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Tag: recensione

William Patrick Corgan “Cotillions” (Reprise Records, 2019)

There’s something rotten in the (United) States of America

 

Nel 1978 William Trogdon, un professore universitario di origini native americane, perde il lavoro, la moglie e la voglia di vivere. Quale migliore inizio per una storia americana? Cambia nome, diventa William Least Heat-Moon, prende il furgone e inizia un viaggio alla ricerca di se stesso, lungo le blue highways, le strade provinciali americane. E’ un’immersione in una humanitas dimenticata, che salva l’uomo attraverso l’empatia e i chilometri, come se una dinamo fosse collegata a una batteria affamata di storie. Ne nascerà un libro, Blue Highways: A Journey into America, ormai diventato un classico. 

È un’attitudine tutta statunitense quella di partire alla ricerca delle radici, umane e culturali, in momenti di crisi. Un popolo ancorato ad un inspiegabile ottimismo, come se nello spostare continuamente la linea dell’orizzonte si potesse generare futuro.
Cosa può spingere un’icona del rock come William Patrick Corgan a prendere la prima palandrana nera, la sua altrettanto iconica chitarra e partire verso sud?
C’è una mitologia, lontana dalle nostre europee, che ancora vive nelle strade blu. C’è una sottile e quasi invisibile luce che segna le vie dei Canti inseguite da tanti artisti d’oltreoceano.

E questo di Corgan è il quarto album del 2019 che recensisco e che va a sciacquare i panni in Nashville, Tennessee.

Stati Uniti in crisi, sicuramente più morale e identitaria che economica, significa per molti avvertire la necessità di cercare “altro” che non siano i tweet di Trump e il gorgoglio di fondo della pancia del paese che offusca tutto il resto. L’esempio più lampante è il viaggio di Springsteen in Western Stars,  ma ci sono altri artisti che hanno iniziato una ricerca personale sulla musica delle radici, quasi che nella tradizione ci possa essere una chiave di lettura. O più semplicemente il country, il bluegrass, il genere Americana, sono statutari, tanto quanto la costituzione, sono colonne, sono la loro mitologia, utile in tempi di cambiamento poco gradito.

E così abbiamo per le mani un album davvero particolare, perché tutto avrei potuto pensare (soprattutto a metà anni novanta), tranne la possibilità che il frontman degli Smashing Pumpkins si dedicasse ad un’opera in cui violini e steel guitar la fan da padrone. “Un atto d’amore” lo ha definito lui stesso sui social. Di fatto è il prodotto di un viaggio verso Ovest, la frontiera per eccellenza, l’unico punto cardinale che è diventato genere. Thirty Days è il titolo del viaggio/documentario che ha visto la nascita di Cotillions, ultima fatica solista del nostro Billy.

Non è il Nebraska di Springsteen, né una radicalizzazione di una tendenza come può essere stato per altri in precedenza. Mi è parso un genuino gesto di assorbimento della cultura locale durante il viaggio, un utilizzo strumentale di un atteggiamento mentale che dovrebbe essere la quintessenza del viaggiatore. Un Chatwin con la chitarra, vestito di umiltà intellettuale, perché occorre sempre ricordarsi chi è Mr. Corgan. E così, tra esplorazione e filologia musicale, galleggiando tra Steinbeck e Woody Guthrie, il pianoforte che dominò i precedenti lavori solisti cede il passo a chitarra e archi, segnando un clamoroso cambio di genere. I testi rimangono densi, incredibilmente evocativi per immagini, bastano poche pennellate per definire bene i confini e i riferimenti.

E’ un album lungo, diciassette tracce e quasi un’ora di musica, che nelle prime otto canzoni presenta tutto quello che è l’essenza del disco. C’è la morte di To Scatter One’s Own, la crisi in Hard Times, la strada nel deserto della titletrack Cotillions. I generi si alternano, ma raramente sentiremo echi degli Smashing, se non in Fragile, The Spark, classica voce e chitarra, che pare rimasta incastrata tra i due cd di Mellon Collie.

La seconda parte dell’album è meno a fuoco. E credo sia dovuto al fatto che questo “atto d’amore” non abbia subito grandi revisioni e sia di fondo rimasto un atto genuino e viscerale. E forse è giusto così, perché in un lungo viaggio, iniziato per ritrovare un’essenza musicale e umana, dopo un po’ idee e chilometri si confondono. I pensieri si impolverano, scorrono via veloci, si mescolano al paesaggio che scorre a lato strada, si sovrappone al parallasse dell’orizzonte. E allora mi piace, davvero, che quest’album scivoli via nell’ultima parte, e se ne vada, lasciando il silenzio e i pensieri e una frontiera da esplorare, domani.

 

William Patrick Corgan

Cotillions

Reprise Records, 2019

 

Andrea Riscossa

Senna “Sottomarini” (Roma 10, 2019)

Cos’è l’indie?

Questo genere musicale è rappresentato da artisti (emergenti, nella maggior parte dei casi), che sono l’anima della cultura underground, che autoproducono dischi o al massimo sono supportati da etichette discografiche minori che cercano di contrastare il dominio delle major.

In Italia, tendiamo ad appiccicare l’etichetta indie con facilità. Due accordini simpatici, testo di non facile interpretazione che per la maggiore trattano di nostalgia, avvilimento, e amarezza, et voilà! Il cantante/gruppo indie-del-momento è pronto per riempire palazzetti.

In questa mia visione musicalmente razzista verso ciò che la popolazione media indica come indie, molto spesso quando ascolto gruppi che si definiscono appartenenti a questo genere, arrivo al massimo alla seconda canzone, dopodiché il mio cervello e il timpano vanno in necrosi.

