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Tag: intervista

Tre Domande a: Kenai

Se dovessi riassumere la tua musica con tre parole, quali sceglieresti e perché?

Probabilmente definirei la mia musica contaminata, ricercata e personale. Contaminata si riferisce al fatto che i miei pezzi, in particolare il mio ultimo singolo Calzini Bucati, intersecano trasversalmente più generi musicali tra loro anche distanti; il pezzo già citato è propriamente indie, ma sono presenti moltissimi richiami alla musica anni ’80, e lo stesso discorso vale anche per i pezzi in uscita. La mia musica è ricercata perché sia io che Paci Ciotola, il produttore che cura tutti i miei brani, spendiamo davvero tanto tempo nell’arrangiamento, cambiandolo più o più volte e curando anche il minimo dettaglio, perché spesso sono proprio i dettagli a fare la differenza. Per i testi, poi, ogni parola ha un suo perché, non è mai lasciato nulla al caso e, alla fine, il risultato è frutto di una costante ricerca di suoni e significato. L’ultimo aggettivo, personale, è riferito al fatto che racconto, in qualche modo esperienze a me molto vicine e faccio di tutto per creare un legame tra me e ciò che scrivo; questo arriva all’ascoltatore. Vince sempre la verità.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare/condividere il palco?

Questa è una bellissima domanda. Per quanto riguarda la scena internazionale penso subito a Bruno Mars, che per me incarna il prototipo della pop star: canta, performa, danza ed interpreta magistralmente tutti i pezzi che affronta. Diciamo che per il momento i nostri generi sono forse diametralmente opposti, però penso che se avessi l’opportunità di dividere il palco con lui, suonerei anche musica classica. Guardando invece il panorama italiano, mi affascinerebbe dividere il palco con Cesare Cremonini, che ha per me un penna straordinaria oltre ad essere un artista eclettico e sempre al passo con i tempi. In riferimento alla scena indie, mi piace molto il modo particolare di scrivere di Calcutta, ha una voce che arriva diritta al cuore ed è in grado di muovere in me i tasti giusti.

 

C’è un evento, un festival – italiano o internazionale – in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Penso che il sogno di tutti gli italiani sia Sanremo: ha un’atmosfera incredibile, un hype assurdo ed un pubblico vasto capace di raccogliere sia le istanze dei più grandi che dei giovanissimi, basti pensare a Sangiovanni e Massimo Ranieri dell’ultimo festival. È un’opportunità enorme per tutti gli artisti, dai big agli emergenti, e non è necessario vincere o occupare posizioni particolarmente alte per riscontrare il favore del pubblico, vedi Tananai. Per quanto riguarda i festival internazionali, penso che il Lollapalooza sia in pole position in quanto sono presenti i migliori artisti della scena internazionale in uno scenario a dir poco sublime… magari ne avessi l’occasione.

Tre Domande a: Argo

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Confesso di aver avuto bisogno di una chiamata con Trem per ragionare bene sulla risposta a questa domanda.
Abbiamo scelto queste tre parole: istinto, immagine e viaggio.
Sono le tre parole chiave dei principali “sentieri” che scegliamo di percorrere con le canzoni. L’istinto è l’input fondamentale per ogni progetto e, per esempio in “Mi hanno detto che” diventa addirittura protagonista, come se fosse il motore che fa andare avanti la traccia.
Successivamente abbiamo scelto la parola immagine perché spesso, nei testi delle canzoni, riesco a descrivere meglio uno stato d’animo analizzando piccole “fotografie” di contesto, apparentemente circoscritte che caratterizzano un certo tipo di situazione.
Il viaggio è qualcosa che spesso ti fa dimenticare da dove sei partito, per questo è la nostra terza parola. Spesso ci siamo sentiti così lontani dalla nostra comfort zone che abbiamo voluto riportare questo aspetto della nostra vita anche nella musica. In Metà settembre, soprattutto grazie all’andamento musicale del pezzo, abbiamo voluto regalare un piccolo viaggio all’ascoltatore: si decolla dal nostro quotidiano disordine mentale per atterrare sulle nuvole.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare/condividere il palco?

Sicuramente mi farebbe molto piacere collaborare e condividere il palco con gli Psicologi, nella scena italiana attuale li considero i più affini alla roba che sto facendo in questo momento.
Mi ricordo una sera, probabilmente al Traffic, Alessio (Lil Kvneki) fece salire me e Morb sul palco durante una serata con vari artisti della scena di Soundcloud, solamente perché ci avevamo chiacchierato mezza volta, infatti ricordo che era una presa a bene inaspettata.
Qualche mese dopo andai ad ascoltare Diploma, aspettandomi qualcosa di simile a quella serata basata su pogo e lacerazioni alle corde vocali, e rimasi sorpreso dal cambiamento.
Probabilmente sono stato condizionato da quei due ragazzi, involontariamente mi hanno spinto a sperimentare di più e a distaccarmi da quella che, agli inizi, era la mia comfort zone.

