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Tre Domande a: Bachi da Pietra

Se doveste riassumere la vostra musica con tre parole, quali scegliereste e perché?

In questi ultimi vent’anni abbiamo risposto centinaia di volte alla domanda sul perché del nostro nome e siamo ben preparati, quindi le nostre tre parole sono Bachi da Pietra. È il nostro nome e il nostro destino. Riprovarci ancora una volta ci farà bene. Lo facciamo perché ormai ci è lampante che per noi è sempre un Comincia Adesso (dall’album Reset, 2021), e poi perché l’esercizio ci permette di rimettere a fuoco ogni volta la sostanza di quello che siamo, che sta dentro al nome. Ecco le tre parole.
Bachi. Siamo insetti mutanti, crisalidi o vermi, stercorari capaci di trasformarsi eventualmente in coleotteri corazzati, falene o locuste, mutanti in larve e fantasmi o in milioni di micro-mine vaganti che infettano, implodono, procedono a salti (ascolta Insect Reset, di nuovo dall’album Reset). In circa vent’anni di metamorfosi siamo ormai Umani o Quasi. Questo procedere a salti porta l’insetto, dal suo grado elementare di organismo tubolare, quasi un loop di cellule minime, a farsi pesce preistorico e il pesce a volare e noi a suonare, come materiale vivente capace di produrre suono e farlo viaggiare nell’aria. Abbiamo iniziato in duo, in punta di zampe (Tornare nella Terra è del lontano 2005) e siamo arrivati al frastuono totale intorno al 2015. Ora siamo un esercito di tre elementi: Bruno Dorella e il sottoscritto (Giovanni Succi), della formazione originale, e Marcello Batelli al basso e synth e suoni da Reset in poi.
Da semplice micro particella del discorso che esprime provenienza: veniamo tutti da un altro luogo nel tempo e nello spazio. Bruno da Bruxelles al momento, Marcello dalle Dolomiti, Giovanni dal basso Piemonte. Veniamo tutti da qualcosa, da progetti precedenti o ancora in vita: Bruno Dorella da OvO, Ronin, Sigillum ’S’ e da molti altri progetti a suo nome; Marcello Batelli da Il Teatro Degli Orrori, dai Non Voglio Che Clara; Giovanni Succi dai Madrigali Magri, da La Morte e da progetti solisti. La particella “da” porta anche un altro significato: esprime gergalmente anche il valore di “per”, come “macchina da scrivere”: noi siamo insetti “da” pietra a tutti gli effetti; la seta non ci interessa, non fa per noi. Incorporiamo e caghiamo la pietra con sommo gaudio.
Pietra. È il fulcro della missione. L’inizio e la fine. Scavare la pietra, spaccare la pietra. Per un essere tubolare come un verme o comunque per un pesce-insetto, volante o meno, non è la più naturale delle mansioni. Ma è il nostro mondo, lo abbiamo scelto e determinato noi. Pietra è il fulcro, il culto e il culo che ci facciamo. Sarà anche la pietra tombale sotto la quale spariremo; o la pietra vitale da sotto la quale ti riappare ogni volta un universo brulicante di noi, incredibilmente vivi nel buio. Perché? Non sappiamo il perché della missione, probabilmente non esiste; sappiamo solo che da Tutta la Vita, noi, Habemus Baco: “Se la cava nella cava il loop di carne alla grande / smuove mille metri cubi di granito col feedback / e se non se la cava sfonda il fondo e scava / la più negra e metallica vena mannara”.
Quindi, pietra tutta la vita. O se preferisci: …rock’n’roll.

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Dal nostro ultimo album Accetta & Continua, sceglieremmo un pezzo in particolare, che in qualche modo racchiude quasi magicamente tutto quello che siamo stati in duo, quello che siamo ora in trio e tutte le evoluzioni possibili di quello che saremo, se sopravvivessimo ancora; o anche se non sopravvivessimo più. Il senso profondo di tutta la fantastica storia dei Bachi Da Pietra, le nostre passioni e fatiche, i nostri amori e tutte le trame di noi e dell’universo mondo: Invano. Lo trovi ovunque.

