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Tag: intervista

I Gazebo Penguins e i loro dischi inevitabili quanto necessari

Dopo le quattro date evento per presentare il loro ultimo disco, Quanto, e in vista del prossimo tour in giro per tutta l’Italia, abbiamo intervistato i Gazebo Penguins, che si confermano una delle band più interessanti in Italia. E probabilmente la miglior live band che vi possa capitare di incontrare.
Ci ha risposto Capra.

 

Ciao ragazzi, grazie intanto per la vostra disponibilità e benvenuti su VEZ Magazine. A noi il disco è piaciuto davvero molto, per cui iniziamo col chiedervi quando avete iniziato a comporre le nuove canzoni e quanto tempo è stato necessario per avere le sette che sono poi finite nel disco.

“Allora, avevamo iniziato a buttare giù un po’ di bozze ancora prima del lockdown e successivamente abbiamo continuato a lavorarci anche durante i vari isolamenti forzati, ma onestamente pochissima della roba lavorata in quei periodi è finita nel disco, giusto un paio di giri. Quando si è potuto ricominciare a suonare da seduti abbiamo deciso di rimetterci in gioco, rivisitare le nostre canzoni e provare a dargli un senso un po’ deviato per il periodo deviato in cui ci si trovava a vivere.

Dopo quel tour, denso di sentimenti parecchio antitetici, è partito il lavoro più serrato verso il disco nuovo. Se dovessimo sommare tutti i mesi arriviamo tipo a contare quasi tre anni, ma in realtà i mesi più intensi e produttivi saranno stati otto.”

 

Si è trattato di un disco difficile da fare? E cos’è cambiato in voi rispetto al passato? Intendo soprattutto a livello compositivo, se negli anni è cambiato il modo di realizzare e registrare poi i brani. 

“È stato un disco nato e cresciuto in maniera molto diversa dagli altri.
Nel silenzio. Magari nemmeno tutti assieme. Le bozze dei pezzi crescevano settimana dopo settimana davanti allo schermo di un computer, senza fretta, cambiando e sostituendo parti se non ci convincevano più, riscrivendo fino a dieci finali diversi per la stessa canzone, a volumi bassi, senza amplificatori. E quando una prima scaletta del disco ci sembrava ok, abbiamo portato tutto il sala prove e alzato la manopola del gain.”

 

Sbaglio se dico di sentire una sorta di continuità, un trait d’union, tra Nebbia e Quanto? Sia come tematiche che molto anche a livello di sonorità.

“Probabilmente sì. Alla fine la ricerca del suono per noi è forse la prima cosa che emerge quando ci mettiamo a scrivere un disco nuovo. E la ricerca del suono non parte da zero, fa sempre parte di un percorso che hai intavolato nel momento in cui hai cominciato a prendere la musica sul serio. Procede. E si sposta man mano.
Sulle tematiche non sarei invece così sicuro di darti ragione.
Però, se volessimo trovare un tratto di continuità, potrei dire che Nebbia partiva da una riflessione sulle relazioni collegate a una dimensione – uhm – meteorologica, mentre Quanto prende spunto da tanti concetti cari alla meccanica quantistica e alla fisica del novecento per provare a raccontare storie del mondo, quello in cui viviamo, quello in cui vorremmo vivere, quello che non vivremo mai. In entrambi i casi si parte da una dimensione molto terrena, che da un album all’altro opera come uno scavo in profondità, nei recessi della materia e del tempo.”

 

Com’è nata l’idea di inserire il sax? Credete che in futuro potrà esserci spazio per altre sperimentazioni, anche più presenti e impattanti?

“Magari! Sulla strumentale di Nubifragio ci sembrava perfetto il suono del sax, uno strumento a fiato, un suono fatto di aria, che creasse qualcosa di turbinoso, ipnotico, e le idee portate da Mallo (Manuel Caliumi) in studio sono state esattamente quello che speravamo.”

