Skip to main content

La caparbietà per creare e difendere nuova cultura in Europa

Venerdì 8 e sabato 9 marzo si svolgerà a Bologna – e per la prima volta presso l’Estragon Club – l’appuntamento live 2024 di Europavox, progetto artistico-musicale co-finanziato dalla Commissione Europea attraverso il programma Europa Creativa, finalizzato a promuovere la scena musicale europea. 

Katia Giampaolo è impegnata professionalmente su più fronti nel mondo musicale italiano, tra i quali quello di dirigere, assieme a Lele Roveri, l’Estragon Club e di occuparsi attivamente dell’organizzazione di Europavox. 

In questa bella chiacchierata, veniamo a conoscenza della caparbietà con cui siano riusciti nell’obiettivo di portare Europavox in Italia. Se ci son voluti dieci anni per riuscirci, niente di più facile è quello di partecipare da spettatori, scoprendo e godendo del meglio della musica europea del momento, in un unico evento.

Europavox a Bologna. Da quanto tempo si svolge?  

“Il progetto Europavox nasce nel 2006 a Clermont-FerrandinFrancia. Ci sono voluti dieci anni per diventare partner ufficiali. Nel 2016 abbiamo presentato l’application a Europa Creativa e il nostro progetto è stato l’unico di musica contemporanea, su 126 presentati, che ha avuto il finanziamento. Siamo in sette paesi europei, in questo momento Italia, Croazia, Belgio, Austria, Francia, Lituania e Romania. Ognuno di noi ospita un evento all’anno di Europavox nelle varie città quindi in Bologna, Bruxelles, Vienna, Clermont-Ferrand, Vilnius e Bucarest. Abbiamo dalle sei alle otto/dieci – e anche più – band emergenti per ogni paese.”

A questo proposito, come avviene la selezione dei musicisti per Europavox?

“Noi peschiamo dal portale europavox.com, focus sulla musica e sui musicisti. Ogni mese presentiamo una top ten e quindi dieci proposte dall’Europa, una da ogni paese diverso, solitamente contestualizzate in quel mese con una motivazione, ad esempio l’uscita di un album o un nuovo tour. Nel portale diventano 120 proposte all’anno e, moltiplicate per tutti gli anni, immagina quante ne sono! Abbiamo anche una certa elasticità sugli headliner, ma almeno sei band in ogni manifestazione arrivano dal circuito.”

Soddisfatta della line-up per quanto riguarda l’evento specifico di quest’anno?

“Siamo assolutamente contenti, di assoluta qualità. Ogni anno, chi segue Europavox, ne riconosce la qualità, magari di artisti che forse non ne ha mai sentito parlare e poi ne resta piacevolmente colpito. Siamo riusciti a portare Pomme, assoluta headliner in Francia, poi Cristina Donà (leggi qui l’intervista) e ancora Aoife Nessa Frances (Irlanda), ci sono gli Ada Oda che hanno già il loro seguito, che cantano in italiano e vengono dal Belgio, poi La Pegatina (Spagna) che non suonano da dieci anni a Bologna, Alo Wala (Danimarca), i Venga Venga (Portogallo) per la prima volta in Italia, e infine i Rumba De Bodas!”

L’8 e il 9 marzo all’Estragon, non ci sarà solo musica ma anche fotografia.

“Sì, ci sarà la mostra fotografica di Richard Bellia, fotografo francese molto acclamato e che ci porterà i suoi scatti storici degli anni ’80 – ’90. Non vediamo l’ora di presentarla. Speriamo che per le due giornate vengano anche gli appassionati di fotografia.”

Quanto è impegnativo organizzare questo specifico evento? Immagino sia molto complesso.

“È un processo molto lungo. Siamo in tre a curare l’evento Europavox dal punto di vista artistico. Siamo io, Pasco dei Joycut, c’è Lele che è il nostro direttore artistico di Estragon. Quest’anno la prima giornata è più alternativa e cantautorale, curata da Pasco direttamente, la seconda curata da Lele. Si seleziona dal portale una band per paese e non di più, rispettando certe caratteristiche. Inoltre, si è condizionati dalle disponibilità degli artisti, in quanto si sceglie la band e ad esempio non può, perché impegnata per Eurovision o altri impegni professionali come tour o registrazioni. Ci abbiamo messo quattro mesi per completare la line-up.”

Per quel che riguarda l’impegno in quelle giornate di svolgimento?

“Avere più artisti che arrivano ognuno da più paesi diversi, quindi pick-up in aeroporto o treno, le organizzazioni dei vari soundcheck, poi le serate, le promozioni, le interviste. È sicuramente impegnativo, ma fa parte del nostro mestiere, lavorare tanti mesi su una manifestazione e in quei giorni lì puoi far vedere al pubblico quanto deciso.”

