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Tag: intervista

A zonzo per Marrakech, persi in un Bazar con i Sudestrada

Una ragazza dal volto coperto da un hijab arancio è immobile, avvolta nel brulichio delle strade di Marrakech. In sottofondo, i cori di una preghiera e i rumori della società che si muove scalpitante. Inizia così Bazar, il nuovo videoclip dei Sudestrada, progetto indie-pop di Forlì-Cesena, a un passo dall’uscita del nuovo album Microclima.

“Visioni dentro ad un Bazar, due occhi dentro ad un hijab, la vita è momentanea, storia contemporanea”. Le parole del testo, evocative e seducenti, si amalgamano alla nitidezza delle immagini esotiche. Lo spettatore viene immerso tra gli odori e le sfumature tenui del Marocco.
La protagonista è ancora Gloria Montalti, modella forlivese classe ’96, presente anche in Skyscanner, l’ultimo singolo della band, uscito a Luglio per anticipare l’album.

Lorenzo Ghetti, cantautore e Francesco Cinque, synth/chitarra e produttore, ci parlano del singolo appena pubblicato e dei prossimi passi che muoveranno i Sudestrada.

 

Il video di Bazar è stato girato in Marocco. Perché questa scelta? 

Lorenzo: “Bazar necessitava di un contesto esotico, quello di un paese islamico. Non per forza doveva essere il Marocco ma dovevamo ricreare quell’atmosfera.”

Francesco: “Il Marocco è una delle prime mete che ci siamo prefissati. Il nostro intento è quello di rappresentare il tema del viaggio attraverso delle immagini. Ci piace viaggiare e mostrare quello che vediamo attraverso la musica. Il nostro percorso ha nel suo nome la strada, il viaggio. La nostra musica deve dare quasi una descrizione sensoriale che rifletta i colori e le persone di un luogo.”

 

In Skyscanner abbiamo seguito la storia di una ragazza che “prende un volo e si va”. Bazar  sarà la destinazione ? 

Lorenzo: “Marrakech non è la destinazione finale. Vorrebbe essere una destinazione intermedia. La protagonista ricerca sé stessa, ma la storia è stata creata per esigenza. Abbiamo pensato che Skyscanner potesse essere il manifesto di Microclima. Bazar era quel tocco di esotismo che ci caratterizza da sempre come gruppo. Gloria è stata una bellissima sorpresa. Skyscanner era la sua prima esperienza in questo ambito ma ha saputo interpretare il ruolo e quello che avevamo noi in testa senza neanche il bisogno di dirglielo. Il video di Skyscanner finisce con un aereo, lasciando un’apertura nella storia che prosegue in Bazar.”

 

Entrambi i brani anticipano l’uscita di Microclima, il nuovo album. Che valore ha questo nome?

Lorenzo:Prima di tutto mi suonava bene. Con questo disco abbiamo cercato di dare uno spaccato della nostra generazione in questo momento storico. La precarietà della nostra generazione non ha solo un’accezione negativa ma a volte è anche il motore del viaggio. Microclima descrive una situazione, il contesto intorno ad una certa porzione di territorio, le dinamiche che ci avvolgono. Tutti partiamo a scrivere dalla nostra cameretta ma non ci siamo solo noi, non siamo entità slegate. Microclima, ovvero il microclima che ognuno di noi ha intorno.”

 

Rispetto ad Arcipelago, il vostro album precedente, cosa è cambiato nel modo di raccontarsi dei Sudestrada? 

Lorenzo:In questo album vi è una consapevolezza maggiore di quello che vogliamo. Lo stile è decisamente più elettronico e più pop. In Arcipelago vi erano più elementi della musica d’autore ed erano molto meno amalgamati.”

Francesco:Gli ascolti che facciamo si distanziano dal filone della musica italiana. Personalmente sono molto ispirato dalla musica inglese e francese.In particolare gli ultimi pezzi dell’album come Microclima, Mektub e Bazar riflettono l’elettronica francese. Nel complesso, il disco è stato sviluppato in due fasi. I primi pezzi erano ancora legati ad Arcipelago, album uscito a Marzo del 2018. Quelli successivi invece riflettono una sintesi comune e delle nuove sfumature. In totale sono 9 pezzi, più un’introduzione a Microclima”.

 

Tre parole per descrivere il nuovo album.

Lorenzo:Sintetico, innovativo rispetto al nostro percorso, autonomo ovvero pop con una sua autonomia.”

 

Avete in programma delle date nel 2020? 

Francesco:Ci stiamo preparando per i live del prossimo anno. La data zero di lancio del disco sarebbe a inizio Marzo, fine Febbraio. Ci saranno altri live in location strategiche, non tante 4 o 5. La musica che stiamo facendo adesso si potrebbe prestare a coinvolgere le persone, farle ballare, quindi ci piacerebbe suonare anche nei club.”

 

 

 

Giulia Illari

0774: l’esordio di Puertonico accorcia le distanze tra Roma e Milano

Come suonerebbe una cena a base di spritz e carbonara? Suonerebbe esattamente come il primo EP di Puertonico 0774. Di origini romane e milanese d’adozione, riesce ad intrecciare queste due diverse realtà e realizzare un lavoro del tutto originale e personale: i suoi testi sono infatti un colpo alla pancia, espressivi e che arrivano dritti al punto senza troppi giri di parole. Il tutto è poi condito con un sound hip hop/r&b che smorza il cantato e rende i pezzi godibili e leggeri già dal primo ascolto.

Anche se oggi lo sentiamo cantare “ya ya ya” tra una barra e l’altra, Nicolò si porta alle spalle un passato nell’alternative rock con il suo ormai ex gruppo, i Blooming Iris. Il totale cambio di genere diventa quasi una sindrome di Zelig, dimostrandoci tutta la sua capacità di essere un artista camaleontico. 0774 è fuori da poco tempo, pubblicato con Thaurus Publishing e pronto per girare nelle nostre playlist di Spotify.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere per farci raccontare qualcosa di più sul suo progetto e cercare di rubargli qualche anticipazione.

 

Compresa la tua esperienza passata con i Blooming Iris, sono ormai più di dieci anni che sei nella scena, diciamo che non sei più di “primo pelo”. Raccontaci: cosa è cambiato da quando lavoravi ai pezzi col tuo gruppo a quando hai deciso di uscire come solista?

“La risposta sembrerà strana, ma è cambiato molto poco! Devo ringraziare gli anni passati in saletta con i Blooming, perché sono stati alla base della mia formazione musicale. Ho imparato a collaborare, arrangiare, scrivere parti per strumenti, cantare quando hai volumi altissimi nelle orecchie, sapere cosa serve dal vivo e in studio. L’approccio è cambiato perché negli anni inizi a conoscerti, capisci cosa vuoi dire e in che direzione vorresti portare la tua musica. La più grande differenza nel lavorare da soli l’ho riscontrata sicuramente nella maggiore velocità “decisionale”, anche se non è detto che le decisioni che prendi da solo siano le migliori. Per questo amo condividere la musica con gli amici che mi conoscono da tanti anni per avere feedback onesti e costruttivi.”

 

Prendersi un attimo per ascoltarsi il tuo EP in cuffia è come catapultarsi in uno dei primi videoclip di Usher con qualche “ya ya ya” che ti tiene incollato al 2019. Hai qualche artista di riferimento?

“Non ho artisti di riferimento. Sono affezionato a quello che da bambino stimolava la mia immaginazione, sia a livello visivo che sonoro. Cerco di mischiare queste suggestioni con ciò che amo della nostra epoca. Sono sempre alla ricerca di suoni stimolanti, sfidanti, che possano portare la mia visione un passo avanti. Per tenere vivo questo fuoco, lascio che siano le persone attorno a me ad ispirarmi.”

 

Il naturale bisogno di sfogare sensazioni pesanti accomuna tutti i tuoi testi e li rende autentici, mentre le sonorità orecchiabili pop aiutano poi a smorzarli e li addolciscono. Citandoti: “questo inchiostro è oro e mi salva dall’odio”, è così che nascono i tuoi testi?

“Nell’ultimo periodo devo dire che è stato così. La scrittura ha avuto un ruolo terapeutico, scrivere certe cose è stato complicato, perché mi sono scoperto molto. Quando cerchi la tua identità devi passare attraverso degli step, 0774 lo è, non so cosa avrò bisogno di raccontare o sfogare prossimamente, ma per suonare autentico dovrà farmi male ogni volta come la prima.”

 

Dai Blooming Iris a 0774 c’è un notevole salto di genere: si va da un alternative più impegnativo che strizza l’occhio agli Incubus a un sound pop e radiofonico. Quanta rincorsa hai preso prima di saltare?

“Tantissima! È stato un processo veramente lungo, soprattutto perché fino a qualche anno fa scrivevo in inglese e mai avrei immaginato di cantare in italiano. Ho attraversato una serie di fasi costruttive e distruttive che mi hanno portato ad avere la consapevolezza che ho oggi e penso che me ne aspetteranno tantissime altre!”

 

Tra Roma e Milano non ci sono solo cinquecento chilometri di distanza e qualche carbonara in meno, ma sono città che rappresentano due modi di vivere diversi. Come riesci a far coesistere queste due realtà e come influiscono sulla tua musica?

“Bella domanda, me lo chiedo spesso. La differenza tra le due città è abissale, hanno entrambe un impatto profondamente diverso su ciò che faccio, per modalità, vibe e altre mille cose. Diciamo che sto riuscendo a far coincidere aspetti molto eterogenei della mia personalità in ambienti che riescono a darmi sempre stimoli differenti e lontani.”

 

Solitamente quando si promuove un disco si pubblicano tante foto in posa e ci dimentichiamo di parlare di quanta fatica e sudore possano esserci dietro. Com’è stato per te far nascere questo EP? Hai lavorato solo o sei stato affiancato da qualcuno che ti ha aiutato con la produzione?