 

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

Ci piace sapere che almeno nella musica riusciamo ad avere un equilibrio. Inizialmente scrivo da solo, o costringendo in un silenzio agghiacciante le persone che si trovano vicino a me in quel momento. Successivamente Trem compone e arrangia tutto e, visto da fuori, sembra alienante quanto mistico, è affascinante.
Quando arriva il momento di registrare iniziano ad intravedersi le stelline della magia, sembra di lasciare il corpo in studio mentre la testa si perde nel testo e nell’interpretazione che gli voglio dare. Durante il lavoro di editing, mix e mastering è come se tutto iniziasse a prendere vita e, per quanto si tratta dello step meno emotivo, spesso riusciamo a capire bene se la traccia ci convince o no proprio in questa fase. Nel live, in modo diverso, ci sentiamo comunque guidati da un preciso modus operandi che in altre circostanze non abbiamo, quindi la cosa che più amiamo del fare musica è senz’altro il processo.

Tre Domande a: Diamarte

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto diamarte è nato nel 2018.
Siamo amici e suoniamo da tempo insieme, diamarte è l’ultimo nome che abbiamo dato alle nostre varie jam in sala prove sin dalla prima adolescenza.
Abbiamo deciso di lavorare e immergerci completamente nel mondo musicale ed elaborare inconsapevolmente tutto quello che abbiamo ascoltato, valutato, vissuto e maturato negli anni.
Viviamo in un piccolissimo paese sperduto tra le montagne del matese in molise e il luogo ha sicuramente influenzato lo stato d’animo e il suono della band per adesso.
Il primo disco Transumanza è il risultato delle nostre piccole esperienze sensoriali e le influenze saranno abbastanza palesi (rock, stoner, noise) ma a noi non ci importa, non ci nascondiamo e per ora va benissimo così!

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare/condividere il palco?

Siamo molto affascinati dai musicisti italiani. Sono persone che indirettamente hanno influenzato la nostra musica e la nostra vita. Parliamo di artisti come Carmelo Pipitone, Roberto Dell’era, il maestro Enrico Gabrielli, Giorgio Canali, Gianni Maroccolo, Dario Ciffo, Dan Solo… Sono tutti artisti con cui ci piacerebbe collaborare ovviamente.
Pensandoci meglio anche con Trent Reznor non sarebbe male…

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Forse Falso Risveglio, il nostro primo singolo.
Bisogna presentarsi in maniera tranquilla come ci consiglia la buona educazione… non vorrei mai presentare il lato mio più estremo/incazzato al primo appuntamento.
Falso Risveglio è una canzone che indubbiamente ti fa capire in che mood viviamo e suoniamo, ma non gode di troppe pretese come altri brani del disco Transumanza (in uscita l’11 novembre 2022)
È accettabile anche per chi non ascolta la musica rock… credo. 

Tre Domande a: Feexer

Come e quando è nato questo progetto?

Feexer nasce nella sua veste attuale nel 2017, con la pubblicazione di un demo-album chiamato Headed To in cui Manuel (Ciccarelli) ha raccolto 10 tracce, scritte come solista negli anni precedenti e pubblicate grazie al successo di una campagna su una delle principali piattaforme di crowdfunding. Da quel momento Manuel ha stabilito una road map per portare il progetto a un livello superiore, iniziando a studiare produzione musicale e realizzando alcuni demo che hanno catturato l’attenzione di due etichette (una tedesca e una italiana), nonché di un produttore italiano che oggi vive e lavora negli Stati Uniti.
Purtroppo la pandemia e il successivo contrarsi degli investimenti delle label sui nuovi progetti hanno impedito una pubblicazione immediata del primo disco in studio della band. A quel punto è stato chiaro che Feexer avrebbe dovuto muoversi come realtà indipendente, anche dal punto di vista della produzione: una scelta che ha richiesto un ulteriore lavoro di approfondimento in tale ambito – solitamente di competenza di esperti del settore – che sul medio periodo ha però portato enormi vantaggi. A questo occorre aggiungere l’arrivo nella band del batterista Stefano Mazzoli, che aveva calcato i palchi insieme a Manuel quando entrambi militavano nella band Zeroin e che ha permesso di raffinare ulteriormente le scelte artistiche.
Il primo studio-album di Feexer Don’t Bother, in uscita il 4 novembre, è il prodotto di questo recente passato che ha portato oggi la band ad essere una realtà completamente indipendente e con una impostazione artistica molto definita.
In ogni caso Feexer è probabilmente nato negli anni Novanta, quando Manuel ha ricevuto in regalo una chitarra e un amplificatore sgangherato da suo fratello maggiore!

