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Tag: intervista

Tre Domande a: D.In.Ge.Cc.O.

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?

Premetto che sono stato sempre un melomane e che ho sempre ascoltato attentamente tutto ciò che poteva suscitare, in me, delle emozioni. Quindi ho ascoltato e amato di tutto, dalla musica classica al trash metal, senza fare distinzioni tra cosiddetta musica colta e popolare.
Posso dirvi che l’interesse e la passione per la musica elettronica, che poi è il linguaggio musicale con il quale mi esprimo, sono nati da bambino. Negli anni ’80 la new wave imperava. Alphaville, Depeche Mode, Duran Duran per citare i più famosi. Ma vi citerei anche i Visage, i Freur e i Pet Shop Boys, i Sigue Sigue Sputnik. Come non citare poi Jean Michelle Jarre, i Kraftwerk, Vangelis, gli Art of Noise e i nostri italianissimi Goblin, volendo rimanere sul genere “musica elettonica”, per intenderci.
Posso dire che l’amore per la disco music e per il funky, è nato ancora prima, quando davvero ero piccolissimo, così come anche quello per la musica sudamericana che tanto fa parte di questo ultimo disco. Alcune musicalità sono rimaste a livello inconscio da quell’epoca, magari perché ascoltate alla radio quando ancora ero in culla. I Bee Gees, Donna Summer, poi riscoperti anche più tardi negli anni. Per non parlare poi di tutte le sigle dei cartoni animati, soprattutto quelle dei cosiddetti “robottoni”. Pensate alla bellezza di un pezzo come Shooting Star, sigla di chiusura di Ufo Robot Goldrake, un pezzo electro funky straordinario. Poi sono arrivati gli anni dell’house e della techno. Prima ancora ho amato i primi dischi della R&S Records, un’etichetta belga (quella col cavallino tipo Ferrari, per intenderci) che ha fatto storia. E poi l’esplosione della house music. Tra tutti Frankie Knuckles, Masters at Work, David Morales, Todd Terry.
Ho però capito che la musica elettronica sarebbe stata la mia strada, con la nascita della cosiddetta Intelligent Dance Music. Chemical Brothers, Daft Punk, e poi tutto il gruppone della Warp Records: Plaid, Aphex Twin, Boards of Canada.
Ho amato Björk e i Primal Scream di Screamadelica con il geniale Andrew Weatherall.
Tra gli autori di musica elettronica più recenti mi piace molto il francese Rone così come Jon Hopkins, Floating Points e Flying Lotus. Mi piace molto anche Anna Meredith. Se poi parliamo di indie adoro gli Arcade Fire e gli MGMT. Beh, insomma, tante citazioni e tanti sono gli artisti che mi hanno influenzato, tra i nomi che vi ho citato. Poi, però, bisogna anche fare i conti con tanto altro. Dalla classica al Jazz al Pop. Da David Bowie a Brian Wilson, dai Beatles a J.S.Bach, sino a Franco Battiato, ma sforiamo in un mare magnum fatto di monumenti della storia della musica che, inevitabilmente, hanno influenzato tutto quello che è venuto durante e dopo.
Per quanto riguarda, in modo specifico, questo ultimo lavoro, Bacanadera, vi posso citare però alcuni nomi in particolare, relativi alla musica sudamericana e non solo.
Primi tra tutti Chico Buarque e gli MPB4, ma anche il primo Ennio Morricone così come Carmencita Lara, una leggenda in Sud America, è stata una cantante peruviana di huaynos, marineras, polka e valzer.
Mi pare che l’elenco degli artisti a cui mi ispiro possa bastare! In fondo se ascoltate attentamente Bacanadera, un pizzico di un po’ tutti ce lo trovate dentro. Ma credo che in ogni creazione di qualsiasi musicista, ci sia un po’ della musica che è stata in grado di provocargli emozioni, anche solo per una volta nella vita.