“È stato molto faticoso, per questo bellissimo. Ho lavorato da solo sia alla scrittura che alla produzione dei brani, è stato un processo molto intenso ma naturale. Si sono allineati gli astri e mi sono fatto trovare nel posto giusto al momento giusto. Devo ringraziare gli amici che hanno collaborato con me nella fase conclusiva del progetto per poterlo narrare al meglio, graficamente e sonoramente.”

 

Ho iniziato da qualche giorno a seguirti su Instagram ed ho subito notato come cerchi di coinvolgere chi ti ascolta nel tuo progetto: quanto è importante per te il rapporto con il pubblico e la promozione tramite i social?

“Penso che per un artista indipendente sia importante stabilire un contatto con il pubblico. Nonostante la tecnologia, i social ecc. l’arte è ancora fatta di persone e mi piace poter dialogare, coinvolgere. Lo faccio molto anche nei live, non riesco a farne a meno.”

 

Immagino che usciranno presto alcune tue date e siamo curiosissimi di sentirti e di scoprire il tuo live set! Sarai solo sul palco o qualcuno lo dividerà con te?

“Sto preparando due tipi di live set, uno da club e uno più soft, che sto iniziando a portare in giro. Sul palco non sarò solo, non lo trovo divertente, ma non posso sbilanciarmi più di così, altrimenti vi rovinerei la sorpresa!”

 

La tua poliedricità ti lascia carta bianca: aspetto di lasciarmi stupire o puoi farmi qualche anticipazione sui prossimi progetti?

“Sto scrivendo tantissimo, ho un sacco di canzoni che non vedo l’ora di far uscire, in più posso dirti che ho avviato un progetto con due amici conosciuti quest’anno e fra poco potremmo condividere il risultato della nostra collaborazione!”

 

Non ci resta che augurarti il meglio. Meno Ricky Martin e più Puertonico!

 

 

Sophia Lippi

AvA e l’era del matriarcato musicale

Il 25 ottobre è uscito Lo squalo, l’album di debutto di AvA, cantante e produttrice romana dall’attitudine forte e originale, assolutamente unica per il panorama italiano. 

Il suo genere di riferimento, infatti, è il moombahton e lei è la prima artista a proporre in Italia queste sonorità di stampo house, influenzate dalla latin wave e dall’afrobeat. Su queste sonorità vengono presentate nei brani tematiche pungenti, in cui la cantante affronta la realtà con ironia e con l’utilizzo di immagini dirette e chiare, che non lasciano troppo spazio all’immaginazione.

L’album è stato anticipato dal singolo Shazam, in cui vengono poste delle provocazioni, con il suo stile irriverente e personale, ad alcuni artisti trap del panorama nostrano, proponendo un punto di vista totalmente femminile sul mondo, in cui si auspica un vero e proprio ritorno del matriarcato.

Per l’occasione abbiamo fatto quattro chiacchiere con lei per scoprire più cose sul suo progetto ed ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao AvA! Ci parleresti un po’ delle tue esperienze passate e del tuo percorso che ti ha portato fin qui?

Ciao, io sono una cantautrice e produttrice romana e per quasi dieci anni ho portato avanti un progetto elettropop chiamato Calypso Chaos. Dalle ceneri di quel progetto è nata AvA, figlia dell’esigenza di approcciarmi a dei concetti molto più forti ed espliciti di quanto avessi fatto in precedenza, avvicinandomi a un genere musicale che rispondesse meglio a questa necessità.”

 

A tal proposito, sei infatti esponenete di un genere non comune per il mercato italiano, ovvero il moombahton, e nei tuoi brani possiamo trovare influenze di vario tipo, dal Sudamerica all’Africa. Come ti sei avvicinata a queste sonorità?

Il moombathon è un genere nato in America negli anni 2000 e che in Italia possiamo ascoltare nei club da circa 5-6 anni, è sempre stato un genere di musica che amavo, e tutt’ora amo, ballare. Il mio avvicinamento a queste sonorità è avvenuto, quindi, in modo abbastanza automatico e naturale, decidendo così per prima di applicare ad esse dei testi in italiano. Inoltre, volevo anche dimostrare che nei testi appartenenti a questo mondo sonoro non bisogna per forza dire delle stupidaggini.”

 

Ci sono degli artisti di riferimento che ti hanno ispirato in questo senso? 

“Il principale esponente a livello internazionale di questo genere è Major Lazer, quindi sicuramente questo progetto è stato di grande ispirazione. Poi ti posso citare tutta la Latin Wave sudamericana che ha contaminato anche la produzione di artisti di punta del pop internazionale, come Beyoncè, Jennifer Lopez o Nicki Minaj.”

 

Raccontaci della lavorazione del tuo album: come ti sei approcciata alle fasi di scrittura e produzione?

Tendenzialmente scrivo in maniera piuttosto spontanea e automatica, non mi metto mai seduta a tavolino a pensare a cosa dovrei dire. Di solito scrivo sempre prima la musica, su cui poi inserisco i testi: è comunque un approccio cantautorale nel vero senso del termine, l’unica differenza è che, invece della chitarra, utilizzo un computer.”

 

Figura portante del progetto è quella dello squalo: che significato ha per te?

Lo squalo rappresenta il mio animale guida (ciò deriva da un incontro ravvicinato quando ero molto piccola) nonché il mio alter ego, era la figura perfetta per impersonificare il personaggio di AvA. A sua volta quest’ultima è l’alter ego di Laura, che è una persona tendenzialmente molto riservata, moderata e pacata, che non ha mai approfittato della propria immagine e, dato che sono stata aspramente criticata per questo motivo, AvA fa l’esatto contrario. È stata un po’ una liberazione del mostro che avevo dentro, e, piuttosto che combatterlo, ho deciso di lasciarlo libero, dando vita ad un personaggio molto estremo che lancia messaggi inequivocabili. Dunque, lo squalo era la metafora perfetta per questo concept.”

 

ava04

 

Nei tuoi testi si possono osservare messaggi di forte indipendenza e autodeterminazione, cosa vuoi trasmettere con le tue parole? 

“Io mi auspico un ritorno dell’era del matriarcato, sia in ambito musicale che nella vita quotidiana. Non dobbiamo dimenticarci che la società occidentale, contrariamente ad altre, nasce proprio dalla forza del matriarcato e, di conseguenza, è necessario il ritorno di una figura femminile non solo pari all’uomo, ma anche superiore. Questo lo dico non per discriminare, ma proprio per una questione di contesto culturale attuale. Le donne potrebbero tornare ad essere le padrone del mondo, mettendo fine a questo sistema maschilista. Il problema spesso è rappresentato da quei gruppi di donne assuefatte da questa mentalità che non fanno nulla per ribellarsi, anzi paradossalmente legittimano il maschilismo più degli uomini.”

 

Parlaci del videoclip del tuo ultimo singolo Shazam, come lo avete ideato? 

“È stata un po’ una follia mia e del regista Adriano Giotti, abbiamo deciso di realizzare questo videoclip dai colori piuttosto scuri, per differenziarci ulteriormente dall’immaginario molto frivolo e colorato tipico del moombahton internazionale, capace di scadere anche questo, purtroppo, nel maschilismo. In questo caso abbiamo voluto mettere in risalto la fisicità di AvA e di tutti ballerini per sottolineare che noi donne non siamo solo belle ma possiamo dire anche cose serie.”

 

Nei testi fai anche molto riferimento al panorama musicale italiano, come lo vedi oggi e come ti collocheresti al suo interno?

“Il panorama italiano attuale lo vedo molto appiattito, ci sono produzioni musicali monotematiche e dal suono tutto uguale. Basta prendere una qualsiasi playlist di Spotify per accorgersene, sembra di ascoltare un’unica lunga canzone di 45 minuti: vengono costantemente ripetuti gli stessi beat, c’è una totale assenza di composizione a livello di armonia e una quasi totale assenza di radiofonicità, per non parlare dell’abuso dell’autotune. Insomma ciò ha reso i brani italiani praticamente tutti simili, faccio molta fatica a distinguere i vari artisti l’uno dall’altro. La discografia italiana, che a livello mondiale conta praticamente nulla, preferisce puntare sui cloni di nomi già noti per andare sul sicuro piuttosto che rischiare con progetti del tutto originali. Per le donne la vedo ancora peggio, dal momento che a differenza degli uomini hanno una data di scadenza, un equivalente femminile di Ligabue non potrebbe mai esistere.”

 

Per concludere, una domanda di rito: quali sono i tuoi progetti futuri anche dal punto di vista live?

“Sicuramente nel 2020 faremo diversi live, il progetto di AvA si esplica al meglio in tale contesto, dove può avere completa realizzazione. Anche in questo caso ci distinguiamo particolarmente dagli show come vengono solitamente concepiti, nonostante sia un genere molto danzereccio e complesso da portare dal vivo, suoniamo tutto, senza ricorrere a delle basi. Poi, una peculiarità sono i miei musicisti, che hanno un’identità segreta e suonano con dei copricapi a forma di testa di squalo. Tra di loro posso menzionare il batterista, lo Squalo 1, che utilizza una batteria digitale in grado di produrre suoni acustici, il primo in Italia a proporre una cosa così e il dubmaster, ossia il deejay, il quale suona in real time tutte le sequenze, i bassi e i synth. Abbiamo il controllo totale di tutte le tracce per agire in prima persona su di esse e dare un’impronta di volta in volta diversa alle esibizioni. Non c’è l’effetto karaoke di chi canta sulle basi, sembra quasi un immenso dj set. A livello tecnico e a livello fisico è molto faticoso, è come fare un unico grande medley.”