 

Se doveste riassumere la vostra musica con un tre parole, quali scegliereste e perché?

Probabilmente canzone, chitarre e fusioni. 

Canzone, perché la band non fa della ricerca di un determinato sound il suo punto di riferimento. Tanta della musica prodotta oggi si concentra sulla ricerca di un suono ben determinato, con l’obiettivo di distinguere quel progetto da tutti gli altri: i dischi sono a volte un’espressione statica di questa volontà, dove il suono è al centro di tutto e all’interno di un LP si riesce a dar vita soltanto ad alcune sfaccettature. Per Feexer questo non è il punto di riferimento. Manuel e Stefano si concentrano sul riuscire a dare la migliore veste a una determinata canzone, quell’insieme di strofa e ritornello con tutti i suoi ricami. Agire senza schemi predeterminati, senza aver paura di accostare canzoni più aggressive a pezzi più introspettivi o a ballate acustiche. L’importante è che quelle note scritte inizialmente con una chitarra acustica arrivino a esprimersi con tutto il loro potenziale anche nella versione finale del brano.
Chitarre: sono al centro di tutto l’album. L’intreccio di chitarre acustiche e di riff più incisivi di chitarre elettriche sono una chiave sonora senza dubbio predominante, nonostante il ruolo altrettanto fondamentale della parte ritmica e degli inserti elettronici. Durante la produzione si è manifestato una sorta di rispetto reciproco del mondo acustico verso quello elettrico e viceversa. Non si è mai stabilito a priori cosa dovesse essere più in rilievo: quando un riff potente veniva accostato a una chitarra acustica ritmica questa non è mai andata a scontrarsi con la prima, bensì è stata concepita come un supporto per la stessa che andasse nella stessa direzione. Stessa cosa, soprattutto, nel lasciare alle atmosfere acustiche il loro spazio nonostante le numerosissime sovraincisioni elettriche.
Fusioni, perché queste nove canzoni hanno dato l’opportunità di far incontrare spesso le varie anime della band. Dal grunge più sporco alla raffinatezza di un certo alternative rock di matrice britannica, lasciando inoltre la libertà alla vena più elettronica di farla da padrone in diversi passaggi del disco. 

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare/condividere il palco?

A volte si rimane affascinati da certe parabole artistiche. Sicuramente una delle storie che ci hanno più colpito negli anni è stata quella dei Vex Red, band inglese che all’inizio degli anni Duemila è stata una meteora folgorante, con un disco Start with a Strong and Persistent Desire – prodotto da Ross Robinson – che aveva scalato le classifiche dell’alternative rock sia nel Regno Unito che in Europa. Manuel ricorda ancora il giorno in cui, durante una festa organizzata in un appartamento nel Bolognese, aveva ascoltato il singolo The Closest. È stata la prima e unica volta in cui ha implorato di potersi portare a casa in prestito un disco lasciando una festa dopo pochi minuti. La profondità di quel disco dei Vex Red, le sonorità malinconiche eppure potentissime che trasmette, ha sicuramente segnato la nostra passione per la musica.
Eppure si tratta di una band che, per dissidi con la casa discografica e altre motivazioni personali, non ha più prodotto nulla fino a poco tempo fa, nel 2019 con l’EP Give Me the Dark, che ne ha segnato la reunion e un primo nuovo esperimento musicale.
Ecco, probabilmente scrivere un pezzo con i Vex Red e suonarlo dal vivo con loro esaudirebbe un grande desiderio e chiuderebbe il cerchio con quella fuga improbabile da una festa nel Bolognese. 