    
Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Evocativa: perché credo che la musica debba essere capace di trasportarti altrove, di farti volare con l’immaginazione ed i suoni. Di evocare stati d’animo ma anche atmosfere e luoghi, magari lontani.
Emozionante: perché faccio musica per emozionarmi ed emozionare. È il mezzo con il quale cerco di mettere a nudo alcune mie sensazioni ed emozioni ed il mio mondo interiore. Se un brano musicale non è in grado di suscitare emozioni, qualunque esse siano, allegria, malinconia, rabbia, stupore, beatitudine interiore, allora significa che  non ha seguito la sua vocazione principale. Poi molto dipende anche dal livello della sensibilità dell’ascoltatore.
Futuribile: quando faccio musica cerco sempre d’incamminarmi in dei sentieri scoscesi, poco battuti o mai battuti prima, pur di cercare soluzioni innovative, nuove vie, aldilà delle mode e delle tendenze del momento. Certamente facendo tesoro della grande fonte d’ispirazione che è la musica del passato e contemporanea, ma sempre cercando una mia modalità di espressione, guardando molto al futuro. 


Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Viviamo in un’epoca che non ci lascia mai il tempo per dedicarci a noi stesi. Siamo presi dalle mille cose da fare, da una routine alienante, dall’interpretare al meglio i ruoli sociali che siamo costretti a recitare ogni giorno, cambiando maschera in base all’occorrenza.
Sono stato sempre convinto che la musica è uno strumento che è in grado di collegarci con il lato spirituale dell’esistenza. Lo è sempre stato sin dalla notte dei tempi.
Quindi, in chiave moderna, contemporanea, vorrei, con la mia musica, tentare di svegliare le coscienze dal torpore, trasportarle in un mondo magico, fatto magari di ritmi tribali e suoni futuribili, un mondo onirico ricco di spiritualità, di ritualità e di ancestrali evocazioni. Vorrei che la mia musica risvegliasse il lato spirituale dell’ascoltatore, che fosse uno stimolo magico per indurlo alla ricerca di nuovi stati di coscienza, guardando dentro se stesso innanzitutto, vorrei che facesse da tramite tra tutto ciò che è visibile e tutto ciò che è invisibile. 

Pierpaolo Capovilla racconta la propria urgenza creativa

Il suo nome è Pierpaolo Capovilla, un artista dal curriculum vario che lo vede cantante e bassista per i One Dimensional Man, bassista per Buñuel, voce de Il Teatro Degli Orrori, solista in Obtorto Collo e ora parte di una nuova dirompente formazione con I Cattivi Maestri, con cui ha lavorato al progetto di recente uscita Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri. Abbiamo parlato con lui di tutto, dal proprio nome al suo caro Majakowskij, passando per il nuovo album. Lui è una persona dalle idee chiare e dalle risposte dirette, schiette, che non lasciano spazio a dubbi o ad alterate interpretazioni. A VEZ Magazine questo piace.
 

Partiamo dall’inizio, o meglio dalle origini. Pierpaolo è un nome che porta con sé un’eredità culturale molto particolare, soprattutto in questo Paese: ti senti in qualche modo predestinato data l’omonimia con Pasolini?

“I miei genitori erano molto religiosi. Mia madre prima di sposarsi fu suora novizia nell’Ordine Paolino, mio padre voleva farsi sacerdote. Mi vollero chiamare Pierpaolo perché Pietro e Paolo furono fondatori della Chiesa Cattolica. Non mi sento predestinato, non è che una coincidenza.”

 

Come l’ultimo disco de Il Teatro degli Orrori aveva un titolo omonimo, il progetto appena uscito porta il titolo della nuova formazione, Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Mestri in cui figurano anche Egle Sommacal (Massimo Volume), Fabrizio Baioni (Drunken Butterfly) e Federico Aggio (Lucertulas). Questa scelta serve a rimarcare la chiusura di un capitolo e l’apertura di uno nuovo?

“Certamente. Come diceva il buon Andrea Pazienza, “Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa”, e così ho fatto”.

 

Se dovessi parlare a un giovane musicista ai suoi primi passi, come gli spiegheresti il desiderio dell’artista di evolversi, sperimentare nuove esperienze e collaborazioni?

“Credo che la musica sia una questione ‘vocazionale’. Bisogna crederci e perseverare. Confrontarsi ed evolversi è parte essenziale della faccenda. E che faccenda!”

 

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Mestri non è un album “accogliente”, non vuole coprire con un cerotto nessuna ferita, non cerca di compiacere; infatti, si apre con Morte ai Poveri, che è anche il grido con cui inizia il brano stesso. Perché posizionare questo schiaffo proprio ad apertura del progetto?