 

Filippo Duò

Il ritorno alle radici dei THINKABOUTIT

Sono nel bel mezzo di un cambio di rotta, i THINKABOUTIT, collettivo di musicisti nato a Bari. Con i due singoli Arturo Gatti e I Fly High hanno anticipato Marea, secondo lavoro in studio in uscita quest’inverno, che rappresenta una decisa innovazione nel loro stile, nonché un ritorno alle loro radici mediterranee. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Claudio, voce del collettivo.

 

La prima domanda volevo farla sul vostro nome, THINKABOUTIT. C’è qualcosa in particolare su cui volete far pensare?

Leggenda narra che, quando abbiamo iniziato il progetto nel 2014, esistesse un gruppo su Messenger che si chiamava “Dobbiamo pensarci”, proprio perché non avevamo idea di quale nome usare. Poi un giorno ci è venuto in mente di tradurlo in inglese, quindi appunto Think About It. Solamente con l’ultimo cambio di formazione — ci siamo sempre considerati più un collettivo che una band statica — abbiamo deciso di riorganizzare il nome in THINKABOUTIT.

 

Il 29 novembre uscirà il vostro nuovo singolo I Fly High. Come lo descrivereste?

È un pezzo molto diverso da Arturo Gatti, il singolo precedente. In un certo senso è più cattivo, perché nasce dalla rabbia e dalla frustrazione che si provano quando ci si rende conto che sono sempre esistiti due tipi di persone. C’è chi lavora e fa sacrifici per guadagnare ciò che ha e chi invece parte già con la tavola apparecchiata e quindi non deve compiere sacrifici. Ad ogni modo, chi segue una strada solo in discesa, non potrà mai godere della stessa vista che avrà invece chi ha dovuto camminare in salita per tutta la vita.

 

Il singolo anticipa Marea, vostro secondo LP. Cosa dobbiamo aspettarci da quest’album?

Marea è il frutto di una pausa di più di due anni in cui ci siamo interrogati molto su cosa siamo e cosa vogliamo comunicare. Ci siamo resi conto che il sound dei nostri lavori precedenti, Sulle Grate e In Secondo Piano, non ci rispecchiava più, quindi abbiamo deciso di iniziare un processo di ricerca sulle nostre radici mediterranee, sia a livello di suoni che di tematiche dei testi. La presenza di alcuni colori sonori, dalla scelta dei suoni alla ricerca di linee melodiche ‘’più nostre’’, sono stati il collante di tutta la ricerca. È un album comunque molto eterogeneo, che mischia l’elettronica alle chitarre, il pianoforte al moog, sonorità calde a fredde. Sappiamo che è un album importante, che può essere ascoltato su più livelli e analizzato sotto vari punti di vista, per questo pensiamo che siano necessari più ascolti per poterlo capire in pieno.

 

I due singoli che avete pubblicato, Arturo Gatti e I Fly High, sono in inglese a differenza degli altri vostri lavori. Come mai questa scelta?

In realtà l’intero album è in inglese, con alcune incursioni più “mediterranee” in alcuni pezzi. Sicuramente durante i due anni di pausa siamo cambiati e il passaggio dall’italiano all’inglese è legato a questo processo, ma è stata una scelta assolutamente naturale. Personalmente, ho sempre scritto e cantato in inglese, in quanto una buona parte della mia vita è stata sommersa da musica anglofona. Non è stata una scelta legata alla logica di mercato, secondo cui scrivere in inglese ti permette automaticamente di arrivare anche fuori i confini italiani, anche se ovviamente ci auguriamo di far arrivare il progetto e i messaggi contenuti nel disco a più persone possibile. 

 

Francesca Di Salvatore

 

Tananai e l’importanza di seguire sempre il proprio istinto

Tananai è senza dubbio un artista eclettico, dalle idee chiare e precise, in grado di rappresentare molto bene il suo immaginario sonoro e visivo. È uscito da poco il suo nuovo brano Calcutta, il cui titolo non parla della città ma proprio del cantautore capostipite della nuova generazione indie, con in mezzo tutta una serie di riferimenti alla cultura pop, da Cambiasso a Scamarcio.

Il pezzo è il suo quarto da quando ha deciso di lasciarsi alle spalle il passato da dj e producer. Fino a due anni fa era, infatti, noto come Not For Us. Ora è arrivata una nuova fase della sua carriera in continua evoluzione, che lo ha portato a scrivere testi in italiano e a raccontarsi come mai aveva fatto prima.

Siamo stati alla prima data del tour al Serraglio di Milano, organizzata da Culture Club e Humble Agency, e nell’occasione abbiamo fatto una chiacchierata con lui sul suo percorso artistico e non solo. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao Tananai! È uscito da poco il tuo ultimo singolo Calcutta, ci puoi raccontare un po’ come è nato e di cosa parla?

“Il singolo parla, in modo un po’ ironico e un po’ no, di un problema che non riguarda solo me, ma che immagino sia anche di altre persone, ovvero quello di cercare di rifarsi ai propri idoli, non per forza nel settore musicale. Magari, all’inizio, in una cosa ritieni di non essere molto bravo e pensi: “Vorrei essere bravo a calcio e giocare nell’Inter come Cambiasso” oppure “Vorrei essere in grado di scrivere come Calcutta.” In linea di massima però è importante riuscire a trovare se stessi e il proprio modo di esprimersi. Infatti nel video prendo consapevolezza di questo e arrivo a spegnere, metaforicamente, con un estintore le fiamme di quell’inferno che ti porta costantemente a paragonarti agli altri.”

 

Il video segue in maniera coerente il concept alla base del pezzo. Come lo hai ideato e successivamente realizzato? 

“L’ho ideato con l’aiuto fondamentale dei miei videomaker, ma prima di tutto amici, Olmo e Marco, che mi seguono nei miei progetti fin dall’inizio. Abbiamo sempre realizzato video molto “street”, fuori dai canoni della comfort zone di un set. In questo caso, invece, volevamo trasmettere un messaggio un po’ più intimo, dal momento che il pezzo avrebbe potuto essere facilmente frainteso. Quindi abbiamo deciso di girare su un set, realizzandolo noi e seguendo fin dal principio tutto. Ho trascorso gran parte dell’estate così e nel mese e mezzo in cui lo abbiamo costruito ho visto più i commessi del Brico che i miei genitori. Spesso abbiamo dovuto superare delle difficoltà, infatti le pareti a volte tenevano e a volte no, abbiamo cercato di recuperare qualsiasi oggetto possibile, persino un ventilatore abbandonato per strada, vecchie foto e vecchi giocattoli. C’è da dire che è stato molto bravo in questo Marco, che si occupa più prettamente della produzione: ha creato una squadra di ragazzi che volevano fare qualcosa di bello, i soldi non sono mai stati un elemento portante in questo lavoro. Inoltre, abbiamo collaborato con Nico Cacace, un direttore della fotografia veramente bravo, conoscendo così il suo team. Insomma, c’era proprio una bella atmosfera, sono venute anche le nostre mamme sul set a farci da mangiare, abbiamo formato una squadra molto casereccia di persone davvero forti e siamo decisamente contenti del risultato.”

 

Parlando un po’ del tuo percorso artistico, sappiamo che hai un passato da producer elettronico. Come sei passato da Not For Us a Tananai decidendo di raccontarti in prima persona? 

Il passaggio è stato molto naturale. Ho sempre fatto, fin da quando ho 14 anni, essenzialmente musica elettronica e nel momento in cui è uscito il mio primo album come Not For Us, due anni fa, ho avuto una sorta di “depressione post-parto”. Per me quell’album non era solo il frutto di due anni di lavoro, era proprio la conclusione di un ciclo iniziato molto prima. Quando ho visto il disco concluso e pubblicato mi sono chiesto in che modo sarei potuto andare avanti con quel sound. Sentivo il bisogno di nuove sfide e ho attraversato importanti cambiamenti come l’andare a vivere da solo e la separazione dalla mia ragazza, mi sentivo una persona del tutto diversa. Questo, come Not For Us, non riuscivo a farlo trasparire. In generale, credo che non sia corretto continuare a fare un lavoro di un certo tipo se senti che stai attraversando una trasformazione. Penso, ad esempio, a grandi band come i Radiohead, che hanno pubblicato album diversissimi come The Bends e Kid A, assecondando la loro necessità di trasformazione artistica. Io sentivo che con l’elettronica quel che dovevo dire lo avevo detto e, influenzato dalla mia ragazza e dagli amici, ho ascoltato molta più musica italiana. Tutto ciò mi ha portato a scrivere in maniera estremamente diversa.”

 

A tal proposito, hai riscontrato particolari differenze di approccio in fase di scrittura e produzione? 

“Completamente. Non scrivo e non produco come facevo prima, sono molto più attento a quello che provo quotidianamente. In precedenza, quando andavo in studio e iniziavo il processo creativo, mi isolavo in tutta un’altra dimensione all’interno di cui lavorare. Ora, invece, osservo maggiormente ciò che mi circonda e ho ampliato la mia sensibilità.”

 

Ti trovi meglio a scrivere quando sei in un periodo negativo della tua vita o all’opposto, quando sei più felice? Perché spesso per molti artisti è più facile esprimersi in situazioni di difficoltà. Vorrei sapere cosa ne pensi, sulla base della tua esperienza.

“Bella domanda. Secondo me qualsiasi forma d’arte serve a controbilanciare una parte di te che non emerge facilmente. Io, essendo una persona estroversa, quando scrivo faccio uscire sempre un lato più malinconico che magari nella vita quotidiana non riesco a dimostrare. Ma, dall’altra parte, c’è anche chi può dare l’impressione di essere continuamente “preso male” e poi scrive testi al limite del satirico e della gag. Personalmente quando sono felice penso a vivere il flusso delle cose senza interromperlo, se ho un’intuizione magari la butto giù, ma più come promemoria, perché voglio lasciare spazio alle belle sensazioni di quel momento.”

