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Tre Domande a: Novadeaf

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il tuo modo di fare musica o a cui ti ispiri?

Mi sono formato con la musica rock e pop inglese e americana degli anni ’70, ’80 e ’90 e ogni band o songwriter che ho amato ha ovviamente lasciato una traccia dentro di me. R.E.M., Nick Drake, Smashing Pumpkins, Joni Mitchell, Depeche Mode sono i primi nomi che mi vengono in mente. Di David Bowie ammiro il mestiere, la lucidità e l’intelligenza con cui ha saputo reinventarsi anno dopo anno, stagione dopo stagione, costruendosi al contempo un percorso artistico coerente e organico. Se poi parliamo di veri e propri modelli artistici trovo che i Radiohead siano stati i Beatles della mia generazione, imprescindibili per chi fa il mio genere di musica. In Rainbows per me è l’album perfetto.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Un bel dilemma! Probabilmente opterei per Four, il primo singolo estratto dal mio ultimo album. Direi che è un ottimo compendio della mia attuale idea di musica, ci sono dentro quasi tutti i miei ingredienti preferiti: una melodia ampia e catchy per parlare a quante più orecchie possibile, un tappeto di archi che dona raffinatezza e profondità emotiva, un ritmo moderatamente dance per stimolare anche il corpo insieme allo spirito. Ci sono synth suonati da un computer e c’è un assolo di chitarra suonato da dita umane. Mi piace giocare con i contrasti, dire una cosa e al contempo dire il suo contrario, mescolare elementi diversi e creare dei piccoli mondi. 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Creare oggetti sonori che sappiano emozionare e coinvolgere, con la speranza che chi ascolta possa riconoscere dentro di essi un pezzo del proprio vissuto, della propria idea del mondo o della propria sensibilità. In una parola, creare bellezza.  

Tre Domande a: Anna Soares

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché?

Viscerale: per me è essenziale che quel che produco a livello sonoro entri completamente dentro chi ascolta, che lo percepisca a livello fisico, oltre che emotivo. Campionare il suono della cintura che mi percuote, un mio orgasmo o il suono del vento tra gli alberi mi consente di passare delle informazioni puramente fisiche che il solo blend tra ritmica, armonia e melodia a volte non riesce ad esprimere.
Intellettuale: sono consapevole che i miei lavori non siano per tutti e non lo ritengo un problema. Ci sono persone che amano fruire della musica come se fosse cibo, ingurgitando bocconi più o meno grandi, più o meno buoni, sta al mero giudizio personale trarne conclusioni e giudizi. Io amo mantenere l’attenzione alta nel cogliere citazioni filosofiche, antropologiche, legate alla più alta forma della sessualità: la sua culturalizzazione.
Eccitante: sembra quasi scontato, ma dal momento che la mia musica parla di sesso e, nello specifico, di un approccio sacrale alla sfera sessuale, è naturale che chi ascolta e ci si immerge senta quel brivido lungo la schiena, quasi assimilabile alla sensazione del flirt, della seduzione, del gioco di sguardi. Una cosa molto buffa e molto carina che mi è stata detta da più persone è stato il loro sentirsi “esposti” mentre ascoltavano i miei brani in cuffia in pubblico. Quasi come se il loro linguaggio del corpo tradisse un’eccitazione irrefrenabile. È stato molto bello prenderne consapevolezza. 

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Oh, molte, moltissime cose. Vorrei che le persone potessero percepire e sentire se stesse all’interno di un quadro più ampio, abbracciando chi sentono di essere al di là di quel che è stato detto loro dovessero essere. A partire dal loro aspetto, fino ad arrivare ai loro desideri più profondi e radicati, passando per la consapevolezza del non aver controllo su molti aspetti della realtà e dell’esistenza. Vorrei che si sdoganasse a livello socioculturale un certo approccio ipermorlista rispetto ai temi tabù della nostra epoca, instaurando un dialogo più ampio, e che includa le nuove generazioni e le loro tematiche. Vorrei che le persone fossero in generale più serene rispetto alle aspettative della società, che si concedessero di lasciar andare e di lasciarsi andare, assecondando luoghi interiori che hanno un loro peso specifico. Poi, si, sarebbe anche meraviglioso che in Italia si variasse un po’ con l’estetica musicale di quel che viene proposto da oltre 30 anni, sempre uguale a se stesso tranne per rarissime eccezioni. 