 

Un po’ in controtendenza con quanto accade ormai sempre più frequentemente nello showbiz, non siete dei grandi utilizzatori delle collaborazioni, salvo rare eccezioni. C’è una motivazione dietro a questa scelta? E qualora ne aveste la possibilità, con quale artista, presente o passato, vi piacerebbe collaborare?

“Abbiamo sempre fatto uscire un disco nuovo solamente per un motivo di necessità. Non abbiamo mai avuto pressioni, né interne né esterne: un disco arrivava quando era il momento, quando per noi diventava inevitabile, necessario. Siamo legati all’idea, forse anacronistica, che la musica nuova che arriva debba rappresentarci nel modo più trasparente possibile, che sia qualcosa di nostro, in una maniera integra, completa. E, senza voler peccare di supponenza, ci piace l’idea di poter suonare tutto quello che ci serve per realizzarlo.
Detto ciò, non abbiamo nulla contro le collaborazioni, specialmente se diventano qualcosa che riesce ad entrare un po’ più nel cuore della composizione, senza essere troppo di superficie.
Abbiamo iniziato a fare qualche chiacchiera con i Post Nebbia, per capire se sia possibile inventarsi qualcosa che vada proprio in questa direzione.”

 

Come sono andate le quattro date di presentazione di Quanto? Avete già capito quali potranno essere i brani che entreranno in pianta stabile nelle scalette? La risposta del pubblico – almeno per quanto visto a Bologna – era stata davvero travolgente, segno che Quanto funziona davvero!)

“Guarda, la presentazione di Quanto nella quattro date di dicembre è stato qualcosa di assurdo. L’idea precisa che avevamo, concordata assieme a Garrincha e ToLoseLaTrak, era quella di portare dal vivo, per la prima volta, il disco nuovo, senza la possibilità di ascoltarlo prima in streaming o altro. Suonarlo dal vivo, e comprarlo esclusivamente dal vivo. (Il fatto che, alla fine dei concerti, un sacco di persone abbia poi deciso di comprarsi il cd o il vinile di Quanto appena ascoltato per la prima volta è stato chiaramente per noi una sensazione incredibile, un senso chiaro di missione compiuta).
Ridare centralità al momento del live, riportare il concerto nel cuore dell’ascolto – che è un po’ la nostra visione della musica. E restituire al concerto dal vivo anche quell’aspetto di scoperta che un po’ si è perso negli ultimi anni: scoprire qualcosa di nuovo, che poi ti possa piacere o ti faccia cagare è uguale: sarà comunque qualcosa che prima non conoscevi. E fare in modo che un disco nuovo diventasse, alla fin fine, un momento per ritrovarsi, un incontro di persone, dal vivo, portate lì per sentire un concerto.
Per quanto riguarda le scalette, al momento, in questa prima parte del tour che è seguita alle date di anteprima, abbiamo deciso di rinnovarci ad ogni weekend, senza portare mai le stesse identiche canzoni da un posto all’altro in cui ci ritroviamo a suonare. Ce ne sarà una più punk, una più classica, una più dilatata, una più revival e via così.” 

 

Dopo oltre quindici anni di onorata carriera continuate ad avere sempre lo stesso contagioso entusiasmo dell’inizio, i vostri live sono sempre una festa clamorosa e la cosa che più mi fa piacere è che accanto a noi, seguaci della prima ora ormai quarantenni, ci son sempre più giovani e giovanissimi che conoscono le canzoni parola per parola, dalle più vecchie alle più recenti. Non deve essere stato per niente facile per voi star lontano dai palchi per così tanto tempo. Cos’è significato ritornare in mezzo alla vostra gente senza impedimenti, come non fosse mai successo niente in questi due anni?

“Un grande, enorme . Quattro concerti che hanno spazzato via quella sensazione di sfaldamento e freddezza che, per un certo periodo, parevano inscalfibili. Ma che non hanno cancellato il senso di impotenza che ha scavato a fondo, su cui ancora ci si trova a inscurirsi e pensare. Cercheremo di suonare il più possibile, perché il tempo perso non esiste più, è irrecuperabile, ma riempire di musica il tempo a venire è ancora possibile. E via andare.”