Quanto puntate sui social per far conoscere il vostro lavoro? Ce n’è uno che usate più di altri?

Siamo nati lo stesso anno di Facebook, nel 2004, quando il social era di nicchia più di noi, roba da nerd informatici, roba di cui non ci è mai fregato niente. Anzi ci sembrava assurdo che la gente corresse a mettere le foto delle vacanze senza accorgersi che così diventavano merce e prima o poi qualcuno li avrebbe venduti. Poi Facebook ha preso il sopravvento su tutto, e parallelamente, lentamente, le testate musicali si sono estinte per carenza di pubblico, una alla volta. Se sei una band, il solo modo rimasto per far sapere che esisti e fai cose tipo dischi e concerti (dove e quando ad esempio, occorre pur saperlo), è tramite i social. Ok, Facebook, lo abbiamo fatto. Ci seguono circa in diecimila se non ricordo male, ma da qualche anno Facebook fa sapere le nostre cose soltanto a qualche centinaio di persone, sempre meno. Mi sa che quelli di Facebook vogliono dei soldi per consegnare le news (ecco perché gli frega di “A cosa stai pensando?”). Tipo che se tu non mi paghi, io non farò sapere le date dei tuoi concerti ai diecimila insetti (…pochissimi se rapportati ai grandi numeri dei social, ne siamo ben consci). E volendo ci sta, fanno quel mestiere lì. Siamo noi che in teoria facevamo un altro mestiere che non era il Social Media Manager di noi stessi per conto di Zuckerberg. Non che pensassimo fosse tutto gratis, per carità, ma dal momento che c’è la pubblicità si pensava che magari si era a posto così… No, vogliono dei soldi. Non solo, vogliono che lavori ai contenuti. Lavori ai contenuti del mezzo, e poi paghi per mostrare i tuoi lavori sul mezzo. Geniale. Ma del resto chi fa un mestiere vorrebbe farsi pagare. Anche noi vorremmo. Tipo da Spotify & Co., che fa il mestiere di usare il nostro mestiere pagandolo 0,000x a botta. Ma se non gli permetti di fotterti la musica che produci, come fai a far sapere al mondo che produci musica? Bella domanda. Infatti col declino di Facebook abbiamo pure cominciato a usare Instagram. Meglio. Ma dopo un po’ la stessa cosa. Anche Instagram, mi sa che vogliono dei soldi per far sapere alla gente quel che fai di bello, i balletti, le ricette, se cadi dalla bici e così via. Una volta il lavoro di far sapere al mondo cosa fanno i gruppi rock lo facevano le riviste musicali e i giornalisti. Ma il mondo cambia, è normale, ci si adatta o si muore. Oggi i The Giornalisti pare si siano sciolti e le riviste che sopravvivono in edicola sfoggiano grandi rockstar del passato in foto d’archivio, sperando che i quarantenni-settantenni sgancino un obolo alla nostalgia, collezionando feticci patinati all’infinito. IL ROCK È MORTO? Fosse per loro sicuramente sì, o sarebbe un bel museo, cioè la stessa cosa. Fosse per noi, no. Siamo ancora vivi e facciamo musica al presente. Fatto sta che il solo modo per una band di fare sapere di sé a chi la segue, oggi, è solo più uno: il social di turno. Ok. Al momento prediligiamo Instagram. Penso che dopo Facebook e Instagram ci fermeremo lì, sarà difficile che andremo oltre, per ora mi sento di escludere minchiate cinesi fatte per rimbecillire e schedare i ragazzini dell’occidente. Ma mai dire mai. Io per esempio ho imparato a usare Patreon (…perché mi piace? No, signore e signori, per campare). Siamo in grado di adattarci a qualsiasi forma di violenza, aberrazione e bruttura, figurati se non ci adattiamo a questa cazzata. Però non riusciamo a fare finta che ci piaccia, e tutti e tre, dei social, ne faremmo volentieri a meno. Eravamo qui per scrivere e suonare, non per editare video e storie che possano convincere gente distratta dal telefono anche quando va a cagare. Lo scopo della nostra musica non era essere impegnati a far sapere che siamo fighi 24h, 7 su 7. Considera che portare le persone che ti amano e ti seguono, o così dicono, da Facebook o Instagram (che ci chiedono dei soldi) ad una piattaforma dove sei tu a chiedere dei soldi a chi ti segue, in cambio di musica, tipo Patreon appunto, è un’impresa: le persone fanno fatica, non ti seguono e i social ovviamente non vogliono che tu esca dalla bolla dove a chiedere dei soldi sono loro. Il prezzo da pagare per rinnegare completamente questo sistema sarebbe essere tagliati fuori dal mondo, ma il mondo ahimè ancora ci interessa, perché è ancora lì che poi alla fine, in qualche modo, incontriamo te.