Tre Domande a: Novadeaf

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Mi sono formato con la musica rock e pop inglese e americana degli anni ’70, ’80 e ’90 e ogni band o songwriter che ho amato ha ovviamente lasciato una traccia dentro di me. R.E.M., Nick Drake, Smashing Pumpkins, Joni Mitchell, Depeche Mode sono i primi nomi che mi vengono in mente. Di David Bowie ammiro il mestiere, la lucidità e l’intelligenza con cui ha saputo reinventarsi anno dopo anno, stagione dopo stagione, costruendosi al contempo un percorso artistico coerente e organico. Se poi parliamo di veri e propri modelli artistici trovo che i Radiohead siano stati i Beatles della mia generazione, imprescindibili per chi fa il mio genere di musica. In Rainbows per me è l’album perfetto.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Un bel dilemma! Probabilmente opterei per Four, il primo singolo estratto dal mio ultimo album. Direi che è un ottimo compendio della mia attuale idea di musica, ci sono dentro quasi tutti i miei ingredienti preferiti: una melodia ampia e catchy per parlare a quante più orecchie possibile, un tappeto di archi che dona raffinatezza e profondità emotiva, un ritmo moderatamente dance per stimolare anche il corpo insieme allo spirito. Ci sono synth suonati da un computer e c’è un assolo di chitarra suonato da dita umane. Mi piace giocare con i contrasti, dire una cosa e al contempo dire il suo contrario, mescolare elementi diversi e creare dei piccoli mondi. 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Creare oggetti sonori che sappiano emozionare e coinvolgere, con la speranza che chi ascolta possa riconoscere dentro di essi un pezzo del proprio vissuto, della propria idea del mondo o della propria sensibilità. In una parola, creare bellezza.  

Tre Domande a: Anna Soares

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché?

Viscerale: per me è essenziale che quel che produco a livello sonoro entri completamente dentro chi ascolta, che lo percepisca a livello fisico, oltre che emotivo. Campionare il suono della cintura che mi percuote, un mio orgasmo o il suono del vento tra gli alberi mi consente di passare delle informazioni puramente fisiche che il solo blend tra ritmica, armonia e melodia a volte non riesce ad esprimere.
Intellettuale: sono consapevole che i miei lavori non siano per tutti e non lo ritengo un problema. Ci sono persone che amano fruire della musica come se fosse cibo, ingurgitando bocconi più o meno grandi, più o meno buoni, sta al mero giudizio personale trarne conclusioni e giudizi. Io amo mantenere l’attenzione alta nel cogliere citazioni filosofiche, antropologiche, legate alla più alta forma della sessualità: la sua culturalizzazione.
Eccitante: sembra quasi scontato, ma dal momento che la mia musica parla di sesso e, nello specifico, di un approccio sacrale alla sfera sessuale, è naturale che chi ascolta e ci si immerge senta quel brivido lungo la schiena, quasi assimilabile alla sensazione del flirt, della seduzione, del gioco di sguardi. Una cosa molto buffa e molto carina che mi è stata detta da più persone è stato il loro sentirsi “esposti” mentre ascoltavano i miei brani in cuffia in pubblico. Quasi come se il loro linguaggio del corpo tradisse un’eccitazione irrefrenabile. È stato molto bello prenderne consapevolezza. 

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Oh, molte, moltissime cose. Vorrei che le persone potessero percepire e sentire se stesse all’interno di un quadro più ampio, abbracciando chi sentono di essere al di là di quel che è stato detto loro dovessero essere. A partire dal loro aspetto, fino ad arrivare ai loro desideri più profondi e radicati, passando per la consapevolezza del non aver controllo su molti aspetti della realtà e dell’esistenza. Vorrei che si sdoganasse a livello socioculturale un certo approccio ipermorlista rispetto ai temi tabù della nostra epoca, instaurando un dialogo più ampio, e che includa le nuove generazioni e le loro tematiche. Vorrei che le persone fossero in generale più serene rispetto alle aspettative della società, che si concedessero di lasciar andare e di lasciarsi andare, assecondando luoghi interiori che hanno un loro peso specifico. Poi, si, sarebbe anche meraviglioso che in Italia si variasse un po’ con l’estetica musicale di quel che viene proposto da oltre 30 anni, sempre uguale a se stesso tranne per rarissime eccezioni. 

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?

Penso che i social attualmente siano la vetrina più sensata e più a portata di mano per chiunque voglia proporre un proprio lavoro artistico. Li utilizzo, sono parte di quel frullatore gigante come tutti, anche se vivo il rapporto con i social in modo duale e idiosincratico. Trattando tematiche legate alle sessualità alternative spesso incorro in problemi legati a segnalazioni di persone che apparentemente non apprezzano la mia faccia di bronzo nel dire delle cose in modo chiaro e schierato. O forse non apprezzano la mia autodeterminazione nel rappresentarmi libera e fiera, chissà. Vedo la faccenda in un quadro più sfaccettato, quindi non direi che “punto” sui social per far conoscere il mio lavoro, piuttosto, sento l’esigenza di occupare uno dei pochi spazi che mi sono concessi per creare consapevolezza. Poi, se le persone decideranno di ascoltare quel che faccio, mi prenderò anche uno spazio sonoro. La musica è un veicolo attraverso il quale creare magia, non il fine ultimo. Cheers! 