 

Per concludere, ci potresti anticipare qualcosa sul tuo futuro artistico?

A breve faremo uscire un altro pezzo e poi sicuramente pubblicherò più cose possibili. Finora è uscita relativamente poca roba rispetto a quanta ne abbia effettivamente prodotta, per cui è arrivato il momento di farla sentire.”

 

Filippo Duò

Foto di copertina: Luca Ortolani

Il ritorno di Tota, un cantautore in costante evoluzione

Tommaso Tota, di origini umbre, si è avvicinato alla musica negli anni di studio all’università di Bologna, cominciando a scrivere le sue prime canzoni. Dopo una necessaria gavetta fatta di demo caricate sul web e registrazioni chitarra e voce, ha esordito live in apertura ad artisti come Gazzelle, Carl Brave, Franco 126 e Galeffi. A gennaio 2019 è uscito il suo primo album ufficiale per l’etichetta Grifo Dischi, Senzacera , caratterizzato da sonorità elettroniche ma, allo stesso tempo, in grado di rendere onore alla tradizione cantautorale italiana.

Oggi Tota è torna in grande stile, confermando ancora una volta le sue capacità autorali e alzando l’asticella anche in ambito produttivo con Gli Anni Che Ho è il suo nuovo singolo.

Gli Anni Che Ho segna una netta evoluzione sonora rispetto al passato per l’autore, che si è avvalso di una produzione più a fuoco, capace di mostrare ancora più sfaccettature dell’anima artistica dell’autore. Tota dimostra così di aver intrapreso un percorso di evoluzione e cambiamento, mostrando nuovi lati di sè.

Abbiamo deciso di fare quattro chiacchiere con lui per parlare un po’ di questa nuova avventura e per ripercorrere la sua carriera artistica. Ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Ciao Tommaso! Innanzitutto ripercorriamo un po’ il tuo percorso: come ti sei avvicinato alla musica e cosa ti ha spinto poi a diventare un cantautore?

Ciao! Mi sono avvicinato alla musica già nel periodo delle superiori e scrivevo testi su delle basi rap, senza però che mi venisse in mente di pubblicare qualcosa. Sono andato, poi, a vivere a Bologna per studiare all’università e un giorno ho voluto imparare a suonare la chitarra. Me la sono fatta prestare dalla mia ex ragazza e ho cominciato ad esercitarmi sempre di più, finché non mi sono venuti degli spunti di scrittura e di canto. Da qui in poi hanno cominciato a nascere delle mini-canzoncine, con accordi molto semplici, finché la scrittura è entrata a far parte della mia quotidianità.

 

Quali sono stati gli ascolti che ti hanno maggiormente influenzato nel corso della tua carriera?

Non vorrei essere banale dicendo che ascolto un po’ di tutto ma sicuramente spazio tra cose molto diverse tra loro. Il mio cantautore di riferimento senza dubbio è il grandissimo Fabrizio De Andrè. Sono comunque capace di passare dal rap a Enrico Ruggeri, da Adriano Celentano ai Beatles, che ultimamente sono diventati un mio ascolto quotidiano. Quindi ho influenze molto varie ma se devo sceglierne solo uno ti posso dire che De Andrè è sicuramente colui che mi ispira di più quando è il momento di scrivere.

 

Oggi esce Gli anni che ho, il tuo nuovo singolo. Ci racconteresti come è nato e di cosa parla?

Il brano è nato quasi tutto in un pomeriggio di malinconia, non dettata da una delusione amorosa, ma frutto di una riflessione sullo scorrere del tempo e degli anni: infatti, ogni giorno mi accorgevo che le giornate trascorrevano inesorabili e mi sto avvicinando anche io ai 30 anni. Dunque il brano è una considerazione sul tempo che passa e sull’eccessiva importanza che diamo alle cose futili rispetto alle vere difficoltà. Quando abbiamo un problema lì per lì a noi sembra enorme per poi accorgerci che in realtà non lo è poi così tanto.

 

Rispetto al tuo primo album è evidente una netta evoluzione nelle sonorità, che qui si fanno ancora più raffinate e mature. Come ti sei approcciato stavolta alla fase di scrittura e di produzione?

Per quanto riguarda la scrittura, avvenuta chitarra e voce, il mio approccio è stato simile a quanto ho sempre fatto. La vera novità sta nella produzione artistica del pezzo e nel lavoro in studio. Per il mio primo album non avevo alle spalle esperienze di registrazioni professionali e, di conseguenza, sembrava tutto bellissimo ed entusiasmante. Avevo anche poca conoscenza di come sarebbe potuto suonare un brano, affrontando il tutto molto genuinamente, mentre in questo caso mi sono approcciato con molta più consapevolezza. Ciò che ha fatto la differenza è stata la scelta di suonare tutto dal vivo, utilizzando anche strumenti “reali” in grado di dare maggiore calore. Nell’album precedente la batteria era totalmente elettronica e programmata al computer, stavolta è suonata e si sente. Anche le chitarre hanno un feeling completamente diverso, molto più naturale, sono quasi grezze e ho, inoltre, cambiato la tonalità del mio cantato rispetto ai lavori precedenti, cercando di osare un po’ di più. 

 

Mi ha colpito molto anche l’artwork del brano, un disegno davvero originale. Come lo hai scelto? 

L’artwork è stato realizzato da Evelyn Furlan, una ragazza molto brava scoperta da Enea di Grifo Dischi, la mia etichetta. Aveva visto queste illustrazioni un po’ strane e particolari, in cui si vedono persone deformate nelle proporzioni del volto, il che è perfetto per accompagnare il tema del brano, il trascorrere degli anni e i conseguenti minimi cambiamenti che nel tempo emergono sulla nostra pelle. C’è una rappresentazione quasi satirica dell’individuo nei suoi lavori e questo mi ha colpito molto. I disegni di Evelyn sono belli e spiazzanti e accompagneranno anche il resto delle mie prossime pubblicazioni future, stiamo lavorando a illustrazioni dedicate ad ogni singola fase, dalle copertine fino a comprendere la scenografia live.

 

Tota Cover

 

Vorrei fare con te una riflessione generale sul panorama musicale indipendente e cantautorale italiano di oggi per quella che è stata la tua esperienza. Quali sono le tue impressioni e com’è fare il cantautore nel mercato odierno?

Quando si parla della musica indipendente che sta avendo successo nell’ultimo periodo io non mi sento di poter essere inserito totalmente in questa categoria. Ho cominciato a pubblicare le mie prime cose quattro anni fa su YouTube, quando gran parte dell’underground oggi diventato popolare si esprimeva lì rimanendo molto più di nicchia, mi viene in mente il primo Gazzelle, ad esempio. Quindi un po’ di gavetta sento di averla fatta, in un periodo in cui mancavano certe strategie di comunicazione che vengono utilizzate oggi. La scena musicale italiana attuale, a mio parere, è composta in parte da persone che lo fanno solo per il successo, cosa che si capisce subito ascoltando i brani, ma anche, fortunatamente, da tante persone sincere. Quando io mi approccio a un pezzo non parto mai con l’intenzione di farlo “indie”, parola che non mi piace molto, invece spesso certi testi sembrano scritti appositamente per essere inseriti nella categoria e non apprezzo questa mancanza di sincerità. La scena per certi versi si sta saturando, artisti che fino a pochi anni fa non erano conosciuti oggi sono arrivati fino ai palasport e adesso è un po’ il nostro turno di far cambiare idea alle persone che pensano che ormai si scriva solo di amori finiti male. In ogni caso se da questo mondo escono cantautori che si esprimono con la propria arte non posso che esserne felice, mi fa piacere vedere che si tratta di un periodo fertile per la musica indipendente. Io sono il primo a non avere un percorso di studi musicali alle spalle, quindi chi sono io per dire “non fatelo”?

 

Che programmi hai per il futuro? Ci puoi anticipare qualcosa sull’album e sui live?

Sicuramente usciranno altre canzoni molto diverse da come il mio pubblico si è abituato, influenzate tutte dal mood presente nell’ultimo singolo. Per quanto riguarda il live ci saranno degli appuntamenti ma non a breve, bisognerà aspettare ancora un po’. Però le cose nuove ci sono, ce le abbiamo pronte e non vediamo l’ora di farle ascoltare a tutti!

 

Filippo Duò

 

A EMERGO il live multisensoriale di Mr Everett

Mr Everett rappresenta un elemento di assoluta innovazione e diversità nel panorama italiano e non solo. La sua particolarità è quella di essere un progetto ibrido, dall’identità collettiva che sfugge alla tradizionale definizione di “band elettronica”, identificandosi piuttosto come live show performativo. 

Il concept alla base del progetto ruota attorno alla storia del cyborg Rupert e dei suoi compagni Mr Owl, Mr Fox e Mr Bear, Umanimals un po’ animali e un po’ umani. La compiutezza della loro proposta artistica si raggiunge prendendo parte ad un live: dal vivo sono in grado di creare un’esperienza audiovisiva, sensoriale e immersiva a 360°. L’interazione fisica di Rupert e il pubblico è uno dei momenti più forti e coinvolgenti delle performance. L’impianto scenico del progetto stravolge lo spazio del palco trasformandolo in una vera e propria dimensione parallela, tra il dancefloor del club e lo spettacolo audiovisivo completo di proiezioni, fumo e luci.

Il loro primo lavoro è l’EP Uman, del 2017, dalle sonorità sperimentali e internazionali, dove già possono scorgere i semi del futuro dei Mr Everett. Nel 2018 è uscito il primo album Umanimals, che ha portato avanti il loro racconto visivo e sonoro, ribadito in seguito anche nel nuovo brano Keep Breathing, ideale prosecuzione del disco. 