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?

Penso che i social attualmente siano la vetrina più sensata e più a portata di mano per chiunque voglia proporre un proprio lavoro artistico. Li utilizzo, sono parte di quel frullatore gigante come tutti, anche se vivo il rapporto con i social in modo duale e idiosincratico. Trattando tematiche legate alle sessualità alternative spesso incorro in problemi legati a segnalazioni di persone che apparentemente non apprezzano la mia faccia di bronzo nel dire delle cose in modo chiaro e schierato. O forse non apprezzano la mia autodeterminazione nel rappresentarmi libera e fiera, chissà. Vedo la faccenda in un quadro più sfaccettato, quindi non direi che “punto” sui social per far conoscere il mio lavoro, piuttosto, sento l’esigenza di occupare uno dei pochi spazi che mi sono concessi per creare consapevolezza. Poi, se le persone decideranno di ascoltare quel che faccio, mi prenderò anche uno spazio sonoro. La musica è un veicolo attraverso il quale creare magia, non il fine ultimo. Cheers! 

Tre Domande a: I Sospesi

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Passare il messaggio dell’album Tentativi ed Errori che racconta chi vive la sua vita come un fallimento continuo. Di chi è esausto dei paragoni con gli altri, delle pressioni esterne ed interne. Della cultura performativa a cui siamo sottoposti quotidianamente. Esiste un’alternativa alla Hustle Culture ed è fare la scelta emotiva: non basare la propria esistenza ed essenza sulle performance perchè una lista di obiettivi raggiunti dice di noi cosa abbiamo fatto ma niente di chi siamo davvero.

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Sarebbe Attitudine, la traccia conclusiva del disco. Esprime a pieno il senso di disagio e di fallimento che proviamo noi e la nostra generazione.
Il brano è stato scritto raccontando le sensazioni ed emozioni di una persona che si trova davanti al fatto compiuto di sentirsi in ritardo con la propria vita. Capisce di aver allungato determinate tappe che per la società hanno una scadenza ben precisa come il terminare gli studi, il trovare un lavoro, il fare una famiglia… Questa presa di coscienza viene colta come un ostacolo invalicabile: non esiste una soluzione e non esiste una via d’uscita, non puoi riavere indietro il tempo “sprecato”.
Questo brano non ha un lieto fine perchè queste emozioni non seguono lo storyboard classico del “riscatto”. L’unica salvezza è il prenderne atto e capire che non si è sbagliati se si ha vissuto una storia anche solo in qualche dettaglio simile. La richiesta della società è troppo elevata per poter essere esaudita da ogni individuo e per questo si abbandonano aspetti della vita fondamentali come vivere emotivamente o inseguire i sogni e le passioni a discapito delle performance.

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

Fare musica ti permette di entrare in contatto con persone che vivono esperienze simili alle tue e attraverso le parole che scrivi, in una canzone, è come se ti aprissi nei loro confronti e di conseguenza loro nei tuoi. Trovare, appena scesi dal palco, persone che corrono ad abbracciarti e ringraziarti perchè quella canzone parla proprio di loro non è solo empatia ma sembra proprio di conoscersi da molto.

Tre Domande a: M.E.R.L.O.T.

Come e quando è nato questo progetto?

Questo progetto, Gocce, è nato appena sono arrivato a Bologna. Ho provato a scrivere anche prima ma solo qui sono riuscito effettivamente a pubblicare. Non so perché, sarà che Bologna è una città molto artistica e quindi mi sono sentito in dovere di contribuire. O forse non mi sentivo totalmente al sicuro a farlo giù da me, ovvero in Basilicata, dato che conosco tutti e scrivere canzoni è un po’ come spogliarsi.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Quando pubblico la mia musica spero solo che le persone ascoltino le mie canzoni nello stesso modo in cui io le scrivo, ovvero con attenzione. Credo che sia molto importante come approccio perché una canzone può cambiarti la vita e questo vale sia per chi la scrive che per chi la ascolta. Spero che Gocce possa avere questo effetto su qualcuno.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? Ce n’è uno che usi più di altri?