Tre Domande a: I Sospesi

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Passare il messaggio dell’album Tentativi ed Errori che racconta chi vive la sua vita come un fallimento continuo. Di chi è esausto dei paragoni con gli altri, delle pressioni esterne ed interne. Della cultura performativa a cui siamo sottoposti quotidianamente. Esiste un’alternativa alla Hustle Culture ed è fare la scelta emotiva: non basare la propria esistenza ed essenza sulle performance perchè una lista di obiettivi raggiunti dice di noi cosa abbiamo fatto ma niente di chi siamo davvero.

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Sarebbe Attitudine, la traccia conclusiva del disco. Esprime a pieno il senso di disagio e di fallimento che proviamo noi e la nostra generazione.
Il brano è stato scritto raccontando le sensazioni ed emozioni di una persona che si trova davanti al fatto compiuto di sentirsi in ritardo con la propria vita. Capisce di aver allungato determinate tappe che per la società hanno una scadenza ben precisa come il terminare gli studi, il trovare un lavoro, il fare una famiglia… Questa presa di coscienza viene colta come un ostacolo invalicabile: non esiste una soluzione e non esiste una via d’uscita, non puoi riavere indietro il tempo “sprecato”.
Questo brano non ha un lieto fine perchè queste emozioni non seguono lo storyboard classico del “riscatto”. L’unica salvezza è il prenderne atto e capire che non si è sbagliati se si ha vissuto una storia anche solo in qualche dettaglio simile. La richiesta della società è troppo elevata per poter essere esaudita da ogni individuo e per questo si abbandonano aspetti della vita fondamentali come vivere emotivamente o inseguire i sogni e le passioni a discapito delle performance.

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

Fare musica ti permette di entrare in contatto con persone che vivono esperienze simili alle tue e attraverso le parole che scrivi, in una canzone, è come se ti aprissi nei loro confronti e di conseguenza loro nei tuoi. Trovare, appena scesi dal palco, persone che corrono ad abbracciarti e ringraziarti perchè quella canzone parla proprio di loro non è solo empatia ma sembra proprio di conoscersi da molto.

Tre Domande a: M.E.R.L.O.T.

Come e quando è nato questo progetto?

Questo progetto, Gocce, è nato appena sono arrivato a Bologna. Ho provato a scrivere anche prima ma solo qui sono riuscito effettivamente a pubblicare. Non so perché, sarà che Bologna è una città molto artistica e quindi mi sono sentito in dovere di contribuire. O forse non mi sentivo totalmente al sicuro a farlo giù da me, ovvero in Basilicata, dato che conosco tutti e scrivere canzoni è un po’ come spogliarsi.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Quando pubblico la mia musica spero solo che le persone ascoltino le mie canzoni nello stesso modo in cui io le scrivo, ovvero con attenzione. Credo che sia molto importante come approccio perché una canzone può cambiarti la vita e questo vale sia per chi la scrive che per chi la ascolta. Spero che Gocce possa avere questo effetto su qualcuno.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?

Punto molto sui social per far conoscere la mia musica, quasi tutto. Anche perché sono artisticamente figlio della pandemia. In quel periodo in cui eravamo chiusi tutti in casa e fisicamente distanti, purtroppo, era praticamente l’unico modo per comunicare con il pubblico. A breve fortunatamente porterò la mia musica sul palco, non vedo l’ora di proporre il disco Gocce nella dimensione live a Milano il 9 ottobre all’Arci Bellezza e a Roma il 12 ottobre al Monk. Sarà una sensazione pazzesca, ne sono certo.

Tre Domande a: Gospel

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il vostro modo di fare musica o a cui vi ispirate?

A dire il vero ce ne sono molti che ci influenzano, fa tanto quello che stiamo ascoltando mentre scriviamo i pezzi per un album. Durante le produzioni del secondo disco abbiamo ascoltato (come sempre) molta musica anglofona. Mentre per il primo disco le influenze provenivano per lo più dal blues e dal vintage rock, per questo lavoro i nostri ascolti sono virati più alla scena contemporanea, tornando indietro al massimo di 30 anni. Dagli Alice In Chains ai Chastity, dai Kyuss ai Them Crooked Vultures. Un bel frullato di musica pietrosa.
Non ce lo siamo imposti, ascoltavamo e basta.
Per quanto riguarda gli italiani, oltre ai gruppi progressive che amiamo molto, i più validi sono sempre stati Verdena e Teatro degli Orrori. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei la canzone che darà il titolo all’album che sta per uscire il cui titolo non è ancora stato reso noto. Forse è quella che si lega di più al disco precedente come sonorità ma sicuramente racchiude bene la nostra anima più soul senza tralasciare quella rock venuta fuori più evidente in questo secondo album.
Verso la fine c’è una frase iconica, che racchiude un concetto sottointeso in tutta la nostra produzione: “Dichiaro guerra al genere umano” ma qui non stiamo palando della guerra adolescenziale fatta di rabbia verso tutto e tutti, siamo troppo vecchi per questo, la guerra è più profonda e il genere umano comprende anche e soprattutto noi stessi e la nostra natura, non siamo altro che belve, dopotutto.