Il 27 novembre si esibiranno con Daykoda e Venerus nell’ultima giornata di EMERGO – Correnti per cambiare rotta, festival di installazioni, performance artistiche e musica che si terrà a Cesena nel corso di tutto il mese di novembre. EMERGO vuole dare la possibilità di organizzare attività culturali, di esplorare luoghi e spazi in apparenza decadenti o, al contrario, percepiti come inviolabili, un’attività intergenerazionale per cercare nuove rotte o, almeno, abbandonare un porto sicuro, non troppo al largo e guardando sempre il proprio faro. 

Per l’occasione abbiamo deciso di parlare un po’ con loro, approfondendo l’immaginario alla base del progetto e la loro personalissima idea di live. Ecco cosa ci hanno detto. 

 

Ciao, ci raccontate un po’ come è nato e come si è evoluto il progetto Mr Everett?

“Mr Everett è un progetto performativo a 360 ° che nasce dalla nostra idea comune di raccontare il rapporto tra umano, tecnologia e ambiente circostante (inteso come natura). Tutto è nato dalla macchina: il cyborg Rupert è stato costruito nel 2015 e da li tutto è cominciato. Mr Everett è figlio anche delle nostre esperienze pregresse nella danza, nella musica e nel teatro. Durante questi quattro anni di attività abbiamo collaborato con moltissimi artisti nei campi più disparati: dal design, alla danza contemporanea, all’illustrazione e persino la pittura. Come Mr Everett abbiamo sempre voluto far coesistere i numerosi input che ci dava il rapporto con la tecnologia.”

 

Il vostro immaginario visivo è senza dubbio di forte impatto, cosa lo ha ispirato?

“Gli immaginari visivi di riferimento sono numerosi, ma principalmente legati alle graphic novels: dai manga giapponesi come Ghost in The Shell, Neon Genesis e Akira, ai fumetti di Moebius e Dylan Dog. Non a caso in Umanimal – il nostro primo album – ogni pezzo è accompagnato da una tavola specifica, realizzata da Fabio Iamartino (in collaborazione con Grifo Dischi e Dischirotti), che rappresentava graficamente il racconto del brano. Durante i nostri live, i visuals, curati da Mr Bear sono parte integrante della storia: permettono a Rupert e gli Umanimals di ‘entrare’ in un ambiente diverso per ogni canzone.”

 

L’anno scorso, come avete anticipato, è uscito il vostro primo album, Umanimal, basato su un concept narrativo molto particolare, ce lo spieghereste?

“Umanimal contiene alcuni concetti che vorremmo comunicare come Mr Everett: il rapporto tra umano e natura, come quello tra umano e tecnologia, evitando di mettere l’uomo al centro. I brani parlano del viaggio di Rupert, un cyborg. In un mondo martoriato da un’umanità confusionaria e parassita, il cyborg Rupert viene inviato in un’altra dimensione per scoprire una via alla vita differente. Si risveglia qualche tempo dopo, incontrando gli Umanimals, suoi discendenti diretti, che decidono di riportarlo sulla terra. In questo viaggio Rupert ri-esplora se stesso, la natura umana e la natura terreste, tentando di capire il suo posto nel mondo.”

 

Ascoltando i pezzi è netta la prevalenza di un sound elettronico ma è possibile individuare anche molte varietà stilistiche, come avete lavorato in fase di produzione?

“Ci hanno definiti ‘post-club’: la nostra musica prende le atmosfere da club e le porta da qualche altra parte. Ogni brano ha una sua coscienza stilistica, che sicuramente si basa su delle sonorità elettroniche. Il lavoro è partito principalmente dalla voce, artificiale e umana. Mr Owl e Rupert comunicano con due vocalità apparentemente sconnesse, ma che si arrampicano l’una sull’altra. La maggior parte dei campionamenti che abbiamo utilizzato sono vocalizzi, originali e registrati. Allo stesso modo abbiamo cercato sonorità orientali, che richiamassero l’immaginario visivo dei manga come in Japanese Safari e Gamelan.”

 

Quali sono state le principali influenze sonore alla base del vostro lavoro?

“Numerose, chiaramente. La dolcezza pop di James Blake, la garage contemporanea dei Disclosure, così come FKA Twigs e The XX, dei quali abbiamo pubblicato una cover mash-up.”

 

È uscito da poco il nuovo singolo Keep Breathing: di cosa parla e come è stato realizzato?

“Keep Breathing è una sorta di saluto a Umanimal e un’apertura verso un nuovo corso di Mr Everett. Rupert è più introspettivo, nuota nel ‘wetware’, un ammasso di liquido e dati che rappresenta la sua mente confusa, e tenta di salvarsi continuando a respirare, tenendosi stretto alle cose che crede di sapere. Nel tempo non lineare di Mr Everett, Keep Breathing può trovarsi prima, dopo o persino durante Umanimal, non ha una collocazione storica precisa. Lo abbiamo mixato e masterizzato con Andrea Suriani, all’Alpha Dept Studio di Bologna, con il quale avevamo anche lavorato per Umanimal.”

 

La vostra forza è sicuramente il live: nei concerti create un’esperienza multisensoriale innovativa. Cosa volete comunicare al vostro pubblico?

“Nell’ottica di unione tra umano e altro, l’artista e il pubblico partecipano a Mr Everett. Il nostro viaggio non è soltanto musicale, come già detto, ma anche visivo e performativo. Rupert si muove tra il pubblico, balla con il pubblico e può essere persino suonato dagli spettatori. La danza, i visuals, la performance e la musica collaborano per rendere l’esperienza più coinvolgente.”

 

Quali sono i vostri progetti artistici per il futuro?

“Dopo quasi quattro anni di concerti abbiamo deciso di prenderci un periodo di pausa – uno stop dalle performance live, per ricaricarci e ricaricare Rupert. Non vogliamo svelare i piani futuri, per il momento preferiamo aspettare in silenzio.”

 

Il 27 novembre suonerete a Cesena in occasione del festival EMERGO. Cosa dobbiamo aspettarci da voi?

“Sarà l’ultimo live del 2019 e poi, come detto, ci prenderemo una meritata pausa. Siamo entusiasti di poter condividere il palco con due artisti speciali come Daykoda e Venerus, come siamo contenti di tornare a Cesena, dove abbiamo un rapporto duraturo con i ragazzi del Vista Mare che organizzano EMERGO. I nostri live sono sempre pieni di sorprese, quindi vedere per credere!”

 

Filippo Duò 

Gerolamo Sacco ha fatto un viaggio in Mondi Nuovi

Gerolamo Sacco inizia la sua carriera come DJ a soli 19 anni. Dopo la laurea in Storia della Musica Moderna e Contemporanea fonda nel 2007 Miraloop, la prima casa discografica creata da musicisti. Mondi Nuovi è il suo secondo album da cantautore uscito quest’anno per Miraloop.

 

È uscito il tuo nuovo concept album Mondi Nuovi. Cosa racconta?

Mondi Nuovi è una storia, è un racconto che va dalla prima all’ultima traccia, per questo lo abbiamo definito un concept album. Sono 15 canzoni disposte non casualmente la cui narrazione ha diversi piani di lettura, cosa che tra l’altro si ritrova spesso nei racconti e nei film di fantascienza, e in effetti è la storia del viaggio spaziale di una persona (che chiameremo M). M si trova sulla Terra per le prime tre tracce, vive in una società che è quella che è e i suoi sogni sono molto difficili come anche il rapporto che ha con un’altra persona (che chiameremo N). Infatti, nella terza traccia Momo (Qui), i due si lasciano e M decide di partire con un’astronave e di fare un viaggio per cercare nuove energie nello spazio. Da lì in poi inizierà a scoprire delle cose di sé stesso che non aveva messo in conto e la sua personalità si formerà e cambierà gradualmente. M parte da una situazione in cui c’è un problema, come quello di una storia finita, per cui vuole mollare tutto, però durante il viaggio e grazie ai mondi che scoprirà, arriverà a ricercare la bellezza e la serenità e questo cambierà i suoi valori, i suoi presupposti: quando M sarà nello spazio, incontrerà di nuovo N ed avrà tutta un’altra consapevolezza. Per cui ci sono due narrazioni parallele: una del viaggio di fantascienza e l’altra delle tematiche che vengono raccontate nel disco.  Quello che ho trovato bello è che ogni ascoltatore ci mette del suo, in base alle proprie esperienze e quindi questo album diventa una crescita, un percorso diverso per ogni persona.” 

 

Nel singolo Casa Mia scrivi “E mastico le rime che di notte appaiono”. In effetti molti dei tuoi testi sono in rima o comunque contengono assonanze. C’è un motivo particolare per cui scegli di scrivere in rima? E dunque componi maggiormente di notte?

“Si, compongo maggiormente di notte, non per scelta ma perché di notte mi viene più facile in quanto non ho distrazioni. Con il lavoro che faccio ho tempo di gestirmi le cose come voglio ma durante la giornata è un continuo succedersi di eventi, invece di notte capita che hai delle ore consecutive dove non hai distrazioni. E secondo me la prima condizione che uno deve cercare per essere creativo è l’assenza del tempo e dell’influenza esterna. E questo di notte viene naturale perché si perde un po’ la percezione del tempo. Di notte è più facile.
Per quanto riguarda le rime è una questione musicale. Vado a ricercare la rima perché la trovo bella musicalmente; mi piace quando c’è musicalità e la rima spesso aiuta.” 

 

L’amore per gli altri e per sé stessi sembra essere un filo conduttore nelle tracce del tuo album. È l’amore che muove tutto?