“Ne parlammo a lungo in studio. L’idea di aprire la scaletta del disco con Morte ai Poveri fu di Manuele Fusaroli, produttore artistico, che ha curato le riprese, il missaggio e il mastering. “Prendere o lasciare!”. Ci trovammo tutti d’accordo. Questo disco è un album rock, un rock massimalista, radicale, senza compromessi. Il messaggio doveva essere chiaro fin dal primo pezzo, e Morte ai Poveri non poteva non essere destinata a divenire il manifesto del nuovo progetto.”

 

Violenza e sopraffazione. Queste le tematiche che attraversano il disco. Perché credi che sia ancora necessario parlarne?

“Perché violenza e sopraffazione sono caratteristiche dei tempi e del mondo in cui viviamo. Non possiamo far finta di niente, e cantar d’altro. Non sarebbe serio.”

 

Credi che la guerra sia solo fatta di armi?

“Evidentemente, no. Tempo fa lessi un provocatorio ma molto stimolante volumetto di quel mattacchione di Slavoj Žižek, La Violenza Invisibile, secondo il quale il conflitto armato non è che una delle manifestazioni possibili della violenza. Ce ne sono perlomeno altre due, quella ‘simbolica’, che si esprime nel discorso pubblico e privato e, ovviamente, nei media, e quella ‘sistemica’, fatta di salari inadeguati e insufficienti, di precarizzazione del lavoro, di disoccupazione, emarginazione, stigmatizzazione. Tutte e tre queste forme di violenza sono funzionali alla conservazione dello stato di cose in cui viviamo.”

 

Il disco si divide idealmente tra una prima parte più massimalista e tumultuosa e una più romantica e malinconica, come chi grida sfogando la sua rabbia e la voglia di farsi sentire, per poi rimanere a nudo con le sue riflessioni. Perché questa scelta?

“Mi sembra sia nell’ordine delle cose. Non c’è soltanto la rabbia nei confronti delle circostanze storiche che puntualmente si verificano e riverificano all’infinito, come rappresentassero un destino ineluttabile. C’è anche la commozione e il rammarico per la nostra impotenza: ci sentiamo inermi di fronte alla macroscopicità delle contraddizioni sociali e politiche, e così spesso ci rifugiamo nel nostro particolare, che è proprio ciò che vuole il sistema capitalistico: fatti gli affari tuoi e camperai cent’anni.”

 

Tutti sappiamo cosa la musica può fare. Ma, secondo te, cosa deve fare la musica, qual è il suo compito?

“Per come la vedo io, la canzone popolare, la musica ‘leggera’, il rock, nel nostro caso, possono contribuire ad una ridefinizione dell’immaginario collettivo, nel segno dei valori democratici, e in quello di un futuro diverso e non impossibile.”

 

Nel nostro sistema scolastico, lo studio della musica e della sua storia è relegato alle scuole secondarie di primo grado, per essere totalmente abbandonato in quelle di secondo grado, quando invece tante altre materie rimangono fondamentali, e giustamente, per il percorso intellettuale e umano della persona. Perché credi che lo studio della musica e soprattutto della sua storia sia relegato a un ruolo marginale in un Paese che ha dato e ancora dà grandi artisti riconosciuti da tutto il panorama musicale?

“L’educazione musicale è sempre stata una cenerentola nel nostro sistema scolastico. Ma non conosco la genesi o gli epifenomeni che ci portano a questa considerazione. Certamente, fa una certa tristezza constatare come la musica sia pressoché ignorata nella scuola italiana.”

 

Mi hanno detto che ti annoi se in un’intervista non si nomina Majakowskij. Vuoi parlarne?

“Ti hanno detto cosí? Non mi sembra di aver mai detto niente del genere. Magari ero sbronzo…”

 

Una nuova esperienza è come ricominciare da un punto zero, tornare bambini per crescere di nuovo sviluppando emozioni, idee, progetti. Come vuole il suo futuro Pierpaolo Capovilla?

“Ho cinquantaquattro anni, e non tornerò mai più bambino.
A una certa età si cambia definitivamente e irrevocabilmente. Posso però dire che sento tutto più urgente, urgente e necessario. Questi due anni di emergenza sanitaria, poi! Due anni rubati alle nostre vite, rendono l’urgenza ancor più significativa.”

 

Alma Marlia

Tre Domande a: Guzzi

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Ciao ragazzi! Se proprio devo scegliere un artista solo scelgo Mobrici. Lo seguo dai tempi dei Canova e mi rivedo tantissimo in quello che scrive e nella maniera in cui si racconta. Credo che sia un cantautore vero, uno di quelli che seguono ancora le scie delle canzoni per vocazione.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Se dovessi scegliere un brano per raccontarmi al meglio punterei tutto su La Notte Porta Consiglio, perché forse è quella che racconta al meglio un potutto di me, ironico ma anche malinconico, socievole ma a tratti disperatamente bisognoso di solitudine. La solitudine quella buona però, quella che poi ti fa apprezzare di più la compagnia degli altri.