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Nebbia

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

È sempre una buona domanda questa, a cui non so bene rispondere perché sono consapevole di quanto la musica cambi a seconda di chi l’ascolta. Mi piacerebbe mostrare un mondo interiore che spero sia condiviso da molti, e spero di far entrare chi ascolta in questo mondo, farlo sedere con me in cima a una vetta come in Cime, oppure in un giapponese all you can eat in Texas Ravioli. Insomma credo molto nella musica come dialogo, per questo quello che voglio fare ora è suonare molto dal vivo per trasmettere in maniera diretta alle persone tutto questo.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Dal mio EP Altrove sceglierei forse Vortex per rappresentare un certo mio modo di fare musica: un po’ dark, anni ottanta, new wave, ma anche cantautorale e rappresentativo del mio mondo interiore. Dentro quella canzone c’è molto di me ed è forse quella più vecchia che ho scritto di questo EP. Mi piace pensare di creare un’atmosfera coerente con il mio nome, Nebbia, e con quello che avevo nella testa quando l’ho scritta.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Il fatto che sia un modo di essere, più simile al respirare che ad una attività conscia. Il fatto che non mi faccia mai stancare di farlo, e che debba sempre trovare nuovi modi per saziare questo meraviglioso Leviatano. E il piacere nel vedere quando tutto questo arriva agli altri, quando vedo che ci si riconoscono e che lo amano.

Tre Domande a: Terrøir

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Terrøir ha iniziato a prendere forma durante la prima pandemia. Avevo appena finito di autoprodurmi il disco Bella Vite per il progetto Mosto, quando mi sono reso conto che ormai mi ero irrimediabilmente appassionato ai sintetizzatori, capendo più o meno come funzionavano. Così, ho iniziato ad assecondare una passione per la musica elettronica che era continuata a crescere in me in modo più o meno latente da quando da bambino avevo visto per la prima volta il video di Hey Boy Hey Girl dei Chemical Brothers. Nel frattempo però, avevo iniziato ad approfondire le tradizioni musicali del mio territorio, i Colli Tortonesi, a loro volta iscritti in un territorio più ampio chiamato delle Quattro Province: un territorio collinare e appenninico a cavallo delle province di Alessandria, Pavia, Piacenza  e Genova, dove si erano conservate, grazie ai canterini (gruppi di canto spontaneo) e ai duo piffero-fisarmonica, canzoni e tradizioni popolari nate oltre 100 anni fa. Così ho provato a unire le due cose ed è nato Terrøir.

 

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Dal lato della musica elettronica, sicuramente il duo francese The Blaze: il loro stile fatto di crescendo e di parti di piano e voce mi ha affascinato fin dalla prima volta che l’ho sentito. Inoltre, con i loro videoclip, hanno la capacità di trasformare le loro canzoni in soundtrack per raccontare delle storie che hanno come protagonisti una parte di umanità dimenticata (dagli immigrati magrebini, ai ragazzi africani, fino alle comunità rom) che grazie ai quei video ci sembrano molto più simili a noi, anzi, decisamente fichi.
Guardando invece più all’Italia il progetto Gran Bal Dub composto da Sergio Berardo (Lou Dalfin) e Madaski (Africa Unite) mi aveva fatto capire che poteva esserci un punto di incontro tra musiche popolari, in quel caso quelle occitane, e musica elettronica, in quel caso il dub. Così ho cercato nel mio territorio e ho scoperto il duo Stefano Valla e Daniele Scurati, che aveva riportato le musiche delle Quattro Province nelle piazze e persino tra i ragazzi delle valli: sono stati e sono la mia più grande fonte di ispirazione nella riscoperta delle nostre musiche.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Mi piacerebbe fare arrivare il concetto che se scaviamo nella nostra storia e nelle nostre tradizioni non troveremo delle risposte che ci dividono (come spesso traspare dai discorsi di alcuni politici) ma anzi, scopriremo che la storia si ripete sempre, nel bene e nel male. Scopriremo ad esempio con il testo de Il Sirio che eravamo un popolo di migranti che cercava fortuna nella ‘Merica (Argentina e Brasile) e che per farlo rischiava la vita in mare. O che anche i nostri bisnonni erano capaci di innamorarsi, ballare, divertirsi emozionarsi e piangere per gli stessi motivi per cui lo facciamo oggi. Vorrei far nascere la curiosità nei ragazzi e portarli a parlare con i propri nonni, portarli a scoprire le loro origini senza vergognarsene anche se sono provinciali. O semplicemente, farli ballare sulle stesse canzoni su cui hanno ballato i nostri antenati.