Un evento di questo genere è realmente importante, dal punto di vista dei contenuti. Se organizzato a Bologna e non, ad esempio, in città come Milano o Roma, vuole dire che chi organizza questo tipo di eventi ha un sentimento particolare verso il valore della condivisione di culture nuove e tra loro differenti.

“Sono d’accordo con te e vuole dire che i nostri messaggi arrivano. Io lavoro all’Estragon dal ‘97 e quindi sono 27 anni e siamo rimasti con il pensiero di 27 anni fa. Non ci siamo mai adeguati a questo mondo che va, anche, in direzione diversa, in quanto vogliamo creare cultura e cultura vuol dire aprire la mente alle persone. Aprire la mente lo posso fare col gruppo mainstream e che vedi ovunque, ma il mio dovere è far scoprire al pubblico qualcosa che altrimenti non avrebbe la possibilità di ascoltare. È super doveroso. Con tutto il rispetto per tutti quanti, l’80% delle band proposte, tolti gli headliner, nessuno le ha mai sentite nominare, eppure nei loro paesi sono headliner, sono artisti estremamente conosciuti. Perché Bologna e no Milano o Roma… anche perché a Bologna come festival e operatori culturali siamo in netta maggioranza. Bologna, città Unesco per la musica, è veramente tale e noi siamo orgogliosi di essere qua.”

Lancia il tuo invito a partecipare!

“Un invito a non fermarsi davanti a nomi non conosciuti, ma non solo per Europavox, ma in generale per tutto. Andare a scoprire le cose che non si conoscono, perché è l’unico modo per poter veramente cibarsi di cultura. Quindi non fermarsi a ciò che ci dice la tv e la radio ma avere la curiosità per il nuovo, al costo di una pizza. Il mio invito al pubblico è di essere numeroso, lo dico sempre. Per Europavox, su Mailticket c’è un abbonamento molto economico, con 20 euro per le due giornate oppure l’ingresso singolo di 15 euro a giornata.”

Zara Larsson @ Fabrique

Uno dei momenti che amo di più dei concerti è quando, dopo ore di fila fuori dal palazzetto o stadio che sia, i cancelli si aprono e il pubblico inizia a correre per accaparrarsi il posto migliore dietro le transenne. È una lotta bruta tra chi è più forte e veloce, chi è più fan e più si merita la prima fila e chi conosce più canzoni e ha più diritto a cantarle a squarcia gola indisturbato fronte palco. Ieri, però, il pubblico era di un altro tipo. Ieri il pubblico era gioioso, pacifico, “ballerino”, tutto fuorché competitivo, semplicemente felice di lasciarsi la pioggia di Milano alle spalle ed essere lì al Fabrique a godersi un sabato sera diverso. Un sabato sera con Zara Larsson.

Il concerto si apre in un tripudio di good vibes, con la giovane svedese Yaeger al suo primissimo tour.  “Yeah, I don’t wanna fight / No lies / I just wanna feel whatever we feel / Have one more / Ciao” – con passi di danza liberi e quasi primordiali, che mi ricordano i salici smossi dal vento, Yaeger canta parole che si fondono alla perfezione con il mood della serata, preparando il terreno per il trionfo del pop che la seguirà a ruota. 

In un set a metà strada tra un laboratorio di Barbie e la cameretta di una teenager, compare come creata dallo stampino degli dei la star della serata, una scintillante Zara Larsson più in forma e iconica che mai. Cresciuta sotto i riflettori del pop svedese, padroneggia il palco come fosse casa sua e noi fossimo gli ospiti d’onore dell’house party del secolo. 

“Let’s escape to Venus”, sussurra al microfono, per ricordarci dove ci troviamo (nel mezzo del Venus Tour) e cosa stiamo per ascoltare (una buona parte della tracklist del suo ultimo album, Venus). Puoi dirlo forte, ragazza: il Fabrique si trasforma nel pianeta dell’Amore.

Da ballate appassionate come Ruin My Life e The Healing, a brani up-tempo come You Love Who You Love e il suo più grande successo, Symphony, Zara, incorniciata da un corpo di ballo straordinario, dimostra una versatilità che mi cattura e a tratti stordisce, rendendo ogni canzone un’esperienza, connettendosi con il pubblico e facendoci sentire come se stessimo vivendo ogni singola nota e passo di danza con lei.

La serata alla fine si rivela ben più di un concerto: è un vero spettacolo. Luci colorate, coreografie mozzafiato e un tocco di magia che fa innamorare il pubblico. Insomma, ieri sera sul palco abbiamo visto Venere, una Venere moderna, una Venere del pop. 