Punto molto sui social per far conoscere la mia musica, quasi tutto. Anche perché sono artisticamente figlio della pandemia. In quel periodo in cui eravamo chiusi tutti in casa e fisicamente distanti, purtroppo, era praticamente l’unico modo per comunicare con il pubblico. A breve fortunatamente porterò la mia musica sul palco, non vedo l’ora di proporre il disco Gocce nella dimensione live a Milano il 9 ottobre all’Arci Bellezza e a Roma il 12 ottobre al Monk. Sarà una sensazione pazzesca, ne sono certo.

Tre Domande a: Gospel

Ci sono degli artisti in particolare che influenzano il vostro modo di fare musica o a cui vi ispirate?

A dire il vero ce ne sono molti che ci influenzano, fa tanto quello che stiamo ascoltando mentre scriviamo i pezzi per un album. Durante le produzioni del secondo disco abbiamo ascoltato (come sempre) molta musica anglofona. Mentre per il primo disco le influenze provenivano per lo più dal blues e dal vintage rock, per questo lavoro i nostri ascolti sono virati più alla scena contemporanea, tornando indietro al massimo di 30 anni. Dagli Alice In Chains ai Chastity, dai Kyuss ai Them Crooked Vultures. Un bel frullato di musica pietrosa.
Non ce lo siamo imposti, ascoltavamo e basta.
Per quanto riguarda gli italiani, oltre ai gruppi progressive che amiamo molto, i più validi sono sempre stati Verdena e Teatro degli Orrori. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei la canzone che darà il titolo all’album che sta per uscire il cui titolo non è ancora stato reso noto. Forse è quella che si lega di più al disco precedente come sonorità ma sicuramente racchiude bene la nostra anima più soul senza tralasciare quella rock venuta fuori più evidente in questo secondo album.
Verso la fine c’è una frase iconica, che racchiude un concetto sottointeso in tutta la nostra produzione: “Dichiaro guerra al genere umano” ma qui non stiamo palando della guerra adolescenziale fatta di rabbia verso tutto e tutti, siamo troppo vecchi per questo, la guerra è più profonda e il genere umano comprende anche e soprattutto noi stessi e la nostra natura, non siamo altro che belve, dopotutto.

 

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

In assoluto suonare dal vivo. Certo, produrre registrare e lavorare ai dischi è bello, ma vivi costantemente nell’attesa di poter far ascoltare la tua musica. Fare i live ha un riscontro immediato, nel bene e nel male. Se fai schifo lo leggi in faccia alle persone, se sei coinvolgente, il pubblico ti trascina a sua volta. Per noi è come raggiungere il livello più alto di soddisfazione nella musica. In più, siamo tutti cresciuti suonando in tante band e facendo molti concerti in giro, dai palchi più rispettosi alle peggiori bettole di provincia.
Tutto questo ci ha proiettato in una dimensione dove il live pesa tanto quanto la musica registrata (talvolta di più). Oggi sembra che la tendenza sia al contrario: tanto tempo passato dietro alla produzione e pochissimi live. Ma questo è un altro discorso.

Tre Domande a: Rumba de Bodas

Come e quando è nato questo progetto?

I Rumba De Bodas nascono nel 2008 tra i banchi di scuola di Bologna, quando otto amici strimpellatori decidono di mettere su una band con la voglia di fare musica e far ballare gli amici. Non a caso il primissimo concerto della band è stato il 4 aprile del 2008 in occasione della Festa delle Scuole organizzata al TPO di Bologna e per la prima volta il nome Rumba De Bodas è comparso sui manifesti! E in quel momento il destino era ormai scritto: quando per la prima volta vedi il pubblico ballare e scatenarsi sotto al palco non puoi più farne a meno, e infatti non siamo mai riusciti a smettere. E così da 14 anni a questa parte la nostra missione ad ogni concerto è sempre la stessa: far ballare e divertire la gente con la nostra musica, essere spensierati e sempre verdi!