Tre Domande a: Federico Fiamma

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

La cosa che amo di più attualmente del fare musica è il poter andare oltre; il poter navigare in spazi inesplorati alla ricerca di destinazioni mai scoperte. Nel corso della scrittura di Fuori Stagione, avevo la sensazione di aver bisogno di un percorso da seguire, come se fossi alla ricerca di una ricetta che definisse la mia estetica musicale; andando avanti nella stesura mi sono reso conto di poter colorare il tutto per come veramente lo sentivo, ho cominciato a valutare anche la semplicità come mezzo comunicativo senza sentirmi inferiore perché meno virtuoso.
Scrivere mi lascia la libertà di potermi vivere per quello che sono senza giudicarmi, di potermi ascoltare e sentirmi crescere assieme alla mia musica e di gettare uno sguardo al mio passato senza appesantirlo.  

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui avrei preferito non sentirmi solo e nella società odierna è facile sentirsi soli anche in mezzo a molti.
Mi piacerebbe che dalla mia musica si derivasse qualcosa di personale, non qualcosa di mio come autore che l’ha composta. Una volta finita la lavorazione di un disco questo smette di esser tuo, anche perché si tende a vederne solaente i difetti o si prova nausea nell’ascoltare i brani per l’ennesima volta.
Mi piacerebbe che si instauri un rapporto sano tra chi ascolta e la musica e, se proprio dovessi inserire un messaggio in questa bottiglia nel mare, ci sarebbe scritta una sola parola: verità. 

 

Progetti futuri?

Ho un album nuovo da registrare e produrre nel corso dell’anno, sarà uno spin-off di Fuori Stagione con dei brani che approfondiranno una tematica nello specifico. Spero di riuscire a metter su un calendario di date, anche se questo periodo storico non rende la cosa molto fattibile.

Tre Domande a: Daemia

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Daemia è nato nel gennaio 2022. Tutto è iniziato con il provino di No eh? Va be’, il mio primo singolo uscito lo scorso maggio e registrato a Parigi in un piccolissimo appartamento nel XV arrondissement. Ricordo che ero alla ricerca di un producer e di un sound, avevo parecchio materiale con un’idea in testa e decisi di mandarlo a Stefano “Juno” Bruno. In pochi giorni riuscì a dare una veste al brano. Il risultato mi è piaciuto da subito. All’inizio non avevamo in mente un album, ma il materiale c’era e tutto seguiva una certa linea, aveva una certa coerenza. Così è nato Bluedo, il mio primo album. Nove brani scritti tra il gennaio 2021 e il settembre 2022, tra Benevento, Napoli, Amsterdam e Parigi.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Autenticità, originalità, emozione. Scrivo di cose che mi appartengono, quello che sento. È bello quando chi ascolta entra in sintonia e sente le stesse cose, magari prova le stesse emozioni. La scrittura è anche una forma di elevazione, permette di buttare fuori delle cose. Per me è una necessità. Mi interessa che arrivi questo: condividere il mio punto di vista. 

 

Progetti futuri?