“And now your song is on repeat and I’m dancin’ on to your heartbeat…”

Maria Luisa Fasano

I Voina, maestri del Kintsugi per dare valore alle nostre crepe

Sono tornati i Voina, e lo hanno fatto alla grande, con un nuovo disco appena uscito, irruento, diretto, rock e sincero, come è solita essere questa band abruzzese, che dopo oltre dieci anni di carriera ha ancora voglia di portare in giro per l’Italia la sua energia e il suo amore per la musica.

Abbiamo fatto due chiacchiere con Ivo Bucci, voce dei Voina.

Ciao Ivo, innanzitutto grazie della disponibilità. 

“Grazie a voi.”

Allora inizierei subito con una domanda difficile, se sei d’accordo. Cito dalla vostra pagina Facebook sul post di lancio del vostro nuovo disco: “un inno alle cose rotte e a come glorificare i propri errori e incidenti” per cui ti chiedo intanto quali siano le cose rotte alle quali fate riferimento e se alla fine è sempre giusto o necessario ripararle (Kintsugi, il titolo del disco, è letteralmente una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare le tazze in ceramica per la cerimonia del tè, NdA)?

“Beh, le cose rotte sono riferite alle nostre fragilità e insicurezze e diciamo che per il nostro benessere, se non proprio aggiustate, diciamo che vanno trattate, lavorate. Però forse quello che questo disco cerca di spiegare è che queste cose rotte, queste fragilità, sono importanti, sono parti di noi. Viviamo in una società che tendenzialmente cerca di nasconderle, portandoci a voler mettere in mostra solamente la nostra parte bella. Il kintsugi invece è l’opposto, quando noi ci rompiamo e reincolliamo diamo valore proprio alle crepe.”

E nel percorso dei Voina ci sono queste crepe?

“Il disco in effetti è proprio dedicato alla band, non perché siamo passati attraverso a chissà quali tempeste, però se pensi ad una band che nasce in provincia, sotto il segno e il sogno dell’indie vecchia scuola, quello del DIY, attraversare dieci di musica nei quali è cambiato tutto, dal covid alle crescite personali di ciascuno di noi, le difficoltà quindi del far convivere le nostri parti giovanili con quelle adulte, e in questo senso è proprio un voler ogni volta ricostruirsi, mettendo di volta in volta in mostra queste ferite.”

Se volessimo trovare un denominatore comune che possa fungere da unione tra le varie tracce del disco?

“Bah, è difficile. È un disco che segna un po’ un ritorno al passato, in quanto siamo tornati a registrare in presa diretta dopo tanto tempo, disco scritto tutto in sala prove, per cui forse per questo si potrebbe usare il termine maturità.”

Visto che hai toccato l’argomento ti volevo chiedere appunto a livello di registrazione e realizzazione, dato che è il primo disco che fate con Andrea Di Giambattista dietro al mixer, un nuovo studio di registrazione, insomma come è andata la realizzazione di Kintsugi anche in relazione a questo cambio di rotta.

“Guarda ci eravamo accorti già ai tempi in cui abbiamo registrato Ipergigante, grossomodo nel 2020, che ci stavamo abituando a lavorare come si lavora oggi nella musica, ovvero in modo abbastanza solitario, cioè uno scrive qualcosa, la manda a qualcun altro, e invece volevamo tornare un po’ alla base del rock, della sala prove, registrare in presa diretta, è stata proprio una scelta direi stilistica.”

I brani del disco sono tutti recenti o avete anche recuperato qualcosa che avevate lasciato per strada?

“In Abruzzo si dice “del porco non si butta via niente”, per cui sì, per alcuni brani abbiamo recuperato qualcosa, per esempio Mal di Gola è un brano che avevo scritto qualche anno fa e che avrei voluto sempre inserire nel disco ma non trovavamo mai il vestito migliore… che poi si è rivelato essere quello più semplice, chitarra e voce.”

C’è qualche brano del disco che è risultato più ostico da realizzare? E ce n’è uno a cui sei legato in particolar modo?

“Un brano su cui abbiamo lavorato tanto perché non riuscivamo a trovare la quadra è Fortini, che è la ballad, diciamo così. È quello che ci ha dato più problemi ma che adesso in realtà ci sta dando più soddisfazioni. Brani preferiti… probabilmente Mal di Gola, un brano che avevo scritto pianoforte e voce, e ci tenevo a fare in modo che rimanesse molto semplice, e per come è finita nel disco rende l’idea dell’intimità che volevo trasmettere.”