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

A dire il vero non ci siamo mai sentiti paladini di una causa nello specifico, abbiamo sempre lasciato parlare di più la musica che noi stessi. Sicuramente ciò che ci ha sempre ispirato è stato il senso di libertà che la musica può trasmettere, sia attraverso le parole che semplicemente attraverso il suo manifestarsi, che sia in un concerto, in sala prove, in studio o nel semplice ascolto. Per noi avere la possibilità di fare musica e di condividerla con gli altri significa portare più libertà nel mondo e permettere alle persone di farne esperienza. È questo che vogliamo trasmettere, alla fine. 

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Mmh, la scelta è davvero ardua! Siamo indecisi tra due: da un lato, Into The Wild, dall’album Karnaval Fou, che è il pezzo che ci ha portato più soddisfazioni a livello di live. È ormai tradizione che il pubblico canti con noi il ritornello, che è facile da capire anche se non si ha mai sentito il brano, e ci carichiamo un botto quando siamo sul palco e sentiamo il pubblico cantare a squarcia gola!
Dall’altro il nostro brano più rappresentativo è l’omonimo pezzo Rumba De Bodas, il primo brano del primo album, Just Married. Il testo è un vero e proprio manifesto su che cosa significa essere un Rumba, un inno a cui ancora tutt’oggi siamo fedeli!

Tre Domande a: Denise Battaglia

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Denise Battaglia nasce nel 2018 quando durante un viaggio all’estero mi accosto per la prima volta a testi scritti in Italiano. In musica ho sempre pensato fosse l’inglese la lingua prediletta. Lo consideravo più musicale, più vicino a me, ma nel 2018 cambio drasticamente idea. Tutto ciò che scrivo nasce dall’esigenza di parlare a me stessa attraverso immagini e miti. Myriam, il mio primo singolo uscito nel 2020, ne è un chiaro esempio.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglierei Padre e Madre poiché è un brano che racconta di libertà. Sono partita da me e dalla mia esperienza, da lunghe riflessioni e poi è nato questo pezzo. È essenziale ricordarci di essere diversi da ciò che abbiamo intorno e soprattutto, ricordarci che possiamo essere liberi e diversi anche dai nostri stessi genitori. Scrivo per me perché è una guida nelle scelte più difficili. Scrivo per ricordarmi che sono libera, anche di sbagliare, se necessario. Sono grata per questo, consapevole del fatto che alla fine ci misuriamo, sempre con noi stessi. Questo brano è un inno al proprio sentire più intimo. 

 

Progetti futuri?

Per quanto riguarda i progetti futuri, il prossimo 4 Ottobre uscirà il videoclip di Giungla, singolo pubblicato lo scorso 23 settembre. Posso dire che è un video molto divertente (a tratti imbarazzante), grazie al quale ho in parte realizzato uno dei miei sogni più bizzarri, quello di mangiare una piadina nello spazio. Il 18 novembre invece uscirà il mio primo EP Ventitré, ma sto già lavorando al  secondo album.

Tre Domande a: Sena

Se dovessi riassumere la tua musica con un tre parole, quali sceglieresti e perché?