Ma ci sono sempre le eccezioni: gruppi a cui basta un nastro, un vecchio 8 piste salvato ad un mercatino dell’usato, una stanza e tanta emotività.

In questo caso è il gruppo Senna, formato da due fratelli (Carlo e Simone Senna) e un amico (Valerio Meloni) nati a Roma, i quali rappresentano il vero concetto di indie.

Prendere il nulla e creare un disco intimo, reale, sentimentale, artigianale.

La loro concezione di musica comunica purezza. Sentimenti liberamente esposti usando le loro doti canore, e la composizione della musica che entra dalle orecchie e arriva dritto al cuore (o fa scoprire di possederne uno).

Sottomarini, il loro disco d’esordio è un viaggio nelle loro vite private, come camminare in casa di sconosciuti e aprire le porte chiuse. “Imperfetto e dolce come l’anima di chi l’ha scritto, come la vita. Racconta la storia, anzi le storie, di un anno difficile” – così il gruppo descrive il loro primo lavoro.

Parlano di perdite, di dolore procurato, e di quello inflitto. E lo fanno con delicatezza, perché sanno di toccare il punto G del cuore.

Aprono questo disco con (Punto e a Capo), intro musicale, che ha il sapore del gelato sciolto sotto l’ombrellone di un’affollatissima spiaggia italiana ad agosto.

Giulia, un tenero brano che ricorda le amicizie che nascono in estate, quelle che profumano di amore non corrisposto, di imminente distacco e ingenuità.

Subito dopo troviamo Agosto, il primo singolo, un brano che sembra parlare di questo mese come un periodo pieno di aspettative, di novità, di divertimento e di amori. Ma a ferragosto (quando è stato scritto), pioveva, quindi il pezzo possiede una malinconia che è poco consona con il titolo.

Il secondo singolo che è uscito è Italifornia, è un inno alla nostra penisola, un omaggio a una terra non perfetta ma piena di bellezza e vita.

L’ultimo singolo pubblicato è Le Cose a Metà: parla di tutte delle cose straordinarie che abbiamo intorno a noi, che trascuriamo per lanciarci nell’inseguimento di altre, irraggiungibili e che magari neanche esistono. 

Fiume, ballata con chitarra, violino e voce dolce e malinconica, conduce in uno stato d’animo di tristezza pura, fa pensare a tutti i tuoi disastri amorosi, e ti ritrovi a piangere per il bambino che ti ha tirato le trecce a sei anni.

Un album che fonde estate e inverno, in un’ambientazione indie che mescola rock e pop.

Questi ragazzi son da tenere sotto occhio, talento e sentimenti, trasmessi in modo eccezionale.

 

Senna

Sottomarini

Roma 10, 2019

 

Marta Annesi

 

Raised Fist “Anthems” (Epitaph Records, 2019)

(pugni punk alzati al cielo)

 

L’hardcore non è solo un genere musicale: è una filosofia di vita, con una storia ben nota e un’evoluzione ancora da portare a termine. Nato in America negli anni ‘80 ha contagiato tutto il mondo, e in ogni zona ha assunto una valenza e una sua personale identità.

Testi politici, questioni sociali e individuali usando una musica veloce, riff semplici e scream, sonorità distorte e aggressive. Vediamo la nascita dell’anarcho punk, lo straight edge (promuovere uno stile di vita sano, ambientalista, animalista, e vegetariano).
La musica diventa uno strumento per divulgare una filosofia, uno stile di vita libero, autonomo e rispettoso, molto spesso con una visione nichilista (street punk).
Se guardiamo alla Svezia, comunemente nota come la mamma dell’Ikea, per i veri intenditori del genere è la patria del crust punk e del D beat (i Disfear).

Uno dei più importanti gruppi svedesi anni ‘90, i Raised Fist, col passare del tempo cedono alla sperimentazione del sound, contaminando l’hardcore puro con sonorità melodiche, abbassando la velocità di esecuzione e lasciando lentamente da parte i problemi politici, finendo per essere etichettati come alternative metal e post hardcore.

Per elaborare e comporre questo album ci hanno impiegato ben quattro anni, ma l’attesa aumenta il desiderio, no?

Tornano con Anthems, contenente dieci brani, dove l’hardcore possente svedese si fonde con parti melodiche, testi stringati, ritmi incalzanti.

Dal primo pezzo, Venomous, sono chiari il mutamento e la crescita,  le particolari doti vocali di  Alexander “Alle” Hagman che passa dal growl a toni più pacati, per dimostrarci che l’hardcore non è morto, sta solo cercando una sua dimensione per sopravvivere al cambiamento dei tempi. La tematica è puramente punk, quel senso di disagio, di sentirsi gli ultimi ma con la fierezza di non far parte della società, e di quanto quest’ultima lavori per spingerci sempre più in fondo. (If you are big, they want you small/Constant negative waterfall, fuck).

Belle schitarrate compongono l’inizio di Seventh, e durante i tre minuti di durata del brano sembra di essere tornati negli anni ‘80. Scream e growl a non finire, ritmi serrati e batteria pistata a morte. Sul finire entra a far parte del brano un interludio melodico, che sembra voler stemperare l’ambiente, per poi riattaccare con il classico stile hardcore.

Anthems (dà il nome all’album) più che un brano è l’inno della loro evoluzione musicale, dove ci presentano il loro sound. Il testo non ha significato se non quello di evidenziare le doti canore del frontman e il progresso stilistico in questi quattro anni di silenzio. Il loro vero e proprio inno, un cavallo di battaglia usato per specificare il loro intento.