Foto di copertina: Roberto Pinetti

I-DAYS MILANO: i QUEENS OF THE STONE AGE il 6 luglio sul palco dell’Ippodromo Snai San Siro

Milano, 1 dicembre 2023.I QUEENS OF THE STONE AGE si aggiungono al bill d’eccezione di I-Days Milano 2024: l’appuntamento con una delle più grandi e attese band del rock mondiale è per sabato 6 luglio all’Ippodromo Snai San Siro. Prima di loro sul palco il duo di Brighton ROYAL BLOOD e special guest che verranno in seguito annunciati.

I QUEENS OF THE STONE AGE sono pronti a portare sul palco di I-Days Milano 2024 i brani che hanno scritto le migliori pagine del rock degli ultimi vent’anni e quelli dell’ultimo disco “In Times New Roman…” uscito per Matador lo scorso 16 giugno, tra ritornelli ipnotici e groove fuori dal comune, punteggiati da sfumature di turbolenza psichica che daranno vita ad un live impetuoso.
I QUEENS OF THE STONE AGE hanno pubblicato otto album in oltre 25 anni di carriera. La band, composta nella sua formazione attuale da Joshua Homme, Troy Van Leeuwen, Dean Fertita, Michael Shuman e Jon Theodore, si è imposta come una vera e propria fonte di ispirazione per un intero genere di musica rock ed è entrata a pieno titolo nell’Olimpo della musica mondiale.

Prima dei QOTSA, un atteso ritorno in Italia, quello dei ROYAL BLOOD: il duo di Brighton formato da Mike Kerr e Ben Thatcher è reduce dalla pubblicazione di Back To The Water Below, ultimo lavoro uscito lo scorso 8 settembre, che segue tre altri fortunati album che hanno debuttato al primo posto della classifica UK

La conferma in line up dei QUEENS OF THE STONE AGE e dei ROYAL BLOOD agli I-Days Milano 2024 fa seguito all’annuncio nelle scorse settimane della partecipazione dei GREEN DAY (16 giugno), dei co-headliner AVRIL LAVIGNE e SUM 41 con i SIMPLE PLAN (9 luglio), di TEDUA (29 giugno), primo headliner italiano nella storia della manifestazione dopo lo straordinario successo del suo tour nei palasport, e dei METALLICA (29 maggio), che avranno un palco spettacolare sulla scia di quello visto al Power Trip di Indio in California e con l’iconico “snake pit”.

Gli I-Days Milano sono diventati negli anni garanzia di un cast artistico di alto livello e sempre attuale che risponde alle esigenze di un pubblico eterogeneo davvero appassionato di musica e ogni giorno più attento e variegato.
Nato nel 1999 e inizialmente noto come Independent Days Festival, l’I-Days ha ospitato fin dagli esordi grandi nomi della musica mondiale: Arcade Fire, Arctic MonkeysBlink 182, Green Day, Imagine DragonsJustin Bieber, Kasabian, Liam Gallagher, Linkin Park, Manu Chao, Muse, Nine Inch Nails, Noel Gallagher’s High Flying Birds, Pearl Jam, Placebo, Queens Of The Stone Age, Radiohead, Sigur Ros, Sonic Youth, The Killers, The Offspring, Tool, Velvet Revolver.
L’edizione 2023 ha visto alternarsi sul palcoFLORENCE + THE MACHINE, ROSALÌA, PAOLO NUTINI, TRAVIS SCOTT, LIAM GALLAGHER, THE BLACK KEYS, RED HOT CHILI PEPPERS e gli ARCTIC MONKEYS.