 

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

In assoluto suonare dal vivo. Certo, produrre registrare e lavorare ai dischi è bello, ma vivi costantemente nell’attesa di poter far ascoltare la tua musica. Fare i live ha un riscontro immediato, nel bene e nel male. Se fai schifo lo leggi in faccia alle persone, se sei coinvolgente, il pubblico ti trascina a sua volta. Per noi è come raggiungere il livello più alto di soddisfazione nella musica. In più, siamo tutti cresciuti suonando in tante band e facendo molti concerti in giro, dai palchi più rispettosi alle peggiori bettole di provincia.
Tutto questo ci ha proiettato in una dimensione dove il live pesa tanto quanto la musica registrata (talvolta di più). Oggi sembra che la tendenza sia al contrario: tanto tempo passato dietro alla produzione e pochissimi live. Ma questo è un altro discorso.

Blindur: la musica è una chiave che apre le porte

Blindur, nome d’arte di Massimo De Vita, è un cantautore, polistrumentista e produttore della scena musicale alternativa italiana. In occasione dell’uscita di Exit, il suo terzo album, ci ha raccontato il suo percorso artistico, fatto di simboli, curiosità e condivisione.

 

Ciao, piacere! Conosciamoti meglio: cosa significa fare musica per te?

“È una cosa indispensabile. Scrivo canzoni perché ne ho bisogno, è un’urgenza comunicativa ed è una mia propensione naturale. Negli anni, la musica è diventata il mio lavoro e non solo come cantautore: sono produttore, sono stato musicista per altri. Sono riuscito a far diventare quello che era uno sfogo la mia attività principale.” 

 

Quindi, possiamo dire che ti piace fare musica a 360 gradi?

“Sì!”

 

Ti faccio una domanda che mi piace sempre, per esplorare i percorsi degli artisti: in cosa si distingue Exit, l’album che sta per uscire, dai due precedenti? E in cosa è simile?

“Allora, è molto diverso per certi versi e molto simile per altri. Molto diverso perché è il disco per cui ci è voluto più tempo, mi sono serviti due anni. Per i due precedenti, invece, ci ho messo sei mesi, sono stati fatti in tempi rapidi. È diverso perché, anche se in precedenza ho fatto delle collaborazioni, i primi due album li ho fatti perlopiù da solo. Ho anche suonato gli strumenti e prodotto da solo, è stato proprio un lavoro in solitaria. Questo disco, invece, è un lavoro corale. Ovviamente, ho fatto la mia parte, ma ho avuto tantissimi collaboratori, dalla band che mi accompagna dal 2019, ai produttori. Le cose più simili riguardano l’estetica: il primo disco è molto folk, il secondo è molto rock e nel terzo disco i due generi sono in armonia, hanno trovato un equilibrio. Ci sono state anche altre influenze, come la musica elettronica.”

 

Il prossimo disco chissà come sarà!

“Sono molto curioso, non ho il timore di risultare diverso da me stesso.”

 

Mi racconti qualcosa in più a proposito delle collaborazioni che hai citato? Ho subito notato la canzone Stati di agitazione con Rodrigo D’Erasmo ed è sempre bello quando la musica è fatta insieme.

“Sì, negli anni ho collaborato con tanti artisti e sono prima di tutto amici che si prestano con gioia ed entusiasmo. È successo con il famosissimo pianista Bruno Bavota, con Adriano Viterbini, chitarrista dei Bud Spencer Blues Explosion e degli I Hate My Village e con JT Bates dei Big Red Machine.
Questa volta ho contatto degli amici per creare dei brani e alcuni hanno messo del loro nella musica. È il caso di La festa della Luna, dove ho deciso di accogliere la parte di testo di Monique Honeybird Mizrahi. È successo anche con Rodrigo e con Roberto Angelini, che hanno dato una armonia diversa alle mie canzoni. E poi c’è J Mascis (Dinosaur Jr, NdR) che ha suonato nella canzone Mr. Happytime e che ha totalmente rivoluzionato il brano quando sono arrivate le sue chitarre. Quando è stato in Italia, lui mi ha scelto come apertura dei suoi concerti e abbiamo passato una serie di giorni insieme, backstage, palco ed esibizioni ed è nata un’amicizia. Non ha mai collaborato con una band italiana ed è un artista che, a suo tempo, ha suonato con i Nirvana ed è una roba che…”

 

È tanta roba!