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?

Sogno il festival di Sanremo da tutta la vita. Penso che se mi chiedessero due dita della mano in cambio di una partecipazione al Festival accetterei in meno di un minuto.
Ho avuto la fortuna di arrivare tra i finalisti di AreaSanremo due anni fa, ma il fatto di non aver vinto forse mi ha fatto capire ancora di più quanto in realtà io desideri partecipare al festival italiano per antonomasia. Sanremo per un musicista è come Wimbledon per un tennista, parteciperesti anche se sapessi in anticipo di arrivare ultimo!

Tre Domande a: Nathan Radovic

Com’è nato questo progetto?

Non posso realmente dire che questo progetto sia “nato” da qualcosa in particolare. Tutto quello che ho fatto nel passato, dalla prima nota strimpellata sul pianoforte di mia nonna ai miei attuali esprimenti da produttore autodidatta mi hanno portato a questo punto della mia crescita artistica. Sicuramente il lockdown di due anni fa è stato un momento catartico. Come sempre nei momenti dove paura e incertezza potrebbero prendere il sopravvento quello che faccio è rifugiarmi nella musica. E per la prima volta dopo molti anni mio malgrado con un sacco di tempo a disposizione, mentre la vita frenetica di tutti i giorni aveva subito un brusco stop.
Ho ascoltato, cercato, provato sonorità nuove e scoperto quello che non avevo mai fatto sino ad ora: le mie radici più profonde. Sono nato a Trieste ma la mia famiglia originariamente ha radici serbo-croate. Ricordo che durante le videochiamate con i miei genitori su FaceTime abbiamo ripercorso tutto l’albero genealogico. Da lì ho iniziato ad ascoltare e riascoltare la musica proveniente delle mie terre: da Bregovic (mio papà è un suo grande fan e l’abbiamo visto circa una decina di volte dal vivo) ai Balkan Beat Box. Nello stesso periodo ho conosciuto Alberto Ladduca che da subito ha sposato il progetto che avevo in mente: unire le sonorità balkan con l’elettronica. Si è poi aggiunto anche Giacomo Carlone e ne è nato un vero e proprio brainstorming, o dovrei dire una tempesta di musica, dove ciascuno di noi è riuscito con il suo contributo e le proprie competenze a rendere reale qualcosa che prima era solo nella mia testa.
Zagabria è solo il primo singolo di questo nuovo progetto.

 

Cosa vorresti fare arrivare a chi ti ascolta?

Zagabria parla di un viaggio ma non necessariamente di una meta. Dovrei dire che parla di un percorso. A volte sentiamo il bisogno di percorrere kilometri non tanto per andare altrove quanto per interiorizzare qualcosa. La canzone ad un primo ascolto parla di un amore, forse perduto, sicuramente lontano. In realtà parla dell’Amore e di tutti gli amori. È un viaggio di cruda analisi di se stessi. Senza indorature, senza accondiscendenze ma anche senza giudizi. Perché solo capendo se stessi, i propri errori come anche le proprie imprescindibili necessità, solo così si può raggiungere l’Amore. In primo luogo l’amore per se stessi.
Anche a livello di arrangiamento musicale l’intento è quello di suscitare emozioni. Ad esempio il moog (per me uno dei migliori synth mai esistito) quando parte è un vero e proprio tuffo al cuore, e non solo sonoramente. L’instrumental inizia come una tranquilla ballad ma poi cambia ed esplode con l’energia delle danze gitane amate da Battiato. Questo è ciò che voglio far arrivare: un ballo emozionale.

 

Progetti futuri?

Dopo Zagabria sono già pronti altri singoli dello stesso progetto. Nel frattempo in brevissimo tempo uscirà anche il video della canzone diretto da Philipp Berezin – è un giovane regista russo di grande cuore e con tanta arte dentro. Ci siamo trovati molto in sintonia e sono super orgoglioso di aver potuto collaborare con lui. Poi spero di poter passare del tempo nella mia città natale per assorbire nuovi impulsi. Trieste è da sempre una città cosmopolita, crocevia di popoli e non di meno città di mare. Il suo essere poliedrica è la cosa più bella. Ovviamente vorrei anche portare tutte le canzoni dal vivo: finalmente stanno riaprendo i concerti e non vedo l’ora di poter vedere le reazioni “live” del pubblico. E’ una cosa che mi elettrizza. Finger crossed.