Intendo portare Bluedo alle persone, suonare live le mie canzoni. Credo sia la dimensione più adatta al progetto. Stiamo progettando una live experience dell’album e non vedo l’ora di salire sul palco.  Spero di suonare in giro e far conoscere il progetto. In italia mi piacerebbe tanto suonare al MI AMI Festival, sarebbe una cosa bellissima. La cornice giusta per la mia musica. Ovviamente nel prossimo anno usciranno altre canzoni, c’è parecchio materiale e sto continuando a scrivere in questo periodo. 

Tre Domande a: Caterina

Come e quando è nato questo progetto?

Questo progetto nasce forse nel febbraio 2017 quando ho bussato per la prima volta alle porte della mia etichetta Fiabamusic. Ero appena uscita da un talent, avevo sempre cantato le canzoni di altri e non sapevo dove sbattere la testa. Sicuramente non pensavo che avrei mai scritto una canzone. Invece mi è stata data fiducia, quell’estate l’ho passata a scrivere e a buttare via canzoni, a cercare di capire come spiegarmi e raccontare al meglio quello che mi succedeva intorno. Nell’estate 2018 iniziano a smuoversi le acque e pubblico il mio primo singolo continuando a scrivere nel frattempo. Il 2019 inizia a dare i suoi frutti che vedrò raccolti nella primavera del 2020 con il mio primo album Caterina, che all’epoca ha tenuto un po’ di compagnia a chi era costretto a casa. Se penso a come è cominciato mi stupisco di quante cose pazzesche siano accadute in questi cinque anni… oggi mi stropiccio gli occhi perché faccio fatica a credere sia uscito il mio secondo disco In queste stanze piene.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Mi piacerebbe far sentire le persone meno sole. Scrivo di cose che sento fortemente, cose che vivo sulla mia pelle o su quella di chi mi sta vicino e spero che in queste sensazioni, emozioni, sentimenti qualcuno ci si ritrovi e possa sentirsi parte di qualcosa.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? 

Credo che i social siano un importante mezzo di comunicazione. Ammetto che se non facessi questo lavoro probabilmente non li avrei, ma negli anni ho imparato a vederli come un potente mezzo di scambio, che accorcia le distanze e mi permette di essere vicina a chi mi segue. È capitato spesso che la mia musica venisse conosciuta tramite i social ma la cosa più bella è che poi quelle facce di persone che magari mi hanno scritto un messaggio per ringraziarmi di una canzone, o anche solo per chiedermi come sto, ecco alcuni di questi volti li ho trovati poi nei miei live, e allora lì penso che è una fortuna avere questa possibilità di scambio.

Tre Domande a: Mash

Se dovessi riassumere la tua musica con tre parole, quali sceglieresti e perché?

Energica, malinconica, viola. Il primo aggettivo perché nei brani mi piace urlare le mie insicurezze e lo faccio con il supporto di una strumentale che soprattutto nei ritornelli si fa aggressivo e potente. Malinconica perché per me la malinconia è una “tristezza sfocata” e lo trovo un sentimento molto affascinante: difficile da definire, lo vedo come un senso di vaghezza, un equilibrio instabile che permea le mie canzoni. Infine, beh… la mia musica è viola: un pigmento dalla storia unica, un colore che nel tempo è stato associato alle cose più distanti tra di loro, dagli imperatori al soffitto del bordello cantato da Gino Paoli ne Il cielo in una stanza. Tra vizi e virtù, ha un alone di mistero e di sensualità che abbraccio completamente.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Voglio aiutare le persone simili a me a realizzare che il dolore è un punto di partenza, l’alba di un nuovo inizio, e che coi cattivi pensieri bisogna farci l’amore. Da adolescente mi sono trovato più volte a cercare nella musica una speranza, e fortunatamente l’ho trovata tra le note dei miei artisti preferiti. Oggi vorrei restituire ad altri cuori fragili come me ciò che la musica mi ha donato e mi regala giorno dopo giorno: ognuno di noi ha un fuoco dentro che non dobbiamo lasciar spegnere per nessuna ragione al mondo.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?