Quanto secondo te in Kintsugi riflette il momento attuale che stiamo passando, politicamente, socialmente, economicamente… voglio dire, è un disco che rispecchia il tempo in cui viviamo o se fosse stato scritto dieci anni fa o tra vent’anni sarebbe suonato uguale?

“Dal punto di vista testuale è un disco che ne risente molto, del momento intendo, e credo sia uno chiaro segnale di maturazione, almeno per quanto mi riguarda. Nei dischi precedenti i testi erano più adolescenziali, più introspettivi. In questo invece non direi che c’è una critica sociale chiara ma il disagio è rivolto verso il fuori.”

Ti dico, avevo avuto questa impressione soprattutto in Che Vita di Merda, il cui testo è molto diretto, forte, e molto bello per altro.

“Sì sì, direi che hai colto sicuramente. È qualcosa che infatti percepisco come un’evoluzione della band, una maturazione.”

Sempre riferito ai testi, normalmente li scrivi dopo aver sentito le parti strumentali o qual è il tuo modus operandi?

“I testi li scrivo anche senza la musica, magari ascoltando anche altra musica, e poi solitamente tiro giù qualche melodia, un riff, che è un punto di partenza sul quale si lavora poi.”

C’è stato qualche ascolto, qualche band, che hai ascoltato di recente che in qualche modo credi possa aver influenzato la tua scrittura?

“Se dovessi dire un nome, credo ti direi i Fontaines D.C. e il disco Skinty Fia, un disco molto bello complesso, e lui (Grian Chatten, NdA) è un autore di altissimo livello.”

Un’ultima domanda in merito al tour, che se non ho letto male è in partenza a breve.

“Sì, iniziamo il 1° Marzo da Pescara, in casa, poi una decina di date abbastanza raccolte e quest’estate sicuramente faremo qualche altra data, però ecco, non possiamo più fare sessanta date sennò mia moglie mi caccia di casa!”

E a ragione! Va bene, io ti ringrazio molto per il tempo che ci hai dedicato, e in bocca al lupo per il tour!

“Grazie a voi, a presto.”

Any Other @ Locomotiv Club

Un giovedì sera piovoso e uggioso è proprio la cornice giusta per un concerto intimo come quello di Any Other. Siamo al Locomotiv Club, appena fuori le mura del centro di Bologna, e appena arrivati ci avvertono che Tuttopiange, musicista esordiente che doveva aprire il concerto, è saltata a causa di problemi di salute.
Decisamente non un ottimo inizio, ma fortunatamente la serata è decollata appena Adele Altro, cantautrice e polistrumentista di stanza a Milano, è entrata in scena per presentare il suo terzo lavoro stillness, stop: you have a right to remember

Adele e la sua band salgono sul palco tutti insieme, si dispongono al centro, tutti vicini, con un fascio di luce colorata che li colpisce e ci propongono una versione quasi a cappella (accompagnata solo dai synth) di Second Thought.

Una performance toccante ed intensa, a mio avviso il modo migliore per presentare dal vivo un testo così penetrante e doloroso. Alla fine della canzone, ogni membro della band si dispone nella propria posizione e danno via al concerto.

Sebbene i musicisti che accompagnano Adele siano indubbiamente talentuosi, è impossibile non notare come la sua voce e la sua abilità come chitarrista dominino completamente la scena. La sezione ritmica, pur essendo molto abile, viene quasi sopraffatta dalle linee vocali della cantautrice, che diventano il fulcro principale della performance live.

La scaletta è principalmente improntata sui brani del nuovo album:Zoe’s Seed e Awful Thread vengono riprodotte magistralmente, con la solita atmosfera dolce che però fa trasparire una certa forza e fermezza. Il mio momento preferito del concerto, infatti, è stato quando Adele è rimasta sola sul palco ed ha eseguito una serie di brani solo voce e chitarra, tra cui una cover di Angel Olsen interpretata così bene da far venire i brividi.

Sul finale, invece, come ogni buon concerto che si rispetti, vengono eseguite le canzoni più famose del primo disco: Something e Sonnet #4 che hanno fatto cantare quasi tutti i presenti. 

Dopo quasi sei anni senza vederla dal vivo, Adele si ripresenta sul palco con un’energia e una forza tutta nuova, ma con la solita semplicità e genuinità che la caratterizza. Inoltre, credo che il suo talento e la sua capacità vocale siano ancora più potenti rispetto a qualche anno fa, dimostrando che è un artista sempre a lavoro su se stessa.

Una delle migliori cantautrici italiane in circolazione ma da un forte respiro internazionale e con una capacità di leggersi dentro acuta e penetrante.

Consigliata a chi ha voglia di leggersi dentro e affrontare qualche demone del passato.