“Mmmhhh… Si, è forse la cosa più importante. Non è l’unica tematica, però è un filo. In Deserto, M parte con l’astronave, viene scagliato nel vuoto e la prima cosa che vede è il primo mondo: il deserto, non quello da cui è partito ma il deserto dentro sé stesso. Quella traccia parla per esempio di questo lato dell’amore, quello per una persona e quello per sé stessi, parla della capacità di guardarsi dentro e di accettarsi per quello che si è. In Casa Mia c’è l’amore per la società, nonostante noi umani siamo un disastro, in Stelle Dipinte (che sarà il secondo singolo) c’è l’amore per i sogni e per i rapporti, in Momo (Qui) c’è l’amore per una persona… in ogni traccia c’è un diverso tipo di amore. Non voglio essere banale ma è un po’ come dici tu: l’amore muove tutto se letto in questo modo.” 

 

Ci puoi dire due parole sulle collaborazioni presenti nel disco? Come sono nate?

Virginia Paone ha suonato la chitarra e alcuni testi li ho scritti in collaborazione con Senatore Cirenga che è il progetto cantautorale di Jacopo di Donato. È tutto nato all’interno di Miraloop, infatti con alcuni artisti con cui si lavora, si instaura un rapporto anche creativo. Avevo già sentito Senatore Cirenga dal primo pezzo pubblicato con Miraloop, Il Banco Vince, e ho detto “lui è un genio, facciamo qualcosa insieme”. Avevo già qualche idea sviluppata e lui da linguista mi ha aiutato a scrivere diverse tracce. Oltretutto è la prima volta che mi capita di lavorare sui testi insieme ad un’altra persona.” 

 

Mondi Nuovi è uscito per Miraloop, casa discografica che hai fondato nel 2007 insieme a Niccolò Sacco e Michele Casetti. Com’è farsi da produttore e quanto è importante la libertà di espressione nella musica? 

“La libertà è tutto. È il valore fondante di Miraloop e io lo applico meglio che posso. Secondo me quando fai queste cose, se le fai senza libertà di espressione non vale la pena neanche farle. Quando impari a fare il produttore, bene o male impari a lavorare su ogni genere e a valorizzare tutto. Nel mio progetto mi diverto però a fare qualcosa che è un po’ rischioso ma io lo adoro, e cioè cerco di valorizzare testo e traccia, facendo cose che non ho mai sentito. Forse i Mondi Nuovi lo sono un po’ anche musicalmente. Questo fatto nell’ascoltatore può creare un effetto strano ma ogni pezzo è come se fosse un genere a sé: Cinema è come una traccia di progressive rallentata in italiano, alcune canzoni sono rock anni ’70… Insomma, hanno dei riferimenti ma sempre creando mondi diversi. Da produttore di me stesso mi diverto a giocare su queste cose. La difficoltà è sicuramente l’obiettività, infatti chiedo sempre consigli soprattutto ai non addetti ai lavori perché non mi fido di me stesso.”

 

Dove porterai questo album live? Hai concerti in programma?

“Mi sto preparando e vorrei portarlo live in acustico (chitarra e voce, pianoforte e voce) o alternato alle basi, per dare una visione diversa delle canzoni. Volevo staccare un po’ la parte della produzione del disco su cui ho molto lavorato e portare dal vivo una cosa diversa.” 

 

Curiosità: nella tua pagina Facebook, tra i tuoi interessi si legge “tarocchi”. Puoi dirci qualcosa su questa passione?

“In realtà non sono un appassionato di tarocchi in senso stretto. Mi piace la simbologia che c’è dietro, che è quella dei quattro elementi. Quando è stata fondata Miraloop, abbiamo creato una realtà capace di lavorare su qualsiasi tipo di creatività in quanto vogliamo lasciare libertà di espressione illimitata. Quindi non potevamo fare delle etichette di genere che connotassero in partenza le produzioni. Ho cercato un po’ in giro e ho letto che gli antichi dividevano in quattro qualsiasi cosa dello scibile umano. Per esempio, nei tarocchi ci sono i quattro semi conosciuti che rappresentano quattro modi diversi di vivere e vedere la vita. Per cui abbiamo fatto le etichette di Miraloop secondo questa divisione e ci abbiamo preso; corrispondono ai simboli di istinto, emozioni, ricchezza e bellezza, e sperimentazione. Leggere Jodorowsky mi ha aiutato a delimitare tutte queste cose qua. Quindi l’interesse per questo mondo è molto legato al progetto di Miraloop.”

 

Cecilia Guerra

La nuova sfida di Funk Shui Project & Davide Shorty

Squadra che vince non si cambia: i Funk Shui Project tornano sulla scena, di nuovo in collaborazione con Davide Shorty, con un nuovo disco, La Soluzione, che sembra, già a partire dal nome, la naturale evoluzione del precedente lavoro, Terapia Di Gruppo. Nella pausa fra un album e l’altro, la formazione ha consolidato questa affiatata collaborazione, ha messo a fuoco alcune delle tematiche messe in luce fino ad oggi e approfondito argomenti, come quello dell’incertezza che ci riserva il futuro e quello dell’attenzione alla salute mentale, che fungono da spunto di riflessione e immedesimazione per chiunque si approcci a questi nuovi pezzi. Li abbiamo incontrati a Milano poco prima dell’uscita de La Soluzione, e ci hanno raccontato parecchie cose sulla genesi di questo nuovo lavoro e sulla vita che conducono come musicisti. 

 

Ciao ragazzi, come state? Com’è andata l’apertura a Daniel Caesar? Avete avvertito la responsabilità di salire su quel palco?

Jeremy: “Sicuramente è stata un’esperienza pregevole, esibirsi su un palco importante come quello del Fabrique è sempre bello. Daniel Caesar è un artista super valido, l’emozione è stata fortissima.”

Natty Dub: “Sì, abbiamo notato che appena saliti sul palco eravamo emozionati, che è una cosa che non ci capitava da un po’.”

Davide: “Sì, io per la prima volta da tempo, poco prima di salire sul palco ho avuto proprio la tachicardia, il cuore in gola, come si suol dire. Per me Daniel Caesar è una delle più grosse influenze dell’ultimo anno sicuramente, sia Freudian che Case Study sono due dei dischi che ho ascoltato e riascoltato.”

 

Quindi ve lo siete goduti anche come spettatori. 

Natty Dub: “Certo. È stato piacevole poi, al termine di tutto, poter avere a che fare con lui e la sua band, che tra l’altro si sono pure complimentati con noi per il nostro show, hanno apprezzato molto.”

Davide: “Daniel si è fermato a parlare con noi, ci ha chiesto cosa pensavamo del suo live e di come suonasse. Addirittura ci ha chiesto se avremmo aperto anche un’altra data delle sue (ridono).” 

 

Faccio un passo indietro: leggo ovunque che il vostro nome ufficiale è “Funk Shui Project & Davide Shorty”. È così che vi sentite? Vi rispecchiate in questo nome, quindi in due entità separate?

Natty Dub: “Mah, in realtà inizialmente volevamo uscire come Funk Shui Project e basta, proprio perché questo progetto prevede cambi di formazione o cambi di sonorità. Determinati vincoli discografici che avevamo all’epoca ci hanno portato a dover distinguere i due nomi, ma questo non toglie il fatto che noi ci sentiamo un unico gruppo, un’unica band, un’unica realtà, e probabilmente non è detto che continueremo a usare questa nomenclatura anche in futuro, vedremo.”

Davide: “Ma sì, poi rigirata non suona neanche male, ricorda tipo gli Sly & The Family Stone, George Clinton and The Parliament Funkadelic (ride). Perché no?!”

 

Come nascono i vostri pezzi? Qual è il vostro processo creativo?

Jeremy: “È una filiera corta: Dub fa il beat, io il basso, poi finisce a Davide. Poi chiaramente si va in produzione con tutti i disegni del resto degli strumenti.”

Davide: “La definirei quasi una catena di montaggio poetica, perché in questo caso non è un processo meccanico come quello tipico della fabbrica.”

 

I generi a cui attingete e a cui vi ispirate si basano spesso sull’ispirazione: quanto di questo accade anche durante la creazione dei pezzi e durante i vostri live? 

Davide: “Io personalmente amo fare freestyle, infatti in ogni live c’è uno spazio dedicato, mi piace interagire con il pubblico in maniera call and response. Sicuramente in studio c’è una buona dose di improvvisazione; senza quella non riusciremmo a creare. La prima cosa che faccio ogni volta che si crea un beat nuovo è improvvisare delle linee melodiche per capire cosa potrebbe starci bene. È tutto un go with the flow, lavoriamo in maniera molto naturale, quando una cosa non suona forzata significa che è quella giusta.”

Jeremy: “Se invece intendi l’improvvisazione jazzistica, certo ci ispiriamo tanto a quel tipo di musica, io personalmente poi ascolto tantissimo jazz… però non sono un jazzista. Live quindi non concepiamo tanto l’improvvisazione, anche perché amiamo, in termini di genesi del progetto, poter riprodurre quello che effettivamente produciamo.”

Davide: “È molto bello perché costruiamo il live insieme, e fino ad oggi è stato naturale riuscire a trovare un compromesso per cui tutti siamo soddisfatti di quello che mostriamo al pubblico. Non è sempre così, parlando con tanti colleghi ci rendiamo conto che non è semplice trovare un organico in cui si riesce a collimare tutte le teste, facendole andare d’accordo. Da questo punto di vista siamo davvero fortunati.”

Jeremy: “Io però vorrei comunque essere un jazzista, ma questo è un altro discorso, un’altra intervista (ride).”

 

Essendo le vostre sonorità molto internazionali, siamo spessi abituati a sentirle abbinate a un cantato in lingua inglese: avete mai incontrato difficoltà nell’adattare la lingua italiana al vostro sound?

Natty Dub: “Ascolto pochissime cose in italiano, e quelle che scelgo non sono contemporanee. Questo influenza il nostro modo di fare musica: in questo nuovo disco ci sono dei sample di musica italiana, di musica d’altri tempi, forse poco conosciuta, di compositori tipo Piero Umiliani e Ennio Morricone, quindi musicisti italiani che già all’epoca si affacciavano più ad un pubblico internazionale.”

