverile nei palazzetti, i Fast Animals and Slow Kids sono pronti per partire alla volta del loro tour estivo che toccherà tutto il paese tra giugno e settembre. Abbiamo fatto due chiacchiere con il cantante Aimone Romizi per parlare un po’ in preparazione alla data bolognese al BOnsai Garden il 6 luglio.

 

Ciao Aimone, bentornato su VEZ Magazine! A distanza di un anno risalite sul palco delle Caserme Rosse, con lunica differenza che adesso si può restare in piedi, liberi, senza restrizioni e voi potete, finalmente, dare il massimo dal vivo. Gli ultimi due anni di restrizioni hanno influenzato il modo in cui vivete il palco e il pubblico?

Ciao VEZ! Per forza, penso che gli ultimi due anni abbiano influenzato qualsiasi aspetto della vita, non soltanto quello musicale o lavorativo. Ti dico solo questo: abbiamo fatto queste otto date invernali, anche l’Estragon a Bologna, e ogni volta che risalivo sul palco mi sembrava quasi di dover reimparare a starci sopra, che è una cosa strana perché noi facciamo questo mestiere da tanto tempo. Sono passati anni, quindi si potrebbe dire è come la bicicletta, tendenzialmente lo sai fare, invece questa volta è stato proprio diverso perché per un attimo almeno tutti i musicisti hanno detto: okay, forse sta roba qua dura per sempre e dobbiamo fare qualcos’altro. Quindi c’è stata quasi una stasi mentale che ha portato anche a una serie di pensieri dolorosi durante questi anni, quindi devo dire che sicuramente ha impattato. Ma, con il senno di poi, visto che sta riprendendo tutto quanto, anche i concerti, c’è qualcosa di positivo, una sensazione di novità che ridà una carica che dici “cazzo ma veramente era questa roba qua?” Al tempo stesso quindi c’è una sorpresa, quasi una riscoperta che, soprattutto per chi ci segue da tanto tempo, è molto importante riuscire a risentire: questo voler ridare indietro quello che ottieni con un applauso, con un urlo, con una canzone cantata è fondamentale ed è estremamente importante per riuscire a mantenere un concerto di un certo livello, affinché sia emotivamente coinvolgente. Devo dire che dall’altra parte questa situazione ha ridato anche forse una ventata di freschezza al tutto e spero duri il più possibile. Mi sembra così perché appunto abbiamo fatto otto date e da lì in poi sto fremendo per ritornare su un palco.

 

A settembre 2019 avete suonato in Piazza Maggiore a Bologna, in acustico e con unenorme folla attorno. Avete regalato a una piazza così grande minuti di empatia e intimità, quasi ad anticipare il tour in acustico post-pandemia. Avete intenzione di tornare a proporre performance simili?

Quella in Piazza Maggiore a Bologna è stata una roba stranissima. Era stata organizzata da Tutto Molto Bello e dai ragazzi del Locomotiv e l’abbiamo impostata come “Ma si dai facciamo questo acustico, vediamo come va, sarà una roba tranquilla”. C’erano seimila persone che ci hanno letteralmente circondato. Piazza Maggiore era piena ed è stata una roba assurda, dove si è creata anche una magia e unempatia pazzesca. Forse quella cosa è difficile da ricreare, nel senso che c’era una condizione particolare che ha portato a far sì che quella cosa lì fosse stata molto importante e sentita. È chiaro una situazione del genere io vorrei riprovarla, ma in realtà ora come ora il piacere di tornare a suonare con gli strumenti elettrici su un palco è impagabile, ci è proprio mancato. Tra l’altro, nel 2019 noi avevamo il nostro tour e quello è stato uno spot”, una cosa particolare all’interno del tour in cui suonavamo nel modo e nelle modalità con cui lo facciamo da sempre, quindi se si ricreasse la stessa situazione sarebbe perfetto. Se invece, come successo in questi due anni, ci ritrovassimo a dover forzatamente fare soltanto quella cosa lì, nonostante ci abbia ridato indietro tantissimo anche dal punto di percezione dei nostri stessi pezzi, magari ci ragioneremmo di più. L’importante è che contesti di questo tipo non siano forzati, deve essere qualcosa di spontaneo, perché quando lo abbiamo fatto spontaneamente è venuta fuori quella magia.

 

Bologna ha fatto sia da madre che da balia a cantautori del calibro di Dalla, Guccini e Morandi, mentre in tempi più recenti Cremonini, per citarne alcuni. Cosa ne pensi del cantautorato? Ti definisci cantautore?

Mmmh no, non mi definisco un cantautore. Anche perché il cantautore me lo immagino come una persona che determina il processo artistico. Cantautori e cantautrici sono persone singole che determinano la composizione della musica, nel mio caso io sono una band, in questo caso io con la bandiera di Aimone Romizi sto rappresentando la testa di quattro persone che compongono insieme. La musica che suoniamo è musica di insieme, quindi è abbastanza differente anche da un punto di vista “autoriale”: non c’è solo il pensiero di un singolo, anche se i testi li scrivo io. C’è sempre una compenetrazione del pensiero degli altri, perché alla fine scriviamo insieme. Se qualcosa non piace io torno sui miei passi e la riscrivo insieme agli altri. Ci sono battaglie continue prima che prenda forma la canzone finale. Quindi non mi sento un cantautore, anche se spero che le parole che utilizziamo nei nostri pezzi abbiano una risonanza di quel tipo, abbiano una risonanza importante nella testa delle persone che ascoltano, come succede con i grandi cantautori.