I social sono parte essenziale del mio progetto artistico, in quanto mi permettono di raggiungere tante persone che altrimenti difficilmente verrebbero a contatto con la mia musica. Inoltre mi consentono di comunicare chi sono in modo creativo, realizzando contenuti che intrattengono e consolidano il legame con chi mi sostiene. Instagram è la piattaforma che apprezzo maggiormente perché mi dà l’opportunità di interagire a un livello più intimo e personale con chi mi segue rispetto ad altri social, e di scoprire le storie delle persone.

Tre Domande a: Pier

Come e quando è nato questo progetto?

È nato quando io sono morto, nell’estate del 2021. Nell’ambito musicale ho sempre lavorato soltanto a canzoni d’altri, perché avevo la convinzione di essere inferiore a tutti. Dicevo di non essere destinato a brillare di luce mia, ma che potevo soltanto assorbire il riflesso di chi aveva il “volto giusto” per mettersi in mostra. Mi consideravo brutto, incapace e mille altre cose. Avevo una considerazione di me stesso talmente infima da credere di non meritare assolutamente nulla di buono, neppure il fatto di stare al mondo. Complice una psicoterapia disastrosa, che negli anni mi ha abituato a comportarmi da vittima e reso un intelligentissimo misantropo, pieno di argomenti per giudicare la società intorno a me come un inferno senza via d’uscita. Ne pago ancora oggi le conseguenze. Nel 2021, dopo il fallimento totale di quel percorso, in cui avevo riposto tutta la mia fiducia, sono rimasto da solo in uno stato di ansia e depressione costanti, e dopo qualche settimana passata con la paura di uscire dalla mia camera, ho mollato tutte le mie aspettative di guarire e ritrovare la felicità. Mi ero totalmente rassegnato: non mi interessava più stare bene, stare male, farcela, non farcela, esistere, non esistere, mi ero totalmente annichilito e avevo mollato tutto. E lì sono entrato in paradosso inaspettato: dentro di me ero morto, ma la vita fuori continuava. Non avevo più nulla da perdere, e in questa disillusione totale mi sentivo allegro, spensierato come quando ero bambino, non davo alcun peso alle cose perché fondamentalmente non mi importava più nulla del mio destino. Così, me ne sono sbattuto di tutto e ho iniziato a far uscire le mie canzoni. So che è una storia assurda, ma si tratta davvero di un riassunto minuscolo rispetto a quello che ho passato, forse un giorno ci scriverò un libro. Per ora, ci ho scritto tante canzoni.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Non ho particolari aspettative: cerco solo di fare quello che mi diverte di più ogni volta come se fosse l’ultima. E mentre lo faccio spero di coinvolgere le persone perché è bello quando durante i concerti le emozioni di tutti sono all’unisono. Vorrei condividere questa esperienza con migliaia di esseri umani, gioire insieme, ridere e piangere insieme, ballare e cantare.

 

Progetti futuri? 

Cercare di essere utile a più persone possibili con quello che faccio, essere felice per ispirare gli altri a fare lo stesso. Trasmettere alle persone che le storie che raccontiamo di noi stessi non sono mai la verità, ma soltanto strumenti a nostra disposizione che ci permettono di sperimentare stati d’animo differenti. Che possiamo cambiarle se non ci piacciono più.

Tre Domande a: Nostromo

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei Cassetti. È un pezzo che mi rende orgoglioso, la dice lunga sul mio conto e descrive alla perfezione ciò che musicalmente mi fa stare bene. È stata scritta in un raro momento di estrema lucidità e segna una fase della mia crescita, che coincide con la volontà di fare musica più per me che per gli altri. Purtroppo oggi, per forza di cose che non sto qui ad elencare, siamo tutti un po’ vittime del giudizio altrui e questo inevitabilmente condiziona ogni scelta. Ecco, Cassetti è importante perché da lì ho iniziato a vestirmi come meglio mi stava, a scrivere come più mi piaceva e ad arrangiare come meglio mi faceva stare.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