Alessandra D’aloise

Tre Domande a: Itto

Come e quando è nato questo progetto?

Ho iniziato a scrivere canzoni una decina di anni fa, inizialmente scrivevo solo in inglese e suonavo un po’ in giro per l’Europa in qualsiasi situazione riuscissi ad organizzare. Dai pub, alle aperture dei concerti di artisti più grossi, alla musica di strada, ai festival sempre da solo con la mia chitarra. Poi nel 2017 ho scritto le mie prime canzoni in italiano e da lì è iniziato questo nuovo capitolo.

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Una delle mie preferite è Maledetta Estate perché riassume in un brano solo i diversi lati della mia personalità, con una prima strofa molto intima e quasi cantautorale, un ritornello con le chitarre distorte ed una seconda strofa di influenza più hip hop. È un pezzo malinconico sull’estate da ascoltare nelle altre tre stagioni.

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Raccontare la mia vita senza filtri, per quanto disordinata o caotica possa essere a volte. Ho scritto diverse canzoni d’amore ma nel disco che arriverà quest’anno toccherò altri temi che mi stanno a cuore perché mi rendono chi sono veramente. Il rapporto con mia madre, trasferirsi a Milano per lavoro, la salute mentale, la distanza, l’incertezza per il futuro. Se presi alla lettera sono testi estremamente personali con riferimenti specifici alla mia vita, ma penso che siamo in tanti ragazzi o giovani adulti ad attraversare esperienze simili e spero che altri ci si possano rivedere.

Any Other, fare pace col tempo che passa

Any Other, all’anagrafe Adele Altro, è una polistrumentista e produttrice di base a Milano. I suoi segni distintivi sono: canzoni introspettive e profonde, un’armonia semplice e leggera e testi unicamente in inglese. A fine gennaio è uscito il suo terzo disco stillness stop: you have a right to remember e noi abbiamo approfittato per farle due domande a riguardo.

Ciao Adele, grazie per la tua disponibilità. Prima di addentrarci maggiormente sul tuo nuovo splendido disco vorrei chiederti una cosa, soprattutto in considerazione del lasso di tempo che è passato tra Two, Geograpy e stillness, sei anni, che normalmente, nell’industria musicale brutalmente detta, sono un’eternità. Qual è il tuo rapporto col tempo, e col trascorrere di esso? Inteso sia con l’accezione naturale come maturare/invecchiare ecc, sia in riferimento alla musica e ai suoi, di tempi.

“Vero, sei anni sono tanti, però solo se li si prende come un di tempo di pausa artistica, però la questione non è così semplice. Da una parte penso che sia giusto che quando si fanno le proprie cose, a livello artistico e non solo, non mettersi pressa. Almeno io mi rendo conto che con me funziona così: non ha senso accelerare soltanto perché il mondo mi chiede di farlo. E qua mi collego la seconda questione: ho la fortuna di fare il lavoro della musicista e quindi è vero che sono passati sei anni, però in questo periodo il progetto Any Other non è mai stato fermo, e nel frattempo ha fatto un sacco di altre cose. Non li ho sentiti questi sei anni ecco. Più in generale che dire? Mi sembra che più si diventa grandi più il tempo passi velocemente. A parte che non so quand’è che si smette di diventare grandi, però diciamo che più passa il tempo più il tempo passa in fretta. Quindi diciamo che adesso mi sto facendo tante domande anche su come potrei gestire il mio tempo.”

Stillness, stop: you have a right to remember è il tuo terzo lavoro, uscito per 42 records il mese scorso, a sei anni dal tuo ultimo disco, Two, Geography. Com’è stato il processo creativo, hai cambiato qualcosa rispetto a prima? E i brani nuovi sono più o meno tutti recenti o c’era materiale già esistente, pronto per essere ultimato?

“Si e no. Per alcuni pezzi, cioè Zoe’s Seed e Need of Affirmation, le prime bozze risalgono addirittura al 2016, quando era da poco uscito il mio primo disco. Invece Awful Thread che è l’ultimo pezzo del nuovo album, l’ho scritto in studio mentre stavo già registrando. Quindi tutto molto spalmato nel tempo. Poi per dire anche i due pezzi che ho abbozzato otto anni fa in realtà poi li ho rimaneggiati nell’ultimo anno prima di registrare. Non mi è successo di avere un pezzo già pronto che era stato scartato e di inserirlo direttamente in un nuovo disco. Diciamo che ho salvato dei pezzettini che mi piacevano e me li sono portata dietro per riscriverli. In realtà questa modalità di scrittura dei testi è stata abbastanza analoga a quella che ho usato per scrivere gli altri due dischi: organizzare il materiale e vedere cosa mi piace, cosa risuona con me in quel momento. Perché magari una cosa scritta otto anni fa non mi sembrava giusta e oggi invece, rimaneggiata, mi suona perfettamente. In generale è stato molto naturale suonare questo disco, anche grazie al coinvolgimento di Marco Giudici, per quanto fin ora la produzione è sempre stata una cosa che facevo da sola e non avevo mai condiviso con qualcun altro. Ma farlo in questo modo e con questa persona lo ha reso estremamente naturale.” 