Il ritmo rimane invariato nel quarto brano, Murder, dove assistiamo ad un’esibizione totalmente hardcore. Chitarre indemoniate e batterie fumanti, con uno scream profondo. Nonostante il testo della canzone, la band non ha ucciso la sua identità, ma ha subito un’evoluzione che mantiene il suo stile di pensiero, modificando e annettendo altri sound.

Una nota punk nostalgica suona in Into This World, testimonianza della loro esperienza (sono insieme dal 1993) non solo in campo musicale ma soprattutto nella società moderna. Precursori di un genere da cui hanno perso vita tante correnti tutt’ora presenti sulla scena musicale, ricordano con malinconia i tempi che furono, con uno sguardo al futuro, incitando i figli (forse in senso lato, intendendo i loro fan), a vivere in fretta, non avere rimpianti. (We let the music intensify/We almost lasted a lifetime/But one more thing before we close our eyelids/We have to tell our kids, to live fast, no regrets, and no fucking grids)

Shadows, bel rullante iniziale, mantiene l’aria dell’hardcore compatto, Oblivious dove il basso e la chitarra la fanno da padroni con un ritmo incalzante che si rilassa nel ritornello.

In Polarized, ammiccano al rapcore, ricordando a tratti i R.A.T.M., We Are Here è una fusione tra cantato growl e base più melodica, l’unico elemento hardocore punk è rappresentato dall’insistente batteria.

L’ultimo brano dell’album è Unsinkable II, che si presenta come circondato da un’aura di dolcezza, nonostante lo scream, sul finire il pezzo esplode. 

INAFFONDABILI, ecco come si può descrivere questa band. 

Hanno vissuto il periodo migliore per la scena hardcore, gli inizi, quando tutto era nuovo, quando tutto era ribellione e rivoluzione. Sono uomini ora, e subiscono i cambiamenti del tempo. In questo loro ultimo lavoro vogliono comunicarci che nonostante siano cresciuti, al loro interno la scintilla originaria è ancora ben viva.

Energia, doti canore e musicali, esperienza e voglia di creare un nuovo percorso.

Non è il “vecchio” che si adegua al “nuovo”, piuttosto una rivalutazione, e un’affermazione. 

Sono ancora qui, e direi per fortuna!!!

 

Raised Fist

Anthems

Epitaph Records

 

Marta Annesi

 

Holy Swing “To the Burn and Turn of Time” (Self Released, 2019)

(Through the looking glass)

 

Uscito a novembre, To the Burn and Turn of Time rappresenta il nuovo inizio degli Holy Swing, band bergamasca fresca di numerosi cambiamenti — dalla formazione al nome, passando per il sound — nonostante le influenze post hardcore si sentano forte e chiaro anche in questo nuovo progetto.

L’album spazia tra un’autoanalisi decisamente più spostata verso l’autocritica e il racconto delle relazioni con gli altri, a volte autentiche e altre meno, ma di cui alla fine abbiamo bisogno per uscire da quella bolla di incomunicabilità e ripiegamento su noi stessi dove a volte sembra tanto comodo rifugiarsi. Proprio a questo si riferisce in particolare Paper Kings, ultima traccia del disco. “In the end you’ll know that all you were was just a fraction of a cell” – siamo tutti parte di un qualcosa di più grande di noi.

Le immagini che emergono dalle nove canzoni sembrano tutt’altro che positive, a cominciare dal “plastic garden” in cui è difficile far crescere qualcosa di vero di Twin Primes, ma è quando si parla di se stessi che si scava nel fango. È su questo che sono incentrate, ad esempio, Flower Bed, raccontata dal punto di vista di chi riconosce di essere distruttivo, Parfit’s Glass e Your Dopamine, dove invece ci si rende conto delle proprie mancanze, ma si cerca di non trovare scuse per affrontarle. Ad accompagnare quest’indagine tanto intensa quanto sofferta, esplosioni di chitarre e batterie.

To the Burn and Turn of Time è dunque un’alternanza di pezzi incendiari e altri più dimessi, senza però mai perdere un animo profondamente rock e quella rabbia necessaria per urlare ciò che si pensa.

 

Holy Swing

To the Burn and Turn of Time

Self Released, 2019

 

Francesca Di Salvatore

 

Animatronic “REC” (La Tempesta Dischi, 2019)

E non sono pupazzi!

 

È uscito REC, il primo album degli Animatronic per La Tempesta Dischi. 

Luca Ferrari alla batteria, Nico Atzori al basso e Luca “Worm” Terzi alla chitarra, hanno registrato in presa diretta il loro primo lavoro, un disco composto da 15 tracce strumentali (sono pochissimi gli interventi vocali) con le sonorità del rock progressivo. Gli Animatronic ci coinvolgono in un mondo di intrecci musicali, di tempi dispari ma anche di melodie ambient e riprese grunge.

Teddy Red & Jenny Ride è la traccia che apre l’album e non poteva essere altrimenti. Frammenti prorompenti e frenetici si alternano a passaggi dalle contaminazioni jazz quasi a ricordarci “di come i Weather Report erano forti”.

Si prosegue con il singolo Fl1pper#, pezzo che incarna il gioco in ogni suo componente. Tu sei la biglia e gli Animatronic sono le alette del flipper: ti spingono su per la rampa di lancio e ti sbalzano ovunque, ti lasciano scivolare giù per poi farti rimbalzare sui bumper. Spingono talmente forte che finisci in TILT.