Le prime due parole che sceglierei sarebbero la coppia anagrammatica ironica/onirica. Trovo che siano molto appropriate perché la mia musica è ironica e onirica al tempo stesso, così come lo sono io. Toni Servillo, il mio singolo d’esordio in uscita il 20 settembre, è un brano onirico già a partire dal sound, morbido, sospeso e letteralmente anacronistico, nel senso di fuori dal tempo; le immagini cantate nelle strofe sono in qualche modo dei flash onirici, al limite fra sogno e realtà. Ma il verso iniziale del ritornello, quello che dà il titolo al brano, non può che essere preso con ironia. “E allora dillo… come farebbe Sorrentino senza Toni Servillo?” è la frase che spezza l’atmosfera onirica del brano e, all’interno di una canzone fondamentalmente malinconica, può strappare un sorriso, pur racchiudendo in sé tutto il senso del brano; una metafora che lì per lì fa ridere, ma fa anche riflettere. Ecco, penso che questa definizione di ironica/onirica si adatti bene anche ad altri brani (che usciranno prossimamente!) e alla mia musica in generale.
Una terza parola che sceglierei, su due piedi, sarebbe pop. Un aggettivo semplice che oggi forse non vuol dire più nulla, ma al quale penso che la mia musica possa essere collegata, sia come genere musicale (se è mai esistito il genere pop), sia per il significato etimologico, quindi popolare, ma non tanto nel senso di mainstream (in quel senso è solo una definizione numerica ed è il pubblico che sceglie cosa sia pop e cosa no), piuttosto nel senso di vicina alla mia quotidianità e quindi alla quotidianità delle persone; le mie in fondo sono canzoni semplici e quotidiane, quindi, in questo senso, pop.

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

La cosa che amo di più del fare musica è la possibilità di esprimermi, e di farlo senza alcun tipo di limite o regola. Scrivere una canzone è dare forma concreta ad una sensazione, un concetto, un pensiero, un sogno inesprimibile altrimenti, non basterebbe la sola parola, non basterebbe la sola melodia; è un po’ come costruire qualcosa che non c’era prima, ma di cui in qualche modo ho sempre percepito o intuito la presenza. Diciamo che, in generale, la musica è il modo che per ora trovo più efficace, fra quelli che avevo a disposizione, per esprimere quello che sono e che sento; credo sia semplicemente un modo per auto-affermarmi per dire qualcosa che magari non interesserà a nessuno, ma speriamo che a qualcuno sì. Se quello che scrivo toccherà anche solo una persona avrò raggiunto il mio obiettivo.

 

Progetti futuri? 

Visto che il pezzo in uscita il 20 settembre si intitola Toni Servillo e parla della coppia artistica Sorrentino – Servillo non posso che citare una frase di un film che li vede protagonisti “Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore”. Scherzi a parte, ho tantissimi pezzi scritti in questi anni, alcuni anche già prodotti dal maestro Taketo Gohara e suonati con musicisti d’eccezione (Alessandro Asso Stefana, Niccolò Fornabaio, Francesco Colonnelli) non vedo l’ora che escano così che il mio progetto prenda finalmente forma anche all’esterno. I brani confluiranno in un album o EP e ci sarà anche un tour.

Tre Domande a: Giuseppe Brogna

Come e quando è nato questo progetto?

Le canzoni di Vivere Piano nascono tra la fine del 2020 e il 2021 e sono frutto di una personale ed inevitabile riflessione sui tempi “apocalittici” che stiamo vivendo. Nella scrittura e nella scelta dei quattro brani che compongono l’EP ho voluto dare risalto al concetto di tempo e all’importanza di una visione più leggera e più attenta agli aspetti emozionali. Da qui il titolo che è anche una dichiarazione di intenti: vivere piano, per non lasciarsi travolgere dalla velocità, dalla pressione e dalla materialità che ci circondano. Tutto l’EP ruota intorno a questa idea che è stata tradotta poi nel lavoro in studio insieme a Nicola Bavaro, che ha curato la produzione e gli arrangiamenti, e nelle chitarre suonate da Gianni Masci e Matteo Di Biase. Anche i due videoclip unplugged, realizzati da Visual Lab – della title track Vivere Piano e di Per chi si annoia – vanno in questa direzione dandole, spero, ancora più forza, perché trasmettono un messaggio più intimo e diretto che completa la visione che ho voluto dare, insieme ad Emic Entertainment, a tutto il progetto.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

In questo momento sceglierei proprio Vivere Piano perché sia nel testo, sia nella musica mi rappresenta al meglio. Trovo che sia la canzone più vicina alla mia idea di musica e a quello che voglio trasmettere con parole e note. A mio avviso è il frutto più maturo, ad oggi, del mio percorso artistico, quindi credo che sia il modo migliore per presentarmi a chi non mi conosce. 