 

Se ti dico Bologna, cosa ti viene in mente? Hai qualche storia da raccontare passata in mezzo ai portici, o avventure stravaganti vissute in questa città?

Storia? Io ne ho a migliaia di storie su Bologna. Partiamo dal fatto che noi abbiamo suonato in qualsiasi locale di Bologna prima di iniziare a fare i grandi posti e le migliaia di persone. Una volta abbiamo suonato alle Scuderie in Piazza Verdi che normalmente è un bar, c’erano nove paganti, una volta abbiamo suonato all’Arteria, quella volta c’erano dodici paganti. Abbiamo suonato ovunque. In più Bologna per noi di Perugia molto spesso è anche un po’ il posto dove prendere la macchina e andare per vedere delle cose particolari, quindi ho visto dei concerti incredibili, dai vari Independent Days Festival dove ai tempi ho visto band magiche dai Lagwagon ai The Mars Voltama anche cose più piccole al Locomotiv o al Freakout. Ho visto una serie di concerti importantissimi per la mia vita e in più c’è stato un periodo in cui io gravitavo molto intorno a Bologna. Me la sono vissuta anche sotto i portici, quindi ho questi ricordi meravigliosi di nottate a suonare per la strada in zona Pratello.

 

Luca Ortolani

Tre Domande a: Réclame

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

Il progetto nasce dalla volontà di unire le sonorità elettroniche con quelle acustiche e di racchiudere il tutto all’interno di strutture pop. Le influenze che si mescolano sono molteplici e, soprattutto, cambiano con il passare del tempo. Sicuramente l’alternative rock contemporaneo, l’indietronica e tutti gli anni ’70 fanno parte del nostro DNA musicale. Il nostro punto di riferimento, per quanto riguarda la canzone italiana, è indubbiamente Fabrizio De André. Lo reputiamo uno dei capisaldi della canzone d’autore, non solo italiana ma mondiale. Altri autori italiani che ci hanno influenzato sono Paolo Conte, Lucio Dalla (soprattutto per questo disco) e, in generale, tutta la scuola cantautorale degli anni ’60 e ’70.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

La complessità del reale. Non crediamo che le canzoni, così come l’arte, debbano ricercare verità assolute, puntare il dito o dare giudizi tagliati con l’accetta. La canzone deve essere un confronto costante con il reale, con gli altri e con noi stessi. Soprattutto, bisogna sempre cercare di raccontare un qualcosa da più angolazioni possibili, offrendo sempre il contraddittorio, perché non c’è mai il bene da un lato e il male dall’altro e non c’è mai una soluzione semplice per questioni complesse.

 

Progetti futuri? 

La dimensione live è, sicuramente, la naturale prosecuzione del lavoro che abbiamo condotto in studio. Sicuramente, quest’estate intendiamo suonare e presentare il nuovo disco sul maggior numero possibile di palchi italiani. Il 18 Giugno proporremo, per la prima volta, il disco live a Roma presso il locale Le Mura Live Club. Le altre date saranno annunciate, a breve, su tutti i nostri profili social.

Fulminacci: chi si cela dietro al nome?

Tu ti chiami Filippo Uttinacci, ma in arte il tuo nome è Fulminacci, mentre varie testate ti definiscono una delle più interessanti rivelazioni indie degli ultimi tempi. Oltre ad essere curiosi di sapere come nasce il tuo nome d’arte, vorremmo sapere chi è Filippo Uttinacci e che rapporto ha con Fulminacci e tutta l’attenzione che le sue canzoni portano su di lui. 

“Grazie per questi bellissimi complimenti! Il mio nome d’arte nasce senza un’intenzione particolare. Fulminacci ha un suono che mi sta simpatico e fa rima con il mio cognome, quindi è più corto del nome intero ma mi ci riconosco lo stesso. Più avanti ho scoperto che è un’esclamazione tipica dei vecchi fumetti di Braccio di Ferro. Ancora non sono sicuro di aver capito dov’è il confine tra vita privata e lavoro. A differenza dei supereroi io non posso mettermi una maschera ogni volta che entro in azione. Quelli tipo i Daft Punk ci sono riusciti, ma io non ce la faccio a rinunciare al contatto visivo diretto con il pubblico, anche se comunque il mio piano A era essere Spiderman.”

 

Nelle tue canzoni parli di vita di tutti i giorni ma muovi anche una critica sociale molto schietta, come in Borghese in Borghese. Questo ricorda come è sempre divisiva la figura dell’artista a cui il pubblico da una parte chiede emozioni da provare e una certa voglia di evasione, dall’altra è portato a criticare chi è troppo leggero, se mi permetti il termine. Tu, come ti inserisci in questo panorama come musicista ma anche come ascoltatore?