BIGLIETTI IN VENDITA

BIGLIETTI DISPONIBILI IN PREVENDITA SULL’APP IDAYS (DISPONIBILE PER APPLE E ANDROID)
DALLE ORE 10.00 DI LUNEDÌ 4 DICEMBRE

VENDITA GENERALE DALLE ORE 10.00 DI MARTEDÌ 5 DICEMBRE
SU TICKETMASTER, TICKETONE E VIVATICKET

The evolution of an artist: Finn Andrews (The Veils)

Leggi l’intervista in Italiano qui

It seems just like yesterday the videoclip of Lavinia broke into our lives and brought The Veils and Finn Andrews voice to our ears, but it actually happened twenty years ago already.
While waiting for his upcoming concert in Milano, where Finn will present the Veils hits in an intimate solo performance, we asked him a few questions.

Finn, you’re about to return to Italy seven years after the last time you stopped by with the Total Depravity tour. Is there a thing you particularly like of playing – or just simply being – in Italy?

“Italy has always been an important place for this band. It was the first country to take an interest in us back in the Lavinia days, and my ex-girlfriend was from Florence, so I used to spend a lot of time there. Quite a lot of Total Depravity was written in Florence and very much inspired by my time there. Truly, I cannot wait to be back!”

Over the past few years you have released both your debut solo album, One Piece at the Time, and a new record with The Veils …And Out of the Void Came Love. The concert in Milano next December 7th will be The Veils solo performance, that sounds a bit like a mix of your artistic embodiments: what type of experience shall the crowd expect?

“It’s really an opportunity to play these songs as they first arrived: just piano and voice, stripped back as far as they will go. I’m looking forward also to playing a lot of old Veils songs, like the ones that comprise our first album The Runaway Found. These songs often don’t suit the band so much anymore, but they still work really well with just me on my own. There’s a lot of songs now after all these years!”

How would you describe the difference between the Finn Andrews leader of The Veils and the Finn Andrews solo artist? What different creative impulse is behind those two productions?

“It’s exactly the same impulse to be honest, but The Veils has a far longer and more complicated history which it’s nice to step away from from time to time. I feel very free working under both banners, but there’s an expectation that’s there with The Veils which isn’t there with my solo work and that can be quite exciting too.”

The last two albums by The Veils sound really black and white, darkness and light: the rough, gloomy sounds of Total Depravity are openly in contraposition with the soothing use of piano in …And Out of the Void Came Love. What changed, what brought you to move from writing dark and yet sexy songs of nightmares, demons, crocodiles and bones that glow at night to the breath of freshness and light that’s love in all its forms?

“I think leaving London had a lot to do with it. I was living a very unhealthy, very self-centered existence for a long time, and moving to New Zealand sort of woke me up from that. Becoming a father was an enormous transformation also. I think I write about love in a very different way now – it was always rather mysterious to me in the past, both love for myself and love for others. But my daughter removed that mystery immediately, and so I suppose I no longer use my songs to figure that concept out in quite the same way. She showed me how simple a thing love can be, I suppose.”

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The Veils live at Locomotiv Club in Bologna, October 2016

Since the debut album in 2004, The Runaway Found, The Veils changed sound but always maintained a certain unique and recognisable style across records. Although, I assume, you might have a reason to be attached to each and every song you have written during two decades of career, what is that only song you are fond and proud of the most? Why?

“I think my whole “career” if you want to call it that has basically been a process of atonement for the wrongs I feel I’ve committed in the past. I was signed to Rough Trade when I was 17, and I felt like such an absolute fraud, I made Nux Vomica to try and correct all the mistakes I felt I made the first time around. That has continued to be how I think of it, for better or worse. I’m just trying to learn and get better at what I do every time, and so I rarely stop to feel particularly proud of anything I’ve done. I just want to one day know what the fuck I’m doing, even for a moment.”