E questa domanda ci stava a pennello. Alla fine le mie canzoni parlano di cose normali, di dubbi personali, di forti emozioni, di consapevolezze che mi fanno cambiare un po’ ogni giorno e che spesso si rivelano essere solo delle piccole delusioni. Io osservo, leggo, ascolto e come una spugna assorbo. Ogni cosa che mi circonda è tanto magica da regalarmi un nuovo punto di vista. Ciò che spero arrivi a chi mi ascolta, attraverso la semplicità delle mie parole, è che alla fine sono uno come tanti, che cerca di dare un volto a ciò che sente.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Fare musica è qualcosa di speciale: siamo giovani in cerca di identità, oggi più di ieri, perché ci insegnano che possiamo essere ciò che vogliamo ma non ci danno i mezzi per scoprirci, per conoscerci abbastanza. Fare musica per me è esserci, esistere, fissare un puntino in questa breve parentesi. Essere musicista mi ha dato uno scopo e penso basti questo per continuare a respirare. 

Tre Domande a: lyl

Come e quando è nato questo progetto?

È nato nel 2021. Io ho sempre suonato e cantato nella mia camera ma mai con l’idea di avere un progetto vero e proprio. Scrivevo e registravo delle idee, e per lo più erano brani strumentali, al massimo ci segnavo sopra qualche parola in inglese…
Poi nel 2021 ho partecipato, per caso, ad una live session e mi sono divertita talmente tanto che ho iniziato a pensare che mi sarebbe piaciuto, se non altro, suonare in un gruppo. Da lì è iniziato tutto: mi sono un po’ forzata per superare la mia vergogna gigantesca e ho deciso di iscrivermi al BMA (Bologna Musica D’Autore), ho vinto l’edizione e ho iniziato a registrare in Fonoprint il mio primo album, TANA, che è uscito il 2 dicembre!
Ci tengo tanto a ringraziare, ogni volta che ne ho l’occasione, le persone che mi sono vicine, che credono in me più di quanto non lo faccia io. Questa è forse la “vera” risposta al come è nato questo progetto: il progetto è nato per la fiducia infusami da altre persone.

 

Progetti futuri?

Suonare di più!!
Adesso è appena uscito l’album e spero presto di poterlo portare un po’ in giro e farlo sentire suonato live. Credo di dover ancora mettere a fuoco “un mio suono” e, iniziando a frequentare in maniera più assidua l’ambiente Musica, ho capito che voglio assolutamente migliorarmi.
Nel frattempo vorrei laurearmi, continuare a suonare la batteria e poi chissà, voglio seguire un po’ il flusso delle cose.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

Sono ben consapevole del fatto che i social siano uno degli strumenti più efficaci che si hanno per auto-promuoversi, ragion per cui devo iniziare ad utilizzarli in maniera più attiva d’ora in poi; anche se mi riesce molto difficile: non appena posto più storie consecutive su Instagram, mi sento subito di spammare.
Siccome ho sempre utilizzato i social in maniera più passiva, il dover essere presenti in prima persona, mi genera non poca ansia, ma credo di doverci inevitabilmente fare il callo.

Tre Domande a: Leon Seti

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché? 

Probabilmente Lullaby, dell’album Grimoire. La considero la canzone più bella che io abbia mai scritto, sia melodicamente che liricamente. Parla di un litigio con mia sorella e del nostro rapporto in generale, dove io non mi sono mai sentito molto, visto o ascoltato. In Lullaby si può cogliere la dicotomia che mi contraddistingue: un suono limpido e melodico e il testo crudo e personale. Dal punto di vista della produzione, rispecchia esattamente l’atmosfera di tutto il nuovo album. Il climax finale dove rinfaccio una serie di comportamenti e concludo con un consapevole “You’ll never say sorry / and that’s fine / I guess” rispecchia esattamente me come persona.

 

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché? 