Le immagini continuano con In Cubo, fantastico gioco di parole che rappresenta a pieno la sensazione che trasmette la traccia. Ci si sente come rinchiusi in un posto buio, un cubo senza via di uscita. Lo strumentale angosciante e minaccioso è più lento rispetto al resto del disco e la chitarra conserva una nota insistente, che ti ossessiona come la voglia di uscire alla luce del sole. Improvvisamente ha inizio la lotta, le pareti si spaccano ma dalle crepe non entra nessun bagliore. Si esce dal cubo ma non dall’incubo.

Ghostreck è la nona traccia, la più romantica, nostalgica, forse anche struggente. Ma ogni pezzo non è ciò che sembra e cambia in continuazione pur mantenendo una circolarità interna. 

Questo accade in Zabran, dove esordisce una chitarra funky che si smentisce pochissimi secondi dopo, passando a fraseggi così rapidi tanto da proiettarti in un mondo riprodotto al doppio della velocità.

Fanki!? sorprende con voci sospirate, serpentesche, molto contemporanee che rendono il disco, registrato in presa diretta, ancora più vivo e se possibile ancora più live.

L’album, pur essendo quasi completamente strumentale, non annoia mai. La musica degli Animatronic nasce dal piacere e dalla voglia di suonare, quindi non c’è spazio per la monotonia, non c’è spazio per la noia. REC non è il disco “che meritavamo ma quello di cui avevamo bisogno”. 

 

Animatronic

REC

La Tempesta Dischi, 2019

 

Cecilia Guerra

L’ultimodeimieicani “Ti Voglio Urlare” (Pioggia Rossa Dischi, 2019)

Ballare sul pessimismo

 

Ti Voglio Urlare de L’ultimodeimieicani è un album strano, ovviamente in senso buono. 

È uno di quegli album che sembra voglia lanciarti addosso pessimismo un tanto al kg, ma lo fa con un sound che al tempo stesso ti fa venire voglia di ballare in modo casuale e senza riflettere. È questa la sensazione che si ha quando si ascolta Everest, ad esempio: un ritmo energico e incalzante su cui la voce canta “ogni volta che ti guardi allo specchio, ti senti un minuto più vecchio”. 

È anche un album onesto, che non edulcora niente, quindi è normale che dopo averlo ascoltato ti rimanga nelle ossa una sensazione di spossatezza, proprio come quando di colpo smetti di ballare e inizi a pensare.

Questo è il primo LP della band genovese, uscito sempre per Pioggia Rossa Dischi a quasi 3 anni di distanza dal loro EP di esordio, In Moto Senza Casco, e anticipato da ben cinque singoli. Il primo, Pensione a 20 Anni, è uscito l’8 marzo scorso e per l’occasione le strade della loro città sono state ricoperte di tanti volantini gialli. La provocazione dietro alla canzone è inequivocabile: esiste un rischio fondato di scegliere a vent’anni un percorso che non è quello giusto per noi, ritrovandosi così imprigionati in una vita monotona e che non sentiamo nostra. Da qui l’idea di iniziare a lavorare solo più avanti, forse con le idee più chiare e una testa più matura.

Pensione a 20 anni è stato seguito poi da Sirene, Gelato — singolo che conta anche la partecipazione del giovane rapper genovese Canca — e Ciao. Quest’ultimo vuole raccontare la fine di una relazione nascosta dietro a un saluto così banale, “quel momento in cui vorresti dire tante cose, ma ti escono solo quelle quattro lettere”, come scrive la stessa band su Instagram. Chiude la fila Cosa vuoi cambiare, uscito due settimane prima dell’album.

Particolare attenzione è data anche il rapporto con le proprie città, spesso definite provinciali e, sembra, a tratti soffocanti. È un rapporto di amore-odio, come quello che si sente in Sirene oppure Provincialismo, perché alla fine sono proprio loro, le nostre città, nonostante un certo disprezzo, che contribuiscono a renderci quelli che siamo.

Ti Voglio Urlare è quindi il ritratto di chi si ritrova fermo immobile in un presente insoddisfacente, di chi si sente “come macchine ferme a guardare i semafori verdi”, di chi desidera un cambiamento che spezzi la monotonia e che invece, purtroppo, pare non arrivare mai.

Ma forse riconoscere l’immobilità è già un primo passo per iniziare a muoversi.

 

L’ultimodeimieicani

Ti Voglio Urlare

Pioggia Rossa Dischi, 2019

 

Francesca Di Salvatore

Sunset Sons “Blood Rush Déjà Vu” (Bad Influence, 2019)

Esiste un luogo in Europa, una lunga striscia di terra bagnata dall’Atlantico, che è il paradiso dei surfisti del Vecchio Continente. Verso la fine degli anni novanta la mia grossa tavolona bianca e viola si muoveva lungo l’asse che da Hossegor, Francia, portava fino a Zarautz, Spagna, passando per Biarritz e San Sebastian. Erano anni spensierati, in cui il surf regalava alla storia della musica personaggi come Eddie Vedder e Anthony Kiedis, film come Point Break, e io trovavo la pace cosmica in un’adolescenza, ovviamente, travagliata.