Let’s take a short trip down memory lane, all the way to your first (I think) concert in Italy in 2004, at Velvet Rock Club in Rimini: you were touring with Fiery Furnaces and the sudden success of Lavinia made you become the main act instead of being the opening band that evening. If you could have a conversation with that younger version of yourself, on the verge of global recognition, what would you tell him?

“Oh God, I’d have a lot of things to say to that young man. I think the first thing would be to try and stop taking yourself so seriously and enjoy yourself for a bloody change. I was a very tormented character, really. I should have tried to have a lot more fun.”

I feel I could keep going with the questions, discuss about the recurring comparison with Nick Cave or debate about the meaning of life through your songs, but as last question I’d like to ask you something more personal and maybe a bit challenging: what’s happiness according to you?

“The older I get, the less I feel the concept of happiness is of any real use. It’s a good way to describe children – they are truly happy, or at least they should be. But as we age things get complicated, and that word seems to lose its meaning in any real sense. ‘Contentment’ seems to me a better word, as it’s less about searching and the acquisition of things and more about an inner sense of calm and strength. Contentment is what I aim for most of all.”

Thank you very much for your time spent answering our questions, we’re looking forward to see you in Milano next month!

Archive pictures by Francesca Garattoni

L’evoluzione di un artista: Finn Andrews (The Veils)

Read the interview in English here

Non sembra, ma sono passati ormai vent’anni da quando Lavinia ha fatto irruzione nelle nostre vite e portato la voce di Finn Andrews con i suoi The Veils nelle nostre orecchie.
In occasione dell’imminente tappa milanese del tour in cui Finn presenterà i successi della sua band in un’intima versione solista, abbiamo scambiato qualche battuta con lui.

Finn, stai per tornare in Italia sette anni dopo il tuo ultimo passaggio con il tour in supporto a Total Depravity. C’è qualcosa di particolare che ti piace nel suonare – o semplicemente essere – in Italia?

“L’Italia è sempre stata un posto importante per questo gruppo. È stato il primo Paese ad interessarsi a noi ai tempi di Lavinia, e la mia ex ragazza era di Firenze, perciò ero solito passare un bel po’ di tempo lì. Gran parte di Total Depravity è stata scritta a Firenze ed è stata molto ispirata dal tempo che ho passato lì. Veramente, non vedo l’ora di tornare!”

Nel corso degli ultimi anni hai pubblicato sia il tuo album di debutto solista, One Piece at the Time, che un nuovo disco con The Veils …And Out of the Void Came Love. Il concerto a Milano del prossimo 7 Dicembre sarà The Veils in versione solista, che suona un po’ come un misto delle tue incarnazioni artistiche: che tipo di esperienza si dovrà aspettare il pubblico?

“È più che altro un’opportunità per suonare queste canzoni nel modo in cui sono nate: solo piano e voce, rese il più possibile essenziali. Non vedo l’ora anche di suonare un sacco di vecchie canzoni dei Veils, come quelle del nostro primo album The Runaway Found. Queste canzoni spesso non funzionano più troppo con la band, ma rendono ancora molto bene con me da solo. Adesso poi ci sono un sacco di canzoni dopo tutti questi anni!”

Come descriveresti la differenza tra il Finn Andrews leader de The Veils e il Finn Andrews artista solista? Che diverso impulso creativo c’è dietro queste due diverse produzioni?

“È esattamente lo stesso impulso ad essere onesto, ma The Veils hanno una storia ben più lunga e complicata da cui è piacevole allontanarsi di tanto in tanto. Mi sento molto libero a lavorare sotto entrambe le bandiere, ma ci sono delle aspettative con The Veils che invece non ci sono nel mio lavoro solista e talvolta questo può essere piuttosto eccitante.”