Tre Domande a: Ave Quasàr

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Il primo artista che mi è venuto in mente è Caterina Barbieri. Siamo legati alla musica strumentale e lei è meravigliosa sia dal punto di vista della ricerca che da quello della scrittura. Mi piacerebbe molto far curare un brano da una musicista così distante dalla forma canzone pop. La voce è un suono ma il significato delle parole la posiziona sempre su un piano di ascolto immediato. Mi piacerebbe vivere un’esperienza di produzione della voce insieme ad un musicista che si occupa principalmente di musica strumentale, sarebbe sicuramente un percorso nuovo e pieno di sorprese. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Direi FollaFoglia perché è la canzone che rappresenta al meglio il nostro presente ma anche il nostro futuro.

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui vi piacerebbe partecipare?

Beh, sono tanti i festival a cui ci piacerebbe partecipare. Quest’anno siamo orgogliosi di presenziare ad Inchiostro Festival. Sonorizzeremo le battle tra illustratori la sera del 4 Giugno. Andate a cercarlo e rimanete aggiornati: http://www.inchiostrofestival.com
È un festival che accoglie tra i migliori illustratori, calligrafi, artisti e stampatori d’arte dall’Italia e dall’estero.

Tre Domande a: Floridi

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Vera, malinconica e senza tempo.
Vera perché quando scrivo mi lascio andare senza filtri, il mio approccio è sempre molto istintivo al foglio di carta o alle note vocali, però sono molto organizzato quando si tratta di affrontare un lavoro autorale, lascio fluire, lascio fluire ma poi in un determinato momento incanalo il tutto e chiudo il pezzo che poi magari riprendo in mano diverse volte nei giorni/mesi seguenti.
Malinconica perché le canzoni rispecchiano il mio carattere e di natura sono tendenzialmente un malinconico, con una buona dose di ottimismo, ma comunque un malinconico.
Senza tempo può sembrare pretenzioso, lo so, ma il messaggio che voglio far passare è che in realtà scrivo, compongo fregandomene altamente di quello che funziona in playlist o quello che va su tiktok, se funziona più l’indie o l’R’n’B, il mio obiettivo è far arrivare la mia musica al cuore di chi ascolta senza etichette di genere, senza l’hype di un social, voglio che sia diretta, senza compromessi.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Mi piacerebbe scrivere un album, una canzone con Cesare Cremonini, analizzare il suo approccio alla scrittura, alla composizione. È un artista che stimo e seguo da sempre, ho apprezzato tantissimo la sua evoluzione artistica e sarebbe davvero un sogno poter fare un feat con lui.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglierei Murakami perché è la mia seconda rinascita artistica, la seconda possibilità dopo un periodo duro, difficile da comprendere e gestire psicologicamente come gli ultimi due anni. Non ho avuto fino in fondo la possibilità causa covid di poter promuovere l’album in uscita nel 2020 e mi sentivo davvero frustrato per questo. Ho provato a farmi forza e ripartire dalla cosa che amo più fare, scrivere canzoni. Murakami è nata di notte, in videochiamata, durante il mio periodo di quarantena. L’ho scritta insieme a Niccolò Dainelli amico e come lo definisco io “CollaborAutore” e poi è stata prodotta interamente da Davide Gobello. Murakami parla di leggerezza e del suo potere terapeutico nelle nostre vite così incasinate. Murakami mi ha aiutato ad affrontare qualcosa di complesso, per questo ve la consiglio e spero tanto che vi ci possiate ritrovare.

 

Un abbraccio amiche ed amici di VEZ.