Io penso che la musica sia un grande insieme che può contenere tantissime cose diverse, c’è spazio per ogni approccio e qualsiasi genere e credo che esista un pubblico per ciascuna realtà.”

 

Nonostante tu sia molto giovane, la tua composizione rispecchia canoni tradizionali, cioè si percepisce un lavoro nella scrittura di musica e testi che non passa per le vie più facili, come spesso, invece, si nota in molti altri artisti, emergenti e non. Cosa ne pensi della musica oggi e del suo futuro?

“Sul futuro della musica non oso fare previsioni, ma questo è un periodo interessante: c’è molto entusiasmo e tanta varietà.” 

Tre Domande a: Lepre

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?

Tantissimi, tutti, anche quelli che non mi piacciono hanno una grande influenza… faccio un elenco pazzo… vado: il primo disco di Tricarico mi ha salvato in un momento tanto complicato e mi ha aperto un canale emotivo che utilizzo per la scrittura. Lo devo a lui. Poi c’è tantissima musica che ho ascolto e vivo e apprezzo e sono legato a tanti autori della mia generazione: Ale Fiori, Bianconi, Calcutta, Motta, Truppi… è una scena che mi piace e fare una lista è doloroso, ma ce ne sono davvero tanti. Ci sono tante cantautrici che mi fanno impazzire: Bilie Eilish, Fiona Apple, Regina Spektor, Björk. E poi le band: Battles, Radiohead, Tortoise, Blonde Redhead. E i maestri, geniali e visionari, Dalla e Conte.
Mi fermo, ma potrei andare avanti… ho cercato di fare una sintesi ma non è facile.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Tantissimi… davvero è pieno di persone che stimo…. se dovessi dire solo una persona direi Emma Nolde. Il suo disco è entusiasmante, il suo modo di scrivere, di cantare… e direi di stare al mondo, mi affascina, mi sveglia. Io le voglio bene.

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Mi piacerebbe portare le canzoni di Lepre e del disco Malato a Fosdinovo, ad un festival che si chiama Fino al Cuore della Rivolta: è una festa partigiana che mi ha davvero colpito per l’energia che ho sentito. Ci sono stato con Giancane e Lucio Leoni, mi piacerebbe davvero tanto tornarci.

Tre Domande a: Glauco

Come e quando è nato questo progetto?

Glauco nasce dal piacere di fare rap. Facevo sempre freestyle e scrivevo canzoni, pensai di farne uscire una. Non pensavo sarebbe andata bene. Da lì ho iniziato a sentire di dover continuare ma non avevo i mezzi adatti per poter fare la mia musica. Per quanto mi riguarda il progetto vero e proprio è nato da un paio di anni, dal momento in cui iniziato a prendere consapevolezza di me stesso, più nello specifico da un anno a questa parte grazie anche all’incontro col mio produttore. Ora lavoro in team con persone competenti e sento di voler raccontare senza paura la mia vita.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Io, vera e provincia. Io perché indubbiamente viene da me e da come vedo e sento le cose. Vera perché è reale, non sparo cazzate, non parlo di ciò che qui non si vive, non parlo di pistole solo perché fa tendenza. Provincia perché vengo da un paese e questo lo porterò sempre con me. Penso che in un modo o nell’altro sia una cosa che traspare, mi piacerebbe essere la voce della mia gente. O meglio la voce di chi ha già voce e non sa usarla.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Il mio sogno sarebbe collaborare con Massimo Pericolo, amo la sua scrittura e anche lui viene dalla provincia come me. Il sogno ancora più grande Marracash.

Tre Domande a: Daniele Meneghin

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

I tempi in cui viviamo sono davvero particolari, ed è innegabile il fatto che le possibilità di fare cassa con la musica si sono ridotte molto. Penso però che non dobbiamo perdere di vista che fare musica, emozionarci con la musica sia una libertà che nessuno ci ha tolto, bisogna trovare modi diversi, ma la musica c’è, ed è sempre pronta a darci un sorriso, un’emozione, un conforto. 

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Sincera. Non ho mai fatto canzoni perché dovevo farle, ho sempre scritto quando ne avevo la voglia e la necessità, esprimendo il mio personale modo di vedere e vivere il mondo.
Radicata. Le mie canzoni parlano di me e di quello che vedo mentre vivo, quindi sono lo specchio del mio quotidiano ben radicato nella mia area geografica che è il Nord Est.
Libera. La mia musica sono io, senza mediatori, senza stare tanto a pensare chi devo accontentare o no, libera nei concetti, libera nella forma.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché? 

Siamo Uomo dal mio ultimo album Gesto Atletico uscito per Adesiva Discografica. Il brano è un autoritratto indiretto e racconta delle difficolta da superare per rendere il quotidiano speciale. Nell’intero album ci sono dodici piccoli gesti atletici raccontati in altrettante canzoni, Siamo Uomo ne è il capolista, anche per questo è stato il primo singolo uscito a rappresentare tutto il lavoro.