Te lo avrei chiesto dopo ma, visto che lo hai citato, quanto è importante avere una figura come Marco Giudici che, immagino, funga da aiutante e ti aiuti a cercare un equilibrio nelle scelte musicali? 

“Io e Marco suoniamo insieme da dieci anni ormai, c’è un tale livello di confidenza e di intimità che a me piace dire che abbiamo un neurone solo. Mi rendo conto che affidargli la coproduzione di questo disco è stato molto utile. Infatti avere il supporto di qualcuno che ti conosce molto bene, conosce molto bene la tua musica e il tuo modo di fare musica spesso mi ha permesso di rilassarmi visto che non ero lì a dover prendere le decisioni da sola. È stato molto utile e molto bello avere a fianco a qualcuno così.”

Sono curioso di chiederti in merito alla copertina del disco. In passato “c’hai sempre messo la faccia” mentre questa volta niente colori, niente volti, come dobbiamo interpretare questa “svolta”?

“La copertina è stata realizzata da Jacopo Lietti. Siamo partiti da una mia necessità che era appunto quello di rompere un po’ la catena rispetto alle copertine dei dischi vecchi, dato che avevo sempre messo un elemento fotografico a tutta copertina, senza scritte. Questa volta avevo voglia di fare un po’ una cosa opposta quindi non avere foto nella parte esterna ma solo un immagine stilizzata e magari dei segni grafici. Volevo mantenerla anche molto minimale dal punto di vista della palette. Infatti questo bianco e nero insieme ricorda un po’ una stampa. In realtà una volta che si apre il disco c’è una foto molto colorata un po’ massimalista proprio perché volevo dare questo contrasto.”

La tua discografia al momento è composta da tre capitoli principali, cioè i tuoi tre dischi, che sono frutto della stessa mente eppure tra di loro sono non direi diversi quanto piuttosto dotati di una propria chiara identità. Come li vedi tu, sono delle istantanee del momento, per quanto complesse e variegate, o sono piuttosto tre tappe di uno stesso percorso?

“Senza dubbio un mix delle due cose. Perché, secondo me, è molto importante metterci tanto tempo a scrivere un disco ma poi farlo uscire in poco tempo, proprio perché sono fotografie di un momento specifico della tua vita, di chi sei tu sia a livello umano e, quasi soprattutto, a livello artistico. Però, allo stesso tempo, chi sei tu non è un evento legato dal contesto o da una storia o da un percorso, quindi inevitabilmente sono più cose sono legate insieme semplicemente dal fatto che le hai fatte sempre tu.”

Credi sia giusto affermare che uno dei grandi temi centrali del disco sia quello della crescita personale? E in riferimento a questo quanto sei cambiata tu e in che maniera rispetto dal tuo primo lavoro Silently. Quietly. Going Away? Sia in termini di consapevolezza di te, della tua musica, di quello che cerchi da un disco e di quello che vuoi trasmettere.

“Non saprei perché mi metto proprio in un’altra prospettiva. Diciamo che essere capito o riuscire a comunicare qualcosa è incalcolabile, quindi, per quanta consapevolezza si possa avere è sempre difficile pensare di fare qualcosa perché così poi in quel modo si viene capiti più facilmente. Sicuramente però dopo anni a scrivere canzoni e fare i dischi diciamo che mi conosco io e so quali sono le mie le mie capacità, so cosa ho da mettere sul piatto. Poi non è detto che quella cosa lì riesca sempre ad innescare un click con le persone. Ti direi che sicuramente ho più consapevolezza di me come musicista e come compositore però non è mai una certezza.”

C’è un brano del disco a cui sei legata particolarmente? E ce n’è uno che è risultato particolarmente difficile da scrivere, per ciò che rappresenta per te?

“Se sono legata ad un brano più di un altro ti direi di no, non sento una preferenza di un pezzo di rispetto ad un altro. Invece, sicuramente invece Awful tread è stato il più difficile da fare. Ne abbiamo fatte credo tre versioni prima di arrivare a quella definitiva. Sì, se non sbaglio, quella che poi è uscita sia la terza o quarta versione che abbiamo registrato. Perché musicalmente è un brano molto semplice ma a livello di contenuto è molto pesante, ed è molto complesso riuscire a bilanciare questi due aspetti. Inoltre è un pezzo in cui sentivamo sia degli elementi acustici che gli elementi più di elettronica insomma ci ha dato un bel filo da torcere. Però la versione che siamo riusciti a tirar fuori ci è piaciuta. C’è un lieto fine fortunatamente!”