Tre Domande a: Bipolar

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?
Penso che la pandemia abbia danneggiato molti più artisti affermati che emergenti, l’attenzione sui social e la fame di nuovi contenuti era talmente alta che ha favorito tutte quelle figure che “non avevano niente da perdere”, quindi senza album in uscita, in-store o un tour.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Nostalgica, dettagliata e vera. Non riesco a scrivere un concetto o una situazione se non la vivo in prima persona. Con la musica riesco ad esprimermi al 100 %. Non sempre mi trovo a mio agio tra la gente, ma quando sto in studio a registrare, o scrivo qualcosa di nuovo che poi registro, mi sento vivo, e soprattutto vero.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

I social sono necessari ma non sono tutto. Servono a condividere l’immaginario e non a crearlo. Ultimamente le persone si lasciano trasportare dai social, e da quello che vedono. Se ci pensate, non tutti i social sono specchio di verità quanto lo sono altri momenti, come un live, o un talk show. I social, ad esempio instagram, rappresentano solo i successi e la parte più bella delle persone, ma nascondono i fallimenti. È importante avere un programma di utilizzo, ma non puntare tutto su questo.

Tre Domande a: Pitch3s

Come e quando è nato questo progetto?

Pitch3s nasce concretamente nell’Agosto 2020 dal nostro primo incontro, il quale inizialmente aveva uno scopo didattico (essendo due batteristi che seguivano con interesse l’uno il lavoro dell’altro, ci incontrammo per studiare). Una volta in studio, alla fine, non toccammo neanche una bacchetta, chiacchierammo e ascoltammo tanta musica, scoprendo di avere in comune l’amore per alcuni artisti tra cui Thom Yorke, Apparat, Battles, il primo James Blake. Decidemmo di buttare giù qualche idea e dopo otto mesi ci ritrovammo con due brani finiti e sei bozze aperte. 

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Ci piacerebbe che l’ascoltatore che si imbatte o che cerca i Pitch3s possa provare le stesse emozioni che viviamo quando scriviamo qualcosa o quando riascoltiamo ciò che avevamo da dire. Che si immedesimi con ogni centimetro della mente e del corpo, e se ciò non dovesse accadere, semplicemente che trovi piacere nell’ascoltare la nostra musica, che la trovi anche esteticamente interessante, accattivante, travolgente. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché? 

Probabilmente Agafia, perché rappresenta appieno da un lato il nostro modo di prendere un argomento che ci ha particolarmente colpito direttamente o indirettamente, di metabolizzarlo, trasformandolo in suoni e parole che ci rimandano ad esso; dall’altro, il punto d’incontro ideale del nostro gusto musicale condiviso, il prodotto degli ascolti e delle esperienze che ci accomuna, una sorta di manifesta della nostra idea di fusione tra elettronica e pop.

Tre Domande a: Bia Rama

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

La prima parola che scegliamo è “incontro” perché è quello che è successo alla nascita del nostro progetto, è quello che succede ogni volta che suoniamo assieme ed è quello che succederà sempre in futuro. È una parola che può avere più significati, anche per questo è stata la prima che abbiamo scelto e quelli che più ci identificano ne sono due. Il primo e il “ritrovarsi”, cioè stare assieme, essere presenti tra persone che si percepiscono e che si sentono. Questa è una conditio sine qua non per portare avanti un progetto come il nostro, proprio perché riusciamo a trovare idee e spunti necessari alla nostra musica sopratutto dalle nostre diversità, dovute alle differenti esperienze che ognuno di noi vive, dai differenti stati emotivi che ognuno di noi prova e dai diversi studi e interessi musicali che ognuno sta portando avanti in quel momento. L’altro significato è come sostantivo, quello che viene spesso usato nelle competizioni sportive. Come un incontro di boxe, il nostro è stato un incontro musicale forte perché si è risolto spesso dopo momenti di difficile conciliazione. Tutti e tre ci siamo battuti, ognuno con una personale idea sonora, per portare avanti il proprio pensiero riguardo un arrangiamento, o delle soluzioni musicali, per la scelta di alcuni suoni o altro, sempre riguardo la musica. Poi, contrariamente a come si potrebbe pensare, la cosa divertente sta nel fatto che riusciamo sempre ad uscircene con una musica dove sono forti tutte e tre le diverse identità e idee musicali.
La seconda parola è “riscatto”. Questa motivazione può essere anche letta con una leggera flessione egoista, perché in un certo senso può riguardare la riscossa o l’emancipazione personale da qualcosa, nel nostro caso dal panorama musicale a cui apparteniamo. Comunque, sebbene valutiamo l’egoismo come un sano atteggiamento che ognuno di noi, nei giusti modi e nelle giuste quantità, dovrebbe avere, in questo caso il riscatto riguarda sopratutto il riscatto da noi stessi. Siamo convinti di avere tra le mani delle idee musicali interessanti e di poter realizzare, in potenza, qualcosa a cui teniamo tanto. Non perché siamo narcisisti e stravediamo per la nostra musica, come quasi tutti di rado siamo contenti delle nostre performance musicali. Faccio riferimento a fatto che siamo veramente appassionati a quello che facciamo, della musica che proviamo a realizzare, sopratutto perché nasce da un bisogno naturale che abbiamo e che si realizza realmente solo quando otteniamo un risultato musicale, che noi per primi dobbiamo ritenere all’altezza. Proviamo a riscattarci prima di tutto da noi stessi e dall’idea che abbiamo di noi.
La terza parola ve la regaliamo, perché in realtà già la prima ne vale due! Comunque questa è “complesso”, inteso come aggettivo. Riguarda la nostra musica ed è quello da cui, per certi versi, la maggior parte delle volte proviamo a scappare. Spesso ci hanno detto che la nostra musica è complessa. Da musicisti, e da ascoltatori, sappiamo che al mondo esistono migliaia di musiche terribilmente semplici che hanno però una forza inaudita. Può sembrare strano ma spesso è a quel tipo di musica, a quei ritornelli o a quel semplice giro di accordi, ciò a cui ci ispiriamo. La nostra è un eterna lotta per provare a rendere semplice cioè che per noi è complesso, mediante un intenso lavoro di arrangiamento e di ricerca sonora, oppure provando a rendere più naturale e musicale possibile una progressione ritmica. Siamo consci che la strada è ancora lontana ma ci stiamo provando!