 

Qual è la cosa che ami di più del fare musica?

Del fare musica da sempre mi affascina il processo compositivo e produttivo: scrivere e comporre canzoni è realmente un esercizio di altissima concentrazione e meditazione che mi gratifica tanto. Amo molto di più il processo del risultato finale, mi piace l’idea di poter fare canzoni. Quando scrivo parlo sicuramente a chi mi ascolterà, ma in primis parlo a me stesso e questo mi permette di mettere ordine tra i pensieri. Non ti nascondo che ovviamente amo anche essere ascoltato, sarebbe ipocrita dire il contrario, ma è un aspetto che ha più a che fare con una sana vanità che è diretta conseguenza dello scrivere musica, fa parte del gioco. Scrivere canzoni è un piacere che viene sicuramente prima di ogni cosa. In definitiva amo più la causa dell’effetto. 

Tre Domande a: FANALI

Come e quando è nato questo progetto?

La prima incarnazione di FANALI risale a cinque anni fa; Allora FANALI era un duo composto da Michele e Jonathan che suonavano già assieme da tempo (EPO, unòrsominòre); facevamo una musica decisamente più ostica ed improvvisata, avevamo individuato nel progetto la possibilità di dare sfogo anche a quella esigenza che magari trovava meno spazio nella forma canzone di altri progetti in comune.
In quella modalità abbiamo suonato una manciata di impro set e sonorizzato dal vivo per qualche performance di cinema sperimentale.
Quando è arrivata Caterina (Tropico, Sulaventrebianco, E’ Zezi, PMS) abbiamo cominciato a guardare al discorso sulla musica per immagini da più angolazioni.
Dalle prime jam è stata più chiara la direzione che si può ascoltare ad ora nelle nostre cose; un suono a volte più dilatato e mellow, altre volte rumoroso e destabilizzante.

 

Progetti futuri? 

Strettamente nell’immediato: promuovere questo disco.
Shidoro Modoro esce il 7 ottobre, è rimasto imprigionato nelle maglie della pandemia per due anni ed ora è qui per farsi ascoltare, anticipato da DOVE, singolo in collaborazione con Pietro Santangelo (Nu Genea, PS5, Slivovitz), che esce il 9 settembre.
Più in avanti: continuare a lavorare alla nostra musica, proporla quanto più possibile dal vivo ed in contesti adeguati, ma soprattutto continuare con la nostra grande passione: la musica per immagini.
Abbiamo ideato FANALI come “colonna sonora di un film che non esiste”, chissà che questo film (o serie tv) adesso invece non esista davvero e non ci stia aspettando.
Con Sabrina, l’artista visuale che cura l’output visivo di FANALI, siamo inoltre alla continua ricerca di nuove idee per far convivere arti visive e suono.

 

Qual è la cosa che amate di più del fare musica?

Indubitabilmente “l’interplay” che è un concetto abbastanza difficile da riassumere; le possibilità di dialogo tra musicisti con una certa affinità sono incalcolabili, come incredibile è il livello di connessione che si ricrea facendo musica assieme.
Amiamo passare ore in sala ad improvvisare, a trovare nuove soluzioni, a scolpire il suono. Amiamo riascoltare le jam per trovarne gli spunti giusti per un brano nuovo. Amiamo lavorare in studio, che è sempre un momento anche creativo e di scambio, oltre che meramente esecutivo.
Veniamo da esperienze diverse – chi dalla classica chi dalla musica pesante, chi da quella più sperimentale – ma nel suono di FANALI riesco a sentire sia le nostre individuali personalità che una coerenza di fondo nonostante l’eterogeneità delle atmosfere.

Tre Domande a: YLYNE

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica? 

Per fortuna sembra che l’attività della musica dal vivo sia finalmente ripresa a pieno regime, o quasi. Negli ultimi mesi sto suonando abbastanza in giro, cosa che non avveniva da tanto. Per il resto, ho vissuto questo periodo assurdo dedicandomi alla produzione di musica (mia e di altri musicisti con cui collaboro), studiando parecchio (in particolare chitarra classica e produzione musicale) e insegnando. 