Davide: “Anche perché penso sia d’obbligo inserire qualcosa che fa parte della nostra tradizione e della nostra storia, per mantenere qualcosa delle nostre radici mentre facciamo un genere che per background culturale in realtà non ci appartiene, ma che abbiamo studiato talmente tanto che in un modo o nell’altro è diventato anche nostro. Per quanto mi riguarda, ho scoperto il soul, il funk e il jazz a partire dall’hip hop, perché quando ho iniziato a fare rap mi sono trovato a dovermi fare le basi da solo e ho dovuto cercare dei campioni proprio nei dischi soul, funk, jazz. In ogni caso, penso sia importante essere specchio di quello che è il proprio tempo, nel modo più genuino possibile, nei confronti della musica e della cultura, che è una cosa che purtroppo in Italia non siamo abituati a fare. Per quanto riguarda l’utilizzo della lingua italiana, sicuramente tutti noi che abbiamo collaborato con questa formazione abbiamo una propensione alla selezione delle parole: scadere nel già sentito in italiano è molto facile, perché è una lingua estremamente dettagliata, e fare poesia e musica in italiano richiede dei suoni e delle parole ben precise per non sembrare scontato e banale, noi non vogliamo fare qualcosa che esiste già traducendolo in italiano, ma creare qualcosa di propriamente italiano che si ispira ad altro, ed è sottile la differenza.”

 

Il vostro nuovo album si intitola La Soluzione, e arriva dopo il vostro lavoro Terapia Di Gruppo. Questo album è un’evoluzione del precedente, come suggerisce il nome?

Jeremy: “Beh, è voluto, anche se non a tavolino. È stato un processo naturale.”

Natty Dub: “Ci sono tante cose, in questo disco, che mostrano un percorso di predestinazione, a partire dalla grafica. Abbiamo affidato entrambe le copertine ad Ale Giorgini, il nostro illustratore, e lui per realizzarle ha voluto semplicemente ascoltare le canzoni. Ne è emerso un primo disco dalle atmosfere più notturne, sul blu, e un secondo che ricorda il crepuscolo, sui toni dell’arancione, come dalla notte al giorno. Anche per quanto riguarda la musica, abbiamo puntato all’essenzialità, c’è meno arrangiamento dell’album precedente e meno sovraincisioni. Anche i testi, in “Terapia Di Gruppo” erano più simili a un flusso di coscienza, mentre qui certi messaggi sono più a fuoco. C’è più chiarezza e consapevolezza di quelle emozioni che trattavamo nell’album precedente.”

 

Una delle tematiche che mi ha colpito è quella dell’incertezza del futuro. Voi fate un lavoro che, più di altri, espone al rischio di precarietà, come vi sentite a riguardo?

Jeremy: “Arrivando da quindici anni in cui sono stato costretto alla subordinazione lavorativa per poter guadagnare uno stipendio che mi consentisse di coltivare questo sogno, ora me la godo con tutte le ansie del caso, penso “ben venga!”. Possiamo dire di farlo di professione, ed è una cosa che non scambierei con tutte le certezze di questo mondo.”

Natty Dub: “Certo è che bisogna fare dei sacrifici, perché nel caso di me e Jeremy, per portare avanti questo progetto abbiamo dovuto abbandonare tutti gli altri, musicali e non, che ci supportavano economicamente. Io consiglierei quindi a chi vuole intraprendere questa strada di concentrare tutte le proprie energie su un unico progetto, quello che più si sente proprio.” 

Davide: “Dal canto mio, posso dire che psicofisicamente è veramente dura. A livello psicologico devi imparare a volerti bene, perché non tutte le date vanno bene e ti danno la stessa soddisfazione. Devi ricordarti perché lo fai. È importantissimo anche riposarsi, soprattutto per me che uso la voce, tutte le mancanze che ho dal punto di vista fisico e lo stress psicologico si riflettono immediatamente sul modo in cui canto.” 

 

A proposito di tour: come imposterete i prossimi live? Ci sarà qualche cambiamento?

Jeremy: “Ci sarà Johnny Marsiglia, e questo già presuppone un’innovazione allo show. Porteremo il disco nuovo più qualche grande classico (ride) di Terapia Di Gruppo. Cercheremo di fare sempre di più. Quello che possiamo dirti è che varrà sicuramente la pena di venire a questi live. Abbiamo una voglia matta di suonare i pezzi nuovi.”

Davide: “Ci dicevamo ieri che tanto sappiamo già come andrà a finire, che alla fine di questo nuovo tour avremo in mano il prossimo disco.”

 

Anna Signorelli

I DEPRODUCERS in bilico tra musica e scienza

Stanno girando l’Italia, portando nei teatri il loro terzo spettacolo che segue il filone delle Musiche per Conferenze Scientifiche dal titolo DNA. I DEPRODUCERS sono Vittorio Cosma, Riccardo Sinigallia, Gianni Maroccolo e Max Casacci e da qualche anno stanno conducendo un progetto ambizioso: usare la musica per divulgare scienza.

Abbiamo fatto due chiacchiere con Vittorio prima della loro esibizione al Teatro della Tosse di Genova. 

 

Il vostro collettivo ha un secondo nome, Musiche per Conferenze Scientifiche. Quanto è forte secondo voi il potere divulgativo della musica?

In realtà adesso l’abbiamo accorciato ed è diventato Music for Science. Secondo noi la musica ha un potere divulgativo enorme, in quanto trascende barriere sia linguistiche che culturali. Ha una capacità di penetrazione, di attecchimento tale nelle menti di chi ascolta che ci è sembrata una buona idea utilizzarla per veicolare qualcosa di più razionale come la scienza. Se andiamo a vedere, scienza e musica hanno parecchio in comune, dal mistero alle parti più filosofiche, e possono essere viste come due modalità diverse, una più razionale e una più emotiva, di interpretare la realtà.

 

DNA è il terzo progetto che segue questo filone, dopo Planetario e Botanica. Come decidete il tema da affrontare e cosa vi ha spinto in questo caso a scegliere la vita e l’evoluzione, passando per la malattia?

Il nostro potrebbe essere definito come un viaggio poetico, come la versione teatrale del documentario degli anni sessanta Potenze di Dieci, che partiva dai confini dell’universo e arrivava fino agli atomi del corpo umano. Il primo capitolo, Planetario, è più astratto e lontano da noi, mentre il secondo, Botanica, ci ha messo davanti agli occhi qualcosa che vediamo tutti i giorni ma a cui forse non prestiamo molta attenzione, cioè le piante. Infine, abbiamo deciso di entrare in un universo microscopico, quello del DNA degli esseri viventi.

 

Sul palco siete affiancati dal professor Telmo Pievani, esperto di evoluzione. Come descrivereste questo connubio?

Telmo è il nostro frontman sul palco, nonché quello che porta avanti la parte scientifica. È una collaborazione già consolidata e che si è sempre dimostrata fruttuosa, perché da ciò che ci raccontiamo scaturisce sempre, consciamente o inconsciamente, un’ispirazione che ci permette di creare della musica nuova.

 

Com’è nata invece la collaborazione con AIRC, altro partner del progetto? 

Anche loro sono venuti a vedere i nostri precedenti spettacoli e hanno pensato che quello che facciamo sul palco fosse un buon modo per diffondere tra il pubblico una certa conoscenza anche su ciò di cui si occupano da ormai decenni.

 

Avete già in mente altre musiche per conferenze scientifiche o c’è qualche tema che vi piacerebbe affrontare in particolare?

Ne abbiamo già parlato un po’ tra di noi e saranno usciti un centinaio di possibili temi da affrontare. Dalla filosofia all’economia, passando per la robotica, la chimica oppure ancora la matematica pura. È bello poter approfondire discipline così diverse, veicolandole con un mezzo naturale come la musica. Ci piace pensare che, una volta uscito dalla sala, uno spettatore vada a casa avendo imparato che cos’è il genoma, ad esempio. Non è una cosa da poco…

 

Testo: Francesca Di Salvatore

Foto: Giulia Spinelli

L’ultimodeimieicani tra chitarre prese male e provocazioni

Hanno uno dei nomi più geniali del panorama musicale italiano. L’ultimodeimieicani sono Lorenzo Olcese, Pietro Bonuzzi, Beniamino Parodi, Rachid Bouchabla e Stefano Pulcini e stanno cercando, sia con la loro musica che con il collettivo Pioggia Rossa Dischi, di far capire che la scena genovese è tutt’altro che spenta. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Lorenzo, Pietro e Beniamino, rispettivamente voce, chitarra e basso della band.

 

Sono passati quasi tre anni dal vostro primo EP, In moto senza casco. Vi sentite cambiati in quest’arco di tempo, sia a livello musicale che personale?

Beniamino: “Direi di si da entrambi i punti di vista. Sicuramente a livello personale siamo cresciuti e le nostre storie sono cambiate. Pensa che quando è uscito In Moto Senza Casco nessuno di noi, tranne Pietro, viveva ancora da solo. Adesso invece siamo tutti più indipendenti.”

Lorenzo: “Per quanto riguarda la musica, invece, il nostro primo lavoro non era stato troppo ritoccato. Mattia Cominotto, che l’ha registrato e prodotto, segue una filosofia per cui l’album d’esordio di una band non deve essere toccato da nessuno e quindi ci aveva fatto registrare le canzoni così come le avevamo preparate, senza metterci mano. Ti Voglio Urlare invece è il risultato di uno studio e di un lavoro molto intenso, che è durato circa 40 giorni in studio, quindi c’è per forza una maggiore cura per il dettaglio sia sui testi che sulla musica. Non abbiamo lasciato nulla al caso.”