Quanto sono cambiate le canzoni da prima di entrare in studio a quelle che sono uscite poi sul disco? Non solo a livello di editing ma anche di arrangiamenti e di modifiche fatte in studio.

“Va un po’ da pezzo a pezzo. Ad esempio If I Don’t Care e anche in Zoe’s Seed, che sono brani più legati ad una scrittura “accordi, chitarra e voce”, la parte poi arrangiamento è stata più semplice. Infatti la parte di archi di Zoe è stato molto naturale, tante parti sia di piano che di basso le avevamo già quindi non c’è stata una gran fatica. Allo stesso modo per If I Don’t Care, ha un arrangiamento molto semplice a livello musicale quindi non è cambiato così tanto rispetto al provino che c’è stato prima di registrare. Invece ci sono altre canzoni su cui il lavoro è stato molto più grande ma perché avevano delle necessità un po’ diverse, come Awful Thread oppure Stillness, stop in cui c’è un accordo solo però ha una melodia ricchissima. La difficoltà infatti era come facciamo a dare tridimensionalità una cosa che non ce l’ha? Oppure Second Thought era un pezzo che avevo scritto all’inizio con un arpeggio di chitarra e la voce ma alla fine ho deciso che non avevo voglia di fare l’ennesimo testo con la chitarra quindi abbiamo buttato via tutto facciamo e abbiamo fatto l’arrangiamento delle voci. Quindi direi che sì, dipende molto dal pezzo in questione, alcuni sono proprio cambiati altri invece sono rimasti nella loro versione originale.”

Il tour come sta andando? Ho visto che farai diverse date non solo in Italia ma anche in Europa. Queste date le stai facendo in quintetto. Oltre a Marco che è anche il produttore del disco, gli altri compagni di viaggio come li hai scelti? C’è una differenza a livello di rapporto e ricezione col pubblico tra l’Italia e l’Europa?

“A livello di ricezione ti direi di no ma la differenza più grande che ho sempre notato è che negli altri Paesi europei c’è un po’ la tendenza positiva di partecipazione ai concerti anche di gruppi e/o artisti che non si conoscono. Qui è un po’ più difficile riuscire a mettere su una serata quando l’artista già non è conosciuto. Comunque premetto sempre che le mie considerazioni sono tutte pre pandemiche perché io non vado in tour all’estero dal 2019 quindi non so se negli ultimi cinque anni è cambiato tipo tutto. La mia band che spacca tantissimo con ovviamente Marco Giudici al basso, Giulio Stermieri al piano e ai synth. Giulio, tra l’altro, ha registrato il piano di Indistinct Chatter ed è stato incredibile. Poi c’è Arianna Pasini alla chitarra elettrica e sintetizzatore e Nico Altramondino che invece suona la batteria e le percussioni. Infine, ci piace pensarla come al nostro sesto elemento, è la nostra fonica Annalisa Vetrugno, che spacca veramente un sacco e anche grazie a lei la resa ai concerti è incredibile. Noi siamo tutte persone che spaccano, ognuna di queste personalità ha dei progetti musicali personali e sono tutti artisti oltre che musicisti. E infatti consiglio sempre di andare ad ascoltare e cercare loro cose perché sono tutti molto interessanti.”

Avete lavorato molto molto a livello di preparazione al tour? Cioè gli arrangiamenti sono stati manipolati molto per essere poi riproducibili dal vivo? 

“No, devo dire che è stato tutto molto naturale. Ovviamente abbiamo dovuto spostare alcune parti di certi strumenti. Certo, sarebbe molto bello portare gli archi in tour ma non siamo Bruce Springsteen e non possiamo permettercelo. Scherzi a parte, alcune cose sono state spostate ma più in termini di posizionamento, magari parti di piano acustiche le abbiamo cambiate di ottava perché non suonava bene ma piccole cose.”

Foto di Copertina: Ludovica De Santis

Vultures Listening Experience @ Unipol Arena

Bologna, 24 Febbraio 2024

Quando si tratta di rap, gli americani rimangono le punte di diamante del genere. È sconvolgente pensare a quante persone ha fatto muovere e quanto calore ed energia ha portato all’Unipol Arena, Bologna, la Vultures Listening Experience di Kanye West e Ty Dolla Sign

Appunto, un’esperienza di ascolto, non un vero e proprio concerto, che ha comunque illuminato la notte e regalato ai fan uno degli spettacoli più singolari e vitali di sempre, anche perchè sembra che Ye non ne sbagli mai una (musicalmente parlando, a scanso di scandali morali) e i fan sono carichi di un’energia nuova e irripetibile: sanno che stanno partecipando ad uno degli eventi dell’anno.