 

Come e quando è nato questo progetto? 

Il progetto YLYNE è nato nei primi anni ‘10 per dare voce ad una parte di me che fino ad allora non aveva trovato espressione: in quel periodo ero immerso nel jazz, ma avendo una forte passione per la musica elettronica, ho deciso di creare un progetto parallelo che esplorasse quel mondo.
Nonostante sia partito inizialmente come DJ, in breve mi sono appassionato alla produzione audio ed ho iniziato a comporre brani originali, portando in giro live-set unicamente strutturati sulla mia musica: è un approccio che sento più coerente rispetto alla mia visione della musica, anche se ho sempre il pallino del DJ set… magari un giorno lo farò.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro? 

Credo di conoscere abbastanza bene il mondo dei social (per vari motivi che non vado ad approfondire, eh eh) e posso dire che per i miei progetti musicali probabilmente punto (troppo?) poco su questo aspetto: ma ho delle motivazioni (oltre la pigrizia).
Il seguito creato unicamente sui social rimane sempre molto (MOOOLTO) meno reale di quello creato “facendosi il mazzo” con i live, andando in giro e confrontandosi con mille faccende concrete, a volte spiacevoli.
Attraverso contenuti accattivanti, sponsorizzate fatte ad hoc e tecniche di marketing varie (più o meno etiche), puoi raggiungere tantissime persone e riuscire ad aumentare i tuoi numeri: per carità, questi mezzi a mio avviso, sono utilissimi, ma devono essere complementari ad una “strategia” di presenza “nella vita reale”.
Purtroppo, è molto più facile spendere 100 euro per sponsorizzare un bel video, stando a casa a guardare i numeri crescere, che andare in giro a suonare in posti vari (non sempre ideali) o passare giornate ad organizzare un tour che, se riuscite a fare, verosimilmente vi permetterà di raggiungere molte meno persone rispetto alla sponsorizzata.
Questa condizione evidentemente sbilanciata, rischia di far cadere nell’illusione che, per “farcela” (?), sia sufficiente investire le proprie risorse sui parametri social, comodamente da casa; magari, sarebbe bellissimo, ma la realtà è ben diversa.
Potrei parlare ore di questo argomento, ma, in sintesi, credo la strategia migliore di promozione oggi sia fatta al 70% nella “vita reale” e 30% sui social.  

Tre Domande a: Antonio Palumbo

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?

Musicalmente sono onnivoro e mi lascio ispirare da tutto: shazammo in continuazione pezzi che sento in giro perché magari rimango colpito da una linea di basso, da una progressione armonica, da una particolare soluzione di arrangiamento. Se prima la mia musica aveva dei riferimenti più chiari (Bon Iver, Niccolò Fabi, John Mayer) ora faccio più fatica ad individuare una sola fonte di ispirazione. Ho appena finito di scrivere un intero disco ed è abbastanza variegato: dentro ci sono synth anni ‘80, ritmiche tribali, sonorità contemporanee, suoni acustici. Non so ancora bene dove mi porterà la produzione ma penso sia un lavoro libero, come mai mi è capitato prima. Posso dire quindi di ispirarmi a tutti quegli artisti che fanno della libertà una bandiera.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Ognuno nelle canzoni ci legge ciò che vuole: è una banalità ma credo di averla realmente compresa solo negli ultimi tempi. Quello che spero possa capire chi mi ascolta è quanto per me la musica sia realmente una cosa seria e identitaria: la musica non è la mia fonte di sostentamento primaria ma è la cosa che faccio da più tempo e che penso farò finché mi reggerò in piedi.

 

Progetti futuri?

Due: produrre questo disco che ho tra le mani, per me prezioso perché nato spontaneamente e liberamente. Voglio trovare il produttore con la giusta visione per queste canzoni. E poi trovare formule nuove per tornare a suonare dal vivo: una residency? Una serie di feste? Devo ancora capire cosa funziona meglio per la mia musica e per la mia età, conto di farlo presto.