Leggere che i Sunset Sons, ragazzoni di madrelingua inglese (un po’ aussie e un po’ brit), hanno preso casa proprio a Hossegor, mi ha subito incuriosito. Anzi, a dirla tutta hanno una storia degna di una pinta davanti a un caminetto. Comodi, per favore.
Una sera di una calda estate il batterista Jed Laidlaw incontra un amico maestro di tavola in un bar, Le Surfing (ma guarda un po’), dove sta tenendo un personalissimo show nientemeno che il lavapiatti. Il giovine però è dotato e viene notato. E strappato a un destino crudele e privo di gloria. Al secolo Rory Williams, entra in un mondo fatto di adrenalina e di musica. I due, insieme a Robin Windram (chitarra) and Pete Harper (basso), collezionano date nei posti più incredibili, macinano chilometri e concerti, tutto per finanziarsi una endless summer all’europea: in inverno si stabiliscono in Val d’Isere, per la stagione di snowboard, in estate tornano a ovest, a Hossegor, per il surf. Scendono dalle tavole per salire sui palchi e viceversa e questo ha, come effetto secondario, che diventano piuttosto bravi e nel 2016 esce un primo disco, Very Rarely Say Die, che riscuote un buon successo. Iniziano a viaggiare più per la musica che per lo sport e lentamente si trasformano in una band con alle spalle qualcosa come 250 live. Aprono i concerti degli Imagine Dragons e dei Nothing But Thieves, e poi capita anche che il materiale prodotto tra una data e una uscita in mare porti a produrre un secondo album, Blood Rush Déjà Vu.

Musicalmente sono molto affini alle band con cui hanno collaborato, anche se i Kings of Leon rimangono il riferimento più chiaro e evidente.
È un disco malinconico, che guarda al passato, soprattutto alle relazioni che finiscono , e che ci regala qualche momento di affettuosa redenzione e gioiosa nostalgia. Il batterista Laidlaw lo inquadra quasi in modo Felliniano: “In the summertime the population quadruples and it’s just the happiest place. But like a lot of coastal towns, in winter time it’s dark, rainy and there’s a real sense of isolation.”
Questi i confini dell’immaginario dei nostri ragazzoni. 

Il disco nasce inizialmente in uno studio creato nella casa del cantante Williams, dove, nell’arco di sei mesi, vengono composte un numero incredibile di canzoni, pare, con altrettanti stili diversi. I quattro hanno radici diverse e culture musicali che vanno “accordate”. Entrano in scena quindi Catherine Marks ( producer di Wolf Alice, The Amazons) e un nuovo chitarrista, Henry Eastham, e l’album prende forma, identità e infine vede la luce.

È un lavoro più maturo e più ricco, rispetto all’album di esordio. Il singolo che precede l’uscita dell’LP, Heroes, è in questo senso paradigmatico. E’ il frutto di una collaborazione tra i vari membri della band, ma anche delle ore spese sul palco nelle session live. C’è più gusto e mestiere e qualche astuzia di postproduzione.
Personal giudizio: band come questa vanno valutate in quello che sanno fare meglio, ossia stare su un palco, perché sono nate in un bar di surfisti e non in conservatorio, perché è gente abituata alle onde, alla neve, alla buona birra. Quindi, dopo aver apprezzato il disco, godeteveli dal vivo, quella è la vera dimensione dei Sunset Sons. 

 

Sunset Sons

Blood Rush Déjà Vu

Bad Influence, 2019

 

Andrea Riscossa

Bad Wolves “N.A.T.I.O.N.” (Eleven Seven Music, 2019)

(Lupacci metallari con un cuore malinconico)

 

Le persone si dividono in due gruppi: c’è chi pensa alla California come paesaggi mozzafiato, viali costeggiati da palme, mare fantastico e tramonti indimenticabili e poi c’è l’altro gruppo, quelli a cui vengono in mente Deftones, A Perfect Circle, Rage Against The Machine, System Of a Down, Incubus, Linkin Park, Papa Roach, Korn, Alien Ant Farm.

Terra buona o aria fresca, non si conosce ancora la ricetta per sfornare grandi artisti, sta di fatto che la California ci ha regalato una bella sorpresa anche stavolta, i Bad Wolves. 

Si son fatti notare nel 2018 con una cover metal di Zombie, de The Cranberries: alle parti vocali avrebbe dovuto partecipare Dolores O’Riordan, che sfortunamente ci ha lasciati troppo presto, e il gruppo ha così inserito nel video un tributo all’eterna cantante dei gruppo irlandese.

La prima bomba del nuovo album N.A.T.I.O.N. l’hanno lanciata ad agosto, I’ll be there: una presentazione in gran stile dei loro intenti. Disincanto e Metal Style since 2017, questi ragazzotti del Golden State vogliono dimostrare la loro crescita rispetto al loro primo album, Disobey, con un brano che incita a non arrendersi mai, non cambiare quello che si è per piacere agli altri.

Dopo il primo singolo hanno continuato a bombardare la scena metal con pezzi notevoli, sia a livello musicale (metal melodico/scream depresso, malinconico e incazzato) sia a livello di contenuti. Canzoni tipo Learn To Walk Again, che esprime massime tipo ride or die, cavalca o muori, affronta le difficoltà, cadi se necessario, ma rialzati sempre.

Come fossero consigli tra amici di una vita, con questo secondo pezzo dell’album tentano di entrare nella profondità dei disagi emotivi dei fans spaccando le barriere a suon di chitarre elettriche indiavolate, batteria dinamica, e parti vocali con deliziosi passaggi tra melodico e scream.

La loro anima rissosa e metallara esplode in No Messiah, rivendicando la loro appartenenza musicale e scagliandosi contro band che pur di inseguire la notorietà cambiano genere a seconda delle tendenze del momento.

Killing Me Slowly, racconta l’insicurezza di un amore, dove i nostri modi di reagire alle situazioni e la sfiducia verso quello che si è inficiano sulla nostra vita amorosa: l’amore che si trasforma in omicidio-suicidio, un tira e molla che lacera ogni parte della nostra anima.