Sperimentale: c’è sempre una ricerca di qualcosa di nuovo, soprattutto a livello di suono, nella mia musica, ed è una parola che mi viene attribuita spesso.
Eterea: la mia musica è molto sognante e d’atmosfera, tendo spesso a usare molti strati di voce proprio per dare quell’effetto.
Personale: tutte le mie canzoni vengono dalle mie esperienze passata e sono tutte autobiografiche. Per me scrivere è una forma di terapia, e molte volte quando le emozioni sono troppe, le canzoni escono da sole dalla mia penna.

 

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Madonna è una grande forma di ispirazione in quanto autrice, genio del marketing e campione di longevità nel mondo del pop. Per me ha scritto alcuni degli album più belli degli ultimi quarant’anni, ha raggiunto vette artistiche inesplorate e ha aperto la strada a innumerevoli artisti. Ray of Light, Music, Erotica, Like a Prayer e Confessions On a Dance Floor sono album perfetti che riascolto periodicamente, sia per divertirmi che per trovare ispirazione. Poi trovatemi qualcuno al giorno d’oggi nel mondo della musica che ha il coraggio di rifare un libro all’avanguardia e spettacolare come Sex.

Tre Domande a: Bengala Fire

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Ciaooooooo! Sono tempi bui, sì, ma anche tempi di giganti possibilità. Siamo tutti nostalgici del cd, così come del vinile i nostri predecessori, alcuni di noi rimpiangono persino i torrent… MA, ed è un grosso ma, Spotify e company sono ineluttabili realtà. Non solo, sono comodissime, accessibili a tutti, e offrono delle opportunità inedite, prendete per esempio i canvas (i mini video che in loop accompagnano i brani), o l’home page dell’artista, in cui trovate biografia, foto, prossimi concerti ecc. Pensiamo che il futuro della discografia parta da qui, da una sorta di “ipertestualità” della musica, dal creare un mondo – facilmente accessibile – attorno alle canzoni. Poi siamo tutti d’accordo che, assieme alla comodità, venga anche la superficialità, ma non possiamo biasimarla più di tanto, siamo convinti che se un disco o un pezzo ti piace, lo ascolterai con pazienza e attenzione, che sia in vinile o nel metaverso.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Ne parlavamo tra noi giusto qualche giorno fa. La domanda aveva assunto un po’ la forma del “Chi vorremmo essere per il pubblico, e per quale pubblico?”. E le risposte andavano per esempi, tipo “La nuova bandiera del rock alternativo italiano”, piuttosto che “i nuovi Verdena/Arctic Monkeys/Beatles” e chi più ne ha più ne metta. Ma, in tutta onestà, sono sciocchezze. Un artista /compositore/performer deve (nell’accezione di “must” e non di “have to”) contentare prima di tutto se stesso. Una canzone, un disco, uno show, una creatività x devono far godere chi le ha create, vuoi per gusto, per emozione o anche solo per soddisfazione. Lo si fa per sé, attraverso ciò che presuntuosamente chiamiamo arte, che si declina nella forma che a ognuno più si addice (suono, parole, immagini, esperienze..). Dopodiché, naturalmente, viene la cura per i destinatari, e ci si fanno mille domande, tutte importanti, perché non saremmo niente senza gli altri, come il famoso albero che cade in una foresta disabitata, senza nessuno che lo possa sentire e decretare caduto.

 

Quanto puntate sui social per far conoscere il vostro lavoro?

Lo ammettiamo, siamo delle mezze pippe nei social…
Il discorso pressappoco potrebbe essere lo stesso della domanda precedente: cioè che il nostro modo di usare i social dovrebbe contentare prima di tutto noi stessi. Però non è altrettanto facile che nella musica, almeno per noi. Ci sono dei periodi in cui ci impegniamo molto, su Instagram soprattutto, ed è molto soddisfacente, ma toglie anche un sacco di tempo ed energie. I social offrono enormi possibilità, un po’ come Spotify ecc (vedi domanda 1), ma sinceramente dobbiamo ancora capire come usarle bene. Ogni consiglio è ben accetto, se volete mandarcene qualcuno!