“Eh, è proprio tanta roba!”

 

Ma continuando a parlare di “cose che si fanno insieme”: uscirà anche la versione in vinile del disco, in cui è previsto un gioco da tavolo, giusto? Com’è nata l’idea? È un bel modo per incentivare l’acquisto dell’album fisico.

“Allora, io sono un collezionista di nicchia: colleziono da una vita e sono un grande ascoltatore prima ancora di essere un musicista. Mi sono accorto che, negli anni, anche per lo spazio ridotto in casa, compro sempre meno. E compro principalmente per due motivi: o perché si tratta di dischi di artisti che reputo intoccabili, o perché sono degli oggetti speciali. Quindi, sono un grande ascoltatore di streaming, ha fatto tanto bene alla musica, ma resta il fatto che dal punto di vista economico è un po’ una croce per chi produce musica. L’acquisto fisico è in crisi perché non si può pretendere che l’ascoltatore medio acquisti un oggetto che trova anche gratis, con lo stesso contenuto. 

L’idea del gioco è nata, prima di tutto, dalla fantasia e all’inizio volevamo fare un’app, poi lo abbiamo inserito nel vinile. Il disco non è solo un contenitore di musica, mi verrebbe da dire che è la sua funzione marginale. Lo apri e ci sono dadi, pedine: è a tutti gli effetti un gioco da tavolo e l’ho inventato io, è disegnato a mano in acquerello. Chi compra il vinile acquista un oggetto unico e aiuta sia il disco, sia la stimolazione della creatività.”

 

Bisogna vendere esperienze: è una regola del marketing.

“Sono perfettamente d’accordo ed è il motivo per cui ho pensato che l’ascolto non può dipendere da un disco fisico, a meno che tu non sia un audiofilo.”

 

Passiamo ai testi: il tuo stile di scrittura è raffinato, hai una passione che si nota. Io credo che anche i testi più banali e meno ricercati abbiano la loro funzione e siano importanti, non voglio togliere nulla ad altri artisti. Raccontami qualcosa sul tuo processo creativo.

“Io sono un buon lettore, la parola scritta mi piace e mi stimola e ci tengo tanto. Mi faccio prendere molto quando devo lavorare ai testi. Quando ho scritto il primo disco avevo otto anni in meno e la scrittura era una sorta di diario, era più semplice. Questo disco aveva la necessità di una scrittura più verticale, che non fosse solo una narrazione quotidiana e volevo fornire agli ascoltatori una chiave per aprire delle porte, non solo delle finestre attraverso cui guardare fuori. Ovviamente, per dare delle chiavi e creare delle porte, le parole devono essere più simboliche, più metaforiche: deve esserci la possibilità di leggerle in più modi. Io so esattamente di cosa parlano le canzoni, so a cosa si riferiscono, ma credo che il goal di una canzone sia che ognuno ci veda qualcosa della propria vita. Deve essere sul piano dell’universalità e non credo di esserci riuscito sempre, spero qualche volta. Poi ci sono citazioni da libri, citazioni da film…è molto ricca la parola.”

 

Sono d’accordo con te, in generale l’arte è così e quando realizzi una qualsiasi opera, non dovresti mai essere troppo esplicito. Ma ti sei legato alla mia ultima domanda, perché io ho trovato dei riferimenti mitologici nel tuo album: Atlantide, gli dèi, il labirinto. Sei un appassionato?

“In realtà, più che la mitologia a me interessa la simbologia. Io sono un grande appassionato di simboli, io credo che siano importanti e penso che il simbolismo sia messo in secondo piano nella cultura occidentale. I simboli ci collegano a qualcosa di molto lontano nel tempo e ci danno la possibilità di leggere il presente in maniera più essenziale e sgrossare tutto ciò che non è necessario e andare alla radice delle cose, costruire punti di vista inediti. 

La mitologia è comunque un riferimento, fa parte delle mie letture, ma la mia è una questione legata all’ancestrale. Anche nei concerti ho una visione molto liturgica, io voglio che il concerto sia quasi un rito e per renderlo tale servono i simboli. La ‘A’ in copertina del mio vecchio disco è un cerchio incompiuto, la ‘X’ di Exit ho provato a spiegarla agli artisti che hanno realizzato le grafiche come un simbolo ancestrale, qualcosa che richiamasse l’antichità. E non per un vezzo, ma io credo davvero che i simboli aprano le porte e ne sono un esempio i dadi del gioco del vinile, che sono una consegna all’aleatorio, al fato. C’è un discorso dietro legato al cercare di contrastare le manie di controllo, che sono i padri della paura, la cifra di questa epoca. Quindi, sì: io credo molto nei simboli.”