La tematica dell’amore difficile prosegue in Better Off This Way, dove ci straziano il cuore con una melodia malinconica, una canzone per una storia finita che porta con sé il sapore amaro per la delusione e il dolore. Sanno emozionare, con un bell’assolo sul finire del brano, e la voce di Tommy Vext così delicata e in alcuni passaggi possente, per sottolineare la dualità dell’essere.

Da un’estremo all’altro. Balziamo in un metal pesante old school, rullanti caldi, chitarre elettriche e scream. Foe or Friend, entra a sfondamento in un’atmosfera malinconica e triste portando distruzione e desolazione, parlando di carcere, di droga e di vite spezzate. 

Sober, subito dopo, ci sbatte in una storia di alcolismo, con una ballata rock, melodica, che sfiora un po’ il melenso. L’onda pop rock contagia anche in Back in the Days, aperta critica verso il mondo del commercio e produzione della musica. 

L’album si inizia a riprendere dalla botta di malinconia con The Consumerist, in cui si scaglia contro il consumismo, come male fatale per la nostra società che tende a depersonificarci.

Anche Heaven so Heartless è marchiata dalla malinconia e dalla sensazione di essere intrappolati in un sistema nel quale non ci rispecchiamo, e preghiamo per una via d’uscita, già sapendo che non esiste.

Ma la tristezza è contagiosa, e inquina anche Crying Game, che rivela la sua potenza sul finire del brano con un assolo di chitarra godibile.

Fortuna che L.A. Song esce completamente da questo alone di malinconia. Ci lasciano con un bel pezzo metal, un brano omaggio-offesa a Los Angeles, ormai diventata la valle della falsità, la Terra Promessa degli artisti.

Nel primo album i Bad Wolves ci hanno dimostrato che sanno fare musica. Nel secondo, invece, che possiedono un lato malinconico (e forse anche romantico). 

 

Bad Wolves

N.A.T.I.O.N.

Eleven Seven Music, 2019

 

Marta Annesi

Saint Asonia “Flawed Design” (Spinefarm Records, 2019)

(I santi senza orecchio musicale)

 

Ci sono un cantante, un chitarrista, un bassista… No, non è l’inizio di una barzelletta, ma la formazione di un supergruppo (cioè una superband composta da musicisti già famosi in altri gruppi) canadese/statunitense che porta il nome di SAINT ASONIA.

Alla voce il già conosciuto Adam Wade Gontier (fondatore dei Three Days Grace), Mike Mushok alla chitarra (Staind), al basso Corey Lowery (Seether, Eye Empire) e fino al 2017 alla batteria era presente Rich Beddoe (Finger Eleven).

Nel 2015 debuttano con l’album Saint Asonia, stilisticamente post-grunge, e mantengono questa tendenza anche nel nuovo lavoro Flawed Design. Ci sono voluti due anni per il completamento, ma come asserisce il cantante, ha passato delle situazioni spiacevoli e ha condensato nei brani tutto il suo dolore. Questo ha contribuito a rendere l’album migliore, più personale, e stilisticamente più maturo del primo. L’aria che si respira è totalmente post-grunge, o alternative rock (come la si vuol chiamare). Il loro modo di fare musica è consolidato, chiaro e armonico, non sono ragazzini che si approcciano per la prima volta, ma possiedono esperienza e carisma. 

Singolo di debutto è The Hunted, in collaborazione con Sully Erna (Godsmack), brano molto intimo, nel quale ci troviamo a vestire i panni del cacciatore e della preda, fuori controllo, ma consci dei difetti con i quali conviviamo, cerchiando una tregua alla guerra che noi stessi abbiamo iniziato con il mondo. 

Ci fanno entrare nel loro universo con Blind, storia di un’amore finito. Descrivono quella situazione amorosa in cui l’altro/a riesce ad accendere una luce in noi, e quando il sentimento finisce rimaniamo accecati da tutta quella luce che man man si spegne, consegnandoci alle tenebre della cecità.

Sirens, secondo brano, viene da un’idea di Steve Aiello (Thirty Second To Mars) e Dustin Bates (Starset) e deve  la sua potenza emotiva anche alla partecipazione nei cori di Sharon Den Adel (Within Temptation); con questo brano ci fanno intravedere un amore coraggioso, forte, che se ne frega dell’imminente fine. E forse la morale della vita è proprio questa: trovare qualcuno con il quale cadere, perché siamo tutti in caduta libera, ma farlo in due non è poi così male. (We were born to resist if it falls\ Come with me, we will rise\ Can I believe it tonight?)

A rendere l’album molto intimo ci pensa This August Day, personale monito dello stesso cantante ad un sé stesso del tempo passato. Alla nascita di suo figlio lui era ricoverato in un centro di riabilitazione, essendo dipendente da alcol e droghe: con questo brano cerca di esorcizzare questo rimpianto, con il quale dovrà convivere con il resto della sua vita.

In Ghost troviamo ancora lo zampino di Dustin Bates, brano in cui la band rende ancora più reale questo bisogno di essere capiti, di avere qualcuno accanto per cui valga la pena cadere e frantumarsi. Ma alcune volte sono proprio le persone a cui ci aggrappiamo che svaniscono, lasciandoci il ricordo, un fantasma che si ostina a guardarci senza offrirci aiuto.

La canzone più rappresentativa di questi due anni di lotte contro la dipendenza dalle sostanze è Beast, descrizione perfetta della lotta contro la bestia presente nella vita cantante, bestia che cercava in tutti i modi di sopraffarlo, della sua voglia di riabilitarsi al mondo e di vivere a pieno gli affetti che contano davvero. The Fallen, dedicata a chi come lui è caduto, ha perso tutto quello che era importante e rimangono solo i ricordi.

