Spring Attitude Festival
Tre Domande a: Lazzaro
Come e quando è nato questo progetto?
Il progetto è nato nel 2018 dopo l’esperienza del mio EP solista pubblicato sotto le pseudonimo di Leo Lazz: dall’incontro di Antonio Montecucco e Fabrizio Solinas, che in quel periodo collaboravano con me, è nata Solid Records e a loro due è venuta l’idea di cambiare il nome in Lazzaro e fare un album. Da lì la voglia e l’intenzione di lavorare con Taketo Gohara come produttore artistico ha portato ad un’evoluzione impensabile di tutto il percorso.
Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?
Sicuramente Ancora un po’ di te, perché è il primo brano nella tracklist e anche il primo ad essere stato composto per È Ora di Andare, che è il titolo del disco. Il più viscerale, quello che raccoglie tutti i sentimenti che attraversano l’album: una ballad d’amore senza mai dirlo, un urlo soffocato mentre sto cercando di risalire dal fondo, che raccoglie la mancanza, la lontananza, la consapevolezza che si sta perdendo qualcosa ma in maniera matura, cercando sempre di mantenere qualcosa di vivo e la speranza di andare oltre. In ogni caso, di andare.
Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?
Dal punto di vista musicale la forza e la bellezza di ciò che abbiamo messo insieme ai grandi musicisti che hanno preso parte a questo progetto, perché è davvero stato suonato in ogni singola nota.
Dal punto di vista narrativo la verità di ciò che sto raccontando. Dare un messaggio forte, cercare sempre una possibilità, un’opportunità nei momenti difficili, per fare meglio e di più. Far passare l’idea che siamo materia in trasformazione e mai fermi, e questo può solo portare cose nuove.
All’inizio di questo lavoro Taketo Gohara mi disse immediatamente: “Se non sei autentico io non posso fare un disco, la gente percepisce sempre se non sei vero”.
God Is An Astronaut @ The Factory
San Martino Buon Albergo, 20 Settembre 2023
Non so se capiti a tutti prima o poi, anzi probabilmente no, però io per un periodo della mia vita, orientativamente a metà tra i miei venti e trent’anni, sono stato un assiduo ai limiti del maniaco fruitore e fedele adepto del post rock, specialmente quello strumentale e prettamente chitarristico.
Se hai Spiderland come stella polare effettivamente la rivelazione non stupisce troppo, ne convengo, tuttavia dai GY!BE ai Mogwai, dai Tortoise ai Don Caballero, EITS, Mono e via dicendo, i miei ascolti si sono orientati in queste zone.
Tra i nomi che hanno contribuito alla crescita ed evoluzione del genere, quello dei God Is An Astronaut non può essere omesso, eppure nelle mie gerarchie si collocavano ben distanti dalle posizioni di vertice, principalmente perchè, probabilmente sbagliando, li accostavo più al versante ambient del mondo post, per l’uso di synth e altri strumenti elettronici, a discapito del duro e puro chitarra, basso e batteria al quale mi sentivo maggiormente affine.
Tuttavia l’occasione di vederli dal vivo (per la prima volta) non me la volevo certo far sfuggire e quindi eccoci qui: God Is An Astronaut (GIAA da qui in avanti per comodità) in concerto al The Factory, San Martino Buon Albergo, Verona.
Il locale è in piena zona industriale, scarsamente illuminato all’esterno, ma uno sgargiante ingresso arancione ti conduce alla sala, ampia e nerissima, in altre parole splendida.
Alle 21:40 era previsto l’inizio e alle 21:40 i due Kinsella, Torsten e Niels, e Lloyd Hanney, si fanno strada nel denso fumo che avvolge il palco e imbracciata rispettivamente chitarra, basso e batteria (ok non si imbraccia ma insomma avete capito) smontano in poco più di un’ora e venti anni e anni di mie errate e infondate convinzioni.
Lo spettacolo che i GIAA propongono è esattamente ciò di cui avevo bisogno, volevo, speravo: volumi assordanti (quantomeno dalla postazione in cui mi trovavo, ovvero di fronte ad una cassa…), ritmiche incendiarie, suoni ora evocativi, ora minacciosi, raramente dilatati, molto più spesso tumultuosi.
Ecco forse ciò che mi ha sorpreso maggiormente è stata proprio l’attitudine più distorta e violenta che ha tratteggiato il concerto, dove anche le parti che su disco si caratterizzavano per una maggior melodia e lirismo (mi viene in mente la prima parte di All Is Violent, All Is Bright) sono state rese più nervose, più aspre.
Il risultato è stato travolgente, catartico in più momenti, sorprendente per la ricchezza di suoni e varietà che tre sole persone riuscivano a sprigionare, capaci di tenere incollati i numerosi presenti dall’inizio alla fine, anche dal punto visivo (fumo, luci quasi nulle e strobo impazziti alle spalle a disegnare in maniera sincopata le sagome dei tre), che non guasta.
La sensazione al termine è di pieno e totale appagamento, quel benessere che ti coglie quando senti di esserti arricchito, di essere in qualche maniera migliore della tua versione precedente, perchè d’altra parte “siamo la somma delle nostre esperienze”. Cit.