 

Io avrei finito e ti ringrazio per il tuo tempo.

“Ahah, ho parlato troppo, sono prolisso.”

 

Mi ha fatto piacere! Possiamo anche continuare. E poi anticipavi le mie domande.

“Ahah super! Io spero che ti sia piaciuto il disco. E grazie!”

 

Certo! Grazie mille a te. 

 

Marta Massardo

Tre Domande a: Rumba de Bodas

Come e quando è nato questo progetto?

I Rumba De Bodas nascono nel 2008 tra i banchi di scuola di Bologna, quando otto amici strimpellatori decidono di mettere su una band con la voglia di fare musica e far ballare gli amici. Non a caso il primissimo concerto della band è stato il 4 aprile del 2008 in occasione della Festa delle Scuole organizzata al TPO di Bologna e per la prima volta il nome Rumba De Bodas è comparso sui manifesti! E in quel momento il destino era ormai scritto: quando per la prima volta vedi il pubblico ballare e scatenarsi sotto al palco non puoi più farne a meno, e infatti non siamo mai riusciti a smettere. E così da 14 anni a questa parte la nostra missione ad ogni concerto è sempre la stessa: far ballare e divertire la gente con la nostra musica, essere spensierati e sempre verdi!

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

A dire il vero non ci siamo mai sentiti paladini di una causa nello specifico, abbiamo sempre lasciato parlare di più la musica che noi stessi. Sicuramente ciò che ci ha sempre ispirato è stato il senso di libertà che la musica può trasmettere, sia attraverso le parole che semplicemente attraverso il suo manifestarsi, che sia in un concerto, in sala prove, in studio o nel semplice ascolto. Per noi avere la possibilità di fare musica e di condividerla con gli altri significa portare più libertà nel mondo e permettere alle persone di farne esperienza. È questo che vogliamo trasmettere, alla fine. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Mmh, la scelta è davvero ardua! Siamo indecisi tra due: da un lato, Into The Wild, dall’album Karnaval Fou, che è il pezzo che ci ha portato più soddisfazioni a livello di live. È ormai tradizione che il pubblico canti con noi il ritornello, che è facile da capire anche se non si ha mai sentito il brano, e ci carichiamo un botto quando siamo sul palco e sentiamo il pubblico cantare a squarcia gola!
Dall’altro il nostro brano più rappresentativo è l’omonimo pezzo Rumba De Bodas, il primo brano del primo album, Just Married. Il testo è un vero e proprio manifesto su che cosa significa essere un Rumba, un inno a cui ancora tutt’oggi siamo fedeli!

Tre Domande a: Denise Battaglia

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Denise Battaglia nasce nel 2018 quando durante un viaggio all’estero mi accosto per la prima volta a testi scritti in Italiano. In musica ho sempre pensato fosse l’inglese la lingua prediletta. Lo consideravo più musicale, più vicino a me, ma nel 2018 cambio drasticamente idea. Tutto ciò che scrivo nasce dall’esigenza di parlare a me stessa attraverso immagini e miti. Myriam, il mio primo singolo uscito nel 2020, ne è un chiaro esempio.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglierei Padre e Madre poiché è un brano che racconta di libertà. Sono partita da me e dalla mia esperienza, da lunghe riflessioni e poi è nato questo pezzo. È essenziale ricordarci di essere diversi da ciò che abbiamo intorno e soprattutto, ricordarci che possiamo essere liberi e diversi anche dai nostri stessi genitori. Scrivo per me perché è una guida nelle scelte più difficili. Scrivo per ricordarmi che sono libera, anche di sbagliare, se necessario. Sono grata per questo, consapevole del fatto che alla fine ci misuriamo, sempre con noi stessi. Questo brano è un inno al proprio sentire più intimo. 

 

Progetti futuri?

Per quanto riguarda i progetti futuri, il prossimo 4 Ottobre uscirà il videoclip di Giungla, singolo pubblicato lo scorso 23 settembre. Posso dire che è un video molto divertente (a tratti imbarazzante), grazie al quale ho in parte realizzato uno dei miei sogni più bizzarri, quello di mangiare una piadina nello spazio. Il 18 novembre invece uscirà il mio primo EP Ventitré, ma sto già lavorando al  secondo album.