Dopo Another Flight, in cui perdere alcune occasioni della vita è rappresentato dal perdere un volo, troviamo Flawed Design, che da il nome all’album ed esplora il motivo per cui le persone sentono il bisogno di presentarsi come quello che realmente non sono. La ricerca di perfezione in cui la gente disperde la propria personalità è il cancro della società e l’unica arma che possediamo per contrastare questo modus operandi è essere sé stessi, con tutti i nostri difetti, perché sono proprio essi a renderci particolari.

Adam canta per i caduti, i reietti, per chi ha toccato il fondo. Cerca di portare speranza a chi non ne ha, come un moderno Babbo Natale dei perdenti. Con la sua voce pulita ci canta di battaglie perse, rimpianti, design imperfetti, giustificazioni che cerchiamo di dare e martiri contemporanei. Lui è stato sul fondo del pozzo, è riuscito a risalire lasciandosi alle spalle i cadaveri dei rimpianti. 

 

SAINT ASONIA (SΔINT ΔSONIΔ)

Flawed Design

Spinefarm Records, 2019

 

Marta Annesi

 

Norma Jean “All Hail” (Solid State Records, 2019)

(Sempre sia lodato il metalcore!)

 

Le cose non sono mai come le vedi. La filosofia (o follia?) dietro ai Norma Jean è intrigante. 

No, non si parla della famosa Norma Jean (in arte Marylin Monroe) ma di una band cresciuta nei sobborghi di Atlanta. Iniziano a farsi notare nel 1997, all’attivo contano sei album, e hanno sempre posseduto un’anima profonda con la quale filtrano la loro visione del mondo, rendendocela attraverso la musica e i testi per condurci in un universo fatto di riflessi, di complotti e di pseudo-utopia.

All Hail, rappresenta un’idea, un pensiero derivato dalla loro crescita, uno strumento per comunicare un messaggio attraverso il metalcore.

Cosa c’è dietro allo specchio? È solo un riflesso oppure ha vita propria? E se esistesse una vita all’intero, parallela alla nostra? Oppure siamo noi il riflesso, e la realtà è dall’altra parte?

Questa la filosofia alla base dei nuovi brani, che dona un’aurea di inquietudine e dannazione al disco.

Ci scaraventano in un bel trip, impattando con l’intro di Orphan Twin, primo brano dell’album, battaglia di batteria e chitarra elettrica, accompagnata da una voce calda, confortante. Il ritmo degli strumenti si scatena, ed il tono del brano cambia, l’eterna lotta tra bene e male, tra il canto delicato e uno scream graffiante. Il riflesso, e il mondo dell’altra parte.

Dipingono un mondo decadente, che sta per collassare, una terra maledetta, dove gli eroi sono dei bugiardi, e la loro presenza non serve per salvarci, ma per sottolineare quanto gli esseri umani siano perdenti, malvagi, nel brano Landslide Defeater.

Questo clima di insoddisfazione e crisi si ripercuote anche in [Mind Over Mind] in cui la morte è una rinascita, dove lottare per un futuro migliore è un’utopia. Tutto è circolare, ci porta all’abbattimento morale, e questa è un’arma pacifica per stroncare la nostra anima.

I testi presenti in questo ultimo album sono molto complessi, quasi dei saggi sull’interpretazione del mondo da parte del gruppo, dove esplicano la loro personale visione di situazioni specchio (Cosa c’è dentro? Che cosa è fuori?), riflessi dannati che tramite la morte risorgono alla vita, ad una nuova possibilità di essere. Esempio di questo è Safety Last, in cui sogni e incubi sono reali, e distruggere tutti i rapporti velenosi è l’unica soluzione per allontanarsi, per non incontrarli di nuovo.

Attraverso uno stile metalcore melodico ci trasportano attraverso lo specchio con /with_Errors, dove incontriamo la nostra nemesi, cioè noi stessi, e ci invitano a far pace con il nostro avversario, dimostrando che il peggior nemico siamo proprio noi stessi. 

L’apice di questa interpretazione distopica è per l’appunto raggiunto in Trace Levels of Dystopia, manifesto della band, la quale crede fermamente di un futuro con risvolti negativi sia sul piano sociale che politico. L’umanità sta andando verso una catastrofe, tutto si sta distruggendo, e lo comunicano con un brano estrememante metalcore, colmo di scream, chitarre elettriche, batterie  pesantemente pistate.

Nel disco troviamo anche una canzone dedicata alla scomparsa, il giorno dell’inizio della registrazione dell’album, di una loro fan poi diventata loro amica, Anna: un brano turbolento e malinconico, tributo alla memoria di una ragazza simbolo delle centinaia che popolano i concerti del gruppo.

L’intenzione della band è gettarci nella loro concezione di realtà, di confondere le nostre sicurezze, fino ad instillare nelle nostre menti un dubbio, usando il metalcore per rendere tutto estremamente spiazzante e reale. 

 

Norma Jean

All Hail

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

La Scala Shepard “Bersagli” (Cubo Rosso Recording, 2019)

Canzoni d’autore distorte

 

Parole in sottofondo e poi uno scoppio improvviso di energia, tra chitarra e batteria: esordisce così Bersagli, il primo LP della band alt-rock romana La Scala Shepard, registrato presso gli studi della Cubo Rosso Recording.

L’album è stato anticipato da due singoli, Potesse Esplodere Questa Città e Camera con Vista, molto diversi nella forma – il primo caratterizzato da un ritmo quasi ossessivo mentre il secondo ricorda più una ballad – ma non nella sostanza. Sono infatti la paura e una solitudine declinata in varie forme a dominare, ma non solo in questi due brani: esse ci prendono infatti per mano e ci accompagnano lungo tutte le dieci tracce del disco.