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

L’idea del progetto nasce per trovare un posto, un luogo, qualcosa in cui ci si può esprimere senza compromessi, senza condizionamenti. Quello che vorremmo far arrivare al pubblico che ci ascolta è proprio questo. L’obiettivo che ci poniamo è quello di ricercare un qualcosa di autentico, che ci appartiene e speriamo arrivi al pubblico… vorremmo che la gente si emozioni, pianga, o rida con noi, e magari balli anche!

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Se dovessimo scegliere, Tightrope Walker sarebbe il nostro biglietto da visita.
Questo brano rappresenta un po’ il nostro “primo amore”. È, infatti, il primo inedito che abbiamo realizzato e segna il nostro incontro, la fusione e l’equilibrio tra noi tre,come identità artistiche,che vogliono emergere attraverso la ricerca di un sound che si muove tra influenze jazz, neo-soul, sonorità acustiche ed elettroniche.
È un brano che ci rende orgogliosi e ci emoziona ogni volta. Noi lo definiamo “un viaggio”: un viaggio di voci che si sovrappongono a variazioni ritmiche che evolvono, attraverso momenti, che arrivano ad un crescendo, musicale ed emozionale.
Tightrope Walker è la nostra anima che prende forma e non potrebbe che essere, a nostro parere, la scelta migliore da proporre a chi non sa di noi, con lo scopo di poter coinvolgere l’ascoltatore in questo mix elettrizzante e sognante.

Tre Domande a: Riccardo Morandini

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Il filo conduttore di questo disco è “ciò che alleggerisce il peso dell’Io”. Senza atteggiamenti profetici da decalogo, è una umile condivisione di pensieri e sono felice se qualcuno può trovarvi uno stimolo o anche solo apprezzare la forma e le immagini con cui vengono comunicati. Tra l’altro il primo a cui suggerisco gli espedienti anti-egoistici contenuti nel disco sono io stesso.
Per quanto riguarda la parte musicale, vorrei che chi ascolta si sentisse pienamente calato nelle atmosfere che ho cercato di descrivere nei brani, siano esse ipnotiche, tribali, eteree o marziali. Immagino me e l’ascoltatore come due vasi comunicanti e la musica come quel liquido onirico fatto di impressioni, sensazioni, suggestioni, che li mette in collegamento.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Densa: tendo a scrivere degli arrangiamenti molto fitti e amo i brani in cui ci sono mille dettagli da notare, che possono sorprenderti ancora dopo molti ascolti. Mi piacciono le progressioni di accordi e le melodie articolate. Il tutto cercando di sfuggire ai pericoli dell’eccesso e dell’involuzione.
Eclettica: nella mia musica si trovano molteplici ispirazioni anche molto distanti tra loro: ritmi samba, bordoni psichedelici, chitarre col fuzz schiettamente rock, contrappunti classicheggianti, armonie jazz, poliritmie afro-cubane…
Sognante: le tematiche sono spesso astratte e lontane dalla realtà concreta. A volte i testi sono un susseguirsi di immagini in un flusso di coscienza. Apprezzo molto le atmosfere oniriche che fanno viaggiare l’immaginazione. 