Doveste riassumere il nuovo album in 3 parole, quali scegliereste?

Pietro: “Sicuramente il titolo, ‘Ti Voglio Urlare, è già un buon riassunto di quello che è effettivamente il disco.”

Beniamino: “Se ‘chitarra elettrica’ vale come una sola parola, io sceglierei innanzitutto quella.”

Lorenzo: “Io direi anche ‘vero’. Ho sempre pensato che questo lavoro, parlando di noi e delle nostre esperienze, fosse molto realistico, autentico. E poi aggiungerei ‘tristezza’, che non ce la facciamo mai mancare.”

Pietro: “Potremmo quasi dire ‘chitarre prese male’.” [ridono]

C’è qualche artista in particolare a cui vi siete ispirati nel creare il sound del disco?

Lorenzo: “Ispirati direttamente no, ma che ci sono delle influenze che arrivano soprattutto da quello che ci piace ascoltare di solito. Tame Impala, Strokes, Phoenix, Radiohead, solo per citarne alcuni…”

Beniamino: “Per quanto riguarda i gruppi italiani, ci piacciono molto i Verdena.”


Com’è nata l’idea dietro al primo singolo Pensione a 20 Anni?

Lorenzo: “Nasce da una provocazione abbastanza palese e cioè di dare a tutti nel momento della formazione le stesse possibilità, una pensione appunto, per poi entrare nel mondo del lavoro con le competenze che abbiamo liberamente scelto di acquisire. Un giorno, mentre stavamo decidendo come promuoverlo per bene, essendo il primo singolo, ci è venuto in mente di trasformarla in una petizione su Change.org e solo dopo la gente ha scoperto che si trattava di una canzone.”

Pietro: “Quando abbiamo iniziato a pensarci era il periodo in cui si sentiva parlare spesso della questione del reddito di cittadinanza, quindi ci piaceva l’idea di presentarla come un’istanza politica reale.”

Beniamino: “Tra l’altro, la petizione ha anche ricevuto una certa attenzione e consenso su internet, anche se era nata come provocazione. Avere la pensione a vent’anni è forse uno dei più grandi paradossi a cui si possa pensare, ma comunque ha dato modo di riflettere a parecchie persone.”


Dato che nel disco parlate molto delle vostre città, che rapporto avete in generale con Genova e con la scena musicale genovese?

Beniamino: “Diciamo che, per quanto mi riguarda, non è dei migliori [ride]. Il nostro rapporto con Genova è sintetizzato bene dalle prime parole di Sirene, anche se in realtà è stata scritta da Lorenzo per Treviso. “Tu che ti presenti così bella, io che vivo così male”, ma in un certo senso anche “che ti vivo così male”, perché c’è un certo distacco tra quello che è Genova, quello che chiede e propone e quello che invece siamo noi. Sicuramente il progetto di Pioggia Rossa Dischi è stato un modo per dar forza a noi e ad altre realtà emergenti locali che purtroppo qui non trovano troppe opportunità per affermarsi. Essendo comunque abbastanza grande, secondo noi Genova dovrebbe avere un posto di rilievo nel panorama musicale, perché c’è tantissimo movimento, ma bisogna trovare dei canali per farlo uscire e Pioggia Rossa vuole fare un po’ questo.”

Lorenzo: “In giro ci sono davvero tanti progetti molto validi, quindi abbiamo deciso di collaborare con i LENIN! [altro gruppo genovese] per creare una serie di occasioni e dare così voce a tutti quelli che riteniamo più interessanti. Oltre a varie serate che organizziamo durante l’anno, insieme ad altre realtà locali abbiamo tirato su il Balena Festival qui in Porto Antico. È un evento ancora giovane, ma sta funzionando bene.”

 

Francesca Di Salvatore

“Scenderà un nuovo sole” sui Santamarya

I Santamarya sono un gruppo neonato nella provincia di Viterbo. Il loro primo album Nessuno Ricorda Niente uscirà nell’anno nuovo.  

Abbiamo fatto qualche domanda a Leonardo (voce), Francesco (chitarra), Filippo (batteria) e Gabriele (basso). 

 

Quando sono nati i Santamarya?

Leonardo: “Siamo nati da circa un anno e mezzo. Ci conoscevamo di vista ma non personalmente; gli altri conoscevano il mio vecchio gruppo ed io conoscevo il loro ma come sappiamo le band di provincia durano sempre poco e mentre io avevo smesso di esibirmi dal vivo, loro avevano intenzione di riprendere e così Filippo mi ha contattato e invitato in sala prove dove ho portato le registrazioni di alcune cose che scrivevo a casa.”

 

Perché avete scelto il nome Santamarya?

Leonardo: “La zona dove proviamo si chiama Santamaria e visto che gli altri tengono particolarmente all’orgoglio grottano (da Grotte Santo Stefano) abbiamo scelto questo nome. In realtà non c’è nessuna motivazione estetica in quella “y”, l’abbiamo messa perché ci sono altri gruppi che si chiamano così.”

Filippo: “Tra l’altro c’è un gruppo messicano molto famoso che si chiama Santamaria senza “y”.”

Leonardo: “Se fossero stati, non lo so, islandesi, già potevamo pensare di rubargli il nome ma se sono messicani può essere pericoloso.” (ridono)

 

Come nascono le vostre canzoni?

Leonardo: “Per ora io scrivo con la chitarra e ci metto il testo, poi veniamo in sala prove e arrangiamo. In realtà dipende tutto da me perché ho delle difficoltà a scrivere testi su musiche non mie e gli altri lo sanno.” 

Filippo: “Quando abbiamo cominciato, anche noi avevamo dei pezzi. Però abbiamo visto che funzionavano meglio le cose che scriveva Leo, insomma erano più avanti. E poi nella lavorazione di questo disco, c’è anche molto del produttore, Giorgio Maria Condemi (chitarrista di Francesco Motta, Marina Rei, Joe Victor) che ha fatto un lavorone.”

 

Avete detto che il vostro primo album è in arrivo. Cosa volete comunicare a chi lo ascolterà? 

Leonardo: “L’album esce nell’anno nuovo, prima della primavera e ha avuto una gestazione di un anno e mezzo. Si intitola Nessuno Ricorda Niente perché sai com’è la società moderna: c’è un approccio diverso alla musica e se una volta i gruppi esistevano per anni, adesso questo non succede più. I musicisti vanno e vengono, uno è all’apice e il giorno dopo non è più nessuno ed ecco perché Nessuno Ricorda Niente. Si riferisce un po’ a questo ma non solo.”

 

Come è stata l’esperienza nello studio di registrazione StraStudio?

Leonardo: “L’esperienza di registrazione è stata fica, è stata bella. Il musicista in studio sta sempre bene.”

Filippo: “E poi transitavano diversi guests che sono presenti in Fantasmi come Cesare Petulicchio dei Bud Spencer Blues Explosion e il maestro Martinelli (che ha lavorato con Zucchero, Gino Paoli) che suona il sax. Quindi è stato davvero fico.”

 

Fantasmi, uscito per Goodfellas, è il primo singolo del vostro album. Perché avete scelto proprio questo pezzo?

Leonardo: “In realtà perché io volevo mettere qualche ballo nel video.”

Filippo: “Anche perché è abbastanza radiofonico rispetto agli altri.”

Francesco: “È anche un pezzo estivo, fresco. In realtà dovevamo farlo uscire per l’estate, però non abbiamo fatto in tempo. Quindi è uscito a settembre ma alla fine è ancora un po’ caldo.” 

 

Adesso però vogliamo sapere come avete incontrato l’attore, nonché fenomenale ballerino, Valerio Desirò, protagonista del video di Fantasmi.

Filippo: “Valerio era un mio compagno di università. È conosciuto nell’ambito comico come attore, ha lavorato con Maccio Capatonda, con The Pills… Ci piaceva molto la sua regia e quindi l’ho contattato. Inoltre ci serviva un attore in quanto Leonardo aveva avuto questa idea di fare un video con un attore che ballava. Valerio ha accettato e ci ha detto: “Un giorno facciamo un pranzo qui da voi” e quindi è venuto a vedere questi posti sperduti ed è rimasto folgorato. Ha preso i suoi appunti e ha girato tutto in un giorno. Il risultato è fico.”

Leonardo: “Non ci aspettavamo che uscisse così bene, è geniale.” 

 

Nell’oceano delle nuove proposte musicali, credete che una band di provincia come la vostra trovi più difficoltà ad emergere rispetto a una band di città?

Leonardo: “Guarda, io parlo per me e le mie esperienze discografiche sono più o meno zero. Quindi sicuramente si. Evidentemente quelle di città hanno più possibilità. Se sei a Roma hai sicuramente più visibilità.”

Filippo: “Qui in questa provincia suonare live è veramente complicato.”

Gabriele: “Secondo me la città ti dà più visibilità, più locali e più occasioni per suonare. Però la provincia ti da più opportunità a livello creativo, sia perché c’è la noia e il bisogno di riempire degli spazi, sia perché è più facile mettere su una sala prove tutta tua. In città la sala si paga ed è difficile avere uno spazio tuo dove creare. In più, se guardiamo all’Italia, tanti gruppi come i Verdena e gli Zen Circus vengono dalla provincia.”

 

A quando i prossimi live?

Leonardo: “La prima data che abbiamo fatto è stata il primo novembre a Montefiascone, al Belvedere, dove abbiamo fatto qualche pezzo acustico. L’11 novembre presentiamo il nostro secondo singolo, a Radio 1 e suoneremo dal vivo un paio di pezzi. Il 23 novembre suoniamo agli Stabilimenti ad Acquapendente. Il 24 a Spaghetti Unplugged a Roma e il 30 a Villa Lais a Sipicciano.”

 

Cecilia Guerra e Rachele Moro