C’è la solitudine di Paranoia, quella che usiamo come scudo quando tenere le distanze dagli altri ci sembra più sicuro che apparire vulnerabili, ma c’è anche quella di Groove 2 o Via Dupré, dove l’assenza della persona fa stare male, ma nonostante tutto non si riesce – o forse non si vuole – dimenticare, perché questi ricordi sono tanto dolorosi da tenere quanto da lasciare andare.  

Ma non solo di solitudine si nutre il disco: emergono anche un forte sentimento di smarrimento, di immobilità nei confronti di una vita che non si riesce ad affrontare. In Giro di Giostra si affaccia, inoltre, l’idea del crollo e tuttavia dover resistere, ma questa resistenza non viene esattamente apprezzata. Anzi, viene definita una sconfitta, come se lasciarsi andare, provare anche odio o comportarsi da stronzi ogni tanto sia proprio ciò che ci rende umani.

Quelli di Bersagli sono dunque testi che scavano nel profondo di ognuno di noi, ma a cui spesso e volentieri si accompagna un sound elettronico, distorto e sintetizzato a regola d’arte, anche se non mancano melodie più classiche come quella intonata alla fine di Dall’Altra Parte. Probabilmente è proprio questo mix particolare ed equilibrato di cantautorato e distorsioni, il tutto accompagnato da influenze direttamente dall’alt-rock inglese, a far distinguere La Scala Shepard sulla scena indipendente italiana.

La chiusura dell’album è affidata alla traccia che fa anche da titolo, Bersagli. 

Ma cosa sono, alla fine, questi bersagli?

Siamo noi quando decidiamo di non mostrare i nostri veri sentimenti, quando piuttosto che mostrarci vulnerabili creiamo una corazza di orgoglio che ci sembra inscalfibile ma in realtà fa solo danni. 

In dei conti, “sbattere il cuore in faccia” a chi ci ferisce può soltanto che aiutarci a guarire.

 

La Scala Shepard

Bersagli

Cubo Rosso Recording, 2019

 

Francesca Di Salvatore

The Softone “Golden Youth” (Self Released, 2019)

Dalle pendici del Vesuvio arriva un album carico di emozioni, di sonorità delicate accompagnate da una voce particolare e rilassante.

Giovanni Vicinanza in arte The Softone torna sulla scena musicale dopo cinque anni di pausa ed emozioni (positive e negative) da condividere. Autoprodotto, questo album è stato ispirato dai paesaggi vesuviani, ma mixato e chiuso a Milwaukee, negli USA.

Un cantautore vecchio stampo, che ci regala un album colmo di sensazioni reali, uno spaccato di vita vera.

Un full length di 12 pezzi che si apre con un’Intro (tema armonico del quinto pezzo I Wish), e chiude con un’Outro, in cui affronta varie tematiche con uno stile pop folk, acustico, e con l’ausilio di vari strumenti (violino, pianoforte, chitarra acustica) che conferiscono un’atmosfera intima, privata.

Il secondo pezzo è Alone and Weird, in pieno stile pop, il quale possiede un ritmo e una positività derivante dalle lacrime degli angeli caduti, che ripuliscono l’anima dell’artista per purificarlo e permettergli di  intraprendere questo viaggio (dell’album), infondendo la forza e l’incoraggiamento per comunicare all’ascoltatore le sue più profonde emozioni.

Vicinanza ci spiega subito che questa forza da cui attinge proviene da un lutto recente, la morte della madre, alla quale dedica una preghiera straziante e al contempo dolcissima, Sweet Mom, resa ancor più malinconica dall’assolo di sax.

In contrapposizione alla perdita e al dolore, ci propone però anche la gioia di un dono sceso dal cielo per alleggerire questa perdita inestimabile, Little Star, in cui ci trasmette la felicità della paternità usando uno stile blues.

La nostalgia per il passato, per una giovinezza perduta, la brutalità del diventare adulti, è espressa intensamente in Golden Youth, pezzo che da nome all’album. Il concetto della malinconia per l’adolescenza, i bei ricordi e la leggerezza di questa età è presente anche in The Place. L’era della spensieratezza lascia una scia di tristezza però quando ci rendiamo conto delle scelte che abbiamo fatto, delle situazioni che ci siamo lasciati sfuggire e di quel tempo che non tornerà più.

L’età adulta arriva senza quasi che ce ne accorgiamo, portando con sé perplessità sulle decisioni che abbiamo preso, sulla strada che abbiamo imboccato: spesso ci domandiamo se potevamo fare di più, essere di più, e l’artista, in Still Believe, mette in evidenza questi dubbi esistenziali, cercando rassicurazioni. Sulla stessa tematica di insicurezze esistenziali è Lost Memories, un monito che il cantante fa se stesso, per tutte quelle volte che ha preferito la vita effimera, allontanandosi dalle cose concrete.

Psycho Visions, sul finire dell’album, è un pezzo a metà strada tra i Pink Floyd e Brian Eno, un viaggio mentale per sfuggire dalla realtà, una visione extracorporea dell’anima intenta a vagare nello spazio-tempo.

In questo suo album, Giovanni Vicinanza crea un universo di emozioni composto da pianeti di sofferenza, via lattee di malinconia e soli di felicità. Il tutto immerso in un’atmosfera pop-folk-rock dove lascia intravedere la sua anima umana, colma di dolore e sazia di gioia.

 

The Softone

Golden Youth

Self Released, 2019

 

Marta Annesi