 

Quanto puntati sui social per far conoscere il tuo lavoro?

Sui social faccio il minimo indispensabile. Mi piace molto curare l’estetica del mio profilo ma la continua auto-promozione ed esposizione non fa per me. Me ne dispiaccio perché aiuterebbe ad avere più audience e più riconoscimento, ma vorrà dire che mi accontenterò di una crescita più lenta e di un pubblico più limitato. Piuttosto preferisco promuovermi con l’attività live: mi sento più a mio agio su un palco che a fare delle storie su Instagram.

Tre Domande a: Lomii

Come vi immaginate il vostro primo concerto live post pandemia?

Il primo concerto post-pandemia lo stiamo preparando, sarà il 7 maggio al teatro Petrella di Longiano. Un posto magico del nostro territorio Romagnolo, è stato casa del primo nostro concerto all’interno di un teatro nel 2019.
Immaginarlo è difficile, al momento ci sembra ancora un sogno! Dopo uno stop forzato così lungo, utilizzato per la produzione e registrazione del nostro primo album We Are an Island, provare a pensare di salire su un palco, in quell’atmosfera soprattutto, è qualcosa di lontano, ma allo stesso tempo di emozionante, pauroso ma con una virgola di conforto come a ricordarci che siamo ancora qua, che c’è speranza per la ripartenza della musica e di tutto il settore dello spettacolo. Crediamo che ci sia bisogno di stare insieme, di aggregarsi di nuovo, di tornare “in mezzo ai vivi”.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Il progetto Lomii che curiamo e coltiviamo da cinque anni, fino ad ora è stata la storia delle nostre rispettive crescite personali, individuali e condivise. Il folk è per noi il linguaggio migliore per raccontare delle storie, dove i protagonisti possiamo essere noi, come potrebbe essere chiunque altro. Canzoni che parlano all’altro, appunto, ma che spesso si può confondere con un parlare a se stessi. Con i nostri testi e la nostra musica abbiamo sempre cercato di parlare di esperienze reali, di legami, di rottura e di riparazione, di confusione e di risoluzione, di separazione e ricongiunzione, provando però a creare un paesaggio che sia condiviso e condivisibile da tutti, non qualcosa di lontano e poco fruibile. In fondo, sicuramente su vari piani, la felicità, la tristezza, l’amore, la depressione, la paura, il coraggio, sono tutte emozioni che nel corso della vita proveremo o abbiamo già provato. Perchè non raccontarsele?

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui vi piacerebbe partecipare?

Sicuramente una visita allo Sziget per un set sul palco Europeo non sarebbe male. Oppure un’apertura nel main stage del Glastonbury Festival.
Nel nostro cuore però c’è il Coachella… chi non vorrebbe suonare al Coachella?

Tre Domande a: HLFMN

Come e quando è nato questo progetto?

Dopo aver suonato o cantato in alcune band locali ho iniziato il mio cosiddetto progetto solista nel 2014 perché stavo cercando un modo per concretizzare la mia visione e le mie idee nel modo più personale e autentico possibile: amo mescolare strumenti antichi e sonorità di varie culture intorno al mondo con le nuove tendenze della musica elettronica odierna; mi sono sempre interessato di musica tradizionale, indigena oppure sacra e ho cercato un modo per integrarla nel mio processo creativo… così con HLFMN mi diverto a guardare in due direzioni apparentemente opposte: il passato ancestrale e sacro dell’antica saggezza e la spinta festosa, divertente e progressista della musica elettronica moderna. Penso che questa filosofia (se così la vogliamo chiamare) rappresenti anche me come persona…

 

Cosa vorreste far arrivare a chi ti ascolta?

Quello che vorrei avvenisse nell’ascoltatore è un viaggio attraverso il tempo; mi piace l’idea che la mia musica possa risvegliare “memorie ataviche” (magari registrate nel nostro codice genetico) di un tempo in cui il rituale sacro era parte integrante della vita quotidiana, e la musica ne era complemento essenziale.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglierei Hades, la terza traccia del mio nuovo album, perché incarna perfettamente le mie influenze artistiche principali: ci sono intermezzi ritualeggianti con canti sacri e percussioni antiche da una parte, e beat elettronici con bassi enormi dall’altra.