Questa sera all’Unipol non c’è il palco, ma gli artisti si esibiscono sul parterre che per l’occasione è addobbato a dovere, con quasi una decina di postazioni di telecamere, macchine del fumo che sbuffano nuvole, un gigantesco cilindro di tela posto a mezz’aria su cui vengono trasmesse dal vivo le riprese della serata. Piccola nota di redazione, già solo entrare nell’Arena fa emozionare, un po’ per la bellezza delle tribune, un po’ per l’amore per il dettaglio scenografico a cui gli spettatori sono sempre stati abituati. È sempre bello.

Lo spettacolo inizia praticamente senza ritardi, e vengono riprodotte subito tutte le canzoni di Vultures, nuovo album degli artisti. Quando entrano in scena, l’Unipol li accoglie con grida e boati fortissimi, a riprova che i due sono fra gli artisti top a livello internazionale. La performance è impeccabile e valorizzata dalla presenza degli ospiti del disco: Rich The Kid, Quavo, Playboi Carti e Freddie Gibs.

È difficile pensare di riuscire a intrattenere così tanto pubblico senza effettivamente riuscire a cantare, ma Ye e Ty Dolla ci sono riusciti benissimo. Sarà stata la consapevolezza di vivere qualcosa di assolutamente prezioso, sarà che gli artisti sono performer di altissimo livello, ma il pubblico non ha smesso nemmeno per un secondo di cantare, ballare, saltare o alzare le mani al cielo. Ogni tanto i rapper rivolgono lo sguardo alle telecamere, ma spesso ballano, trappano, incitano le varie tribune, e il risultato è chiaramente garantito. Non avevo mai visto dei fan così contenti. Chi canta, lo fa a polmoni pienissimi; chi abbraccia, lo fa forte e con le braccia ben aperte; chi saluta gli artisti che si avvicinano alla tribuna, lo fa con una forza e una fierezza tali che quasi scavalca le transenne. Mi ha stupito. 

Mi ha stupito perchè per me era inconcepibile che degli artisti si esibissero senza effettivamente cantare, ma sono bastate due canzoni per immergermi completamente nel mondo di Vultures. Non conta la performance, a volte, ma l’effetto che fa agli spettatori, quello che si fa provare e sentire al pubblico, e i due sono stati capaci di far vivere a tutti, per due ore buone, il sogno della trap e del rap americano, quell’emozione che viene da oltreoceano che soltanto artisti come loro riescono a regalare. Essere lì, per i fan del genere, è stato mettere la propria mano di partecipazione ad un evento musicalmente storico.

Finita la riproduzione del nuovo album, c’è stato uno stacco importante in cui sono state riprodotte le vecchie hit di Ye e, attraverso una telecamera posta sul tetto dell’Unipol Arena, veniva inquadrato il pubblico e le immagini trasmesse sul telone al centro del parterre. I sorrisi delle persone nell’essere riprese sono impagabili. Chiaramente tutti cercavano di fare il proprio, come sempre, non sia mai che venga deluso papà Kanye. C’era chi indossava una maschera da hockey propria dell’evento, qualche coppia che teneramente si abbracciava, chi urlava o mostrava un cartello scritto ad hoc per gli artisti. La sensazione è stata quella di essere in un videoclip, e per un attimo ci si è dissociati dalla realtà, per poi tornare sulla terra quando veniva riprodotta la canzone successiva. Una mossa da brividi, che ha permesso davvero al pubblico di fare concretamente parte dell’evento.

La conclusione è stata la ciliegina sulla torta, con tutti gli ospiti della serata che ballavano e giravano per le tribune per salutare i fan (Ty Dolla ha davvero scavalcato per abbracciare qualcuno del pubblico), qualche bis delle nuove canzoni (tra cui Carnival, che è andata per la maggiore forse anche grazie alla presenza dei cori della Curva Nord) e qualche fan che fa invasione di campo e viene prontamente bloccato dalla sicurezza. Non poteva finire meglio. 

O forse si, visto che fuori dall’Unipol Arena il rapper Rich The Kid si è preso qualche minuto per salire sul tettuccio del loro furgone per salutare definitivamente i fan e dare un po’ di spettacolo. 

Unico, spettacolo unico ed irripetibile. Non capita spesso di ritornare a casa consapevoli di aver registrato nella mente uno dei ricordi più belli.