Gli ultimi due album de The Veils suonano molto bianco e nero, luce e oscurità: i suoni ruvidi e cupi di Total Depravity sono in aperta contrapposizione con il confortante uso del pianoforte in …And Out of the Void Came Love. Cos’è cambiato, cosa ti ha portato a passare dallo scrivere canzoni oscure, seppur seducenti, su incubi, demoni, coccodrilli e ossa che risplendono nella notte alla ventata d’aria fresca e luminosa che è l’amore in tutte le sue forme?

“Penso che lasciare Londra abbia avuto molto a che fare con questo. Stavo vivendo da tanto tempo un’esistenza parecchio malsana, molto incentrata su me stesso, e trasferirmi in Nuova Zelanda è come se mi avesse svegliato. Anche diventare padre è stata una trasformazione enorme. Penso di scrivere dell’amore in modo del tutto diverso ora – è sempre stato piuttosto misterioso per me in passato, sia l’amore per me stesso che per gli altri. Ma mia figlia ha rivelato quel mistero immediatamente, e così credo di non usare più le mie canzoni per cercare di capire quel concetto nello stesso modo di prima. Lei mi ha fatto vedere quanto semplice l’amore possa essere, credo.”

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The Veils in concerto al Locomotiv Club di Bologna, Ottobre 2016

Dal loro album di debutto nel 2004, The Runaway Found, The Veils hanno cambiato sonorità ma hanno sempre mantenuto un certo qual stile unico e riconoscibile attraverso i dischi. Sebbene, suppongo, tu possa avere ragioni per essere emotivamente attaccato ad ogni singola canzone scritta in due decadi di carriera, qual’è quell’unica canzone a cui sei più affezionato e di cui sei più orgoglioso? Perchè?

“Penso che la mia intera “carriera” se la vuoi chiamare così sia stata fondamentalmente un processo di espiazione per i torti che ho commesso nel passato. Ero sotto contratto con la Rough Trade quando avevo 17 anni, e mi sentivo una truffa assoluta, così ho fatto Nux Vomica per cercare di riparare agli errori che sentivo di aver fatto al primo giro. Questo ha continuato ad essere come la penso al riguardo (della carriera, NdA), nel bene e nel male. Sto solo cercando di imparare ad essere migliore in quello che faccio ogni volta, e così raramente mi fermo a sentirmi particolarmente orgoglioso di quello che ho fatto. Vorrei soltanto, un giorno, sapere che cazzo sto facendo, anche solo per un momento.”

Facciamo per un momento un salto nel passato, indietro al tuo primo (credo) concerto in Italia nel 2004, al Velvet Rock Club di Rimini: eravate in tour con i Fiery Furnaces e l’improvviso successo di Lavinia vi ha fatto diventare il gruppo principale invece dell’apertura quella sera. Se potessi avere una conversazione con quella versione più giovane di te stesso, all’alba della fama mondiale, cosa gli diresti?

“Oddio, avrei un sacco di cose da dire a quel giovane uomo. Penso che la prima cosa sarebbe di provare a smettere di prendersi troppo sul serio e di godersela, tanto per cambiare. Ero un personaggio molto tormentato, davvero. Avrei dovuto provare a divertirmi molto di più.”

Sento che potrei andare avanti con le domande, discutere del confronto ricorrente con Nick Cave o dibattere del significato della vita attraverso le tue canzoni, ma come ultima domanda vorrei chiederti qualcosa di più personale e forse un po’ impegnativo: cos’è la felicità secondo te?

“Più divento vecchio, più mi rendo conto che il concetto di felicità non sia di particolare utilità. È un buon modo per descrivere i bambini – loro sono veramente felici, o per lo meno dovrebbero esserlo. Ma con l’età le cose si fanno complicate, e quella parola sembra perdere di significato in tutti i sensi.
‘Appagamento’ mi sembra una parola migliore, in quanto è meno focalizzata alla ricerca e all’acquisizione di cose e più legata ad un senso di calma e forza interiore. Appagamento è quello a cui ambisco di più.”

Grazie mille per il tempo speso a rispondere alle nostre domande, non vediamo l’ora di vederti a Milano il prossimo mese!

Fotografie d’archivio di Francesca Garattoni